LA PRIMA FATICA «bis» OVVERO IL BARDO ELETTRONICO

Per prima cosa, onde evitare possibili malintesi, occorre precisare che questa impresa, anche se fu — a modo suo — un grande viaggio di scoperta, non si svolse in pianeti lontani e stranieri. Anzi, per tutto il periodo, Trurl non uscì praticamente di casa — a parte qualche corsa all’ospedale e una breve escursione fino a un asteroide.

Eppure, in un senso più profondo e/o più alto, fu una delle imprese in cui il famoso costruttore si spinse più lontano dai sentieri battuti, perché il cammino da lui scelto lo portò quasi a uscire dal regno del possibile.

Una volta, Trurl aveva avuto la disgrazia di costruire un’enorme macchina calcolatrice che sapeva effettuare un’unica operazione — in sostanza la somma di due più due — ma che (anche con quella!) otteneva sempre un risultato sbagliato. Come già riferito in precedenza, la macchina si rivelò estremamente ostinata, e la disputa che sorse tra lei e il suo creatore per poco non costò a quest’ultimo la vita. Da allora in poi, Klapaucius derise Trurl senza pietà, facendo commenti sulla sua macchina ogni qualvolta ne avesse l’occasione, finché Trurl non decise di farlo tacere una volta per tutte costruendo una macchina che componesse versi.

Per cominciare, Trurl radunò qualche bica di tomi sulla robotica e qualche carrettata di libri della migliore poesia, poi si accinse a leggerli ordinatamente. Cominciava con i testi tecnici, e, quando aveva l’impressione di non poter più digerire un’altra equazione o un’altra tabella, passava alla poesia, e lo stesso con i versi.

Dopo qualche tempo gli fu chiaro che la costruzione della macchina stessa sarebbe stata un gioco da ragazzi, in confronto alla stesura del programma. In fin dei conti, il programma che si trovava nella testa di un qualsiasi poeta era stato scritto dalla sua civiltà di appartenenza, la quale era stata a sua volta programmata dalla civiltà che l’aveva preceduta, e così via, fino all’Alba dei Tempi, quando i bit d’informazione che sarebbero entrati a far parte dei futuri poeti giravano ancora in qualche vortice di materia-energia, nel caos primordiale delle profondità cosmiche. Perciò, per programmare una macchina poetica, occorreva ripetere dalle origini l’intero universo o almeno una sua gran parte.

Chiunque altro, al posto di Trurl, avrebbe rinunciato immediatamente, ma il nostro intrepido costruttore non si lasciò intimidire. Costruì una macchina e preparò un modello digitale del Vuoto, uno Spirito Elettrostatico che doveva muoversi sulle acque delle cellule galvaniche, poi introdusse il parametro della luce, un paio di nebulose protogalattiche, e a brevi tappe riuscì ad arrivare fino alla prima glaciazione — si era potuto muovere a quella velocità perché la sua macchina riusciva a simulare in zero virgola due miliardesimi di secondo cento settilioni di eventi in quaranta ottilioni di punti simultanei. E se qualcuno mette in dubbio queste cifre, che si rifaccia lui il calcolo.

Come seconda tappa, Trurl cominciò a modellare la Civiltà: l’accensione del fuoco battendo tra loro due selci, la concia delle pelli, e ci inise mammut e maree, stazione eretta e scomparsa della coda, poi fece i proto-visipallidi («Albibomines sapientes») che a sua volta generarono i visipallidi, che generarono il congegno meccanico, e così via, per millenni e per eoni, nell’infinito brusio delle correnti elettriche e delle loro controcorrenti.

A volte la macchina era troppo piccola per la simulazione computerizzata di una nuova epoca, e Trurl doveva inserire un’unità ausiliaria — finché non si ritrovò con una vera metropoli di terminali e di componenti, di circuiti e di collegamenti, così intrecciati tra loro che il diavolo stesso non sarebbe riuscito a trovarci né capo né coda.

