I granchi orchidea stavano migrando verso il mare. Attraversavano di tutta fretta la strada sabbiosa, seppellendola sotto la loro massa. Luminosi fiori parassiti oscillavano dolcemente sulle loro corazze, increspando il suolo della foresta sotto un tappeto di petali multicolori, come fosse un giardino sottomarino visto attraverso leghe su leghe di limpida acqua oceanica.
Mintouchian emise un’imprecazione e schiacciò il freno. Il Nuovo Re si arrestò con un sussulto. Chu tirò fuori uno dei suoi cigarillos e se lo infilò in un angolo della bocca. — Be’, per un po’ non ci si muove. Tanto vale uscire a sgranchirsi un po’ le gambe.
Una piccola comunità di pellegrini composta dagli abitanti di altri tre camion (Il Signore degli Spettri, Mathilde la Fortunata e Cuor di Leone) e da una dozzina di viaggiatori a piedi stava attendendo con pazienza il passaggio dei granchi. Alcuni erano seduti sul ramo più basso di un albero-nonno, appollaiati in fila come corvi che fissavano il fuoco azzurrognolo intrappolato in una biforcazione delle radici. — Guardate lì — disse Mintouchian. — Quando ero ragazzino e la gente si trovava bloccata per strada a questo modo, ci si scambiava storie, a volte anche per ore e ore. Storie di fantasmi, storie di famiglia, fiabe, racconti di eroi, hausmarchen, barzellette sconce, vanterie, tutto quel che potete immaginare. Vivere a quei tempi era come essere immersi in un oceano di storie. Era fantastico. — Con aria disgustata, accese lo schermo sul suo cruscotto e si appoggiò allo schienale a guardare la tivù.
Chu uscì dall’abitacolo e appoggiò un gomito al cofano, scrutando la strada con aria distante. Il burocrate la seguì.
Si sentiva un po’ sconnesso. Si era allargato in maniera troppo sottile nel Palazzo dell’Arcano, e ora provava un senso di nausea perpetua, forse un preavviso del malanno relativistico al quale erano particolarmente soggetti tutti coloro che lavoravano nella realtà convenzionale. Ogni cosa gli sembrava una luminosa illusione, una pellicola sottilissima di apparenza che ricopriva una verità sconosciuta decisamente più oscura. Il mondo vibrava di tensioni sottilissime, come se vi fosse qualcosa di imminente. Il burocrate si aspettava che si aprissero finestre nel cielo, porte negli alberi e buchi nell’acqua. Che si rendessero manifesti gli spiriti invisibili dell’aria che senz’altro condividevano quel luogo con loro. Naturalmente, nulla di tutto ciò accadde.
Appoggiò la valigeria sulla pedana laterale del camion. — Vado a fare una passeggiata.
Chu annuì. Mintouchian non alzò nemmeno lo sguardo dal suo programma.
Il burocrate si incamminò verso l’albero-nonno, stando attento a non appoggiare il piede su qualche granchio staccatosi dal gruppo che procedeva alla cieca cercando di riunirsi al flusso dei suoi compagni. Ora il fiume di granchi orchidea si era diviso in due, isolando la gente in attesa in uno spiazzo di immobilità. L’albero era qualcosa di meraviglioso, con gli spessi rami che si allargavano in senso orizzontale dal tronco principale lasciando cadere le loro appendici verso il basso, formando così una serie di tronchi secondari a distanze irregolari che davano vita a una struttura assai complessa, paragonabile a una piccola foresta.
Ricordò di aver sentito dire che gli alberi-nonno erano una cosa piuttosto rara. Questo era uno degli ultimi sopravvissuti, un reduce solitario dei vecchi tempi della grande primavera. E dai semi sepolti nel profondo del suo cuore un giorno sarebbe nata, se non una nuova razza, almeno una nazione all’interno di quella razza.
Una serie di scalinate sconnesse in legno si avvolgevano contorte attorno al tronco maestoso, e nei punti in cui i rami erano abbastanza spessi vi erano delle passerelle di assi di legno che si perdevano nella fitta oscurità del fogliame. Le assi erano state dipinte di rosso, verde, arancione e giallo, ma ormai quei colori carnevaleschi erano svaniti da tempo, sbiancati da mille soli pallidi come le ossa degli scheletri di un cimitero abbandonato. Piccoli cartelli posti sulle piattaforme rialzate fornivano varie indicazioni: VISTA DELLA NAVE. ABELARD’S. ANGUILLE FRESCHE. IL AEIRIE. BIRRE AROMATIZZATE.
Spinto verso l’alto dall’azione capillare più che dalla sua stessa volontà, il burocrate salì le scale.
Un ubriaco gli passò accanto, incespicando. Sulle ringhiere di legno erano stati attaccati dei frammenti di legno del fiume in un debole tentativo di decorazione; sui pali verticali erano state affisse delle conchiglie dall’apparenza friabile.
Il burocrate si fermò esitante al terzo pianerottolo, indeciso sulla direzione da prendere, quando gli passò accanto un uomo dalla testa di cane che portava un vassoio di mani. Allarmato, il burocrate fece un passo indietro. L’uomo si fermò e si tolse la maschera dal volto. — Posso esservi d’aiuto, signore?
— Ah, mi stavo domandando… — Vide che le mani erano metalliche, arti modulari da sottoporre a pulizia-lampo fra i clienti.
— La Atlantis è da quella parte. Camminate lungo questa piattaforma, girate a sinistra e seguite i cartelli. Non potete perderla.
