— Non ne hai mai visti di così grossi — disse il pollice di Mintouchian. — Non vorrei vantarmi, dolcezza, ma mi sa che domani mattina ti farà male. — Passeggiò avanti e indietro, orgoglioso come un galletto.
— Mmmm, me ne sono accorta — disse l’altra mano di Mintouchian, quella tenuta chiusa con un lungo taglio vulvare fra pollice e indice leggermente divaricati. — Vieni qua, bel ragazzone! — Il taglio si spalancò improvvisamente.
Scoppiarono tutti a ridere.
— Modeste! — chiamò Le Marie. — Arsène! Venite a vedere.
— Non mi sembra un genere di spettacolo adatto ai bambini — obiettò il burocrate a bassa voce. Due allevatori di maiali e un pianificatore addetto all’evacuazione voltarono lo sguardo verso di lui, facendolo arrossire.
Ma i ragazzi non si mossero. Erano tutti nell’altra stanza a guardare la televisione, assorbiti da un mondo fantastico in cui la gente viaggiava da una stella all’altra nel giro di poche ore, dove quantità di energia sufficienti a radere al suolo una città intera venivano gestite da altruisti solitali, dove uomini e donne cambiavano sesso quattro o cinque volte a notte, dove tutto era possibile e nulla era proibito. Era come un grido proveniente dal rospo sepolto nelle profondità più recondite del cervello, quell’antico rettile che vuole tutto e subito, che lo vuole consegnato ai suoi piedi e incendiato immediatamente.
I bambini sedevano nell’oscurità, con gli occhi sbarrati e fissi.
— Faccio paura, ti slargherò tutta.
— Per ora, hai solo parlato.
Fuori pioveva, ma la cucina era come un’isola di luce e calore. Chu era appoggiata a una parete con un bicchiere in mano, e stava attenta a non ridere più degli altri. La stanza odorava di cervella di maiale fritte e linoleum vecchio. Anubis agitava rumorosamente la coda sotto il tavolo, mentre la moglie di Le Marie si dava da fare a sparecchiare.
Il padrone di casa in persona portò altre due brocche di sangue mischiato con una parte uguale di latte di asina. — Fatevi un altro bicchiere! Non posso vendere questa roba! — Il vecchio allampanato posò un bicchiere pieno davanti a Mintouchian, che interruppe temporaneamente il suo spettacolino per accettarlo con un sorriso e un cenno del capo. Bevve con avidità, lasciando una sottile linea di schiuma appiccicata ai peli dei suoi baffi. Molti altri offrirono i loro bicchieri mentre il burattinaio tornava a far combattere pollice contro pugno.
— Ne volete?
— No grazie, sono pieno.
— Provatelo! Avete idea di quanto costi questa roba su a nord?
Con un sorriso, il burocrate sollevò le mani e scosse il capo. Quando il vecchio ebbe scrollato le spalle e si fu voltato, ne approfittò per alzarsi e dirigersi vero il portico esterno. Mentre chiudeva la porta alle sue spalle, dal pugno di Mintouchian spuntò un pollice, tutto storto e floscio.
Emise una risatina. — Avanti il prossimo!
Le gocce di pioggia piombavano al suolo come piccoli martelli, con una forza tale da pizzicare la pelle. Il burocrate era in piedi sotto il porticato buio e fissava fuori attraverso gli schermi. Il mondo era monocromo, né grigio né marrone, ma un misto dei due colori che però non assomigliava a nessuno dei due. Un’improvvisa ventata scostò la pioggia battente come fosse una tenda, facendogli intravedere per un attimo le chiatte ancorate sul margine del fiume per poi celarle di nuovo alla vista. Una casa e mezzo dalla parte opposta della strada, dopodiché Cobbs Creek non esisteva più.
Cobbs Creek era un paese tutto maiali e legname. Gli ultimi maiali erano già stati macellati e appesi ad affumicare, ma nel fiume vi erano ancora molti tronchi che scendevano a valle verso la segheria per l’ultima, febbrile raccolta prima che le maree trasformassero tutta la legna in poltiglia. Il burocrate osservò la pioggia che faceva schizzare il fango ad altezza ginocchia sulle mura di legno della casa. La pioggia faceva anche salire l’odore stantìo della terra e della strada, che si mischiava ai profumi più acri dei pomodori nel giardino e del viottolo in mattoni.
