Tarb torna a casa

1

Con mia sorpresa, i due marine cacciati dall’ambasciata erano sulla stessa nave. Era una fortuna: senza il loro aiuto, non credo che ce l’avrei fatta a scendere. Mitzi, tutta bendata e ingessata, stava bene. Io no. Mi sentivo male, voglio dire, male davvero. I mezzi di trasporto mi hanno sempre dato qualche fastidio, ma non mi era mai venuto in mente che potesse essere altrettanto brutto sulla Luna.

Venere è un inferno, ma almeno uno su Venere pesa quello che si aspetta di pesare. La Luna è un’altra cosa. Dicono che dopo le prime sei settimane, uno smette di buttarsi il caffè in faccia, quando vuole solo portarlo alle labbra, ma io non ho mai potuto verificarlo… non mi piace quel posto. Se fossimo arrivati con un volo regolare terrestre, saremmo stati trasferiti subito sul pianeta. Ma era una nave venusiana, e doveva fermarsi in quarantena.

E questa è proprio una farsa. Non voglio dire niente contro le Agenzie. Mandano avanti benissimo la Terra. Ma la quarantena dovrebbe servire a tenere lontano le malattie venusiane, giusto? Questo comprende la malattia peggiore di tutte: la peste politica del Conservazionismo. Perciò uno si aspetterebbe che sulla Luna la dogana e l’Ufficio Immigrazione diano una bella torchiata ai Venusiani. Invece l’Immigrazione li fece passare dopo aver dato solo un’occhiata superficiale ai passaporti. Non vogo dire solo l’equipaggio, che tanto sarebbe andato solo alla bettola più vicina. Anche il gruppetto di uomini d’affari e diplomatici venusiani che dovevano trasferirsi sulla Terra venne lasciato passare in un batter d’occhio.

Ma noi Terrestri… Fecero sedere me e Mitzi, controllando magneticamente i nostri documenti, ci frugarono nei bagagli, poi cominciarono con le domande: quanti e quali Venusiani avevamo incontrato negli ultimi diciotto mesi nell’esercizio delle nostre funzioni; a che scopo, e che tipo di informazioni avevamo fornito loro; quanti e quali Venusiani avevamo incontrato al di fuori dell’esercizio delle nostre funzioni; scopo e informazioni fornite. Restammo tre ore in quella stanzetta sigillata, a riempire moduli e a rispondere alle domande, poi il funzionario divenne di colpo serio. — È stato accertato — disse (grammaticalmente, l’espressione era passiva, ma la sua espressione era carica di disgusto), — che certi cittadini terrestri, per assicurarsi una facile ammissione su Venere, hanno compiuto atti rituali di dissacrazione.

Be’, questo era vero. È un altro degli sporchi trucchi venusiani, come i Giapponesi che secoli fa obbligavano gli europei a camminare sulle Bibbie. Quando uno arriva al controllo venusiano ha una scelta. Può sottomettersi a quattro o cinque ore di interrogatorio serrato, vedersi aprire tutti i bagagli, probabilmente subire un’ispezione corporale. Oppure può tare giuramento di ripudiare «la pubblicità, la propaganda, la persuasione via-media, e qualunque altra forma di manipolazione dell’opinione pubblica»; calunniare un po’ la sua Agenzia; e alla fine, se è un buon attore, può passare senza perder tempo. Era tutta una farsa, naturalmente. Ridacchiai e feci per spiegarglielo, ma Mitzi mi precedette. — E proprio vero — disse annuendo con vigore, e con aria di grande disapprovazione, — l’abbiamo sentito dire anche noi. — Mi lanciò un’occhiata di avvertimento. — Sai se sia vero?

Quello dell’Immigrazione mise giù la penna, scrutandola in faccia. — Volete dire che non sapete se succede o no?

Con aria innocente lei disse: — Si sentono tante storie, è vero. Ma quando uno cerca di andare in fondo alla faccenda, non si riesce mai a trovare una prova concreta. Dicono tutti: no, a me non è successo, ma so di uno che aveva un amico, che… Comunque, non riesco a credere che un Terrestre onesto possa fare una cosa del genere. Io di sicuro non lo farei, e neanche Tennison. A parte l’immoralità della cosa, sappiamo benissimo che dovremmo affrontare le conseguenze, tornando a casa.

Così, a malincuore, l’uomo ci fece passare, e non appena fummo usciti sussurrai a Mitzi: — Mi hai salvato… Grazie!

— Hanno cominciato con questa politica un paio di anni fa — disse lei. — Se avessimo ammesso di aver fatto un falso giuramento, la cosa sarebbe finita sulla nostra scheda. Allora sì che sarebbero stati guai.

— È buffo che tu lo sapessi, e io no.

— Mi fa piacere che tu ci veda il lato comico — disse lei sarcasticamente, e mi accorsi che, per qualche ragione, era irritata. Poi disse: — Scusami, sono di cattivo umore. Proverò a farmi togliere qualcuna di queste bende… poi sarà ora di prendere il traghetto.


Terra! La patria dell’homo sapiens. La dimora della vera umanità. La culla della civiltà. Quando entrammo nella camera di decompressione della navetta, e vidi i suoi graffiti, seppi che ero a casa. Everett ama Alice. Tiny Miljiewicz ha le croste nelle orecchie. Siete tutti cornuti! Non c’è niente su Venere che possa paragonarsi alla nostra arte popolare!

Così scendemmo dal cielo, a sobbalzi e scossoni; mi preoccupavo per le ferite di Mitzi, ma lei si limitò a farfugliare qualcosa e si voltò dall’altra parte, addormentandosi. Volammo sull’immenso oceano, grigio-verde per la melma… poi sul grande continente nordamericano, che ci accolse con il tappeto delle sue città, che splendevano di mille luci attraverso lo smog… poi il sole che ci eravamo lasciati alle spalle riapparve mentre scivolavamo sull’Atlantico, facevamo una conversione ad U per diminuire ulteriormente velocità e altezza, e toccavamo terra sulle lunghe piste dello spazioporto di New York. La vecchia New York! Il perno attorno a cui gira l’universo! Sentii il mio cuore battere di orgoglio e di gioia perché ero tornato a casa… Mitzi, sul sedile vicino al mio, aveva dormito per tutto il tempo!

Si mise a sedere mentre aspettavamo che il trattore ci agganciasse e ci portasse al terminal. Lei fece una smorfia. — Non è bello essere di nuovo a casa? — le chiesi sorridendo.

Lei si appoggiò a me, guardando fuori dal finestrino. — Certo — disse, ma non sembrava molto entusiasta. — Vorrei…

Ma non scoprii mai cosa voleva, perché cominciò a tossire furiosamente. — Mio Dio! — ansimò. — Cos’era questa roba?

— Stai respirando la vecchia buona aria di New York City! — le dissi. — Sei stata lontana troppo tempo. Ti sei dimenticata com’è.

— Potrebbero almeno filtrarla — si lamentò. Be’, si capisce che era filtrata. Ma non le dissi niente. Ero troppo occupato a prendere i bagagli dalla reticella e a mettermi in fila per sbarcare.

Erano le sette del mattino, tempo locale. Non c’era ancora molta gente nel terminal. Questo era il vantaggio. Lo svantaggio era che mancavano anche gli addetti allo scarico dei bagagli. Mitzi mi seguì di cattivo umore alla consegna, e qui mi aspettava una sorpresa. La sorpresa si chiamava Valentine Dambois, Vice-Presidente Anziano e Direttore Generale Associato, guance rosa, occhi azzurri ammiccanti, pieghe di grasso che ballonzolavano mentre ci correva incontro.

Mi dissi che non dovevo poi sorprendermi… avevo fatto un buon lavoro su Venere, e non avevo mai dubitato che l’Agenzia mi avrebbe trattato con tutti i riguardi, una volta tornato. Ma non fino a questo punto! Non si manda un dirigente di alto rango ad accogliervi a quell’ora del mattino, a meno che uno non sia davvero qualcosa di speciale. Così, felice e pieno di grandi speranze, tesi la mano. — È un piacere vederti, Val — cominciai…

Lui mi passò a fianco. Dritto verso Mitzi.

Val Dambois era un tipo piccolo e grassottello, e la cosa più grassa che aveva era la faccia; quando sorrideva sembrava una zucca matura sul punto di spaccarsi in due. — Mitzi-pissy! — gridò, anche se era solo a mezzo metro da lei, e le stava andando ancora più vicino. — Mi sei mancata tanto, dolcezza! — Le gettò le braccia attorno e si alzò sulla punta dei piedi per darle un gran bacio.

Lei non rispose al bacio. Tirò indietro la testa, così che le labbra di Val le arrivarono solo al mento. — Ciao — disse — … Val.

Lui rimase di sasso. Per un momento pensai che Mitzi avesse gettato al vento qualsiasi speranza di promozione potesse avere, ma Dambois fece un grosso lavoro di ricostruzione col suo sorriso. Quando se lo rimise in faccia era come nuovo, e le diede una pacca affettuosa, ma rapida, sul sedere. Fece un passo indietro, ridacchiando. — Hai proprio fatto un bel colpo — disse con calore. — Ti faccio tanto di cappello, Mitzi!

Non sapevo di cosa stesse parlando. Per un momento pensai che neppure Mitzi lo sapesse, perché le passò come un’ombra sugli occhi, e la mascella le si irrigidì, ma Dambois mi stava già guardando. — Hai perso il treno, a quanto pare — disse allegramente… ma con una certa commiserazione, e con appena un’ombra di disprezzo.

Non che fossi troppo sorpreso per come Dambois aveva accolto Mitzi. C’erano state un po’ di chiacchiere su Mitzi e qualche grosso dirigente dell’Agenzia, compreso Val Dambois. Non aveva grande importanza per me. Diavolo, è dura farsi strada nel mondo della pubblicità. Se una può aiutarsi facendo felici le persone giuste, che male c’è? Ma Mitzi non mi aveva detto che avesse fatto un bel colpo. — Di cosa stai parlando, Val? — chiesi.

— Non te l’ha detto? — Strinse le labbra grassocce, sorridendo. — La causa per risarcimento danni contro la compagnia dei tram. Si sono accordati fuori dall’aula: sei megadollari più gli spiccioli. L’aspettano nella banca dell’Agenzia!

Dovetti provarci due volte prima di riuscire a parlare. — Sei… Sei mil…

— Sei milioni di dollari, esentasse e pronto cassa! — L’uomo gongolava. Era felice come se i soldi fossero suoi… Forse aveva qualche idea per farseli suoi. Mi schiarii la gola.

— Circa questa causa… — cominciai, ma Mitzi mi interruppe, indicando col dito.

— Ecco, quella è la mia — disse mentre le valigie si avvicinavano sul nastro trasportatore. Val si precipitò sulla valigia e la depositò sbuffando vicino a lei.

— Voglio dire… — cominciai. Nessuno mi stava ascoltando.

Dambois disse con aria allegra, passando un braccio grassoccio attorno alla vita di Mitzi… fin dove riuscì a farlo arrivare: — Questa è la prima. Ne mancheranno al massimo una ventina, no?

— No, è l’unica. Mi piace viaggiare con poco bagaglio — disse lei, staccandosi dal suo braccio.

Dambois la guardò con aria di rimprovero. — Sei cambiata molto — si lamentò. — Mi pare che tu sia diventata perfino più alta.

— È perché su Venere c’è meno gravità. — Era una battuta, naturalmente. La massa di Venere solo lievemente più piccola di quella terrestre. Ma non risi, perché mi stavo chiedendo come mai Mitzi si fosse presa un sacco di soldi e io neanche un centesimo… poi mi passò di mente, perché vidi quello che arrivava sul nastro trasportatore.

Merda! — esclamai. Era la valigia su cui avevo scritto «Maneggiare con cura», il bauletto con gli angoli rinforzati e la serratura doppia. Non erano stati sufficienti a salvarlo. Sembrava che ci fosse passato sopra uno dei trattori dello spazioporto. Uno dei fianchi sembrava un soufflé afflosciato, da cui fuoriusciva un miscuglio aromatico di liquore, acqua di colonia, dentifricio e Dio sa cos’altro.

— Che pasticcio — disse Dambois. Fece schioccare la lingua con aria di impazienza un paio di volte, e si guardò l’orologio. — Volevo offrirti un passaggio — disse, — ma quella roba, nella mia macchina… mi puzzerebbe per una settimana… e poi immagino che tu abbia altre valigie…

Ero stato incastrato. — Andate pure — dissi rassegnato. — Prenderò un taxi. — Li guardai allontanarsi, chiedendomi perché diavolo non fossi entrato anch’io nella causa contro la compagnia dei tram, ma più che altro chiedendomi se dovevo andare di corsa all’ufficio bagagli per chiedere il risarcimento dei danni, oppure aspettare le altre valige.

Decisi di aspettare. Dopo che da un bel po’ l’ultima valigia era stata prelevata, e il nastro trasportatore si era fermato, mi resi conto che avevo un problema.