Trurl, comunque, riuscì sempre a raccapezzarcisi e dovette tornare indietro due sole volte: una, quasi all’inizio, allorché scoprì che Abele aveva assassinato Caino e non Caino Abele (a causa, a quanto pareva, di una valvola bruciata) e un’altra volta, trecento milioni di anni prima, verso la metà del Mesozoico, allorché, dopo il passaggio da pesci ad anfibi e a rettili e infine a mammiferi, accadde qualcosa di strano fra questi, cosicché più tardi, quando i primati cominciarono a diversificarsi, al posto delle scimmie arboricole vennero simulati gli alberi scimmiottatori. Una mosca era entrata nella macchina e aveva messo in corto lo scalatore-inversore polifase direzionale.

Per tutto il resto, la simulazione procedette tranquilla come un sogno. Vennero ricreati Evo Antico e Medioevo, poi il tempo delle rivoluzioni e delle rivolte — che diedero alla macchina alcune brutte scosse — e poi la civiltà progredì con tali balzi e una tale velocità che Trurl dovette spruzzare acqua gelida sui cavi e sui trasformatori per impedire che si surriscaldassero.

Verso la fine del secolo Ventesimo, la macchina cominciò a tremare, dapprima lateralmente, poi avanti-indietro — il tutto senza ragioni visibili. Allarmato, Trurl portò cavi e cemento, nel caso occorresse immobilizzarla. Per fortuna, però, non ce ne fu bisogno; invece di uscire dagli ormeggi, la macchina si calmò e presto si lasciò alle spalle quel secolo.

Da allora in poi, la civiltà procedette a balzi di cinquantamila anni di pace: da quegli esseri — i primi veramente intelligenti — aveva avuto origine lo stesso Trurl. La storia venne simulata ed espulsa dalla macchina bobina dopo bobina, e la fila delle bobine era così lunga che occorreva salire in cima alla macchina per vederne la fine. E tutto questo per fare un singolo poeta! Però, è così che opera il fanatismo scientifico.

Alla fine il programma fu pronto; rimaneva soltanto da scegliere una successione casuale di avvenimenti e da scartare gli altri, sennò l’istruzione del poeta elettronico sarebbe durata milioni di anni.

Nelle due settimane seguenti, Trurl cominciò a dare istruzioni generali al suo futuro poeta, poi aggiunse i circuiti logici, i motivatori emozionali, i centri semantici. Stava quasi per invitare Klapaucius ad assistere al collaudo della macchina, ma al pensiero della sua lingua velenosa cambiò subito idea e preferì eseguire da solo la prova.

Avviò la macchina, e quella si diede subito a impartirgli una lezione sulla lucidatura delle superfici cristallografiche destinate alla fotoincisione come preliminare per lo studio delle anomalie magnetiche submolecolari.

Allora Trurl escluse una buona metà dei circuiti logici e rese più elettromotrici le emozioni. La macchina singhiozzò, venne presa da un attacco isterico, e alla fine commentò, con voce rotta, che il mondo era crudele, oh quanto era crudele.

A quel punto, Trurl intensificò i campi semantici e rafforzò le componenti di carattere; la macchina lo informò subito che lui, da quel momento in poi, doveva eseguire ogni suo desiderio, a cominciare da quello di aggiungere sei piani ai nove di cui era costituita, perché le occorrevano per meditare sul significato dell’essere.

Trurl, al posto dei piani richiesti, installò uno smorzatore filosofico. La macchina tacque e gli fece il muso: solo dopo molte suppliche e dopo un numero ancor superiore di promesse il costruttore riuscì a farle recitare qualcosa:

«La vispa Annunziata

Avea tra l’erbetta

Al balzo acchiappata Gentil ranocchietta».

A quanto pareva, ciò costituiva tutto il suo repertorio. Trurl aveva regolato, modulato, implorato, scollegato, esaminato, ricollegato, calibrato, fatto tutto quello che gli era venuto in mente, e la macchina gli aveva recitato una poesia che lo aveva spinto a ringraziare il Cielo che non ci fosse Klapaucius a ridere di lui — immaginatevi, simulare l’intero universo da zero, per non parlare della Civiltà, considerata in tutti i suoi particolari, e finire con una poesiola da asilo infantile!