Si sentiva triste e disperato, e non riusciva a fare a meno di pensare a Undine. Se chiudeva gli occhi, sentiva il sapore della sua lingua, la consistenza dei suoi seni. Il prurito dei graffi lungo la sua schiena non contribuiva certo a fargliela dimenticare. Si sentiva perfettamente ridicolo, oltre che piuttosto arrabbiato con se stesso. In fondo non era più uno scolaretto, ed era assurdo che fosse ossessionato dalla visione dei suoi occhi, delle sue guance, del suo sorriso caldo e divertito.
Emise un sospiro, estrasse il librettino di Gregorian dalla sua valigetta e sfogliò fra le pagine in maniera distratta. “Fra poco inizierà una nuova era per quanto riguarda l’interpretazione magica del mondo, un’era in cui l’interpretazione non verrà più fatta in termini di intelligenza, bensì in termini di volontà. La verità non esiste assolutamente, né dal punto di vista morale né da quello scientifico”. Con fare impaziente, passò a un’altra pagina.
“Che cos’è bene? Qualunque cosa aumenti la sensazione di potere, la volontà del potere e, più di ogni altra cosa, il potere in se stesso”. Rileggendo quelle parole, il burocrate vide Gregorian nella sua mente, lo sparuto apprendista stregone, pieno di quella insaziabile fame giovanile di potere e di riconoscimento. “Gli uomini sono miei schiavi”.
Mise via il libretto, irritato dal tono ingenuamente pretenzioso dei suoi aforismi. Conosceva fin troppo bene quel genere di giovanotto; lui stesso una volta era stato così. Poi ebbe un ripensamento, e tirò fuori di nuovo il libricino. Vi era un esercizio, a un certo punto, la cui testata leggeva, “Il verme Ouroboros”. Il burocrate lesse le istruzioni con grande attenzione: “Il mago appoggia la sua bacchetta nel calice della dea. Poi la mano stessa…”. Sì, per quanto nascosta sotto quella allegoria trasparente, si trattava della stessa tecnica insegnatagli da Undine due giorni prima.
Un’altra risata fragorosa proruppe dalla cucina.
Il burocrate si ritrovò a desiderare che quella giornata fosse già finita, che le strade fossero di nuovo transitabili e che potesse andarsene al più presto da quel luogo, che non gli aveva dato altro che delusioni. Gli archeologi che avevano lavorato lì se ne erano già andati tutti, e gli scavi erano stati ricoperti e stabilizzati. Qualsiasi traccia di Gregorian era stata cancellata dall’emigrazione verso il Piedmont.
Strinse gli occhi davanti alla pioggia. Verso oriente vi era un bagliore appena visibile, pressoché inesistente, tanto che, per un istante, il burocrate pensò che la tempesta stesse per volgere al termine. Poi il bagliore si mosse. Allora non si trattava di una luce naturale.
“Chi è che si azzarda ad andare in giro in una giornata come questa?” si domandò.
La luce aumentò lentamente d’intensità, assumendo una colorazione bluastra man mano che si avvicinava. Dopo un po’, il burocrate poté vederla per quel che era in realtà; lo schermo illuminato del volto di un surrogato che marciava solitario nella pioggia. Lentamente, il corpo prese forma sotto il bagliore azzurrognolo; uno spaventapasseri, una caricatura dalla sagoma umana, con un impermeabile a campana legato sul corpo e un cappello a falde larghe fissato alla testa per impedire che l’acqua penetrasse nei meccanismi interni.
Con l’impermeabile che svolazzava al vento, il surrogato si avvicinò sempre più.
Veniva dritto verso l’albergo. Il burocrate vide che stava trasportando qualcosa sotto il braccio, una scatola lunga e stretta. A giudicare dalle dimensioni, quella scatola poteva contenere una dozzina di rose, oppure un fucile corto.