Quando spiegai il mio problema, il supervisore incaricato di negare qualsiasi responsabilità in qualsiasi caso, mi disse che avrebbe cercato i colli mancanti, mentre io compilavo il modulo per il risarcimento dei danni, se pensavo che ne valesse la pena… anche se a lui sembrava che il danno al bauletto fosse piuttosto vecchio.

Ebbe un sacco di tempo per cercare, perché c’era un sacco da scrivere sul modulo. Quando ebbi finito, mi fece aspettare ancora mezz’ora. Chiamai l’Agenzia dicendo che sarei arrivato m ritardo. La cosa non sembrò preoccuparli. Mi diedero l’indirizzo della casa che avevano prenotato per me, mi dissero di sistemarmi, perché tanto ero atteso solo per la mattina dopo. È bello sapere che qualcuno sente la tua mancanza. Poi arrivò il sovrintendente, con la notizia che il resto del mio bagaglio era partito o per Parigi o per Rio de Janeiro, e che ci sarebbe voluto un bel po’ prima di rivederlo.

E così, senza valigie, mi unii alla triste fila che attendeva il convoglio della metropolitana.

Mezz’ora dopo, quand’ero finalmente arrivato in fondo alla coda, mi ricordai che non avevo cambiato i soldi, e che non avevo abbastanza per pagare la corsa. Trovai una cassa automatica, composi il mio numero di codice, e una voce melliflua e senza corpo mi disse: — Sono profondamente spiacente, signore o signora, ma questa Cassa Continua Automatica Aperta Giorno e Notte è temporaneamente fuori servizio. Consultate la piantina, onde poter individuare la cassa più vicina. — Ma quando mi guardai attorno, non vidi alcuna piantina. Bentornato a casa, Tenn!

2

New York, New York. Che meravigliosa città! Tutti i miei piccoli fastidi vennero dimenticati, perfino quello che Mitzi mi avesse tagliato fuori dalla richiesta di risarcimento. Dieci anni non parevano aver cambiato gli alti edifici che sparivano nell’aria grigia. Grigia e fredda. Era tornato l’inverno; negli angoli c’erano mucchi di neve sporca, e ogni tanto un consumatore ne raccoglieva furtivamente un po’, per portarsela a casa ed evitare la tassa sull’acqua. Dopo Venere, sembrava il paradiso! Guardavo la Grande Mela a bocca aperta, come un turista di Wichita. E camminavo anche come un turista, andando a sbattere contro i pedoni frettolosi, e anche contro cose peggiori dei pedoni. La mia capacità di destreggiarmi nel traffico era sparita. Dopo tutti gli anni passati su Venere, non ero più abituato alla civiltà. Qui un pedibus a dodici pedali, lì tre taxi in competizione per un varco nel traffico; pedoni che saltavano da una parte e dall’altra per evitare i veicoli. Le strade erano intasate, i marciapiedi stracolmi, ogni edificio emetteva e ingoiava un centinaio di persone al secondo, mentre gli passavo accanto. Ah, era meraviglioso! Per me, almeno. Per la gente contro cui andavo a sbattere, inciampavo, o che costringevo a deviare, forse non tanto. Non mi importava! Mi gridavano dietro, e non ho alcun dubbio che fossero insulti, ma io galleggiavo in una fuligginosa, soffocante, fredda estasi. Slogan pubblicitari a cristalli luminosi scorrevano sui muri, i più recenti luminosi come il sole, i più vecchi sporchi e resi irriconoscibili dai graffiti. Sul marciapiede i chioschi fornivano campioni gratuiti di Fuma-Godi e Caffeissimo, e tagliandi di sconto per mille prodotti. Nell’aria nebbiosa apparivano immagini olografiche di cucine miracolose e di viaggi fantastici ed esotici della durata di tre giorni; da ogni parte si sentivano canzoncine pubblicitarie… Ero a casa. Ero felice. Certo però che era un po’ difficile farsi strada in mezzo alla folla, e quando vidi un tratto di marciapiede miracolosamente sgombro, mi ci buttai.

Chissà perché, il vecchietto che spinsi da parte per arrivare al marciapiede mi lanciò una strana occhiata. — Attento, capo! — mi gridò, indicando un segnale, ma naturalmente era coperto di graffiti. Non ero dell’umore adatto a badare a qualche divieto comunale. Andai oltre…

E WOWP una mazzata sonora mi piombò sul cranio, e FLOOP una vampata accecante di luce mi bruciò gli occhi, e caddi a terra mentre mille vocette piccole piccole urlavano come aghi nelle mie orecchie Mokie-Koke, Mokie-Koke, Mokie-Mokie-Mokie-Koke!

E continuò così, con qualche variazione, per un centinaio di anni o più. Odori fetidi mi assalivano il naso. Brividi subsonici mi scuotevano il corpo. E un paio di secoli dopo, mentre le orecchie mi ronzavano e gli occhi mi bruciavano per quella terribile esplosione di suono e di luce, mi rimisi in piedi.

— Te l’avevo detto — mi gridò il vecchietto da una distanza di sicurezza.

Non erano passati secoli. Il vecchietto era ancora lì, sempre con quell’espressione strana, per metà avida, per metà di compassione. — Te l’avevo detto. Non mi sei stato a sentire, ma io te l’avevo detto!

Indicava ancora il cartello, così mi avvicinai barcollando e riuscii a decifrare la scritta, sotto i graffiti:


ATTENZIONE!
ZONA PUBBLICITARIA
ENTRATE A VOSTRO RISCHIO

Evidentemente c’era stato qualche cambiamento, mentre ero via. L’uomo allungò cautamente una mano oltre il segnale e mi tirò per un braccio. Non era poi così vecchio, vidi. Più che altro era consumato. — Cos’è la Mokie-Koke? — chiesi.

Lui disse prontamente: — La Mokie-Koke è una miscela dissetante e vistosa delle migliori essenze di cioccolato, estratto di caffè sintetico e analoghi della cocaina. La vuoi assaggiare? — Volevo. — Hai dei soldi? — Ne avevo, il resto di quelli che mi ero procurato alla fine dalla cassa automatica. — Me ne offri una, se ti faccio vedere dove la vendono? — mi propose.

Be’, che bisogno avevo di lui per trovarla? Ma non potevo fare a meno di sentir compassione per quel povero disgraziato, così lasciai che mi accompagnasse dietro l’angolo. C’era un distributore automatico, uguale a tutti quelli che avevo già visto sulla Luna, allo spazioporto, per le strade della città. — Non conviene la lattina singola — mi avvertì impaziente. — Prendine una confezione da sei. — Quando gli diedi la prima lattina, tirò la linguetta e la trangugiò tutta sul posto. — Poi tirò un gran sospiro. — Mi chiamo Ernie, capo — disse. — Benvenuto nel club.

Stavo bevendo la mia Mokie-Koke con curiosità. Il sapore era discreto, ma niente di speciale, e non riuscivo a capire il perché di tutta quell’agitazione. — Quale club? — chiesi, aprendo un’altra lattina, per semplice curiosità.

— Sei stato campbellizzato. Avresti dovuto darmi retta — disse con aria severa, — ma visto che non l’hai fatto, ti dispiace se ti accompagno?

Poveretto! Mi faceva tanta pena che divisi a metà la confezione da sei mentre camminavamo verso l’indirizzo che mi aveva dato l’Agenzia. Tre lattine a testa. Mi ringraziò con le lacrime agli occhi, ma della seconda confezione gliene diedi solo una.


L’Agenzia mi aveva trattato bene. Quando arrivammo alla mia nuova casa, mi liberai di Ernie e corsi al mio appartamento. Era un condominio galleggiante, appena arrivato dal Golfo Persico (era un’ex petroliera), quasi nove metri quadrati di superficie, con cucina incorporata, tutti per me, ed era vicinissimo agli uffici dell’Agenzia, essendo ancorato sulla Baia di Kip, nella terza fila di navi.

Il lato negativo, naturalmente, era il costo. Tutti i risparmi che avevo accumulato su Venere se ne andarono con l’anticipo, e dovetti ipotecare tre anni di stipendio. Ma non c’era da preoccuparsi. Avevo servito bene la mia Agenzia, su Venere, e non c’era alcun dubbio nella mia mente che mi aspettava un aumento di stipendio… non solo un aumento, ma una promozione… non solo una promozione, ma forse un ufficio d’angolo! Tutto sommato, ero soddisfatto del mondo (a parte un paio di dubbi che non avevo ancora risolto, come quella faccenda della causa per danni), mentre mi bevevo una Mokie-Koke e contemplavo la mia nuova dimora.

E adesso al lavoro! Avevo un sacco di cose da fare. Fino a quando non avessero localizzato il mio bagaglio, ammesso che mai ci riuscissero, avevo bisogno di vestiti, cibo, e tutte le altre cose necessarie alla vita. Così passai il resto della giornata a fare acquisti e a trasportare pacchi nel mio nuovo appartamento sul mare, e per l’ora di cena mi ero praticamente sistemato. Ritratto di G. Washington Hill sul letto pieghevole. Ritratto di Fowler Schocken sulla scrivania a scomparsa. Vestiti in un posto, articoli da toilette nel mio armadietto personale, chiuso a chiave, nel bagno… mi ci volle tutto il giorno, e alla fine ero in un mare di sudore, anche perché il riscaldamento andava al massimo, e non avevo scoperto nessun sistema per spegnerlo. Mi presi una Mokie e mi sedetti per ripensare alla giornata, godendomi tutto quel lusso e quello spazio. Sul video c’era una banda riservata al condominio, e mi guardai le molte attrazioni riservate ai fortunati inquilini. C’era anche una piscina esclusiva, con posti a sedere per sei persone contemporaneamente, e un campo da golf. Mi annotai di iscrivermi, non appena mi fossi procurato le mazze. Il futuro si preannunciava radioso. Telefonar alla piscina… litri e litri di pura acqua scintillante, profonda fin quasi alle ascelle… e nella mia mente cominciarono a prender forma pensieri sentimentali: io e Mitzi seduti vicino nella piscina… io e Mitzi insieme nel grande letto pieghevole… io e Mitzi… Ma anche se Mitzi avesse deciso di dividere la sua vita con me, con sei megadollari in tasca, probabilmente avrebbe preferito dividerla in qualche posto ancora più elegante del mio condominio marino…

Bene, rivediamo il sogno. Lasciamo da parte Mitzi, per il momento: il futuro si presentava sempre luminoso. Anche se le rate per il condominio erano piuttosto pesanti, mi dovevano rimanere sempre un po’ di soldi da spendere. Una nuova macchina? Perché no? E di che tipo? Un modello a trazione diretta, dove si sta inginocchiati sul sedile con una gamba, e con l’altra si spinge, oppure una vettura sportiva superaccessoriata?

Faceva un gran caldo. Cercai ancora una volta di spegnere il riscaldamento, e ancora una volta non ci riuscii.

Mi misi a bere Mokie una dopo l’altra. E per un momento pensai seriamente di tirar fuori il etto e di mettermi a dormire.

Stanco o no, non potevo passare la mia prima sera a casa in quella maniera. Bisognava festeggiare.

Però ci voleva anche qualcuno con cui festeggiare. Mitzi? Ma quando chiamai l’ufficio personale dell’Agenzia, mi dissero che non avevano ancora il suo numero di casa, e che lei aveva già lasciato l’ufficio. E tutte le altre conoscenze femminili erano o vecchie di anni, o lontane milioni di chilometri. Non sapevo più neanche quali fossero i posti alla moda dove andare a festeggiare!

A questo comunque c’era rimedio. L’appartamento aveva in dotazione una fantastica Omni-V, a duecentoquaranta canali. Consultai l’indice… pubblicità di articoli casalinghi, pubblicità di fioristi; pubblicità di vestiti (per uomini), pubblicità di vestiti (per donne, notizie, pubblicità dei ristoranti… quello era il canale che cercavo. Scelsi un posto carino, a soli due isolati dal condominio: non potevo desiderare di meglio. Avendo prenotato, dovetti aspettare al bar solo un’ora, bevendo gin-and-Mokie, e chiacchierando con i miei vicini; la cena comprendeva cotolette di soia e passato di verdure ricostituite della miglior marca; il caffè mi venne servito col brandy, e c’erano due camerieri che mi svolazzavano intorno aprendomi le confezioni e le bottigliette. Una cosa sola mi lasciò perplesso. Quando arrivò il conto vi diedi un’occhiata di sfuggita, poi guardai meglio e chiamai il cameriere. — Cos’è questo? — chiesi indicando la colonna delle ordinazioni.


Mokie-Koke, § 2,75

Mokie-Koke, § 2,75

Mokie-Koke, § 2,75

Mokie-Koke, § 2,75


— Sono Mokie-Koke, signore — mi spiegò. — una miscela rinfrescante e saporita delle migliori essenze…

— Lo so cos’è una Mokie-Koke — lo interruppi. — Solo che non mi ricordo di averne ordinate.