Trurl inserì una batteria di sei filtri anti-cliché, ma schiattarono come fiammiferi; fu costretto a farli di acciaio al tungsteno. I nuovi filtri, comunque, parvero funzionare: Trurl portò a fine corsa superiore il livello semantico, inserì in parallelo un secondo generatore di rime… ma la somma di questi due interventi rischiò di rovinare tutto, perché la macchina, alla ricerca del supremo significato da dare alla propria esistenza, risolse di farsi missionario fra le tribù sottosviluppate dei pianeti più lontani.

All’ultimo minuto, comunque, Trurl ebbe un’ispirazione; rinunciando a tutti i circuiti logici, li sostituì con altrettanti narcisistori egocentrici ad auto-regolazione. La macchina fece qualche smorfia, piagnucolò un poco, rise con amarezza, si lamentò di certi terribili dolori che aveva da qualche tempo al terzo piano, disse che in generale ne aveva le tasche,piene, perché la vita era bella, ma gli uomini erano certe bestie, e che avrebbero pianto — oh come avrebbero pianto! — una volta che lei fosse morta e non ci fosse stata più. Poi chiese carta e penna.

Con un sospiro di sollievo, Trurl spense la sua creatura e andò a dormire.

L’indomani, si recò a trovare Klapaucius, il quale, come udì l’invito a presenziare al debutto del cantore elettronico di Trurl, mollò immediatamente tutto quello che stava facendo e lo seguì — tale era la sua ansia di presenziare allo smacco dell’amico e collega.

Per prima cosa, Trurl fece in modo che la macchina si riscaldasse bene, tenne basso il volume, corse varie volte sulle scalette di metallo per effettuare le progressive letture (la macchina era come i motori dei grandi transatlantici: c’erano file e file di chiodature a tenere ferme le lamiere, passatoie per gli addetti, quadri di controllo e valvole a ogni piano) finché, ormai certo che tutte le cifre decimali fossero al posto giusto, disse: sì, adesso la macchina è pronta, perché non partire con qualcosa di semplice? Più tardi, naturalmente, una volta che la macchina avesse preso la mano a poetare, Klapaucius avrebbe potuto chiederle di comporre poesie su qualsiasi argomento.

Ora che i potenziometri indicavano come le capacità liriche della macchina fossero al massimo della carica, Trurl, talmente nervoso che gli tremavano le mani, abbassò l’interruttore principale.

Una voce, leggermente roca, ma assai vibrante e calda, disse:

«Flogisticosh.

Rhomotbriglosh.

Floosh».

«Tutto qui?» domandò Klapaucius, con grande educazione, dopo una breve pausa. Trurl si morse le labbra, diede alla macchina qualche rapida smanettata di corrente, e provò ancora. Questa volta la voce si udì ancor più chiara; era ancora calda e baritonale, severa ma stranamente sensuale:

«Uno, ventuno, dodici, quaranta,

Diciannove, trentun, cinquantatré

Trentasette, quattordici, novanta,

Sette, sei, nove, quattro, ventitré».

«C’è forse qualcosa che mi sfugge?» chiese Klapaucius, mentre osservava con calma Trurl in preda al panico tirare come un forsennato le leve dei comandi.

Dopo un po’, Trurl agitò disperatamente le braccia, scese con sordo rumore metallico parecchie rampe di scalini di ferro, si mise carponi ed entrò nella macchina passando per una botola; una volta all’interno, cominciò a dare martellate, bestemmiando come un carrettiere, strinse qualche vite, staccò qualche spina, uscì dalla botola e salì in fretta al piano superiore.

Alla fine, con un grido trionfale, gettò via un tubo elettronico bruciato, che si ruppe in mille pezzi ai piedi di Klapaucius. Trurl non si scusò della propria maleducazione; si affrettò a sostituire il tubo, si asciugò le mani su uno straccio sporco d’olio e gridò a Klapaucius di provarci adesso. Si udirono le seguenti parole:

«Moccio! Di tua felce maniglia

Blocco di tre su Galàdia.