Confuso, il burocrate seguì le indicazioni dategli e giunse a una vasta piattaforma disseminata di tavolini. Gruppi di surrogati, assieme a qualche umano isolato, si accalcavano sulla ringhiera con lo sguardo rivolto verso la foresta. Il burocrate rivolse lo sguardo nella stessa direzione.
In quel punto, i rami del possente albero erano stati tagliati in modo da permettere la visuale di un ampio tratto di foresta. Raggi di sole dorati illuminavano il verde delle piante e le nubi di moscerini che aleggiavano come granuli di polvere sopra il suolo umido. Più in là, come un fantasma che spunta dal sottosuolo, vi era il relitto insabbiato di un vascello oceanico. La Atlantis.
Era qualcosa di enorme. La nave si era incagliata con la prua verso l’alto nel corso dell’ultimo grande inverno ed era stata subito sepolta dalle correnti, cosicché sembrava essere stata congelata nell’istante in cui affondava. Milioni di granchi-orchidea stavano attraversando i suoi resti incrostati di conchiglie, ricoprendo il relitto di fiori e trasformandolo in una creazione impossibile almeno quanto un qualunque indirizzo mnemonico all’interno del Palazzo dell’Arcano.
Gli spettri della memoria solleticarono il cervello del burocrate. Aveva già sentito parlare di quella nave in precedenza. Qualcosa…
Trovò un tavolo libero, prese una sedia e si accomodò. Una leggera brezza gli scompigliò i capelli. Un serpente piumato fece un balzo, agitando il fogliame. Un fringuello dalla coda a forbice, forse, oppure un pettirosso. Il burocrate si sentiva stranamente tranquillo, nello spirito delle dolci origini arboricole umane. Si domandò per quale motivo la gente non si sforzasse maggiormente di tornare a casa, alle origini, visto che si poteva fare con tanta facilità.
Abbassò lo sguardo verso il tavolo, e si ritrovò faccia a faccia con il disegno di un corvo nero. Prima ancora che potesse reagire, vi si sovrappose l’ombra di una testa di uccello. Il burocrate alzò lo sguardo per incontrare quello di un uomo dalla testa di corvo.
Gregorian! pensò il burocrate con improvviso allarme. Poi ricordò la Bestia Nera che aveva tormentato il dottor Orphelin per mezza vita e si guardò attorno. Sui tavoli e sulle ringhiere, sulle sedie e sulle assi di legno, ovunque vi erano disegni sbiaditi di uccelli e animali. Ormai era sintonizzato su cose del genere, che per lui non potevano fare a meno di generare cattivi presagi. — Benvenuto al Loggione degli Spettri — disse il cameriere.
Il burocrate indicò il cartello delle birre aromatizzate. — Avete il lime? O l’arancia, magari?
La testa del cameriere si sollevò con aria sdegnata. — Quelle sono solo via cavo, per i surrogati. Una persona vera non berrebbe mai quella porcheria.
— Oh. Va be’, allora datemi un bicchiere di lager. E una spiegazione per quella nave laggiù.
Il cameriere si inchinò, se ne andò e tornò con una birra e un interattivo. L’apparecchio era decisamente fuori luogo con la sua cassa viola e arancione, in netto contrasto con la voluta semplicità del ristorante. Il burocrate avrebbe potuto benissimo trovarsi a casa, in un ritiro ambientale, con gli alberi e il bagliore distante del fiume ridotti a un effetto calcolato. La birra era leggera.
Accese l’apparecchio. Una ragazza sorridente con un gilet di broccato apparve sullo schermo. In fondo alle sue trecce vi erano delle piccole campanelle d’argento. — Salve — disse. — Mi chiamo Marivaud Quinet, e sono una cittadina tipica di Miranda nel corso dell’ultimo grande anno. Ho una perfetta conoscenza del mio pianeta e sono in grado di parlare sia di fatti storici che di dettagli della vita di tutti i giorni. Non sono strutturata per offrire consigli o intrattenimento pornografico. Questo apparecchio è stato sigillato dal Dipartimento Licenze e Ispezioni, reparto Technology Transfer. La manomissione dell’apparecchio stesso è illegale e può risultare nell’arresto o in danni fisici involontari nei confronti del trasgressore.
— Sì, lo so. — Nel caso che qualcuno tentasse di violare l’integrità dell’apparecchio, questo sarebbe imploso. Si domandò se lo avrebbero lasciato lì quando veniva il momento di evacuare il ristorante, se sarebbe scomparso in uno spruzzo di bollicine argentate quando il sale sarebbe finalmente riuscito a corrodere le guarnizioni. — Marivaud, raccontami qualcosa dell’Atlantis.
Il volto della ragazza assunse un’espressione solenne.
— È stata la grande tragedia finale della nostra epoca. Eravamo arroganti, lo ammetto. Facemmo molti errori. E questo fu l’ultimo dei nostri errori, quello che portò su di noi il dominio dei poteri extraplanetari e che fece regredire la nostra tecnologia di almeno un secolo.
Il burocrate ricordava quanto bastava per capire che si trattava di una visione a dir poco semplicistica. — Ciò che è stato fatto era necessario, Marivaud. È necessario che vengano posti dei limiti.
La ragazza si tirò una treccia con fare rabbioso, facendo tintinnare un campanellino d’argento. — Noi non eravamo come le stupide bestie che vivono qui oggi. Noi avevamo il nostro orgoglio! Ottenevamo i nostri risultati! Avevamo i nostri scienziati, e li dirigevamo noi stessi. Il nostro contributo alla cultura e alla tecnologia prosperana non è stato certo cosa da poco. Eravamo conosciuti in tutte le Sette Sorelle!