— Spiacente signore — rispose quello tutto deferente. — In effetti le avete ordinate. Posso farvi risentire la registrazione nastro, se desiderate.

— Non importa — dissi. — Non le voglio più. Me ne vado.

Lui mi guardò esterrefatto. — Ma signore… le avete già bevute!


Nove del mattino. Splendida giornata. Pagai il taxi a pedali, mi tirai fuori dalle narici i filtri anti-smog, e feci il mio ingresso nell’atrio principale della grande torre dove aveva sede la Taunton, Gatchweiler and Schocken Agency.

Invecchiando si diventa cinici, ma dopo tutti quegli anni di assenza provai un brivido quasi mistico, entrando. Immaginate di metter piede, duemila anni fa, alla corte di Cesare Augusto, sapendo che lì era il centro che controllava e ispirava gli affari del mondo. Lo stesso era per l’Agenzia. È vero, c’erano altre Agenzie… ma era anche un mondo più grande! Qui era il Potere. L’intero immenso edificio era consacrato ad una missione sublime: il miglioramento dell’umanità attraverso l’ispirazione a comprare. Vi lavoravano più di diciottomila persone. Redattori di slogan e apprendisti giocolieri di parole; specialisti in media, capaci di far risuonare un comunicato dall’aria che respirate, o di imprimere un messaggio sulla vostra retina; ricercatori che ogni giorno inventavano nuove e più vendibili bevande, nuovi cibi, aggeggi, vizi, manie di ogni genere; artisti; musicisti; attori; registi; compratori di spazio e compratori di tempo… la lista continuava all’infinito. E al di sopra di tutti, al quarantesimo piano e oltre, c’era il Regno Esecutivo, dove i geni che dirigevano il tutto meditavano e concepivano i loro divini disegni. Oh, è vero. Ho scherzato a proposito della missione civilizzatrice di noi che dedichiamo la nostra vita alla pubblicità… ma sotto lo scherzo, c’è la medesima reverenza e impegno che avevo provato come lupetto nei Giovani Inventori di Slogan, alla ricerca dei miei primi distintivi al merito, e intuendo appena dove avrebbe potuto condurmi la mia vita…

Bene. E adesso, eccomi qui, nel cuore dell’universo. Però c’era una cosa strana. L’atrio me lo ricordavo immenso e coperto da una volta. La volta c’era… ma era proprio immenso? In effetti sembrava più piccolo, e più affollato della stazione dei tram alle Colline Russe; a tal punto i miei anni su Venere mi avevano pervertito il gusto. Anche la gente sembrava più mal vestita, e la guardia al metal detector mi lanciò un’occhiata sospettosa mentre mi avvicinavo.

Nessun problema. Appoggiai semplicemente il polso sulla piastra e la memoria elettronica riconobbe immediatamente il mio Codice Sociale anche se erano passati dieci anni da quando l’avevo usato l’ultima volta. — Oh — disse la guardia, leggendo il mio grado mentre si accendeva la spia verde, — siete il signor Tarb. Piacere di rivedervi! — Non era vero, naturalmente. A occhio e croce, doveva frequentare le superiori quando io ero entrato per l’ultima volta nell’edificio dell’Agenzia, ma quello che contava era il sentimento. Le diedi una pacca amichevole sul sedere, e marciai verso l’ascensore. E la prima persona che vidi, quando mollai la maniglia al quarantacinquesimo piano, fu Mitzi Ku.

Avevo avuto ventiquattr’ore per farmi passare la rabbia per la faccenda della causa. Non erano state abbastanza, in effetti, ma almeno la punta del rancore si era smussata un po’, e lei aveva proprio un ottimo aspetto. Non perfetto. Anche se non aveva più le bende, c’era attorno alla bocca e agli occhi qualcosa che indicava come alle ferite ancora non rimarginate fosse stata sovrapposta della plasticarne. Ma mi sorrise con una certa esitazione, salutandomi. — Mitzi — dissi, senza riuscire a trattenere le parole (non mi ero neppure accorto di averle pensate) — non avrei dovuto fare anch’io causa alla compagnia dei tram?

Lei sembrò imbarazzata. Quello che avrebbe potuto dire non lo so, perché alle sue spalle apparve Val Dambois. — Troppo tardi, Tarb — disse. Non mi fecero tanto male le parole, quanto il tono di disprezzo e il sorriso. — Mai sentito parlare dei termini di prescrizione? Te l’ho detto, hai perso il treno. Vieni Mitzi, non facciamo aspettare il Vecchio.

Quella mattina non faceva che riservarmi sorprese. Anch’io dovevo vedere il Vecchio. Mitzi lasciò che Dambois la prendesse per un braccio, ma si voltò a guardarmi. — Tutto bene, Tenny? — mi chiese.

— Benissimo. — Be’, era più o meno vero. A parte l’orgoglio ferito. — Ho sete, fa un gran caldo qui. Non sapete dove ci sia un distributore automatico di Mokie-Koke su questo piano?

Dambois mi lanciò un’occhiata velenosa. — Certi scherzi — sibilò, — sono di cattivo gusto.

Lo guardai allontanarsi, trascinandosi dietro Mitzi nel sancta sanctorum del Vecchio. Mi sedetti ad aspettare, cercando di avere l’aria di chi è capitato lì per riposarsi un momento.

Il momento si trascinò per più di un’ora.

Naturalmente nessuno ci fece caso. Nel suo angolo, la Terza Segretaria del Vecchio armeggiava col telefono e con lo schermo dati, alzando di tanto in tanto gli occhi e sorridendomi, com’era pagata per fare. La gente che aspettava solo un’ora prima di vedere il Vecchio di solito ringraziava il cielo per la fortuna che gli era toccata. La maggior parte non lo vede mai. Il Vecchio Gatchweiler era una leggenda vivente: un povero ragazzo, nato da una famiglia di consumatori, che venuto dal nulla era riuscito a mettere a segno un colpo tale che se ne mormorava ancora nei bar del Regno Esecutivo. Due delle più grandi Agenzie di una volta erano precipitate nello scandalo: il vecchio B. J. Taunton condannato per rottura di contratto, Fowler Schocken morto e la sua Agenzia in rovina. Le due Agenzie sopravvivevano come gusci vuoti, cancellate ormai dalla scena. Poi dal nulla era apparso Horatio Gatchweiler, aveva raccolto i cocci e li aveva trasformati nella T.G.&S. Nessuno poteva cancellare Taunton, Gatchweiler e Schocken! Eravamo i primi nelle Vendite e nei Servizi. I nostri clienti detenevano i record delle vendite nei rispettivi campi, e quanto ai Servizi… be’, mai nessuno stallone da un milione di dollari aveva servito le sue puledre in maniera così completa quanto noi i consumatori. Un nome da pronunciare con reverenza quello di Gatchweiler! E questo era vero in senso quasi letterale, poiché era come il nome di Dio, Nessuno lo pronunciava mai. Quando non c’era, era chiamato «il Vecchio», di fronte a lui solo «Signore».

Perciò, starmene seduto nel piccolo ufficio della Terza Segretaria, mentre fingevo di osservare le ultimissime di Era Pubblicitaria sullo schermo da tavolo, non era un’esperienza nuova per me. Era perfino un onore. O almeno, lo sarebbe stato, se fossi riuscito a liberarmi dell’irritazione per il fatto che Mitzi e Dambois mi avevano preceduto.

Quando finalmente la Terza Segretaria del Vecchio mi portò dalla Seconda Segretaria, che mi passò alla Prima Segretaria, che mi introdusse nel suo ufficio privato, il Vecchio mi diede perfino il benvenuto. Non si alzò, né fece niente di particolare, ma tuonò con aria gioviale: — Entrate, Tarb. Piacere di rivedervi, ragazzo mio!

Mi ero quasi dimenticato di quanto fosse grandioso il suo ufficio: aveva ben due finestre! Naturalmente entrambe avevano le tende tirate; non si può rischiare che qualcuno punti un raggio-spia sui vetri, per captare le vibrazioni delle conversazioni segrete. — Mi chiamo Tarb, signore — lo corressi.

— Ma certo! E siete appena tornato da un giro su Venere… buon lavoro. Naturalmente — aggiunse, sbirciandomi maliziosamente, — non è stato tutto buono, vero? C’è una noticina sulla vostra scheda personale, e suppongo che non abbiate corrotto nessuno per mettercela.

— Posso spiegarvi tutto su quella festa all’ambasciata, signore… — Ma certo, si capisce! Non dovete preoccuparvi. Voi giovani che vi offrite volontari per Venere meritate tutta la nostra stima… nessuno può fare una vita del genere senza un po’ di stress. — Si appoggiò allo schienale, con lo sguardo perso nel vuoto. — Non so se lo sapete, Tarb — disse rivolto al soffitto, — ma anch’io sono stato su Venere, tanto tempo fa. Ma non ci sono rimasto. Ho vinto la loro lotteria.

Rimasi sorpreso. — Lotteria? Non immaginavo che i Venusiani avessero mai fatto una lotteria. Sembra del tutto in contrasto con il loro carattere.

— Non l’hanno più rifatta — disse scoppiando a ridere, — visto che un Terrestre aveva vinto la prima! Ci rinunciarono subito… oltre a dichiararmi persona non gradita. Così sono stato rispedito a casa. — Ridacchiò per qualche minuto, pensando all’inefficienza venusiana. — Naturalmente — disse tornando serio, — ho continuato a esercitarmi mentre stavo su Venere. — Da come mi guardò capii che era una domanda.

Avevo pronta la risposta giusta. — Anch’io, signore — dissi subito. — Ad ogni occasione! Sempre! Per esempio… be’, non so se siete mai entrato in quelli che i Venusiani chiamano negozi di alimentari…

— Ne ho visti a centinaia, ragazzo mio — tuonò lui.

— Bene, allora sapete quanto siano incompetenti. Ci mettono cartelli del tipo: «Questi pomodori sono buoni se li mangiate oggi, altrimenti a vanno male» e: «I piatti preparati costano il doppio di quello che spendereste comprando gli ingredienti da voi»… cose del genere.

Lui si mise a ridere di gusto, asciugandosi gli occhi. — Non sono cambiati neanche un po’ — disse.

— No, signore. Bene, io facevo un giro del negozio, poi tornavo all’ambasciata e scrivevo degli slogan veri. Per esempio, sui pomodori: «Gusto maturo e saporito: il massimo della perfezione» oppure: «Risparmiate! Risparmiate! Risparmiate tempo prezioso grazie a questi capolavori dell’arte culinaria, preparati per voi dai migliori cuochi!». Cose del genere. Poi mi guardavo tutti gli ultimi filmati commerciali dalla Terra; c’erano almeno due ore di riunione alla settimana, animatissime e facevamo gare per vedere chi riusciva a trovare le varianti migliori sui temi base…

Lui mi guardò con vero affetto. — Sapete, Tarb — disse, con una gentilezza quasi sentimentale, — guardandovi, mi ricordo di me quando avevo la vostra età. Un po’. Bene, mettiamoci a nostro agio, mentre decidiamo cosa vi piacerebbe fare per noi, adesso che siete tornato. Cosa volete bere?

— Oh, una Mokie-Koke, signore — dissi senza pensarci.

Il clima della stanza cambiò bruscamente verso il peggio. Il dito del Vecchio si immobilizzò sul pulsante che serviva a chiamare la Seconda Segretaria, incaricata del caffè e dei rinfreschi. — Cosa avete detto, Tarb? — sibilò.

Aprii la bocca, ma ormai era troppo tardi. Non mi lasciò parlare. — Una Mokie? Qui, nel mio ufficio? — La sua espressione attraversò tutta la scala, dalla benevolenza, allo stupore, all’ira. Paonazzo, picchiò su un altro pulsante. — Emergenza! — ruggì. — Subito un medico… c’è un mokomane nel mio ufficio!

Mi trascinarono fuori dall’ufficio del Vecchio come se fossi stato un lebbroso alla corte di Luigi XIV. E mi trattarono alla stessa maniera. Mentre aspettavo i risultati delle analisi, nella sala d’attesa della clinica comune, al terzo piano sotterraneo, i posti vicino a me erano vuoti benché la stanza fosse piena di gente.

Alla fine: — Signor Tennison Tarb — gracchiò una voce dall’altoparlante. Mi alzai e mi feci strada fra un sottobosco di gambe che si tiravano rapidamente da parte, fino alla saletta di consultazione. Era come percorrere il corridoio del Braccio della Morte nei vecchi film, eccetto che non sentivo i miei compagni di prigionia mormorare parole di incoraggiamento. Su tutte le facce c’era la stessa espressione: Grazie a Dio è lui, non io!

Mi aspettavo che dietro la porta scorrevole ci fosse il dottore che avrebbe pronunciato la mia condanna. Invece c’erano due persone: una dottoressa, riconoscibile dallo stetoscopio appeso al collo, e, di tutti gli individui immaginabili, il piccolo Dan Dixmeister, cupo e magro. — Ehi, Danny, ciao! — lo salutai, porgendogli la mano.