Moccio, qual silfo ti piglia,

Mentre sogni nella tua madia?»

«Be’ questo è già un miglioramento!» gridò Trurl, non del tutto convinto. «In particolare l’ultimo verso, non credi?» «Se non hai altro da mostrarmi…» cominciò Klapaucius, che sembrava l’incarnazione della cortesia.

«Maledizione!» imprecò Trurl, sparendo di nuovo all’interno della macchina. Lo si udì martellare furiosamente, si sentirono lo sfrigolio dei corti circuiti e le imprecazioni di qualcuno con la pazienza ancor più corta; infine Trurl si sporse dalla botola del terzo piano e gridò: «Prova adesso!»

Klapaucius ubbidì. Il bardo elettronico fremette da capo a piè e attaccò:

«Spesso in quella capanna insalda e odora,

Dove cercammo appalesarsi il muschio,

E tu cantando trasmutavi l’ora…»

Trurl strappò alcuni cavi, e, all’interno della macchina, un volano prese a ruotare sempre più lentamente, fino a fermarsi; la voce tacque. Klapaucius rideva così forte che era stato costretto a sedersi per terra. Poi, all’improvviso, mentre Trurl andava freneticamente su e giù per le scalette, si sentirono uno scatto, un crepitio, e la macchina disse, con perfetta padronanza dei suoi mezzi espressivi:

«L’invidioso, il tristo e il vile

Che hanno assai piccino il core

Van schiumando dalla bile

Quando il Genio superiore

Che hanno visto traballare,

Si rifiuta di crollare.

E Klapaucius, ci scommetto,

Sarà verde dal dispetto

Quando udrà la macchina di Trurl

Verseggiare in modo così perfetto».

«Ecco quello che volevi, un epigramma! E viene molto a proposito» rise Trurl, scendendo dalla macchina e gettandosi allegramente tra le braccia dell’amico.

Klapaucius, colto di sorpresa, aveva smesso di ridere.

«Che cosa? Quello che ha detto?» chiese. «Non è niente. E, poi, l’avevi preparato prima».

«Preparato?» fece Trurl, sorpreso.

«Oh, era ovvio» rispose Klapaucius. «L’ostilità verso di me, la povertà dei concetti, la prosodia approssimativa». Va bene, allora chiedile qualcos’altro» lo incitò Trurl. «Quello che vuoi. Che cosa aspetti? O hai paura?»

«Un minuto» rispose Klapaucius, seccato. Cercò di immaginare qualcosa di estremamente difficile, perché sapeva che sarebbe stato arduo, se non impossibile, accordarsi sulla qualità delle poesie eventualmente composte dalla macchina. All’improvviso sorrise e disse: «Falle comporre una poesia. Una poesia sul taglio dei capelli! Ma che sia alta e tragica, contenga amore, tradimento, eroismo, rassegnazione al destino, coraggio. Sette versi, con la rima che preferisce, e tutta di parole che comincino per S».

«Sì, e già che c’è» brontolò Trurl «perché non aggiungerci una completa trattazione della teoria degli automi non lineari? Non puoi assegnarle un compito così idiota…»

Ma non poté terminare, perché una voce melodiosa riempì l’intero magazzino, recitando in tono appassionato questi versi:

«Sansone sedotto, sbronzato, sognava saporitamente.

Schiomato seduta stante, senza stamina si scoprì,

Schiavo senza speranze.

Soggiogato, sostituto somaro, spinse.

Sebbene sembrasse sconfitto,

Silenziosamente studia sacrificarsi:

Sì! Selvaggi, spettacolari suicidi!»

«Be’, che ne dici di questa?» chiese Trurl, incrociando orgogliosamente le braccia. Ma Klapaucius stava già gridando: «Adesso, una in G! Un sonetto, esametri trocaici, su un vecchio ciclotrone che ha sedici amanti artificiali, azzurre per la radioattività, quattro palazzi, sedici padiglioni decorati in rosso per le amanti, due casse laccate per sé, ciascuna con mille medaglie raffiguranti lo zar Murdicog il Senza Testa…»

La macchina attaccò subito:

«Godurioso, gbignante,

Gerontogirone ghermiva

Graziose

Golem-ginecobalto…».

ma Trurl corse al quadro di comando, staccò la corrente e difese con il proprio corpo l’integrità morale della macchina.