— Non ne dubito. Raccontami della nave.
— Originariamente, la Atlantis era una nave-passeggeri. Dovette essere convertita al largo, poiché era troppo grande per qualsiasi porto. Il frammento che vedete ora è solo la prua. La nave intera era vasta come una città. — Apparve un montaggio di varie immagini della nave colta da diversi punti di vista. — Be’, forse sembra così a me, poiché l’ho osservata da così tanti punti di vista in un labirinto di percezioni confuse e sovrapposte. Ma forse sto correndo troppo in fretta. La prima fase consisteva nella costruzione di una serie di trasmettitori tutt’attorno al Tidewater. Vennero ancorati al fondo con cavi di fibra di carbonio e costruiti in modo da poter resistere alla forza delle maree quando queste avrebbero invaso la terra. — Altre immagini, questa volta di torri spesse dalle cime bulbose. — Per garantir loro l’apporto energetico sufficiente per superare il grande inverno sommerso, li fornimmo di tokamaks sigillati in maniera permanente. Impiegammo dieci anni minori per…
— Marivaud, non ho tempo per tutto questo. Voglio solo sapere dell’affondamento, per favore.
— Ero a casa quel giorno — disse Marivaud. — Mi ero costruita un posticino appena sopra la linea di guardia, su ciò che dopo la marea sarebbe diventata la costa del Piedmont. Feci una colazione leggera, una fetta di toast con marmellata-fata e una spolverata di prezzemolo tritato del mio giardino, assieme a un boccale di birra.
L’immagine mostrò l’interno di una piccola casupola. Le finestre erano spruzzate di pioggia e il fuoco bruciava nel caminetto. Marivaud si pulì le labbra sporche di marmellata. — Al mare, la giornata era limpida e solatìa. Io passavo da una persona all’altra, come il sole stesso. Mi sentivo fresca e felice.
La scena cambiò, spostandosi sul ponte della Atlantis.
Una serie di corpi verdi-gialli vennero depositati sul ponte da una gru. Per un istante, il burocrate non riconobbe le creature che si dimenavano sul ponte. Nella loro morfologia invernale, avevano ben poche caratteristiche umane. Avevano lunghe code da anguilla e due esili appendici che non avevano quasi nulla a che vedere con braccia umane; i loro volti erano affusolati, le loro bocche silenziose espressioni di dolore. Si contorcevano spasmodicamente, e i loro corpi si allungavano, si accorciavano e mutavano in continuazione in un disperato tentativo di adattarsi all’aria. L’immagine mise a fuoco un elemento in particolare, e nell’agonizzante movimento della sua testa il burocrate riconobbe l’intelligenza.
— Sono spettri!
Il volto di Marivaud si sovrappose all’immagine, sereno come quello di una madonna che fa colazione. — Sì, quei piccoli cari.
Una donna con galosce ascellari si incamminò fra i corpi che si dimenavano. La sua pistola lampeggiava ogni volta che la premeva sulla testa di uno spettro e schiacciava il grilletto. Questi ultimi si contorcevano in maniera selvaggia a ogni botta di aria compressa.
— Questo è l’ultimo. Ora giù.
Improvvisamente, l’immagine prese il punto di vista di uno degli spettri. Un lungo volo nell’aria, e poi un possente tuffo in mare. Uno spruzzo di bollicine, una fuga disperata. Da tutti i lati nuotavano altri spettri, selvaggi, splendidi ed estatici.
Sul ponte della nave, l’equipaggio stava preparando un paio di proiettori. — Tiriamo fuori di nuovo quelle reti. Attenti a…
Qualcuno bussò alla porta.
Marivaud l’aprì. Apparve una donna con lineamenti duri e eleganti che ricordavano i suoi. — Goguette! Vieni, lascia che prenda il tuo mantello. Hai mangiato? Come mai da queste parti così presto?
— Fammi giusto un po’ di tè di bacche. — Goguette si sedette al tavolo. — Sono venuta a passare il giubileo con la mia sorellina. Spero di non darti fastidio.
— No, certo che no. Oh! C’è Mousket sul ponte.
Apparve sullo schermo un tipo militare dal petto eroico, tutto mascella e oscura determinazione. — Mousket — disse Goguette. — È lei il comandante, giusto?
— Sì. E ha una storia con il pilota. — Un passaggio rapido su un uomo magro e alto con occhi cinici. Rivolta al burocrate, aggiunse: — È un uomo estremamente riservato. La natura pubblica del loro rapporto amoroso lo imbarazza, lo umilia, lo indigna. Ma questo non fa altro che rendere il tutto ancor più dolce per lei. Lei gode della sua umiliazione.
— Scusami — intervenne il burocrate. — Ma come fai tu a sapere tutte queste cose?
— Non hai notato i miei orecchini? — Marivaud tirò indietro una treccia, esponendo un’orecchio tutto corallo e crema dal quale pendeva una foglia d’ambra dalle venature argentee, delicata come un’ala di drago. L’immagine si allargò finché non furono visibili gli elementi incastonati di una ricetrasmittente televisiva, di un processore di segnali e di un adattatore neurale. Si trattava di una combinazione semplice ed elegante che le permetteva di usufruire senza sforzo di tutte le abilità elettroniche. Poteva parlare con gli amici, ricevere spettacoli o programmi di intrattenimento, conservare un’alba particolarmente suggestiva, copiare un disegno da Vecchio Master sulla sua mano, fare ricerche, prendere o dare corsi educativi, trasmettere i suoi sogni per un’analisi robotica, eccetera. In pratica trasformava la sua mente in un nodo all’interno di un invisibile impero di interattività, fuoco perfetto di un cerchio di una vastezza talmente infinita che il suo centro era ovunque e i suoi limiti da nessuna parte.