In ricordo dei vecchi tempi, suppongo, lui studiò la mano per un momento, prima di porgermi riluttante la sua da baciare… no, da stringere: un rapido tocco e via.

Danny Dixmeister era stato mio apprendista dieci anni prima. Io ero andato su Venere. Lui era rimasto. Evidentemente non aveva sprecato il suo tempo. Aveva le spalline di Capo del Dipartimento Vigilanza, e sulle maniche le strisce da cinquantamila all’anno, e mi guardava come se fossi io l’apprendista, e lui il dirigente. — Ti sei fregato, Tarb — grugnì cupamente. — La dottoressa Mosskristal ti esporrà il problema medico. — E il tono diceva cattive notizie.

E lo erano. — Il vostro — disse la dottoressa — è un caso di intossicazione campbelliana. — Il suo tono non era né gentile né brutale. Era il tono con cui un dottore annuncia il numero dei globuli bianchi in una cavia, e lo sguardo che mi rivolse era esattamente identico a quello che Mitzi rivolgeva a quelli che chiedevano di tornare sulla Terra, e che lei reclutava per la sua catena di spie. — Forse potreste essere riprogrammato — disse studiando i risultati sullo schermo che aveva davanti. — Direi che non ne vale la pena. Non c’è niente di interessante.

Inghiottii. Era difficile accettare che stessero parlando della mia vita. — Ditemi qual è il problema — la pregai. — Forse se capissi cosa non va, potrei cercare di risolverlo.

— Risolverlo. Risolverlo? Volete dire cancellare la programmazione da solo? Ah-ah-ah — rise, guardando Dixmeister e scuotendo la testa. — Che strane idee avete voi profani.

— Ma avete detto che c’è una cura…

— Riprogrammazione e disintossicazione — mi corresse. — Non credo che vorreste passarci attraverso. Forse fra dieci anni varrà la pena di provarci, anche se la mortalità è di circa il quaranta per cento. Ma nei primissimi stadi, subito dopo l’esposizione… eh-eh. — Si sistemò sulla sedia, unendo la punta delle dita, e io mi preparai alla lezioncina. — Il vostro è un caso di riflesso di Campbell. Prende il nome dal dottor H.J. Campbell. Un pioniere della psicologia, inventore della terapia limbale.

— Non ne ho mai sentito parlare — dissi.

— Si capisce — disse lei. — Il segreto è andato perso molti anni fa. — Si chinò in avanti, premette un pulsante sul citofono e disse: — Maggie, portami il Campbell. — Tornando a rivolgersi a me, continuò: — Ciò che noi chiamiamo piacere è sensazione che proviamo quando le zone limbali del nostro cervello sono attivate elettricamente. Campbell fu condotto alla sua scoperta, credo io, dall’osservazione che molti dei suoi studenti provavano un grande piacere per quella che era chiamata musica rock. La saturazione dei sensi stimolava la zona limbale. Da qui derivava il piacere, e così egli scoprì un mezzo facile e a buon mercato per condizionare i suoi soggetti in maniera desiderata. Ah, eccolo. — La Seconda Segretaria aveva portato una scatola di plastica trasparente che conteneva (immaginate!) un libro. Sbiadito, malconcio, nascosto nel suo involucro di plastica, era pur sempre l’esemplare meglio conservato che avessi mai visto di quella strana, antica forma d’arte. Istintivamente allungai una mano per toccarlo, e la dottoressa Mosskristal lo tirò via. — Non fate sciocchezze — disse duramente.

Ero riuscito a leggere il titolo: Le zone del piacere, di H.J. Campbell. — Se potessi prenderlo in prestito — la pregai, — ve lo riporterei fra una settimana…

— Un accidente. Ve lo leggerete qui, se mai, con la mia Terza Segretaria che vi sorveglia, e controlla che riempiate di azoto la scatola quando lo mettete via. Ma non creo che sia una buona idea. I profani non dovrebbero ficcare il naso nelle questioni mediche. Non ne hanno i mezzi. Diciamo questo: le vostre zone limbali sono state stimolate; sotto l’influsso di una grande ondata di piacere voi siete stato condizionato ad associare la Mokie-Koke con la gioia, e non c’è più niente da fare. — Guardò l’orologio e si alzò. — Ho un altro paziente da visitare annunciò. — Dixmeister, potete servirvi di questa stanza per la vostra conversazione con il paziente, se desiderate… Basta che ve ne andiate entro venti minuti. — E uscì in gran fretta, stringendo il libro.

E lasciandomi con Danny Dixmeister. — Peccato — disse lui scuotendo la testa e guardando lo schermo, che mostrava ancora i risultati delle mie analisi. — Una volta avevi davanti a te un futuro ragionevolmente buono, se non ti fossi lasciato accalappiare.

— Ma non è giusto, Danny! Io non sapevo…

Lui sembrò onestamente perplesso. — Giusto? Certo, la campbellizzazione è una cosa nuova… Forse non sei stato abbastanza attento. Ma le zone della pubblicità limbale sono chiaramente indicate.

— Chiaramente! — ghignai. — È un trucco sporco e disonesto, e tu lo sai! Certamente la nostra Agenzia non farebbe mai una cosa del genere per promuovere le vendite!

Dixmeister strinse le labbra. — Il problema — disse, — non si è mai posto, dal momento che i brevetti li hanno i nostri competitori. Adesso parliamo di te. Ti renderai conto, Tarb, che qualsiasi genere di posizione di alto livello è ormai da escludere nel tuo caso.

— Un momento, Danny! A me non pare proprio. Ho passato anni e anni schifosi su Venere, per la mia Agenzia!

— È una semplice questione di sicurezza — mi spiegò lui. — Sei un mokomane. Saresti disposto a fare qualsiasi cosa per una Mokie-Koke, anche a tradire tua nonna… e perfino l’Agenzia. Perciò non possiamo correre il rischio di darti un incarico di alta segretezza… per non dire — aggiunse malignamente, — che hai mostrato una certa mancanza di fibra morale, a lasciarti accalappiare.

— Ma ho la mia anzianità di servizio! Anni e anni…

Lui scosse la testa con aria impaziente. — Oh, troveremo qualcosa per te, naturalmente. Ma non un lavoro creativo. Come te la cavi con la macchina da scrivere, Tarb? Male? Peccato… Be’, comunque questo è un problema che riguarda T’Ufficio del Personale.

Lo fissai negli occhi per un momento. — Danny — dissi, — devo averti torchiato peggio di quanto pensassi, quando eri il mio tirapiedi.

Lui non mi rispose. Mi diede solo una lunga occhiata strana. Uscii da quella stanza, presi l’ascensore fino al quinto piano, Ufficio personale — Sezione Assunzioni, e fu solo allora, aspettando il mio turno fra giovani inesperti appena usciti dall’università e individui di mezza età in cerca di un lavoro part-time, che riuscii a decifrare quell’occhiata. Non era antipatia e neppure trionfo. Era pietà.

La dottoressa Mosskristal non mi aveva parlato di uno degli effetti collaterali della campbellizzazione. Depressione. Non mi aveva preavvertito, e quando mi capitò, non la riconobbe per quello che era. Suppongo che l’essenza della depressione stia qui. Quando uno ce l’ha, gli sembra che sia il mondo ad essere così. Non lo considera un problema, solo un modo d’essere.

Io avevo un sacco di ragioni per essere depresso. Mi avevano trovato un lavoro, è vero. Portare bozzetti, recapitare fiori alle stelle dei nostri filmati, correre in strada a chiamare un taxi per qualche pezzo grosso, ordinare soyaburger e Caffeissimo per le segretarie… oh, avevo un milione di cose da fare! Lavoravo di più come Fattorino Addetto ai Servizi Generali di quanto non avessi mai fatto come redattore, ma naturalmente per un lavoro del genere non ti pagano un sacco di soldi. Avevo dovuto rinunciare al condominio marino. Non me ne importava molto. A cosa poteva servirmi un posto così lussuoso, se non per riceverci gente, e chi potevo riceverci adesso? Mitzi si era innalzata a sfere più elevate. Tutte le mie amichette di una volta si erano trasferite, o sposate, o erano state promosse, e quelle nuove non sembravano intenzionate a immischiarsi con uno messo in ibernazione.

A proposito di ibernazione, una delle cose che mi ero quasi dimenticato, a proposito di New York, era il freddo. Voglio dire Freddo con la F maiuscola. Freddo al punto che il fiato dei taxisti formava nuvolette attorno alle loro teste, mentre scivolava e ricadeva sulle strade gelate. Freddo al punto che quasi avrei voluto mettermi al loro posto, per scaldarmi a tirare il veicolo, invece di starmene fermo sul sedile duro a battere i denti. Be’, ho detto «quasi». Anche fare il fattorino è meglio che tirare un taxi.

Specialmente adesso che faceva freddo. Quei quattro anni su Venere mi avevano rammollito. Anche se avessi potuto uscire più spesso, non ne avevo nessuna voglia. Così passavo le mie giornate nella saletta dei fattorini, e le mie serate a casa, guardando la pubblicità sull’Omni-V, parlando con i miei compagni di stanza, quando c’erano, standomene seduto. Di solito standomene seduto. E fu per me una sorpresa quando suonò il campanello, e qualcuno era venuto a trovarmi, e quel qualcuno era Mitzi.

Se era venuta per tirarmi su, aveva una strana idea di come farlo. Si guardò intorno storcendo il naso e la bocca come se sentisse puzza di fogna. Sembrava che i due solchi fra le sopracciglia li avesse in permanenza, adesso. — Tenn — disse duramente, — devi tirarti fuori da questo stato! Guardati! Guarda questa topaia! Guarda come hai ridotto la tua vita!

Mi guardai attorno, cercando di capire cosa volesse dire. Naturalmente, dopo aver lasciato l’appartamento sul mare, avevo dovuto arrangiarmi. Non era stato facile. Rompere il contratto mi era costato quasi tutti i risparmi, e questa stanza in comproprietà era il massimo che potessi permettermi, È vero, i miei compagni erano piuttosto disordinati. Uno era intossicato da cibo, l’altro si era imbarcato in una di quelle interminabili collezioni di Mini-Busti Presidenziali in Similargento della Zecca di San Jacinto. Ma Insomma! — Non è poi così brutto — protestai.

— Fa schifo. Non le butti mai via queste lattine di Moke? Senti, Tenn, lo so che è dura, ma so di gente che ogni anno riesce a curarsi, a disintossicarsi…

Mi misi a ridere. Mi faceva davvero pena, perché non riusciva proprio a capire cosa volesse dire rimanere accalappiati. — Mitzi — dissi, — sei venuta qui per questo? Per dirmi che mi sono rovinato la vita?

Lei mi guardò per un momento in silenzio. — Be’, immagino che la cura sia piuttosto pericolosa — disse, cercando con gli occhi un posto per sedersi. Sgombrai da una sedia gli Imperatori Ittiti di Nelson Rockwell e gli involucri di tortilla di Charlie Bergholm da un’altra. — Non lo so bene neanch’io perché sono venuta — disse lei, guardando bene la sedia prima di sedersi.

Amaramente dissi: — Se era per divertirti, scordatelo. — Indicai l’involucro-letto chiuso, dove Rockwell, il mio compagno di stanza dalle due alle dieci, stava prendendola sua razione di sonno. Lei… stavo per dire che arrossì, ma penso che «scurì» sia una parola più adatta. — Credo che orse mi sento un po’ responsabile — disse.

— Per non avermi detto della causa per danni? Per avermi lasciata andare in malora mentre facevi i milioni? Per qualcosina del genere?

Lei alzò le spalle. — Qualcosa del genere, forse. Tenny, ascolta. È vero che non puoi più far carriera nell’Agenzia, adesso che sei un mokomane, ma ci sono un sacco di altre cose che potresti fare. Perché non torni a scuola? Impara un nuovo mestiere, comincia una nuova professione: dottore, avvocato, per esempio.

La guardai esterrefatto. — E abbandonare la pubblicità?

Mio Dio, cosa c’è di così sacro nella pubblicità?

Be’, ci rimasi davvero di sasso. Tutto quello che riuscii a dire fu: — Di sicuro sei cambiata un sacco, Mitzi. — E lo dissi come un rimprovero.

Lei disse tristemente: — Forse ho fatto un errore venendo qui. — Poi il viso le si illuminò. — Ho trovato! Cosa ne dici degli Intangibili? Penso che potrei farti entrare… non subito, certo, ma appena si libera un posto…

— Gli Intangibili! — Le risi in faccia. — Mitzi, io mi occupo di prodotti. Io vendo merci. Gli Intangibili sono per i rassegnati e i falliti… e poi, come speri di poterci riuscire?

Lei esitò, poi disse: — Oh, credo di potere. Cioè… be’, tanto vale che te lo dica, anche se per il momento è segreto. Ho preso i soldi dei danni, e ho comprato diverse azioni dell’Agenzia.

— Cosa? Vuoi dire che sei un’azionista?