«Basta!» gridò, roco per l’indignazione. «Come osi sprecare con simili sciocchezze un così grande talento? O gli dai da comporre una poesia seria, o spengo tutto!»

«Be’, non erano poesie serie?» protestò Klapaucius.

«No di certo! Non ho costruito la macchina per farle risolvere idioti giochi di parole! Quello è lavoro da mercenari della penna, non Grande Arte. Dalle un argomento, uno qualsiasi, scegli tu la difficoltà…»

Klapaucius rifletté per qualche tempo, e poi rifletté ancora. Alla fine, con un cenno d’assenso, disse: «Bene. Allora, un carme d’amore, lirico e pastorale, espresso nel linguaggio della matematica pura. Algebra tensoriale, diciamo, con escursioni nella topologia e nel calcolo sublime, se occorre. Ma con grande sentimento, capisci, e nel giusto spirito cibernetico».

«L’amore e l’algebra dei tensori? Sei impazzito?» cominciò Trurl, ma s’interruppe, perché il suo bardo elettronico aveva già cominciato a declamare:

«Vieni, t’affretta ad un più alto piano,

Ove i campi di Venn le ninfe han tante,

E con indice da n a 1 variante,

S’uniscono in un nodo markoviano.

Vieni, a esser cono ciascuna retta agogna

E le matrici ogni vettore sogna.

Della brezza il gradiente or tu rimira

A zone ancor più ergodiche ci attira.

Negli spazi hilbertiani o riemanniani

Mettan pure qual indice lor piaccia

I nostri asintoti non sono più lontani

Contando, finiremo faccia a faccia.

Ti darò ogni indirizzo del mio cuore

Mi dirai le costanti del tuo amore.

Nel sistema d’equazione che tu usi

Sotto la stessa graffa sarem chiusi.

Che sapevan Cauchy, Fourier Eulero

Che hanno studiato e n’han menato vanto,

O Christoffel, oppur Boole, invero

Di sì superno, sinusoide incanto?

Non annullarmi — che resterìa di me?

Una radice, una mantissa come intero

Un’ascissa, un sol centro, un asse o tre

L’inverso dei miei versi, a somma zero.

Beate ellissi convergete, labbra divine!

Il prodotto dei nostri scalari è fatto!

Le Cyberiadi ormai sono vicine,

La mente trema, sotto il loro impatto.

Nell’occhio hai già i desiati autovalori,

Nel tuo viso s’addolciscono i tensori

Sarta morto felice, Bernoullì

Se avesse visto quest’a (al quadrato) coseno di 2 (diametro)!»

Ciò pose fine alla competizione poetica, perché Klapaucius disse all’improvviso di dover andare via, e assicurò che sarebbe tornato presto, con altri argomenti per le poesie della macchina; ma non tornò più, perché temeva, così facendo, di dare a Trurl nuovi motivi di vanto. Trurl, naturalmente, disse a tutti che Klapaucius se l’era svignata per nascondere l’invidia e la collera. Klapaucius intanto diffuse la voce che Trurl non aveva tutte le rotelle a posto, quando si trattava del cosiddetto versificatore meccanico.

Non dovette passare molto tempo perché la notizia del computer di Trurl arrivasse ai genuini — ossia agli ordinari — poeti, che, profondamente offesi, decisero di ignorare l’esistenza della macchina. Alcuni di loro, però, più curiosi degli altri, andarono a fare visita, in segreto, al bardo elettronico.

Questi li ricevette con cortesia, in un magazzino pieno di manoscritti (lavorava giorno e notte, senza pausa). Ora, quei poeti appartenevano certamente all’avanguardia, mentre la macchina di Trurl componeva seguendo la tradizione; Trurl, che non era un esperto di poesia, si era basato soprattutto sui classici, nel predisporre il programma, Gli ospiti della macchina risero e si allontanarono trionfanti.