Il burocrate fece un passo avanti, portandosi sul primo scalino dell’ingresso. Le gocce cadevano sulle punte delle sue scarpe, ma il resto del suo corpo era ancora riparato dalla tettoia. Il surrogato si fermò alla base degli scalini e alzò lo sguardo, sorridendo.
Era il falso Chu.
— Chi siete? — domandò il burocrate con tono freddo.
— Mi chiamo Veilleur. Ma non ha importanza. — Veilleur si produsse in un sorriso candido e indifferente. — Ho un messagio per voi da parte di Gregorian. E anche un regalo.
Il burocrate fece una smorfia davanti a quel sorrisetto sbeffeggiante da adolescente. Certamente Gregorian doveva essere stato così, in gioventù. — Dite a Gregorian che voglio parlargli di persona, per una faccenda che interessa entrambi.
Veilleur increspò le labbra in un’espressione sarcasticamente afflitta. — Temo che il mio padrone sia terribilmente occupato in questi giorni. C’è moltissima gente che chiede il suo aiuto. Tuttavia, se foste così gentile da condividere con me il vostro problema, sarò felice di aiutarvi come posso.
— Si tratta di una questione di natura confidenziale.
— Ahimé. Va be’, sarò breve. Il maestro Gregorian è venuto a sapere che siete venuto in possesso di un oggetto che ha per lui un certo valore sentimentale.
— La sua agendina.
— Esattamente. Un validissimo strumento di apprendimento, oserei dire, che le vostre conoscenze non vi permettono di sfruttare appieno.
— Ciò nonostante, non lo trovo del tutto privo di interesse.
— Tuttavia, il mio maestro è costretto a pregarvi di restituirlo. Confida nel fatto che sarete disposto a collaborare, tenuto anche conto che l’oggetto in questione non è esattamente di vostra proprietà.
— Dite a Gregorian che sono disposto a consegnargli il libretto quando vuole. Ma dovrà presentarsi di persona.
— Io sono in confidenza con il maestro. Ciò che può essere detto a lui, può essere detto anche a me. Ciò che può essere dato a lui, può essere dato a me. In un certo senso, si può ben dire che dove sono io è presente anche lui.
— Non sono disposto a giocare a questo giochino — disse il burocrate. — Se vuole il suo libretto, sa dove trovarmi.
— Be’, ciò che non può essere fatto in un modo può sempre essere fatto in altro modo — disse Veilleur con tono filosofico. — Mi è stato anche richiesto di consegnarvi questo. — Il surrogato appoggiò la scatola ai piedi del burocrate. — Il maestro mi ha detto di dirvi che un uomo tanto coraggioso da scopare una strega merita qualcosa per ricordarla.
Il suo sorriso elettronico bruciò in maniera pazza e selvaggia sul teleschermo, quindi il surrogato si voltò e si incamminò.
— Ho parlato con il padre di Gregorian! — gli gridò dietro il burocrate. — Ditegli anche questo!
Il surrogato continuò a camminare senza voltarsi. Il vento sollevò il suo impermeabile, poi la pioggia lo celò alla vista.
Improvvisamente pieno di paure, il burocrate prese in mano la scatola e la sollevò. Vi era qualcosa di pesante dentro. Tornò sotto il portico, svolse la carta oleata zuppa di pioggia e aprì il coperchio.
Stelle, serpenti e comete bruciavano con intensità all’interno della scatola. La putrefazione era appena iniziata, e gli idrobatteri stavano festeggiando.
Quando entrò in cucina, le risate si spensero. — Per tutti gli spettri, amico — disse Le Marie. — Che cosa vi è successo? — Chu gli afferrò un braccio per stabilizzarlo.
— Temo sia accaduto qualcosa di molto spiacevole — disse una voce. La sua. Il burocrate appoggiò la scatola sul tavolo della cucina. Una bambina con un fazzoletto rosso delle jeunes évacuées tempestato di stellette nere attorno al collo si innalzò in punta di piedi per toccare la scatola, ma la sua mano venne subito schiaffeggiata. Mintouchian, che era abbastanza vicino da vederne l’interno, la ricoprì in tutta fretta e la riawolse nella carta. — Qualcosa di infelice. — La sua voce era piena di tristezza, come un disco che gira a bassa velocità, falsa e quasi inumana.