— Sì, azionista. — Lo disse quasi con un’aria di scusa… come se ce ne fosse ragione! Un azionista dell’Agenzia era la cosa più vicina alla Divinità che si potesse immaginare. Non mi era mai venuto in mente che qualcuno di mia conoscenza potesse mai possedere i capitali per fare una cosa del genere.

Ma scossi la testa. — Io vendo — dissi orgogliosamente.

— Hai forse qualche offerta migliore?

Naturalmente non ne avevo. Mi arresi. — Prenditi una Mokie-Koke — dissi, — e parliamone.

Quella sera andai a letto da solo, come sempre, ma con qualcosa che prima non avevo avuto: la speranza. Mentre scivolavo nel sonno, sognai sogni impossibili: tornare all’università per prendere quella laurea in Filosofia della Pubblicità che avrei voluto da ragazzo, specializzarmi in qualcos’altro, provare con gli Intangibili… smettere con la Mokie.

Sembravano tutte delle buone idee. Se ne poteva restare qualcosa, alla fredda luce dell’alba, non lo sapevo, ma ebbi un potente alleato. Mi svegliai sentendo bussare sul letto; con un grugnito lamentoso Nelson Rockwell, il mio compagno di stanza dalle due alle dieci, mi disse che aveva scambiato il turno con Bergholm, e che era la sua ora.

Per quanto fossi assonnato, vidi subito che era parecchio malconcio: aveva un’ecchimosi rossa sulla guancia destra, e zoppicava nel tirarsi indietro per farmi uscire dal letto. — Cosa ti è successo, Nelson? — chiesi.

Mi guardò come se l’avessi accusato di un delitto. — Un piccola divergenza — farfugliò.

— A me sembra una grossa divergenza. Ti hanno pestato perbene!

Alzò le spalle, e fece una smorfia, per i muscoli doloranti. — Sono rimasto un po’ indietro con i pagamenti, e la San Jacinto ha mandato un paio di esattori alla fabbrica dove lavoro. Senti, Tenny, non potresti prestarmi cinquanta dollari fino al giorno di paga? Perché la prossima volta, mi hanno detto che mi rompono le gambe.

— Non ce li ho cinquanta dollari — dissi… il che era quasi vero. — Perché non ne vendi qualcuno?

— Venderli? Vendere qualcuno dei miei busti? — gridò. — Tenn, questa è la cosa più cretina che abbia mai sentito! Questa collezione rappresenta un investimento! Devo solo tenermeli stretti fino a quando non avranno mercato… e allora, ragazzo mio, vedrai! Sono tutti a tiratura limitata. Fra vent’anni potrò farmi una casa in Florida, ma devo tenere duro fino ad allora… Solo — aggiunse tristemente, — se non mi metto in regola con i pagamenti, se li riprendono tutti. E mi rompono le gambe.

Uscii dall’appartamento e mi rifugiai nel bagno, perché non ce la facevo più a sentirlo. Collezionismo da investimento! Tiratura limitata! Buon Dio, era una delle prime campagne di cui mi fossi occupato: tiratura limitata, significava tutte le copie che riuscivano a vendere, cinquantamila come minimo; e collezionarle voleva dire che una volta cominciato, uno non poteva farne altro che collezionarle.

Mi lavai in fretta, e uscii a tutta velocità. Per le sette ero all’interno dell’Università della Columbia per la Propaganda e la Pubblicità, intento a consultare il catalogo e iscrivermi ai corsi. C’erano moltissimi insegnamenti opzionali che valevano per il dottorato; ne presi alcuni dei più interessanti: Storia, Matematica (si tratta delle tecniche di campionatura, soprattutto). Anche Composizione Creativa. Avevo pensato che era un corso facile, soprattutto, ma anche che se scrivere slogan per gli Intangibili non fosse stato possibile, avrebbe potuto servirmi. Se non avessi potuto scrivere cose importanti, almeno potevo tirar fuori qualche romanzo. Certo, non c’è da farci molti soldi. Ma c’è sempre un mercato, perché c’è sempre qualche disadattato nel mondo che non ce la fa a seguire lo sport o le storie all’Omni-V, e non trova niente di meglio da fare che leggere. Ci avevo provato anch’io, una volta o due, chiamando sullo schermo qualcuno dei vecchi classici. È una roba un po’ eccentrica, ma il mercato esiste, e non c’è niente di male a farci un po’ di soldi.

Un’altra cosa buffa della depressione è questa: quando uno c’è in mezzo, sembra tutto così difficile e ci sono tante cose di cui. preoccuparsi, che diventa quasi impossibile fare una mossa qualsiasi Ma non appena fatto il primo passo, il secondo diventa più facile, e il terzo… E infatti, quello stesso giorno decisi anche che dovevo fare qualcosa per le Mokie. Non darci un taglio netto. E neppure cominciare subito a diminuirle. La prima cosa da fare era analizzare il problema. Così cominciai con annotare il momento in cui prendevo ogni Mokie. Continuai per una settimana, e volete saperlo?: ne prendevo di media quaranta al giorno! E non era neanche che mi piacessero tanto.

Decisi di fare qualcosa. Non intendevo piantarla completamente, perché ciascuna Mokie, presa a sé, non era male. In effetti, sono davvero una miscela dissetante e gustosa delle migliori essenze di cioccolato, estratto di caffè sintetico e alcuni analoghi della cocaina, per dargli quel tocco in più. È piuttosto buona. Il problema non era smettere, ma diminuire. Messo in questi termini, era un problema di programmazione e di logistica, come quando si calcola la miscela ottimale di impatti sul consumatore per uno spot. Quaranta Mokie al giorno era assurdo. Circa otto, calcolai, era la misura giusta. Abbastanza per darmi quel piccolo stimolo ogni volta, ma non tante da attutirmi le papille.

Una Mokie ogni due ore, calcolai, sarebbe stato l’ideale. Così preparai un piccolo calendario:


6.00
8.00
10.00

e così via fino alle dieci di sera, quando potevo tirar fuori Nelson Rockwell dal letto, prendermi l’ultima per conciliarmi il sonno, e addormentarmi.

Quando rifeci il conto, scoprii che una Mokie ogni due ore per sedici ore di veglia, faceva nove invece di otto… a meno che non volessi rinunciare alla prima appena sveglio, o all’ultima prima di dormire. Non volevo farlo. Comunque, nove non erano mica troppe. Ero molto orgoglioso del mio programmino. Era talmente semplice e efficace, che non riuscivo a capire come mai nessuno ci avesse pensato prima di me.

E per la miseria, ci riuscii. Per quasi una giornata intera.

Mi ci volle un certo sforzo di volontà per attendere le prime due ore, fino alle otto, ma me la presi comoda con la colazione, e rimasi nella doccia fino a quando gli altri inquilini non cominciarono a bussare. Quella delle dieci era ancora lontana, ma presi tempo camminando fino all’Agenzia, poi escogitai un altro trucco. Mi spedirono subito a fare un sacco di commissioni. Non guardai neppure l’orologio mentre pedalavo da un posto all’altro… be’, non sempre: aspettavo di fermarmi, poi guardavo l’orologio e calcolavo quante altre fermate dovevo fare prima della prossima Mokie. Dicevo a me stesso: Non allo studio geografico, non alla banca, non a teatro per i biglietti di Wixon… quando arriverò al ristorante dove ieri sera il signor Xen si è dimenticato gli occhiali, allora sarà il momento della prossima. Funzionò ottimamente. Be’, quasi. Ci fu un piccolo inconveniente subito dopo pranzo, quando guardai male l’ora e presi all’una la Mokie delle due. Ma non era niente di grave. Decisi di usare le ore dispari invece delle pari, per il resto del giorno. Me la vidi male per un po’, nel pomeriggio, quando mi fecero aspettare fino alle 15.14 per un pacco che non arrivava mai, ma finii la giornata secondo i calcoli.

La sera non andò così bene. La Mokie delle cinque servì a festeggiare la fine della giornata lavorativa; perfetto. Aspettare fino alle sette fu più dura, ma me la cavai, tirando la cena per le lunghe. Poi tornai nella mia stanza, e santo cielo, le nove sembravano lontanissime! Alle otto e un quarto presi una Mokie dal pacco da sei e la tenni in mano. Avevo acceso l’Omni-V, e c’era una di quelle grandiose epopee storiche sui primi tempi delle vendite per corrispondenza, ma io non riuscivo a seguire la vicenda. Gli occhi mi andavano continuamente all’orologio. Otto e diciotto. Otto e venti. Otto e ventidue… alle otto e cinquanta la vista mi si cominciò ad appannare, ma tenni duro fino alle nove in punto, prima di tirare la linguetta.

La bevvi, assaporandola orgoglioso perché avevo resistito.

Poi fui costretto a guardare in faccia la realtà: dovevo aspettare fino alle sei del mattino-sei lunghe ore! — prima di bere là prossima.

Era più di quanto potessi sopportare. Prima che Charlie Bergholm uscisse sbadigliando dal letto, per farmi posto, ne avevo fatto fuori un’intera confezione da sei.

Finalmente cominciarono i corsi all’università. Ogni tanto facevo alcuni tentativi per diminuire le Mokie, ma poi decisi che la cosa importante era occuparmi del resto della mia vita. E una parte della mia vita stava acquistando un’importanza che non avevo previsto.

È buffo. È come se una persona avesse solo una certa quantità di amore e di tenerezza da usare. Mi dicevo che l’intossicazione da Mokie non era poi così brutta; non interferiva con il mio lavoro, tutto sommato; certamente non mi faceva valere di meno… ma non ci credevo. Più in basso cadevo ai miei stessi occhi, più stima lasciavo da parte senza un posto adatto per investirla.

La vita di un diplomatico è piena di complicati tabù e vuoti. Eravamo su Venere, circondati da ottocentomila nemici irriducibili. Noi eravamo solo centootto. In circostanze del genere, come si fa a stringere amicizia? E ancor più, come si fa per… be’, per l’amore? Avete a disposizione una cinquantina di candidate del sesso opposto fra cui scegliere. Probabilmente una dozzina, o più sono sposate (voglio dire fedelmente sposate), e un’altra dozzina o più sono troppo vecchie, e circa altrettante troppo giovani. Se siete fortunati, possono esserci al massimo dieci possibili amanti nel mucchio, e che probabilità ci sono che una di queste vi interessi, e sia interessata a voi? Mica tante. La condizione dei diplomatici è simile a quella dei superstiti del Bounty sull’isola di Pitcairn. Quando Mitzi Ku era arrivata, per me era stata una fortuna insperata. Ci eravamo piaciuti. Avevamo le stesse idee nei confronti del sesso. Lei era stata un grande aiuto per me, e io per lei. Non solo per l’atto fisico del sesso, ma per tutte quelle cose che insieme ad esso tengono unita una coppia, come le chiacchiere a letto, e ricordarsi dei rispettivi compleanni. Era bello avere Mitzi per queste cose. Era forse l’accessorio più prezioso fornitomi dall’ambasciata. E io l’apprezzavo molto. Eravamo molto sinceri e senza reticenze l’uno con l’altra, ma c’era una parola che nessuno di noi aveva mai detto. Questa parola era «amore».

E adesso non c’era più nessun modo per dirgliela. Mitzi era salita tanto velocemente quanto velocemente io ero sceso. Non la vedevo per settimane intere, se non di sfuggita. Non avevo dimenticato che mi aveva promesso di procurarmi un posto d’apprendista negli Intangibili. Ma pensavo che lei se ne fosse dimenticata… fino a quando non portai il pranzo a Val Dambois e la trovai nel suo ufficio. Non solo lì. Abbracciati. E quando aprii la porta si staccarono di scatto. — Accidenti, Tarb — gridò Dambois, — non sei capace di bussare?

— Scusate — dissi con un’alzata di spalle. Misi il suo soiaburger sulla scrivania e mi voltai per uscire. Non avevo alcun desiderio di interrompere le loro effusioni… o se ce l’avevo, di sicuro non volevo farlo vedere. Mitzi allungò una mano per fermarmi. Mi guardò con quel particolare sguardo da uccello negli occhi luminosi e mi fece un cenno con la testa.

— Val — disse, — possiamo finire più tardi. Tenny? Credo che possano fare qualcosa per te negli Intangibili. Vieni, scendiamo insieme e vediamo cosa riusciamo a combinare.

Era l’ora di pranzo, così dovemmo aspettare l’ascensore. Mi sentivo nervoso. Mi chiedevo, alquanto a disagio, perché non mi avesse chiamato se si era aperta una possibilità di lavoro, e se le sarebbe mai venuto in mente se io non fossi apparso proprio allora. Non erano pensieri molto gratificanti. Cercai di fare conversazione. — Che cosa stavate cospirando voi due? — chiesi scherzando. Il modo in cui lei mi guardò mi fece pensare che il mio tono era stato un po’ troppo aspro. Cercai di rimediare: — Credo di essere un po’ teso — mi scusai, pensando che lei l’avrebbe ritenuto naturale da parte di un mokomane. Ma non era affatto per quello. Avrebbe anche potuto essere gelosia. — Sembrano secoli da quando dirigevi la tua organizzazione di spie su Venere — dissi malinconicamente. Quello che volevo dire, era che la mia percezione di Mitzi era cambiata molto da allora. Sembrava… non so. Più seria? Più gentile? Naturalmente non poteva essere cambiata lei. L’unica differenza era che, avendola persa, l’apprezzavo di più.