La macchina, però, era in grado di auto-programmarsi, e inoltre aveva particolari schede elettroniche con rinforzo positivo basato sull’ambizione e circuiti per la ricerca della gloria, cosicché, in poco tempo, si ebbe in lei un grande cambiamento. Le poesie del bardo elettronico divennero difficili, ambigue, talmente intricate e cariche di significati da risultare del tutto incomprensibili.

Quando arrivò il nuovo gruppo di poeti intenzionati a farsi beffe della macchina, questa rispose con un’improvvisazione così moderna da farli rimanere senza fiato, e la seconda poesia fece piazza pulita di un certo autore di sonetti che aveva già ottenuto due premi di Stato, oltre a una statua nel parco cittadino.

Da quel momento in poi, non ci fu poeta che resistesse alla tentazione fatale di incrociare la spada della propria lirica con quella del bardo elettronico di Trurl. Venivano da ogni parte, portando bauli e valigie pieni di manoscritti. La macchina lasciava che lo sfidante recitasse le sue poesie, coglieva immediatamente gli elementi ricorrenti della sua poetica, e se ne serviva per comporre una risposta nello stesso stile, ma da 220 a 347 volte migliore.

La macchina divenne così abile in questo, da poter abbattere un poeta di prima classe con non più di una o due quartine. Ma il peggio era che i poeti di mezza tacca ne uscivano senza danno: essendo di mezza tacca, non distinguevano la buona poesia da quella mediocre, e di conseguenza non si accorgevano della sconfitta.

Uno di loro, a dire il vero, si spezzò la gamba quando, nell’uscire, inciampò in un poema epico che la macchina aveva appena terminato, un’opera immortale che iniziava con i versi:

«L’armi canto, e de’ robot al valore,

Ch’abbandonaro — pel voler dei Fata,

E per l’odio immortal del lor signore

Homo, al Superbo — vanti e discacciati

Onde abitar della Galassia al core,

Di Terra i prisebi lati ov’eran nati…»

I veri poeti, invece, cadevano come mosche, decimati dal bardo elettronico di Trurl, benché questi non li toccasse neppure con un dito. Dapprima un vecchio poeta elegiaco, poi due modernisti si suicidarono, lanciandosi da una rupe che purtroppo dava sulla strada che portava dalla casa di Trurl alla stazione ferroviaria.

I poeti organizzarono molte manifestazioni di protesta, fecero circolare volantini, chiedendo che alla macchina fosse ingiunto di smettere. Ma la cosa pareva importare soltanto a loro. In realtà, i direttori delle riviste erano favorevoli all’innovazione: il bardo elettronico di Trurl, scrivendo sotto varie migliaia di pseudonimi, aveva una poesia per tutte le occasioni, di qualsiasi lunghezza occorresse, e a un così alto livello qualitativo che i lettori, incapaci di attendere, si strappavano di mano la rivista.

Per strada si vedevano facce rapite, sorrisi divertiti e perplessi, e di tanto in tanto una timida lacrimuccia. Non c’era nessuno che non conoscesse le poesie del bardo elettronico, tutta l’aria echeggiava delle sue deliziose rime. E non era raro che i cittadini più sensibili, colpiti da una metafora o da un’assonanza particolarmente ammirevole, finissero addirittura per svenire. Ma quel colosso di ispirazione poetica aveva la risposta anche per simili evenienze e forniva subito il necessario numero di rondò ricostituenti.

Lo stesso Trurl andò incontro a molti guai a causa della sua invenzione. I classicisti, in genere persone attempate, erano pressoché innocui; si limitavano a gettare pietre contro le sue finestre e a sporcargli di una sostanza irriferibile le pareti della casa. Ma con i giovani poeti andava assai peggio. Uno, per esempio, robusto di braccia quanto la sua poesia lo era di immagini, picchiò Trurl fino a conciarlo in malo modo. E mentre il costruttore giaceva in un letto di ospedale, gli eventi peggioravano.