— Nemmeno i fuorimondo avevano cose del genere — disse. — Siamo stati noi i primi a combinare tutto in un solo mezzo continuativo. Era come vivere in due mondi contemporaneamente, come avere una seconda vita nascosta. Era lo stesso periodo in cui voi fuorimondo stavate costruendo quell’assurdo luogo mnemonico che avete. Il nostro metodo era decisamente superiore, e se non fosse stato per il disastro della Atlantis, anche voi ora ne fareste parte.
— Per Dio, ma tu stai parlando del Trauma! — esclamò il burocrate con orrore. — C’era di mezzo una nave… deve essere stata proprio la Atlantis! Erano tutti collegati per una trasmissione continua.
— Vuoi ascoltare la mia storia o la vuoi raccontare tu? Sì, naturalmente tutti i componenti dell’equipaggio erano attori, improvvisatori… come chiamate la gente che conduce una vita di intensità forgiata per creare drammi pubblici?
— Non credo che esistano più. Ma che cosa stanno facendo agli spettri?
— Li adattano con microcircuiti di trasmissione, naturalmente. In che cosa credevi che consistesse l’intero progetto?
— E perché mai avreste voluto fare una cosa del genere?
— È esattamente la stessa domanda che le faccio sempre io! — intervenne Goguette. — Ci sono talmente tante esperienze raffinate, educative e arricchenti disponibili in rete… Perché sprecare la propria vita sintonizzandosi con delle creature appena migliori degli animali?
— Ah, ma che splendidi animali! — disse Marivaud con tono sognante. — Ma ci stiamo allontanando dalla nostra storia. Voi — si rivolse direttamente al burocrate — potrete recepire solo lo spettro intermedio di tutto questo. Perderete tutti i piccoli dettagli, la corda che brucia nelle mani arrossate, il profumo dell’oceano, il brivido della brezza salata sulla pelle. E in quanto alle grandi emozioni, potrete solo intuirle dall’esterno. Non vi è nessun modo in cui possiamo condividere più di una frazione di questa esperienza con voi. Vi mostrerò quindi due interpreti minori, un pescatore di spettri e un chirurgo-lampo. I loro veri nomi sono stati persi, quindi darò al pescatore il nome fuorimondo Underhill. In quanto al chirurgo, la chiamerò come mia sorella: Gogo.
Goguette le diede un pugnetto affettuoso sulla spalla. Le due sorelle scoppiarono a ridere, quindi scomparvero. Sul ponte, il chirurgo ripose la pistola nella fondina. Si asciugò la fronte con l’avambraccio, quindi alzò lo sguardo oltre le altissime gru, verso Caliban, un disco di ghiaccio che si scioglieva nel cielo azzurro. Il suo sguardo si abbassò di nuovo, focalizzandosi sulle teste degli spettri che apparivano e scomparivano sulla superficie dell’acqua.
Si avvicinò al proiettore più vicino. — Mio Dio — disse. — Sono splendidi.
Underhill alzò lo sguardo dal suo schermo e le sorrise. — Questo è l’ultimo sondaggio. Quando avranno finito, sarà finita anche per noi. — Le sue mani sfioravano i comandi con delicatezza. Il proiettore oscillò con movimento appena percettibile; la rete per gli spettri si inarcò verso l’esterno. — Guarda quel gruppo lì. — Parlò in un microfono. — Punto uno.
I puntini neri apparivano e scomparivano in lontananza sul pelo dell’acqua. La rete si avvicinò, visibile dall’alto grazie alla sua scia di bollicine. La sonda cambiò direzione, allontanandosi. — Bambinetti furbi — sussurrò Underhill. — Non mi scappate via.
Ora le due linee di bollicine bianche stavano convergendo, chiudendosi come forbici gigantesche. Gli spettri intrappolati fra le due reti si lanciarono verso il mare aperto. Alcuni si staccarono dal branco e tornarono indietro attraverso la rete.
— Oh! — esclamò Gogo. — Stanno scappando!
Ancora quel sorriso sicuro. Underhill si tirò indietro i capelli. — No, sono quelli che abbiamo preso prima. I tuoi microcircuiti permettono loro di attraversare la rete.
Gogo stava saltellando sulle punte dei piedi per l’eccitazione. Aveva un aspetto molto giovanile, quasi infantile. — Oh! Ne sei sicuro? Ma sì, è chiaro.
— Rilassati. Anche se qualcuno riesce a sfuggire, che male c’è?
— Ne sono rimasti così pochi… — disse Gogo con tono ansioso. — Veramente pochissimi. Avremmo dovuto applicar loro i circuiti quando si trovavano ancora a riva.
Underhill rispose con tono distratto, senza deconcentrarsi e senza staccare gli occhi dai suoi schermi. — Era impossibile scovarli tutti quando erano ancora a terra. È inutile che stia a dirti quanto sono elusivi. — Si rivolse nuovamente al microfono. — Punto tre.
— Punto tre.
Le strisce di bollicine iniziarono a chiudersi, avvicinandosi fra loro. Gogo fissò la scena. — A volte mi chiedo se sia giusto quel che stiamo facendo.
L’uomo alzò lo sguardo e la fissò con aria meravigliata. — Davvero?
— Gli facciamo del male! — Poi a bassa voce: — Io faccio loro del male.