Scoppiò un fermento di attività. Due uomini corsero fuori. Venne portata una seggiola, e Le Marie vi fece sedere il burocrate. — Chiamo i nazionali — disse Chu. — Possono mettere in piedi un laboratorio non appena smette di piovere. — Qualcuno diede da bere al burocrate, che tracannò senza pensare. — Mio Dio — disse. — Mio Dio. — Anubis emerse da sotto il tavolo e gli leccò una mano.
Gli uomini che erano corsi fuori tornarono, completamente fradici. La porta sbatté alle loro spalle. — Là fuori non c’è nessuno — disse uno.
Altri bambini invasero la cucina. Mamma Le Marie prese la scatola e la appoggiò in cima alla dispensa, fuori portata. — Cosa c’è lì dentro? — domandò uno dei locali che era seduto dalla parte opposta della cucina.
— Undine — disse il burocrate. — È il braccio di Undine. — Con suo stesso stupore e completo imbarazzo, scoppiò in lacrime.
Il burocrate protestò appena mentre lo trasportavano alla sua stanza, lo adagiavano sul letto e gli toglievano le scarpe. La valigetta venne appoggiata a terra al suo fianco. Poi, fra mormorii di consolazione, lo lasciarono solo. “Non riuscirò mai ad addormentarmi”, pensò. La stanza odorava di muffa e di vernice vecchia. Le pareti e lo specchio erano incrostate di gusci di cirripedi grazie alle mosche che venivano spinte dentro di notte dal terribile vento, attraverso una fessura sopra la finestra che era pressoché impossibile chiudere. Ora il vento, passando attraverso quella stessa fessura, agitava le tende. Non vi erano dubbi sul fatto che la fessura non sarebbe mai stata riparata.
Una voce si separò dalla conversazione che stava avendo luogo in cucina e salì su per le scale. — Pioggia dei funghi — disse con tono dolce.
Il burocrate non riusciva a dormire. Il suo cuscino era duro e pulsava di fatica. Il suo cranio era intasato di cotone grigio. Dopo un po’ si alzò in piedi, prese la valigetta e uscì fuori, a piedi nudi e senza essere notato.
La pioggia era talmente sottile che le gocce sembravano appese a mezz’aria, mentre mutavano e rendevano argenteo quel mondo cangiante. Spruzzi di tubi azzurri e trasparenti si inarcavano sulle vie. Piccoli mandolini viola spuntavano dalle porte, e i tetti erano nascosti dietro architetture fantastiche color beige, rosa e giallo tenue. La pioggia dei funghi. Le strutture esili e schiumose crescevano davanti ai suoi occhi.
Le case si erano trasformate in castelli da incubo bloccati a metà metamorfosi fra pietra e materia organica. Come un granchio, il burocrate passò accanto alle loro torri oscillanti, spazzando via delicati ventagli di pizzo che si sbriciolavano sotto le sue mani. Sulla strada davanti a lui vi era un bagliore caldo e arancione. Il burocrate si spinse in quella direzione.
Il rettangolo di luce non era altro che l’ingresso posteriore del camion denominato Il Nuovo Re. Il burocrate vi entrò.
Mintouchian era seduto dietro a un piccolo tavolo pieghevole. Al centro del tavolo vi era un cerchio di luce gialla, nel quale danzava una piccola donna di metallo.
Le dita di Mintouchian erano costellate di piccoli radiocomandi. Agitava le mani avanti e indietro, dilatando e interpretando i campi di energia. — Ah, siete voi. Non riuscivate a dormire, eh? Nemmeno io. — Fece un cenno in direzione della donnina metallica. — Splendida creaturina, non è vero?
Avvicinandosi, il burocrate poté notare che la figura della donnina era composta da migliaia di anelli d’oro di varie dimensioni, uniti fra loro in modo che le braccia, le gambe e il torso risultassero naturalmente affusolati. La testa era liscia e priva di lineamenti, ma era angolata in modo da suggerire alti zigomi e un mento stretto. Indossava un semplice poncho di tela legato all’altezza della vita a mo’ di gonna. Mintouchian fece svolazzare una mano, e la piccola figura balzò in aria.