E avendola persa, rimasi a bocca aperta, quando uscì dall’ascensore, e aspettando che la raggiungessi mi disse: — Se non hai niente da fare, questa sera, perché non vieni a cena da me, Tenny?

Non so che espressione avessi sulla faccia, male fece venire da ridere. — Ti passo a prendere dopo il lavoro — disse. — Bene, l’uomo che ti voglio far conoscere è Desmond Haseldyne, e il suo ufficio è da questa parte. Vieni! Se Mitzi mi aveva sorpreso per il suo inatteso calore, Haseldyne fu una mazzata nella direzione opposta. Mentre Mitzi ci presentava, lui mi fissava, e l’unica espressione che riuscivo a leggere nei suoi occhi era il ribrezzo.

Perché? Non riuscivo a capirlo. L’avevo visto in giro per l’Agenzia qualche volta, naturalmente. Ma non riuscivo a immaginare di aver fatto qualcosa che l’avesse offeso. E Desmond Haseldyne non era il tipo di uomo che uno voglia offendere. Era grosso. Era alto almeno uno e novantacinque, spalle da scaricatore di porto, e due pugni che inghiottirono completamente la mia mano quando si degnò di stringerla. Haseldyne era uno di quei talenti bizzarri che la Pubblicità colloca in posti bizzarri della sua grande macchina: si diceva che fosse un matematico, e anche un poeta; inoltre, curiosamente aveva fatto una brillante carriera nell’import-export prima di piantare tutto e dedicarsi alla pubblicità. Cominciai a capire la ragione della sua espressione quando grugnì: — Diavolo, Mitzi! E quello svitato che guarda sempre l’orologio!

— È anche mio amico — disse lei fermamente, — e un inventore di slogan di prima classe, che ha subìto un incidente per colpa non sua. Voglio che tu gli offra un’occasione. Non puoi condannare una persona per essere stata vittima di pubblicità disonesta, no?

Lui si addolcì un poco. — Forse no — ammise… e non si preoccupò neanche di aggiungere: e grazie a Dio noi in questa Agenzia non ci abbassiamo a simili mezzi, come avrebbe fatto chiunque altro: non si può mai sapere se ci sono microfoni nascosti. Si alzò e fece il giro della scrivania per guardarmi meglio. — Possiamo anche provare — concesse. — Puoi andare, Mitzi. Ci vediamo stasera?

— No. Ho un appuntamento. Un’altra volta, Des — disse lei, strizzandomi l’occhio mentre chiudeva la porta.

Haseldyne sospirò e si passò una mano sulla faccia. Poi tornò alla sua sedia. — Sedetevi, Tarb — tuonò. — Lo sapete perché siete qui?

— Credo di sì, signor Ha… Des — dissi fermamente. Avevo deciso che volevo essere trattato per quello che ero, non come un apprendista qualunque. Lui mi lanciò un’occhiata dura, ma disse solo: — Questo è il Dipartimento Servizi Intangibili. Abbiamo una trentina di settori di attività, ma ce ne sono due di gran lunga più importanti degli altri. Uno è la politica. L’altro è la religione. Ne sapete qualcosa?

Alzai le spalle. — Quello che ho studiato all’università. Mi sono sempre occupato di prodotti. Vendevo merci, non idee campate in aria.

Lui mi guardò in un modo tale, che mi venne da pensare che non sarebbe stato poi così brutto tornare a consegnare pacchi; ma si era deciso a darmi un lavoro, e me l’avrebbe dato. — Se non vi interessa la scelta — disse, — il settore in cui ci serve attualmente aiuto è la religione. Forse non sapete quanto sia importante il ramo religioso. — Be’, non lo sapevo, ma non dissi niente. — Voi parlate di prodotti. Merci. Bene, Tarb: pensateci. Se vendete a qualcuno una scatola di Caffeissimo, gli costa un dollaro. Quaranta centesimi vanno al dettagliante e al grossista. Etichetta e confezione costano un centesimo, e il contenuto ne costa forse tre.

— Un buon margine di profitto — dissi con aria di approvazione. — E qui vi sbagliate! Fate le somme. Quasi metà del vostro dollaro va al maledetto prodotto. Succede lo stesso con gli elettrodomestici, con i vestiti, con tutte le cose tangibili. Ma la religione! Ah, la religione — disse a bassa voce, con un’espressione di reverenza sulla faccia. — Nella religione il prodotto non costa neanche un centesimo. Spendiamo magari qualche dollaro per comprare i terreni e costruire… fa sempre effetto avere una cattedrale, un tempio o qualcosa del genere, anche se di solito usiamo miniature e foto truccate. Magari stampiamo qualche libretto. Qualche volta un paio di libri veri e propri. Ma date un’occhiata al bilancio profitti e perdite, Tenny, e vedrete che all’ultima riga c’è un profitto del sessanta per cento! E il resto, sono in gran parte costi di promozione, e anche questi, non dimenticatelo, sono guadagni nostri.

Scossi la testa stupito. — Non me l’immaginavo — dissi.

— Certo che non l’immaginavate! Voi addetti ai prodotti siete tutti uguali. E questa è solo la religione. La politica e uguale… anzi, i profitti sono ancora maggiori, perché non dobbiamo costruire chiese… Anche se — aggiunse, con espressione d’improvviso seria, — è difficile al giorno d’oggi far sì che la gente s’interessi di politica. Una volta pensavo che potesse essere il ramo più importante di tutti, ma… — cosse la testa. — Bene — disse, — adesso vi siete fatta un’idea. Volete provare?

Bene, potete scommettere che ci provai. Andai di corsa nella sala computer, con l’adrenalina che mi scorreva nel sangue, pronto ad affrontare la sfida… ma avevo dimenticato di essere ancora un apprendista. Questo voleva dire che quando avevano bisogno di me per consegnare un pacco, potevano ancora mandare a chiamarmi, e c’erano i vestiti del signor Dambois da andare a prendere in lavanderia, e un campione di una nuova confezione per la Kelpos, il Krispy Snack, da portare in Produzione… era l’ora di chiusura quando potei tornare alla consolle. E quella sera non riuscii a vedere Mitzi. Al posto dell’appuntamento, mi trovai un messaggio infilato nella macchina da scrivere: Ho un impegno improvviso. Scusa. Va bene domani?

Fu un brutto colpo. Mi ero preparato mentalmente a una bella serata, e adesso me la vedevo sparire da sotto il naso.

Tornando a casa, mi attaccai alle lattine di Mokie, e quando finalmente fu il mio turno d’infilarmi nel letto, e mi addormentai, i miei pensieri non erano allegri, malgrado il nuovo lavoro. Un sacco di cose erano cambiate! Su Venere Mitzi Ku era stata più che contenta di andare con un capo sezione. Perfino orgogliosa! Adesso il mondo per noi due si era capovolto. Potevo anche fischiare, ma a meno che a lei non andasse, non veniva. E cosa ancora peggiore, qualcun altro poteva avere un fischio più interessante e più potente del mio. La cosa più difficile da mandar giù, era che c’erano altri due maschi che si lisciavano le penne per lei. Evidentemente quello che mi restava da fare era prendere un numero e aspettare di essere chiamato. E non ci tenevo molto a mettermi in lizza. La concorrenza con Val Dambois potevo capirla… non ho detto accettarla. Haseldyne era un’altra faccenda. Chi era quella specie di bisonte pieno di muscoli che era apparso d’improvviso nella vita di Mitzi?

D’altra parte, anche altre cose erano cambiate parecchio. Quando finalmente riuscii a mettermi al lavoro, la mattina seguente (dopo una sola ora di corse per portare caffè e panini alle segretarie e alle modelle), mi resi conto che il progresso aveva fatto passi da gigante da quando mi ero imbarcato sulla navetta per Venere. La cosa mi apparve chiara quando mi sedetti di fronte alla tastiera e feci per inserire la griglia di interconnessione. Non c’era.

Mi ci volle il resto della mattina per imparare come funzionava la consolle, e dovetti farmi aiutare dall’impiegata.

Ma uno non è un pubblicitario di prima classe per niente, e non avevo perso la mia abilità mentre ero su Venere. Feci una rapida ricerca d’archivio, e scoprii, come m’ero immaginato, che c’erano aree che il Dipartimento Intangibili non aveva esplorato. Non potevo mettermi subito in competizione con le ultime tecnologie. Ma potevo tornare ad alcune delle vecchie e fidate tecniche del passato: erano sempre buone, e certe volte i giovani le trascuravano. Per le quattro del pomeriggio avevo completato le bozze. Presi il nastro e andai di gran carriera nell’ufficio di Haseldyne. — Date un’occhiata a questo, Des — ordinai, infilando il nastro nel suo lettore. — Naturalmente è solo un abbozzo. Non è ancora del tutto interattivo, perciò non fate troppe domande, e forse il modello che ho usato non è il più adatto…

— Tarb — ruggì lui minacciosamente, — di cosa diavolo state parlando?

— Porta a porta! — gridai. La tecnica pubblicitaria più antica! Una campagna interamente nuova, basata sulle tecniche più sicure e provate!

Premetti il bottone, e immediatamente l’immagine tridimensionale balzò in vita: una figura severa ed emaciata, la faccia messa in ombra da un cappuccio con un’espressione benevola, che fissava negli occhi Haseldyne. Sfortunatamente era alta solo mezzo metro, e attorno ai bordi c’era un alone di scintille azzurre.

— Credo di aver inserito male le dimensioni — mi scusai, — e c’è un’interferenza da eliminare…

— Tarb — grugnì lui — statevene zitto, volete? — Ma era interessato, mentre la figura avanzava e cominciava a parlare.

— Religione, signore! Sì, questo è quello che ho da offrirvi! La salvezza! La pace dello spirito! La remissione dei peccati, o semplicemente l’accettazione della volontà dell’Essere Supremo. Ho una scelta completa: Cattolicesimo, Anglicanesimo, ventidue tipi di sètte battiste, Chiesa Unificata, Scientologia, Metodismo…

— Queste ce le hanno tutti — scattò Haseldyne, guardandomi con aria irritata. Io gongolavo: era la reazione che avevo programmato. La piccola immagine si guardò dietro le spalle, come per essere sicuro che nessuno potesse sentirlo, e si chinò in avanti con aria confidenziale.

— Avete proprio ragione, signore! Avrei dovuto accorgermene che non siete il tipo da adottare quello che hanno tutti gli altri. Cosa ne dite allora di una vera antichità? Non sto parlando dei soliti Buddha o Confucio. Parlo di Zaratustra! Ahura Mazda e Ahriman! Le forze della luce e delle tenebre! Lo sapete che metà delle religioni in circolazione oggi non sono che brutte copie di Zaratustra? E sentite un’altra cosa: non ci sono digiuni, diete obbligate, non-fare-questo, non-fare-quest’altro. Il Parsismo è una religione per gente di qualità. E non ci crederete: posso fornirvi il trattamento completo, conversione compresa, per un prezzo inferiore a quello di un normale ritiro o di un Bar Mitzvah…

Mi accorsi che era davvero interessato. Osservò fino alla fine la figura che faceva il suo discorsetto. Mentre svaniva in una cascata di scintille azzurre (queste griglie automatiche di interconnessione non erano poi quella gran meraviglia che dicevano) annuì adagio. — Può funzionare — disse.

— Funzionerà di sicuro, Haseldyne! Certo è ancora un po’ rozzo. Devo ancora parlare con l’ufficio legale per la firma del contratto, alla fine, e non sono sicuro che il cappuccio vada proprio bene… Forse ci vorrebbe un costume da danzatrice indiana, con un venditore femmina…

— Tarb — disse lui, — non buttate giù il vostro stesso lavoro. Sistemate le dimensioni e l’interferenza, domani riuniremo lo staff e lo faremo partire. — Io presi il nastro dal visore, e lo lasciai che fissava il vuoto. Mi colpì il fatto che sembrasse compiaciuto… dopo tutto l’aveva detto lui stesso che era un buon lavoro! Ma quando tornai alla consolle, c’era un messaggio che mi fece dimenticare tutte le preoccupazioni.

Sono stata chiamata fuori; perché non vieni direttamente da me? Ti aspetto per le otto.

Quando tornai a casa per darmi una ripulita, Nelson Rockwell mi venne subito da torno. — Tenny, se potessi prestarmi qualche dollaro fino alla paga…

— Niente da fare, Nelson! Devi vedertela da solo con la zecca di San Jacinto.