Underhill era concentratissimo sul suo schermo. — Non molto tempo fa, le popolazioni indigene erano quasi sul punto di estinguersi completamente. È stato solo per colpa nostra. Politiche sbagliate, malattie… nei primi anni la gente dava addirittura la caccia agli spettri. E sai quando è finito tutto ciò?
— Quando?
— Quando il primo indigeno è finito nella rete e gli è stato applicato il primo microcircuito. La prima volta che la gente ha potuto provare di persona la purezza e il limpido ardore che provano loro. La prima volta che…
— La prima volta che la gente ha potuto correre con loro attraverso la magica notte, con il vento che scorre nei capelli, per cacciare e accoppiarsi — disse Gogo con tono sognante. Le sue guance assunsero una tonalità rosea. — So che è una cosa un po’ disgustosa, ma…
— È quel che dico sempre anch’io — intervenne Goguette.
— Oh, sciocchezze — ribatté Marivaud. — Se non ti diverte, puoi sintonizzarti su altri programmi.
— Non lo è affatto! — ribatté Underhill con tono deciso. — Non c’è proprio nulla di male in questo. Il fatto di essere interessati al lato fisico dell’amore è una cosa naturale e salutare. Dimostra che hai interesse nella vita. Punto cinque — disse — e chiusura.
— Punto cinque e chiusura.
Un terzo pescatore accese il suo proiettore, e una terza fila di bollicine si sovrappose alle altre due. Gli spettri iniziarono a dimenarsi, confusi. Lentamente, l’ultima rete iniziò a trascinarli dentro. L’uomo addetto alla gru spostò il grande braccio del suo apparecchio e portò la benna in posizione. — Fra poco tocca a te.
— Sono pronta — disse. Poi: — Certo che è facile parlare con te.
— Grazie. — La osservò attentamente. — Ma c’è qualcosa che ti preoccupa?
Le dita di Gogo si chiusero sul manico della pistola, quindi si rilassarono nuovamente. — Temo che non sarà un gran che. Voglio dire, una volta che hanno assunto la morfologia invernale.
— Vuoi dire che non li hai ancora provati?
— Avevo paura.
Underhill sorrise. — Provaci.
La ragazza esitò un attimo, quindi annuì. L’immagine tornò sugli spettri che fuggivano fra le bolle, che si tuffavano per afferrare un crostaceo e per frantumarne il guscio con i loro dentini affilati. Anche visti solo attraverso lo schermo, limitandosi a percepire suono e immagini, appariva più che evidente che le creature provavano una gioia immensa già solo nello sguazzare e nel nuotare.
— Oh — disse la ragazza. I suoi occhi si sgranarono. — Oh!
Goguette stava lavando i piatti. La porta si spalancò di colpo, e Marivaud entrò con la giacca imperlata di goccioline e un mazzo di fiori appena tagliati fra le braccia. — Non avete abbastanza tempo — disse al burocrate mentre sistemava i fiori. — Tagliamo direttamente al giubileo, qualche ora più avanti.
L’oceano ruggì. Abbandonando le loro postazioni, i componenti dell’equipaggio che non erano ancora attaccati ai parapetti corsero a tribordo e scrutarono il mare. Era una vista incredibile; tutta l’acqua del mondo stava salendo improvvisamente, come se il pianeta avesse improvvisamente deciso che aveva bisogno di un orizzonte più alto. La Atlantis si inclinò leggermente su un fianco. La nonna di tutte le ondate giganti, la tsunami polare, stava passando sotto la sua chiglia. La nave schizzò verso l’alto, trascinata dalla forza di un continente di ghiaccio che si scioglie nel giro di un istante.
L’immagine passò da un volto all’altro, da un punto di vista all’altro, mostrando occhi sconvolti e volti tirati. Erano tutti immobili, paralizzati dalla paura.
— Come faranno a fuggire? — domandò il burocrate. — Non hanno intenzione di salvarsi?
— Certo che no.
— Vogliono morire?
— Certo che no. — L’immagine ebbe un sussulto, e l’equipaggio umano divenne metallico. La Atlantis si trasformò in una nave di morti, una mostruosità gotica comandata da scheletri. — I surrogati sono stati inventati su Miranda — disse Marivaud con tono orgoglioso. — Siamo stati noi i primi a produrli. — L’immagine tornò come prima, e gli scheletri riassunsero le fattezze di corpi umani.
Vi era un’orrenda calma vetrosa, come se la superficie dell’oceano fosse stata allungata e tesa dalla risacca. Sebbene la nave stesse ancora salendo, sembrava che l’acqua diminuisse a vista d’occhio sotto la sua chiglia. Il burocrate ne udiva il sussurro. L’oceano salì finché non diventò l’unica cosa visibile. Il cielo scomparve completamente, e ancora l’oceano continuò a crescere. I venti presero a soffiare sul ponte.
Poi la nave giunse in cima alla grande onda. Più in là vi era un muro di furia bianca che si estendeva da un orizzonte all’altro, la linea della tempesta. Si abbatté immediatamente su di loro. Involontariamente, i membri dell’equipaggio si spostarono, radunandosi in gruppetti lungo la balaustra.
Gogo rivolse lo sguardo verso il pescatore di spettri. I suoi occhi erano sgranati per l’eccitazione. Si morse il labbro inferiore e spazzò via una ciocca di capelli staccatasi da una treccia. Il suo volto era illuminato di aspettativa. Allungò le braccia per stringere a sé Underhill.
Stupito, Underhill si ritrasse dalla sua presa. La fissò negli occhi con aria disgustata. In quell’istante la sua espressione era più leggibile di qualsiasi parola: “Non sei altro che una donna”.