— Sì. — La donnina d’oro piegò le braccia con una fluidità improbabile, possibile solo grazie ai suoi mille giunti. — E voi cosa state facendo?
— Pensavo. — Mintouchian rivolse uno sguardo vacuo verso la luce. — Anch’io ho amato una strega, molto tempo fa. Lei… be’, è inutile che vi racconto la storia. Molto simile alla vostra. Molto simile. Fu annegata quando io… Be’. Le storie nuove non esistono, nevvero? Chi può saperlo meglio di me?
Senza interrompere il ballo della sua donnina, Mintouchian socchiuse gli occhi e appoggiò la schiena alla parete. La parete del camion alle sue spalle era interamente ricoperta di burattini, infilati in sacchetti di plastica legati talmente stretti da rendere la fuga pressoché impossibile. Era un vero e proprio museo delle marionette. Vi erano Punch e sua moglie Judy, il loro cugino Pulcinella, il pallido Pierrot, il famoso Arlecchino e la dolce Colombina. Vi era Tricky Dick, Till Eulenspiegel, il Buon Cosmonauta Minsk, insomma, tutti gli antichi archetipi di bricconeria e di eroismo che non attendevano altro che di respirare un’altra fiatata di vita presa in prestito. — Vi rendete conto che quella delle marionette è la forma di teatro più pura?
— La più semplice, intendete?
— Semplice! Provateci voi, se credete che sia così semplice. No, intendevo proprio la più pura. Io sto qui, il creatore, e voi state lì, lo spettatore. Le nostre menti sono distinte, non si possono toccare, ma in mezzo fra noi due io metto il nostro piccolo burattino. — La donnina si proiettò in avanti, si inchinò fluidamente fino a terra, quindi si rialzò con la leggerezza di una foglia al vento. — Lei esiste in parte nella mia mente e in parte nella vostra. Per un istante, le nostre menti si sovrappongono. — Le sue mani danzavano, e con esse la figurina metallica. L’attenzione del burocrate passava continuamente dalle mani alla ballerina, incapace di focalizzarsi su una delle due cose.
— Guardate — disse Mintouchian con tono meravigliato. La donnina si bloccò, rimanendo immobile. — Non ha volto, non ha sesso. Eppure guardate. — Il burattino sollevò il capo in maniera civettuola e rivolse uno sguardo al burocrate da dietro la spalla. Prese a camminare, e le sue anche oscillarono in maniera decisamente femminile. Il burocrate distolse lo sguardo dalla figura e vide che Mintouchian lo stava fissando dritto negli occhi. — Sapete come funziona la televisione? Lo schermo è diviso in tante linee orizzontali, e lo scansore traccia l’immagine sullo schermo. Disegna due linee, ne salta due, ne disegna altre due, così via fino al fondo dello schermo. Poi torna in cima e riempie le linee che ha lasciate libere la volta precedente. Di fatto, non c’è nessun momento in cui lo spettatore veda l’immagine intera. La assembla nella sua mente. Di tanto in tanto sono stati sperimentati gli schermi olografici, ma non riescono a far presa sulla gente. Non posseggono l’elemento coercitivo della vecchia televisione. E sapete perché? Perché forniscono solo immagini. Non seducono la mente a cooperare con la violazione della realtà. — La donnina danzava con grazia, con passo leggero.
Le labbra del burocrate erano asciutte. Sentiva in bocca uno strano sapore, un sapore vivido, e faceva una certa fatica a seguire il discorso del burattinaio. — Non credo di aver afferrato.
La donnina d’oro sollevò una spalluccia e rivolse al burocrate un’occhiata di rimprovero. Mintouchian sorrise. — Dove esiste questa illusione che vedete davanti a voi? Nella mia mente o nella vostra? O esiste nello spazio in cui le nostre due menti si collegano l’una all’altra?
Sollevò improvvisamente le mani, e la donnina si dissolse in una pioggia di anelli d’oro.