— Zecca? Chi ha parlato di zecca? — chiese lui. — Questa è una cosa completamente nuova… dà un’occhiata! — Tirò fuori dalla tasca una figurina incorniciata in plastica da quattro soldi. — È la Serie Litografica di Ritratti dei Ministri del Tesoro, Incorniciabili, su Carta tipo Banconota! — dichiarò orgoglioso. — Sono oro puro, e mi basta un centone per avviare l’abbonamento. Con duecento posso avere a prezzo speciale anche la Serie di Riproduzione dei Famosi Ponti Sospesi Americani, Interamente in Metallo, da Esposizione… — Lo lasciai che parlava ancora, e mi diressi verso il bagno per farmi elegante. Tikli-Tak sul mento, Lav-Mi sotto le ascelle… Era passato molto tempo da quando ero uscito con una ragazza. Pensai che dovevo portare qualcosa, così per strada mi fermai a comprare un paio di confezioni di Mokie-Koke. Naturalmente il supermercato era pieno. Naturalmente le file alle casse erano interminabili. Mi misi in coda a quella più corta che riuscii a trovare, ma non si muoveva. Allungai il collo per guardare oltre la matrona che avevo davanti, con il carrello pieno, e vidi che la cassiera era impegnatissima a compilare un’infinità di buoni sconto, offerte speciali, tagliandi omaggio, biglietti della lotteria, eccetera, e cosa ancora peggiore, la cicciona davanti a me ne aveva almeno il doppio stretti nella mano grassoccia. Emisi un grugnito e lei si voltò a guardarmi con simpatia. — Queste file sono proprio insopportabili! È per questo che io non vado più agli Ultimaximark. — Indicò orgogliosamente il cartello sulla cassa: Servizio veloce! Cassa Ultrarapida! Facciamo di tutto per rendervi la spesa un piacere!

Il fatto è — dissi, — che ho un appuntamento. — Oh — disse lei con comprensione, — avete fretta, certo. Sentite una cosa: aiutatemi a mettere in ordine questi tagliandi, così alla cassa me la sbrigo subito. Il fatto è che ho questo buono sconto di trenta centesimi sulle Kelpy Krisp, ma è valido solo se compro un tubetto da 300 grammi di Dentifricio Analgesico Dentibelli a Doppio Effetto, ma avevano solo la confezione da 450 grammi. Dite che me l’accetteranno? — Naturalmente no. Era una campagna di propaganda della T.G.&S., e sapevo che non avremmo mai emesso quei buoni se le confezioni da 300 grammi non fossero state soppresse. Ma non ebbi l’occasione di dirglielo. Una luce rossa cominciò a lampeggiare, suonò una sirena, una sbarra calò di fronte a lei, e si accese un cartellone luminoso:


Ci scusiamo con la clientela, ma questa Cassa Ultrarapida Servizio Veloce è chiusa. Vi preghiamo di portare i vostri acquisti ad un’altra cassa, dove riceverete la pronta attenzione delle nostre gentili cassiere.


— Oh, accidenti! — grugnii, fissando incredulo l’annuncio. Fu un errore. Persi il momento favorevole.

Uno degli slogan che avevo incontrato nel settore religioso, era «l’ultimo sarà il primo». In questo caso, la mia esitazione ne fu una riprova. La fila alle mie spalle si era già dispersa, mentre io rimanevo lì a guardare. Questa è una delle occasioni in cui viene messa alla prova l’abilità di consumatore, sviluppata nel corso di un’intera vita. prendere la decisione in una frazione di secondo, senza preavviso: quale fila scegliere? Ci sono una dozzina di variabili indipendenti da prendere in considerazione, e non tutte ovvie: il numero delle persone in ciascuna fila, il numero delle confezioni per ciascuna persona, il numero dei buoni per ciascun acquisto… Sono cose che si imparano quando si è ancora attaccati alla mano della mamma, con il pollice in bocca e il sacchetto di caramelle per cui ci si è sgolati, stretto nella manina grassoccia. Poi dovete imparare a decifrare il singolo consumatore: quello che contrae nervosamente le dita potrebbe avere il conto scoperto, e così tutta la fila si bloccherà, mentre le guardie vengono a portarlo via; oppure c’è quell’altro che è riuscito a far passare una penna magnetica attraverso i detector per cercare di alterare i prezzi delle offerte speciali. Uno deve imparare ad assegnare un valore ad ognuno di questi fattori, e a integrarli. Poi c’è il lavoro puramente fisico: fare una finta verso la fila sbagliata, far finta di non accorgersi di un carrello lasciato lì per tenere il posto, usare i gomiti… Tutto questo fa parte delle normali tecniche di sopravvivenza, ma gli anni passati su Venere mi avevano arrugginito. Finii alla fine di una fila più lunga che mai, e anche Miss 450 Grammi era in vantaggio su di me.

Dovevo fare qualcosa.

Sbirciai ancora una volta sopra le sue spalle, studiai i carrelli e preparai un piano. — Porca miseria — dissi come fra me, ma a voce abbastanza alta perché tutti mi sentissero, — mi sono dimenticato il Vita-Smax. — Nessuno ce l’aveva. Non era possibile. La produzione era stata sospesa ancor prima che partissi per Venere… qualche guaio per avvelenamento da metalli pesanti. Tre passi davanti a me un vecchietto con un carrello stracolmo mi guardò, abboccando all’amo.

Gli sorrisi, dicendo: — Ricordate la vecchia pubblicità del Vita-Smax? «Il formaggio tuttoamericano: miele e crusca per l’uomo sano.»

Miss 450 Grammi alzò gli occhi dal suo frenetico inventario di buoni. — «Vi mantiene in forma… Vi stimola la lingua… Salute, salute, salute ad ogni morso!» — citò a memoria. — Caspita! È un sacco di tempo che non lo mangio. Noi lo chiamavamo cereale latte e miele. — A parte i metalli pesanti, il surrogato di latte causava danni al fegato, e lo sciroppo di saccarosio cariava i denti, ma naturalmente nessuno si sarebbe ricordato di una cosa del genere.

— Mia mamma me lo dava ogni mattina — disse un’altra donna con aria sognante.

Li avevo m mano. — Anche la mia. Mi prenderei a calci per averlo dimenticato. Ce n’era una pila intera al Reparto Gastronomia.

Varie teste si voltarono. — Non ho visto nessun Vita-Smax là — disse il vecchietto con voce querula.

— Come no? Ce n’era una pila alta così, sotto il cartello «Compri due paghi uno» — Un tremito corse lungo la fila. — Con il Doppio Buono Speciale per il Secondo Acquisto — aggiunsi. Fu il colpo decisivo. Si sparpagliarono. Tutti, fino all’ultimo, spostarono i carrelli e si misero a correre verso la Sezione Gastronomia. Di colpo mi trovai faccia a faccia con la cassiera. Anche lei aveva ascoltato, e dovetti pregarla di prendere i soldi, prima che si mettesse a correre dietro agli altri.

Comunque, arrivai lo stesso in ritardo. Quasi mi misi a correre negli ultimi due isolati prima della casa di Mitzi. Lo smog e la corsa mi lasciarono ansimante e sudato… Addio Lav-Mi.

Quando superai la porta, rimasi stupito vedendo che razza di posto aveva Mitzi. Non voglio dire che era lussuoso… me lo sarei aspettato, considerando il suo conto in banca. Al contrario, quello che mi colpì quando Mitzi mi fece entrare, fu la sua nudità.

Certamente non era la povertà a renderlo così. Non si può avere un appartamento di quaranta metri quadri, in un edificio sorvegliato ventiquattrore su ventiquattro da guardie con riflessi condizionati all’attacco, senza pagarlo salato… Questo l’avrei capito anche se non avessi saputo del risarcimento danni venusiano. La cosa sorprendente era che lo sfoggio finiva con l’appartamento stesso. Nessun RotaBagno. Niente acquario con pesci tropicali. Non aveva neppure i patetici busti e i medaglioni di Nelson Rockwell. Qualche mobile, una piccola Omni-V in un angolo… e basta. Anche le pareti erano strane: tutte dipinte a rossi brillanti e gialli, e su una c’era un grande quadro statico (neppure a cristalli liquidi), che mi lasciò perplesso per un momento. Poi riconobbi la scena: era un famoso evento della storia venusiana: la costruzione del primo tubo di Hilsch sulla cima della montagna più alta, nella catena dei Freysa, per soffiare i gas nocivi in orbita e cominciare a rendere l’atmosfera respirabile.

— Scusa se sono in ritardo — dissi, fissando il quadro, — ma c’era una fila che non finiva più al supermercato. — Sollevai le Mokie-Koke come spiegazione.

— Ma Tenny, cosa ce ne facciamo di quella brodaglia? — Poi si morse le labbra. — Vieni in cucina, mentre finisco di preparare la cena, e raccontami come ti vanno le cose.

Con mia grande sorpresa, mi mise al lavoro mentre parlavo. E con mia ancor più grande sorpresa, il lavoro consisteva nel pelare le patate! Voglio dire patate crude, vegetali, alcune con ancora la terra attaccata! — Come hai fatto a trovarle? — chiesi, mentre cercavo di capire come dovevo fare a «pelarle».

— I soldi possono tutto — disse lei, tagliano a fette delle altre verdure crude, verdi e arancione. Non era esattamente una risposta, dal momento che io in effetti non volevo chiedere «dove» o «come», ma «perché».

Ma i miei mi hanno insegnato ad essere educato. Mangiai un bel po’ della cena che aveva preparato, anche le radici crude e le foglie che lei chiamava «insalata», e non dissi niente che potesse suonare come una critica. O quasi. Dopo un po’, quando la conversazione sembrava languire, le chiesi se le piaceva davvero quella roba.

Mitzi stava masticando con aria assente, ma si riscosse. — Se mi piace? Certo che mi piace! È… — Si interruppe, come se le fosse venuto in mente qualche cosa. — È sana.

— Già, mi pareva — dissi.

— No, davvero! Ci sono… dei nuovi studi, non ancora pubblicati, che lo dimostrano. Per esempio, lo sapevi che il cibo preconfezionato può provocare vuoti di memoria?

— Andiamo, Mitzi — mi misi a ridere. — Nessuno venderebbe ai consumatori cose che possono far male.

Lei mi diede un’occhiata strana. — Be’, non di proposito — disse, — forse. Ma ti ho detto che sono studi nuovi. Sai cosa? Facciamo una prova!

— Una prova di cosa?

— Una prova per vedere se la dieta ti ha provocato dei vuoti mentali, diamine — sbottò lei. — Faremo un piccolo esperimento, per determinare fino a che punto ti ricordi di certe cose, e io registrerò tutto, in maniera che potremo ricontrollare.

Non mi pareva un gioco molto divertente, ma non volevo essere scortese. — Perché no? — dissi.

— Per esempio, potrei darti i fatturati annui della nostra agenzia per gli ultimi quindici anni, suddivisi per…

— No, no, troppo noioso — si lamentò lei. — Ho un’idea! Vediamo quanto ti ricordi di quello che succedeva all’ambasciata su Venere. Qualche aspetto articolare… per esempio… ecco! Sentiamo tutto quello che ti ricordi sulla mia catena di spie.

— Ma non è giusto! — protestai. — Eri tu che la dirigevi: io conosco solo qualcosa.

— Va bene, ne terremo conto — promise lei.

Alzai le spalle e cominciai. — Bene, prima di tutto avevi ventitré agenti attivi e circa centocinquanta occasionali, a tempo parziale… la maggior parte non erano veri agenti, o almeno non sapevano per chi lavoravano.

— I nomi, Tenny!

La guardai sorpreso. Sembrava che prendesse la cosa molto sul serio… — Be’, c’era Glenda Pattison del Dipartimento Parchi, quella che ha introdotto le parti difettose nella nuova centrale elettrica. Poi Al Tischler, di Learoyd City… Non so cosa facesse, ma me lo ricordo perché era particolarmente basso per essere un Venusiano. Margaret Tucsnak, la dottoressa che mescolava pillole anticoncezionali con le aspirine. Mike Vaccaro, la guardia del Penitenziario Polare… Devo contare anche Hamid?

— Hamid?

— Il grek — spiegai. — Quello che sono riuscito a rifilare al vecchio Harriman, facendogli credere che fosse un rifugiato politico. Naturalmente tu te ne sei andata molto prima che riuscisse a prendere contatto, perciò non so se includerlo nella lista. Però mi sorprende che tu non te ne ricordi. — Sogghignai. — Adesso mi dirai che non ti ricordi di Hay — aggiunsi. Con mia grande sorpresa, lei sembrò perplessa ancora una volta. — Jesus Maria Lopez, per la miseria — dissi esasperato, e per un momento lei mi guardò con espressione opaca.

Poi disse: — Tutto questo è successo su Venere, Tenny. Lui è là. Noi siamo qui.

— Così mi piaci! — Le cose cominciavano a migliorare. Mi feci più vicino, e lei mi guardò in maniera quasi invitante. Ma c’era ancora l’ombra di un cipiglio sulla sua faccia. Allungai una mano e le toccai i solchi fra le sopracciglia: sembravano veramente incisi. — Mitzi — le dissi con tenerezza, — tu lavori troppo.