Poi la tempesta ebbe la meglio sulla nave, che si inclinò dapprima su un lato per poi essere inglobata completamente.
— Ahh — Marivaud emise un sospiro. Sua sorella allungò una mano per prendere la sua. Dolcemente, con fare sommesso, iniziarono ad applaudire.
In uno studio molto distante, gli attori si alzarono dai loro sportelli per inchinarsi.
Marivaud alzò lo sguardo, mostrando un volto privo di espressione. La sua casetta, la sorella, il fuoco e tutto il resto si dissolsero in un turbine di pioggia. — Una settimana dopo — disse — i cadaveri iniziarono ad apparire sulla spiaggia.
— Cosa?
— Pieni di bruciature da radiazioni. Pensavamo di aver capito gli indigeni, invece non li avevamo capiti abbastanza bene. Non prevedemmo che la struttura chimica del loro cervello sarebbe cambiata così tanto per il grande inverno. O forse era la loro psicologia che cambiava. Insomma, per qualche motivo, il segnale di avvertimento che avrebbe dovuto tenerli lontani dalle torri non servì allo scopo. Anzi, si radunavano tutti il più vicino possibile ai reattori. Fu una follia pura. Forse vennero stimolati i loro istinti di accoppiamento. Forse erano solo attratti dal calore. Chi può dirlo?
Marivaud chiuse gli occhi, e le lacrime presero a sgorgare dalle sue palpebre chiuse. — Non potevamo farci nulla. L’oceano era una furia in tempesta costante e navigarlo era assolutamente impossibile. L’unico nostro contatto erano le trasmissioni degli spettri, che non riuscivamo a fare a meno di sentire. Le torri disseminate per la costa trasmisero la loro agonia ora dopo ora fino alla fine, finché non morirono tutti. Era come avere un dente spezzato in bocca, quando la lingua non può fare a meno di tornarci sopra in continuazione, attirata dal dolore. Non riuscivo a fare a meno di pensarci.
“Il dolore spazzò il Continente intero come una grande onda elettronica. Era come se la terra intera fosse stata stregata. Prima tutto era splendido e luminoso, poi, di colpo, tutto divenne grigio e sterile. Il nostro popolo era ottimista e sicuro di sé, e improvvisamente eravamo diventati… spossessati, senza futuro. Quelli che avevano la forza di non ascoltare le trasmissioni vennero comunque influenzati dagli altri.
“Io stessa sarei morta di fame, se mia sorella non mi avesse imboccata a forza per una settimana intera. Ruppe anche i miei orecchini. Mi costrinse a tornare alla vita. Ma da quel giorno in avanti, non risi mai più come ridevo prima. Alcuni morirono. Altri impazzirono. La vergogna era enorme. Quando infine i poteri extraplanetari decisero di toglierci quanto rimaneva della nostra scienza, nessuno ebbe il coraggio di protestare. Sapevamo di meritarcelo. Così ebbe fine l’autunno della nostra tecnologia, e da allora siamo piombati in un inverno eterno.”
Marivaud tacque, l’espressione triste e il volto esangue. Il burocrate spense l’interattivo.
Dopo un po’, un cameriere dalla testa di cane venne a portare via l’apparecchio.
Il burocrate si scolò quanto rimaneva della sua birra e si appoggiò alio schienale per osservare i surrogati che mangiavano. Provava un certo malinconico divertimento nel vederli sollevare bicchieri e consumare cibi che solo loro potevano vedere, come in un perfetto quanto inutile spettacolo di mimo. Accanto alla ringhiera, albi surrogati passeggiavano su e giù e chiacchieravano fra loro. Uno in particolare lo stava fissando.
I loro sguardi si incrociarono, e il surrogato si produsse in un inchino. Si avvicinò al tavolo del burocrate e prese una sedia. Per un istante, il burocrate non riuscì a ricordare dove aveva visto quel volto anziano e affilato che bruciava sullo schermo. Poi intervennero le sue lezioni di fisionomia applicata. — Voi siete il negoziante — disse. — Quello di Lightfoot. Vi chiamate… Pouffe, giusto?
Nel sorriso del vecchio vi era un piccolo accenno di follia. — Giusto, giusto. Volete chiedermi come ho fatto a trovarvi qui?
— Come avete fatto?
— Vi ho seguito. Vi ho seguito fino a Cobbs Creek. Mi sono surrogato ancora fino a Clay Bank, e lì mi hanno detto che ve ne eravate andato da poco. Sapevo che prima o poi vi sareste fermato qui. Finora non ho mai conosciuto un fuorimondo che riuscisse a resistere a questo panorama. Vi stavo aspettando.
— In effetti, sono qui per puro caso.
— Ma certo. — Le labbra di Pouffe si contorsero in un sorrisetto sardonico. — Ma vi avrei trovato comunque. Questo non è l’unico posto in cui vi stavo aspettando. È da stamattina che passo e ripasso per ben quattro sportelli di surrogazione.
— Vi deve essere costato un sacco di soldi.
— È proprio questa la chiave di tutto. — Il vecchio si protese in avanti, inarcando le sopracciglia in maniera esplicita. — Un sacco di soldi. Mi è costato un sacco di soldi. Ma io ne ho parecchi. Sono un uomo ricco, non so se mi spiego.
— Non esattamente.
— Ho visto la vostra pubblicità. Quella del mago. Quello che può…
— Aspettate un attimo, quella non è affatto la mia…
— …adattare un uomo a vivere e respirare sott’acqua. Bene, io…
— Smettetela. Sono tutte sciocchezze.