Il burocrate alzò lo sguardo verso Mintouchian, e gli anelli continuarono a cadere e a roteare nella sua mente. Chiuse gli occhi e continuò a vederli cadere nell’oscurità. Riaprire gli occhi non servì a liberarlo dalla visione. L’interno del camion gli sembrava troppo vicino, opprimente, poi scomparve del tutto. Era come se si aprisse e si chiudesse davanti a lui, pulsando. Si sentiva nauseato. — C’è qualcosa che non va in me — disse con tono cauto.
Ma Mintouchian non lo stava ascoltando. — A volte — disse con tono sognante da ubriaco — la gente mi domanda perché faccio questa professione. Be’, io non lo so. Di solito rispondo: “Perché qualcuno vorrebbe giocare a fare Dio?” Poi faccio una smorfia e scrollo le spalle. Ma a volte penso che lo faccio perché voglio provare a me stesso che la gente esiste. — Stava parlando attraverso il burocrate, guardandolo in faccia, ma comportandosi come se fosse da solo e stesse parlando a se stesso. — Ma noi non possiamo saperlo, non è vero? Non possiamo mai saperlo con certezza.
Il burocrate se ne andò senza dire una parola.
Vagò fino al fiume. I moli erano trasformati. Davanti a lui vi era un’inaspettata foresta di funghi dorati che si erano inglobati file di lampade elettriche e ora bruciavano di quella luce presa in prestito come penisole fatate che si estendevano sull’acqua. Guardò di nuovo e vide donne nude che si bagnavano nel fiume. Lentamente e con grazia, le donne dalla pelle come la luna nuotavano fra le barche ancorate facendole oscillare dolcemente, i loro occhi al livello delle cime degli alberi.
Il burocrate fissò meravigliato quei fantasmi silenziosi e pensò: “Non esistono creature simili”. Anche se, in verità, non riusciva proprio a immaginarsi per quale motivo non dovessero esistere. Immerse fino alle cosce, si muovevano silenziose come sogni e alte come dinosauri, sonnambule eppure sicure come un desiderio. Qualcosa di nero si rigirò nell’acqua, sbatté contro una pancia arrotondata e scivolò via, e per un terribile istante il burocrate temette che si trattasse della stessa Undine, annegata nel fiume e destinata a nutrire i signori affamati delle maree.
Poi, con una scossa elettrica di terrore, vide che una delle donne si stava voltando verso di lui, fissandolo con occhi verdi come il mare e spietati come una tempesta del nord. Gli sorrise sopra un paio di seni perfetti, facendolo arretrare terrorizzato. Drogato, pensò il burocrate. Era stato drogato. E quel pensiero faceva incredibilmente senso, lo colpì addirittura con la forza della rivelazione… Solo che non sapeva proprio che farsene, di quella rivelazione.
Senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò a camminare per i boschi. Il sentiero era costellato di funghi, che con le loro cappelle morbide e carnose gli sfioravano la faccia e le braccia. Doveva trovare aiuto. Se solo avesse saputo da che parte andava quel sentiero, se verso il paese o fuori…
— Che cosa facesti, allora?
— Hah? — Il burocrate si riprese con uno scossone, si guardò attorno e si rese conto che era seduto per terra in mezzo alla foresta e stava fissando lo schermo azzurrognolo di un televisore. L’audio era spento e l’immagine era capovolta. I personaggi recitavano a testa in giù appesi al soffitto, come fossero pipistrelli. — Cosa hai detto?
— Ho detto, che cosa facesti allora? Hai forse dei problemi di udito?
— Ultimamente ho avuto dei problemi a preservare la mia continuità.
— Ah. — L’uomo dalla faccia da volpe seduto davanti a lui fece un cenno in direzione del televisore. — Allora guardiamo un po’ la tivù.
— Ma è capovolta — protestò il burocrate.
— Ah sì? — L’uomo volpe si alzò in piedi, girò l’apparecchio senza alcuno sforzo, quindi tornò a accovacciarsi. Non aveva nulla indosso, ma nel punto in cui era seduto vi era una tuta piegata. Anche il burocrate aveva ripegato la sua giacca per proteggere il sedere dall’umidità. — Così va meglio?
— Sì.
— Dimmi che cosa vedi.