Non passava giorno che non ci fosse un suicidio o un funerale; l’ospedale venne circondato da picchetti di manifestanti; in lontananza si sentivano colpi di mitra invece dei manoscritti, un crescente numero di poeti infilava nella borsa un’arma automatica con cui eliminare il bardo elettronico. Ma i proiettili si limitavano a rimbalzare sulla sua placida superficie.

Uscito dall’ospedale, debole e disperato. Trurl infine decise, una notte, di smantellare l’Omero omeostatico da lui creato. Ma quando le si avvicinò, zoppicando leggermente, la macchina notò le tenaglie che aveva in mano e il luccichio deciso dei suoi occhi, e si lanciò in una così eloquente, appassionata perorazione, implorò clemenza in toni così toccanti, che il costruttore scoppiò in lacrime, gettò a terra gli attrezzi e ritornò di corsa nella propria stanza, facendosi strada a fatica tra le nuove opere di genio: un oceano di carta che ormai riempiva l’intero pavimento del magazzino.

Il mese seguente, Trurl ricevette la bolletta dell’elettricità consumata dalla macchina e per poco non cadde dalla sedia. Se solo avesse potuto consultare l’amico Klapaucius! Ma Klapaucius era scomparso — non si trovava da nessuna parte — e Trurl dovette fare tutto da sé. Una notte, approfittando del buio, spense la macchina, la smontò, la caricò su una nave, raggiunse un certo asteroide e laggiù la rimontò di nuovo, dandole una pila atomica come fonte della sua energia creativa.

Poi ritornò a casa, senza farsi scorgere da nessuno. Ma la storia di quella macchina era tutt’altro che finita. Il bardo elettronico, privato adesso della possibilità di pubblicare i suoi capolavori, cominciò a trasmetterli su tutte le gamme d’onda, suscitando nei viaggiatori e negli equipaggi delle navi di passaggio veri e propri stati di stupefazione poetica; gli animi più sensibili caddero addirittura in forti attacchi di estasi estetica.

Trovata la causa del disturbo, il Comando della Flotta Cosmica inviò a Trurl una richiesta ufficiale di immediata chiusura del suo apparato, che stava danneggiando seriamente la salute e il benessere di tutti i viaggiatori spaziali.

A quel punto, Trurl si diede alla macchia, così i militari sbarcarono sull’asteroide una squadra di tecnici incaricata di bloccare l’unità di uscita della macchina. Questa li sconfisse con un paio di ballate, però, e la missione dovette essere abbandonata. Come passo successivo, venne mandata una squadra di tecnici con le orecchie piene di cera d’api, ma la macchina ricorse alla pantomima.

Dopo questi fatti, si cominciò a parlare di una spedizione punitiva, che sganciando qualche bomba riuscisse a sottomettere il poeta elettronico. Ma proprio allora si fece avanti il Re di un sistema solare vicino, che comprò la macchina e se la portò via, asteroide compreso, per installarla nel proprio regno.

Ora Trurl poteva di nuovo farsi vedere in pubblico e respirare a pieni polmoni. In effetti, negli ultimi tempi erano esplose parecchie supernove in corrispondenza dell’orizzonte meridionale: fenomeno che nessuno aveva mai notato in precedenza, e si diceva che l’accaduto avesse a che fare con la poesia.

Secondo uno dei rapporti, anzi, quello stesso sovrano, mosso da qualche bizzarro capriccio, aveva ordinato ai suoi astroingegneri di collegare il bardo elettronico a una costellazione di supergiganti bianche, trasformando così ciascuno dei suoi versi in una stupenda eruzione solare. In questo modo, il Massimo Poeta dell’universo fu in grado di trasmettere le sue creazioni termonucleari a tutte le illimitate distese dello spazio-tempo, contemporaneamente. Così diceva quel rapporto; ma anche se fosse stato vero, quei fatti erano troppo lontani per preoccupare Trurl, che aveva giurato — su tutto quel che esisteva di sacro per qualcuna delle innumerevoli razze della Galassia — di mai, mai più fare un modello cibernetico della Musa.

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