— Io voglio trovarlo. Capisco benissimo che non possiate dirlo così, a chiunque. Ma io sono disposto a pagare per l’informazione, e vi assicuro che pagherò molto bene. — Allungò una mano sul tavolo per afferrare quella del burocrate.
— Non ho quel che volete! — Il burocrate spazzò via la mano metallica e si alzò in piedi. — E anche se sapessi dove si trova, non ve lo direi. Quell’uomo è una truffa. Non può fare nulla di ciò che dice di poter fare.
— Alla tivù non avete mica detto così.
— Negoziante Pouffe, date un’occhiata là fuori. — Trascinò il vecchio avido fino alla balaustra. — Guardate bene, e immaginate come sarà questa zona fra un paio di mesi. Niente case, niente rifugi. Al posto di quegli alberi ci saranno solo alghe, e l’acqua nera sarà infestata di squali-angelo. La vita marina di questo luogo ha avuto milioni di anni a disposizione per adattarsi al cambiamento periodico. Voi invece siete un uomo civilizzato, e i vostri geni non solo sono estranei a questo oceano, ma addirittura non provengono nemmeno da questo sistema solare. Anche se Gregorian fosse in grado di fare ciò che dice, e vi assicuro che non lo è, che razza di vita sperate di condurre quaggiù quando sarà tutto sommerso? Che cosa mangereste? Come potete credere di riuscire a sopravvivere?
— Scusatemi signore — disse un cameriere dalla testa di toro.
Spazzò da un lato il surrogato di Pouffe, appoggiò una mano sulla schiena del burocrate e spinse con forza. — Ehi, che cavolo…! — esclamò Pouffe.
Il burocrate cadde in avanti. Stordito, afferrò la ringhiera. L’uomo-toro scoppiò a ridere, e il burocrate sentì che gli stava sollevando le gambe. Tutta l’esistenza si ribaltò, con gli alberi che piroettavano nel cielo di sotto e la sabbia che si sollevava sopra la sua testa. Le mani del cameriere erano calde e strette attorno alle sue caviglie. Poi, improvvisamente, scomparvero.
Qualcuno cacciò un grido. Il burocrate cadde di piatto sullo stomaco, provando un dolore intenso. Le sue mani erano ancora avvinghiate alla ringhiera. Sconvolto, alzò lo sguardo per vedere il cameriere e il surrogato di Pouffe che lottavano. Uniti assieme, sembrava che stessero ballando. L’uomo spinse con forza, e il teleschermo schizzò via, rimbalzando sul limite della piattaforma di legno. Priva di testa, la macchina schivò e si girò di scatto. I due sbatterono contro la ringhiera, facendo cedere le assi di legno.
Caddero.
Surrogati, camerieri e persino qualche cliente umano, tutti si affollarono alla balaustra per guardare giù. Nella calca, il burocrate venne ignorato.
Lentamente, si rialzò. Gli dolevano le gambe e la schiena. Un ginocchio gli tremava. Era bagnato. Si aggrappò alla balaustra con entrambe le mani e guardò giù. Era un gran bel volo. Il suo assalitore era riverso a terra sopra il surrogato e sembrava piccolo come una bambolina. La maschera da toro era volata via, rivelando lineamenti tondeggianti e familiari.
Era Veilleur, il falso Chu.
Il burocrate lo fissò. È morto, pensò. Potevo essere io. Una mano metallica lo prese per il gomito e lo condusse via. — Da questa parte — dise Pouffe a bassa voce. — Prima che qualcuno pensi che c’entriate anche voi.
Venne condotto fino a un tavolo seminascosto fra le foglie.
— Certo che siete sempre ben accompagnato. Sapete per caso il motivo di questa aggressione?
— No — rispose il burocrate. — Certo, so chi c’è dietro, ma non riesco a capire il motivo specifico. — Inspirò profondamente. — Non riesco a smettere di tremare — disse. — Vi devo la vita, negoziante.
— Vero. E dovete ringraziare l’addestramento in combattimento che ho ricevuto da ragazzo. Quei fottuti surrogati sono talmente deboli che è quasi impossibile battere un uomo. Bisogna sfruttare al massimo la forza dell’avversario. — Il suo sorriso soddisfatto e sicuro di sé galleggiava sullo schermo. — Sapete già come ripagarmi.
Il burocrate sospirò e abbassò lo sguardo verso le proprie mani. Mani mortali, mani deboli. Cercò di riprendersi. — Sentite un po’…
— No, sentite un po’ voi! Io ho passato quattro anni nelle Caverne; è così che chiamano il carcere militare su Caliban. Avete per caso idea di che cosa significhi essere rinchiuso lì?
— Deve essere piuttosto brutto, immagino.
— E invece no! È proprio per questo che è un inferno. È un luogo perfettamente umano, blando e impersonale. C’è un fottuto tecnico che ti inserisce in un programma semplice di visualizzazione, ti mette in alimentazione forzata endovenosa, inserisce un altro programma di fisioterapia per non farti marcire il corpo, poi ti lascia lì, imprigionato dentro il tuo cervello.
“È come un monastero, o magari come un albergo pulito e sterile. Non c’è nulla che possa danneggiarti o metterti in allarme. Le tue emozioni vengono soffocate, ridotte al minimo. Ti senti a tuo agio, comodo e calduccio come una bocca che succhia da una tetta. Senti solo tepore, e i suoni sono solo morbidi e soffusi. Nulla ti può danneggiare. Nulla ti può raggiungere. Non puoi scappare.
“Quattro anni!