— Ci sono due donne che combattono. Una ha un coltello. Si stanno rotolando nella polvere. Ora una si è alzata in piedi, e si è scostata i capelli dalla fronte. È tutta sudata, e sta guardando il suo coltello, che è completamente insanguinato.
La volpe emise un sospiro. — Ho digiunato e ho sanguinato per sei giorni, ma senza ottenere alcun risultato. A volte penso che non saremo mai abbastanza santi da poter vedere le immagini.
— Perché, non riesci a vedere le immagini alla televisione?
Un sorrisetto furbo, una contrazione dei baffi. — Nessuno della mia razza può vederle. È una cosa molto ironica. Noi pochi sopravvissuti ci nascondiamo fra voi, frequentiamo le vostre scuole, lavoriamo nei vostri campi, eppure non vi conosciamo affatto. Non possiamo nemmeno vedere i vostri sogni.
— Ma non è altro che una macchina.
— Allora perché non vedo altro che una luce che cambia di frequenza?
— Ricordo… — iniziò, perse quasi il filo del ragionamento, poi riprese il vento e navigò senza alcuno sforzo. — Ricordo di aver parlato con un uomo che mi ha detto che le immagini non esistono. Le immagini sono composte da due parti che vengono legate assieme nel nostro cervello.
— Se è così, significa che nei nostri cervelli non vi è filo a sufficienza, e quindi non potremo mai vedere i vostri sogni. — La creatura si leccò le labbra con una lunga lingua nera. Il burocrate provò un improvviso brivido di terrore.
— Questa è follia pura — disse. — È impossibile che io sia qui a parlarti.
— E perché mai?
— Perché l’ultimo spettro è morto centinaia di anni fa.
— In effetti siamo rimasti in pochi. Eravamo giunti molto vicini all’estinzione completa, ma poi abbiamo imparato a vivere negli interstizi della vostra società. Naturalmente, l’alterazione fisica del nostro aspetto è stata la parte più facile. Passare per umani, invece, guadagnare i vostri soldi senza attirare il vostro interesse, questo è assai più difficile e stimolante. Siamo costretti a nasconderci fra i poveri, in piccole baracche ai margini delle terre agricole e in appartamenti squallidi nelle parti peggiori del Fan.
— Be’, abbiamo parlato fin troppo. — Volpe si alzò in piedi, offrì la mano, fece alzare il burocrate, lo aiutò a indossare la giacca e gli porse la valigetta. — Ora devi andare. In realtà dovrei ucciderti, ma la nostra conversazione è stata talmente interessante, soprattutto la prima parte, che ti darò un piccolo vantaggio. — Aprì la bocca, mettendo in mostra una fila di denti accuminati.
— Corri! — disse.
Era così tanto tempo che correva nella foresta, facendosi strada a forza attraverso tunnel di archi piumati, sfondando torri di tentacoli spinosi e antennati che crollavano davanti a lui senza un suono, che la sua corsa era diventata uno stato di esistenza costante, naturale e comune come qualsiasi altro stato. Poi il tutto si sciolse attorno a lui, e si ritrovò in un cimitero, circondato da scheletri cresciuti assieme che avevano ripreso la loro carne, da gabbie toraciche sulle quali crescevano seni di funghi, da bacini dai quali spuntavano falli bianchi e schiumosi o vagine incurvate. I morti erano rinati sotto forma di mostri, gemelli uniti ai fianchi e alla testa, famiglie intere sopraffatte da masse lievitanti dalle quali spuntava un solo cranio dai denti rossi con la bocca spalancata, come se stesse ridendo, oppure urlando.
Poi anche questo scomparve, e si ritrovò a incespicare su un terreno piatto e desertico. Annaspando, si fermò. Il terreno qui era duro come la pietra. Non vi cresceva nulla. Da una parte poteva udire la musica concitata di Cobbs Creek in pieno allagamento, che non vedeva l’ora di unirsi al fiume. Doveva trovarsi sopra gli scavi archeologici, pensò. Un ottavo di miglio quadrato che era stato ancorato nella roccia sottostante con degli stabilizzatori dopo aver sepolto nel suo cuore almeno tre segnalatori di navigazione sigillati per impedire che la terra, in una nuova epoca, nascondesse di nuovo il tutto. Il burocrate respirò in maniera convulsa, con i polmoni in fiamme. Stavo correndo? si domandò. In quel momento, si sentì sopraffarre dal peso morto della futilità. Undine era morta.