“E quando esci, devi essere sottoposto a tre mesi di riabilitazione intensiva solo per essere in grado di accettare ciò che vedono i tuoi occhi. E anche dopo, ci sono notti in cui ti svegli e non sai se esisti ancora o meno.
“Quando sono uscito da quel posto e sono tornato a terra, ho giurato che non sarei più andato da nessuna parte se non di persona. È successo una vita fa, e ho mantenuto quel voto fino a oggi. Avete capito quel che sto dicendo?”
— Mi state dicendo che questa cosa è molto importante per voi.
— Ci potete scommettere, che è importante!
— Per voi è importante la vostra vita? Allora lasciate perdere queste fantasie da bambini, queste assurde nozioni di castelli di corallo e di sirene che cantano. Negoziante, questo è il mondo vero, e dovete cercare di sfruttare al massimo ciò che avete.
Da qualche parte, in lontananza, un clacson di camion risuonava regolarmente, insistentemente. Il burocrate si rese conto che era da un po’ che lo sentiva. I granchi dovevano aver sgombrato la strada.
Si alzò in piedi. — Ora devo andare.
Fece per allontanarsi, ma Pouffe lo seguì. — Non abbiamo ancora parlato di soldi! Non vi ho ancora detto quanto sono disposto a pagare!
— Vi prego. È inutile.
— No, dovete ascoltarmi. — Pouffe ora stava piangendo; lacrime di disperazione scorrevano lungo il suo viso solcato. — Dovete ascoltarmi.
— Quest’uomo vi sta dando fastidio, signore? — domandò un cameriere.
Il burocrate esitò per un istante. Poi annuì, e il cameriere spense il surrogato.
Tornato sulla strada, non riuscì a trovare il Nuovo Re. Il camion era scomparso. Chu era in piedi sulla pedana laterale di un altro camion, il Cuor di Leone, appoggiata al clacson. Vedendolo arrivare, scese a terra. — Hai un aspetto strano. Sei pallido.
— Ne ho ben donde — rispose il burocrate con tono piatto. — Uno degli uomini di Gregorian ha appena cercato di uccidermi.
Quando le ebbe raccontato la storia, Chu sbatté il pugno sul proprio palmo, ripetutamente. — Quel figlio di puttana! — sbottò. — Che fottuta faccia tosta che ha! — Era decisamente arrabbiata.
Il burocrate rimase sorpreso, e a dir la verità anche un po’ lusingato, da questo sfoggio di emozioni. Non era mai stato del tutto sicuro che lei lo accettasse, e aveva sempre pensato che lo considerasse come un semplice buffone di fuorimondo, una persona da tollerare più che da rispettare. Provò un inaspettato senso di gratitudine nei confronti di Chu. — Ricordo che una volta mi dicesti di non prendere nulla come cosa personale.
— Già, però quando qualcuno tenta di uccidere il tuo collega, le cose cambiano. Gregorian pagherà per questo. Te lo assicuro. — Si allontanò con uno scatto, e pestò un granchio. — Merda! — Diede un calcio al corpo mutilato. — Che giornata di merda!
— Ehi — il burocrate si guardò attorno. — Dov’è Mintouchian?
— Se n’è andato — disse Chu. Sollevò un piede e prese a pulirsi la suola con un fazzoletto, che poi gettò fra i cespugli. — Si è anche portato dietro la tua valigetta.
— Cosa?
— È stato assurdo. Come sono passati i granchi, ha acceso il motore, ha preso la valigia e se n’è andato di tutta fretta, come se avesse il culo in fiamme. — Chu scosse il capo. — È stato allora che ho iniziato a suonare il clacson per chiamarti.
— Ma non sapeva che la valigetta sarebbe tornata da me?
— Evidentemente no.
La valigetta impiegò circa mezz’ora per tornare dal suo padrone. Chu nel frattempo si era messa d’accordo con l’autista del Cuor di Leone ed era andata a vedere il cadavere del suo impersonatore. — Almeno mi faccio quattro risate — disse con spirito tetro. — Magari gli taglierò via un orecchio per tenermelo come souvenir.
La valigetta camminava per la strada con passo baldanzoso. Quando giunse ai piedi del burocrate, ritrasse le gambe e si posò a terra. Il burocrate la raccolse. — Hai fatto fatica a scappare?
— No. Mintouchian non si è nemmeno preoccupato di legarmi da qualche parte. Ho aspettato un paio di chilometri, e quando si sentiva ormai tranquillo ho abbassato il finestrino e sono saltata.
— Hum. — Il burocrate rimase in silenzio per un po’. — Rimarremo qui per qualche ora in più rispetto al previsto — disse infine. — C’è stata un po’ di violenza, e dobbiamo ancora vedercela con la polizia nazionale. Probabilmente dovrò fare una dichiarazione, magari riempire un verbale.
La valigetta, conoscendo i suoi stati d’animo, non disse nulla.
Il burocrate pensò a Gregorian, al modo in cui il mago era passato da un atteggiamento di sdegno e di scherno a distanza a uno di vera e propria ostilità. Era quasi riuscito a ucciderlo. Pensò a Mintouchian, e all’avvertimento del dottor Orphelin, che gli aveva detto che aveva con sé un traditore. Tutto era cambiato, cambiato in maniera orribile. — Mintouchian sembrava sorpreso quando sei saltata? — domandò alla valigetta.
— Sembrava che avesse appena ingoiato un rospo. Avresti dovuto esserci. Ti saresti fatto una bella risata.
— Immagino.
Ma lo dubitava fortemente. Il burocrate non era nello spirito adatto per ridere. Non aveva proprio nessuna voglia di ridere.