— L’ho trovato! — gridò qualcuno.
Una mano lo toccò sulla spalla, facendolo girare. Il burocrate si voltò lentamente, e venne colpito da un pugno in piena mascella.
Cadde a terra. La sua testa colpì il terreno e le sue braccia si allargarono sul suolo. Con vago stupore, sentì uno stivale che gli sfondava le costole. — Whoof! — Perse tutto il fiato che aveva, sentì la durezza granitica del terreno sotto di lui. Qualcosa si era smollato e stava cedendo.
Tre figure oscure galleggiavano sopra di lui, mutando continuamente il suo senso della profondità. Ogni movimento definiva e ridefiniva le relazioni spaziali fra i tre e lui stesso. Uno di loro poteva essere una donna, ma era troppo attento alle possibilità, troppo rapido e scattante nella visione per esserne certo. Danzavano attorno a lui, moltiplicandosi e lasciandosi scie nere alle spalle, finché il burocrate non si ritrovo intrappolato in una gabbia di nemici che era stata tessuta attorno a lui. — Cosa — gracchiò. — Cosa volete?
La sua voce rimbombò e riverberò, profonda e distante come il rintocco di una grande campana in fondo al mare. Il burocrate tentò di sollevare le braccia, ma queste risposero con infinita lentezza. Era come se fosse un essere composto esclusivamente di coscienza, seduto all’interno della testa di un gigante di granito.
Lo picchiarono con mille pugni, con colpi che si increspavano e si sovrapponevano lasciandosi alle spalle un marchio di dolore. Poi, improvvisamente, tutto finì. Davanti ai suoi occhi apparve un volto rotondo circondato da fiamme stregonesche.
Veilleur gli rivolse un sorriso sprezzante. — Ti avevo avvertito, ciò che non può essere fatto in un modo può sempre essere fatto in un altro modo — disse. — Il mio problema è proprio questo, che nessuno mi prende mai sul serio.
Prese la valigetta.
— Su, andiamo — disse Veilleur agli altri. — Abbiamo quel che volevamo.
Scomparvero.
Il tempo era un fuoco grigiastro che consumava ogni cosa con costanza, tanto che ciò che appariva come movimento non era in realtà altro che l’ossidazione e la riduzione delle possibilità, il crollo della potenziale materia, la trasformazione dalla grazia al nulla. Il burocrate rimase sdraiato a lungo a osservare la distruzione dell’universo. Forse era in stato di incoscienza, forse no. Qualunque cosa fosse, si trattava di uno staio di consapevolezza che non aveva mai provato in vita sua. Non poteva paragonarlo a nessuna esperienza provata in precedenza. Era possibile che una persona fosse drogata-cosciente e contemporaneamente drogata-addormentata? Come poteva saperlo? Il terreno era duro, freddo e umido sotto la sua schiena. La sua giacca era strappata. Sospettava che parte dell’umidità che sentiva fosse dovuta al suo stesso sangue. Vi erano troppi fatti, troppe informazioni per la sua mente. Ciò nonostante, sapeva che avrebbe fatto meglio a preoccuparsi per il sangue. Si aggrappò a quella piccola isola di sicurezza mentre i suoi pensieri vorticavano pazzamente nella sua mente, portandolo in alto per mostrargli il mondo e poi sbattendolo a terra per riprendere il viaggio da capo.
Sognò una creatura che si incamminava lungo la strada. Aveva il corpo di un uomo e la testa di una volpe. Indossava una vecchia tuta.
La volpe, se di volpe si trattava, si fermò nel punto in cui era steso il burocrate e si accovacciò al suo fianco. Il volto dal naso aguzzo gli annusò l’inguine, il petto, la testa. — Sto perdendo sangue — disse il burocrate con tono di supplica. La volpe fece una smorfia. Poi la testa scomparve, dissolvendosi nel nulla.
Venne proiettato nell’antico cielo, lanciato all’altezza dei pianeti nella vecchia notte e nel vuoto.