Lei si scostò quasi con rabbia dalla mia mano, ma io non mollai. — Davvero. Sei… non so. Più stanca. E più calda, anche. — Ed era così: la mia signora di ottone era di bronzo ora. Anche la sua voce si era fatta più profonda e più morbida.

In effetti, mi piaceva di più adesso. Disse: — Continua coi nomi, vuoi? — Ma sorrise nel dirlo.

— Perché no? Weeks, Theiller, Storz, i fratelli Yurkewitch… Come me la sto cavando?

Lei si mordeva le labbra… seccata, pensai, perché dopo tutto la mia memoria era ottima. — Continua — disse. — Ce ne sono ancora un sacco.

L’accontentai. In effetti mi ricordavo solo una dozzina di nomi, ma lei accettò che di alcuni agenti le dicessi solo dove lavoravano e quello che facevano per lei, e quando non ero sicuro di qualcosa, lei mi aiutava facendomi delle domande. La cosa andò avanti per un pezzo. — Proviamo qualcos’altro — proposi. — Per esempio, vediamo chi di noi due si ricorda più cose sull’ultima notte che abbiamo passato insieme.

Lei sorrise con aria assente. — Fra un momento, Tenn. Prima dimmi di quel tale di Myers-White che aveva rovinato il raccolto di grano…

Io mi misi a ridere. — Mitzi cara, l’agente di Myers-White coltivava riso; è stato a Nevindale che hanno rovinato il raccolto di grano! Vedi? Se la dieta provoca vuoti di memoria, allora forse devi cominciare a mangiare Kelpy Crisp!

Lei si stava mordendo di nuovo le labbra, e per un momento la sua espressione non fu affatto amichevole. Strano. Non avevo mai pensato che Mitzi fosse una che non sopportava di perdere. Poi sorrise e si arrese, spegnendo il registratore. — Suppongo che abbia vinto tu — disse, e batté sul divano, al suo fianco. — Perché non vieni qui a riscuotere la vincita? — E così, alla fine, la serata si concluse nel migliore dei modi.

3

L’occasione non si ripresentò tanto rapidamente. Mitzi non mi lasciò altri messaggi. La chiamai, qualche volta: fu carina, senza dubbio… ma era anche tanto occupata… forse la settimana prossima, Tenn caro, o ai primi del prossimo mese… oppure chissà mai quando.

Naturalmente anch’io avevo un sacco di cose da fare. Me la cavavo molto bene nel ramo religioso, e anche Desmond Haseldyne si congratulava con me. Ma volevo vedere Mitzi. Non solo per quelle cose che… be’, capite, quelle cose che mi avevano interessato in lei all’inizio. Ce n’erano anche altre, adesso.

Un paio di volte, quando entrai nell’ufficio di Haseldyne, lui stava facendo telefonate misteriose, e avevo chissà perché il sospetto che alcune fossero per Mitzi. E poi vidi, insieme a Val Dambois, li e il Vecchio in persona in un self-service piuttosto lontano dall’Agenzia. Non era il tipo di posto dove andavano di solito i dirigenti. Non era neppure un posto dove andassero spesso apprendisti come me, ma era vicino all’Università della Columbia per la Propaganda e la Pubblicità. Quando mi videro, rimasero ovviamente alquanto scossi. Stavano progettando qualche cosa insieme. Non sapevo cosa. Non erano affari miei, forse… ma mi dava fastidio che Mitzi non mi avesse detto cos’era. Andai nella mia classe, all’Università. Era il corso di scrittura creativa, e quella sera, devo confessare, non fui molto attento.

Quello comunque era il corso migliore che seguissi. La scrittura creativa è davvero… be’, creativa. All’inizio la professoressa ci disse che soltanto ai nostri tempi l’argomento veniva insegnato in maniera ragionevole. Ai vecchi tempi, gli studenti si limitavano ad inventare delle cose da soli, e poi gli insegnanti dovevano cercare di distinguere quello che c’era di buono o di cattivo, e come le idee venivano espresse. Eppure, ci disse, avevano l’esempio dei corsi d’arte. Gli aspiranti da secoli venivano messi a copiare le opere di Cézanne o Rembrandt o Warhol, per poter imparare le tecniche, mentre gli aspiranti scrittori erano spinti solo a inventare le loro proprie chiacchiere. Gli elaboratori verbali avevano cambiato tutto, e il primo compito che ci venne assegnato fu di riscrivere il Sogno di una notte di mezza estate in inglese moderno. Io presi il massimo.

Bene, da quel momento fui il cocco della professoressa, e lei mi lasciava fare molti lavori extracurriculari. C’era una buona probabilità, mi aveva detto, che passassi l’esame con il voto più alto mai ottenuto; e cose del genere non possono che fare bene quando si tratta di arrivare alla laurea. Così misi mano a dei progetti piuttosto ambiziosi. Il più difficile, credo, fu quello di riscrivere tutto quanto Alla ricerca del tempo perduto nello stile di Ernest Hemingway, ambientandolo nella Germania ai tempi di Hitler, e sotto forma di commedia in un atto.

Una cosa del genere era ben al di là delle capacità degli apparecchi che avevo nel mio piccolo condominio part-time, per non parlare del fatto che i miei compagni di stanza mi avrebbero disturbato, così presi l’abitudine di restare dopo il lavoro, di tanto in tanto, per usare i grossi elaboratori dell’Agenzia. Avevo disposto la lunghezza delle frasi a non più di sei parole, ridotto l’introspezione al cinque per cento, introdotto il programma dialogo teatrale, e stavo per cominciare, quando mi accorsi che non avevo più Mokie. Il distributore automatico aveva solo marche della nostra Agenzia, naturalmente. Le avevo già provate, ma non riuscivano a soddisfare il mio bisogno. Mi sembrava di aver visto una lattina di Mokie nel cestino dell’ufficio di Haseldyne, una volta. Immagino che fosse solo immaginazione, comunque mi diressi da quella parte.

C’era qualcuno nell’ufficio. Sentivo delle voci. Le luci erano accese; gli elaboratori di dati erano senza le copertine e stavano stampando dei programmi finanziari. Sarei tornato indietro in silenzio alla mia consolle, se non fosse stato che una delle voci era quella di Mitzi.

La curiosità fu la mia rovina.

Mi fermai per guardare i programmi che uscivano dalla macchina. All’inizio pensai che fossero le proiezioni di un piano di investimento, perché riguardavano tutti azioni e percentuali di quote azionarie in circolazione. Però mi sembrava di vedere una logica. Mi alzai, decidendo di tagliare la corda.

E feci l’errore di non volermi far vedere, uscendo attraverso gli uffici bui dalla parte opposta. Erano stati chiusi a chiave. Nulla mi impedì di entrare, ma era stata predisposta la trappola antiladri. Sentii un sibilo terribile, come quello dei tubi di Hilsch a Port Kathy, e una schiuma bianca mi avvolse. Ero stato annebbiato. Non vedevo più niente. La schiuma mi permetteva di respirare, ma non di vedere. Mi aggirai un momento per la stanza, andando a sbattere contro tavoli e sedie.

Poi mi arresi e rimasi lì ad aspettare. E mentre aspettavo, pensai.

Nel tempo che impiegarono per arrivare avevo preparato il mio discorso.

Erano Mitzi e Haseldyne, che nell’avvicinarsi spruzzavano la schiuma con un dispersore chimico… Lo sentivo dal sibilo. — Tenn! — gridò Mitzi. — Cosa diavolo ci fai qui?

Non risposi. Non direttamente almeno. Mi pulii la faccia e le spalle dai resti di schiuma, e le sorrisi.

— Vi ho scoperti — dissi.

Quelle parole ebbero un effetto curioso su di loro. Naturalmente erano sorpresi di vedermi lì. Mitzi teneva lo spray dispersore come se fosse un’arma, e Haseldyne stringeva in mano un pesante distributore di nastro, come se intendesse usarlo per darlo in testa a qualcuno… cosa abbastanza naturale, suppongo, dal momento che avevo fatto scattare l’allarme. Ma tutti e due divennero completamente inespressivi. Era come se le loro facce fossero diventate senza vita, e rimasero così per parecchi secondi.

Poi Mitzi disse: — Non capisco cosa vuoi dire, Tennison.

Ridacchiai. — È perfettamente ovvio. Ho visto i programmi. State progettando di prendere il controllo, vero?

Ancora nessuna espressione. — Voglio dire — chiarii, — voi due, e forse anche Dambois, vorreste prendere il controllo dell’Agenzia con i vostri investimenti. È giusto?

Lentamente, glacialmente, l’espressione tornò sul viso di Mitzi e di Haseldyne. — Che mi venga un accidente — tuonò Haseldyne. — Ci ha preso con le mani nel sacco, Mitzi.

Lei inghiottì, poi sorrise. Non era un buon sorriso… c’era troppa tensione nei muscoli della mascella, e le labbra erano troppo strette. — Sembra proprio di sì — disse. — Bene, Tenn, cosa intendi fare adesso?

Era un sacco di temo che non mi sentivo così bene. Perfino Haseldyne mi sembrava adesso un grassone innocuo e amichevole, non un mostro furioso.

Più amabilmente che potei, dissi: — Niente che non vogliate anche voi, Mitzi. Sono vostro amico. Tutto quello che desidero, è un po’ di amicizia da parte vostra.

Haseldyne guardò Mitzi. Mitzi guardò Haseldyne. Poi entrambi si voltarono a guardare me. — Suppongo — disse Haseldyne, scegliendo con cura le parole, — che quello che dobbiamo fare adesso e discutere di quanto volete che vi siamo amici, Tarb.

— Con piacere — dissi. — Ma per prima cosa… non avete una Mokie?

4

Il giorno seguente, all’Agenzia, la temperatura era salita di parecchi gradi. Nel pomeriggio si era fatta tropicale, perché Mitzi Ku mi aveva preso sotto la sua protezione. Cosa rendesse Mitzi Ku d’improvviso una potenza tanto grande, nessuno lo sapeva con esattezza, ma le chiacchiere in giro non lasciavano dubbi in proposito. Non se ne parlò più di rimettermi a fare il galoppino.

Perfino Val Dambois mi trovò degno del suo amore. — Tenny, ragazzo mio — mi salutò, dopo aver fatto tutta la strada fino al mio cubicolo agli Intangibili, — perché te ne stai in un buco come questo? Perché non l’hai detto? — Non l’avevo detto perché non avevo potuto superare la sua Terza Segretaria, era la risposta, ma era inutile dirgli quello che già sapeva. Potevo mettere una pietra sul passato… Per il momento almeno. Perdono per tutti, nessun rancore, un vero spirito timorato dalle vendite: questo era Tennison Tarb in quei giorni. Sorrisi a Dambois, e lasciai che mi mettesse un braccio sulle spalle, mentre mi riconduceva nel Regno Esecutivo. Ci sarebbe stato un giorno, lo sapevo, in cui la sua gola sarebbe stata esposta alle mie zanne… fino ad allora potevo perdonare e dimenticare.

Senza neppure dirmi una parola in proposito, mi misero in ufficio un distributore di Mokie. Niente di ufficiale: apparve semplicemente dal nulla, quel pomeriggio.

Però questo mi diede da pensare. Ingurgitare Mokie era senza dubbio innocuo (diavolo, io ne ero la prova!), ma si adattava all’immagine che dovevo offrire al mondo. Era una cosa molto da consumatore, e per di più, consumatore di una marca di un’altra Agenzia. Ci pensai su lungo la strada verso casa, nella macchina della compagnia. Quando diedi la mancia al pedalatore, il pensiero si cristallizzò, perché vidi l’espressione di risentimento nei suoi occhi, prima che la nascondesse, toccandosi il cappello. Tre giorni prima, dividevamo lo stesso peditandem. Potevo comprendere il suo risentimento. E l’implicazione era che, se fossi ricaduto in basso, lui e gli altri squali erano lì ad aspettarmi.

Così appena entrato battei sul serbatoio del sonno. — Rockwell — gridai. — Sveglia! Voglio chiederti una cosa!

Non era un cattivo ragazzo„ il vecchio Nelson Rockwell. Aveva ancora sei ore di sonno prima che venisse il mio turno, e tutti i diritti del mondo di mangiarmi vivo per averlo tirato fuori. Ma quando sentì quello che volevo, fu la gentilezza m persona. Un po’ sorpreso, forse. — Vuoi smettere di bere, Tenny? — ripeté, ancora mezzo addormentato. — Be’, certo è una buona idea. Non devi rovinare la tua grande occasione. Ma onestamente non capisco cosa c’entro io.

— Ecco cosa, Nels: non mi avevi detto che una volta eri nei Consumisti Anonimi?

— Sì, certo. Anni fa. Però ne sono uscito, perché non ne avevo più bisogno, quando mi sono rimesso in sesto e ho cominciato con le collezioni… ah! — disse, illuminandosi. — Ho capito! Vuoi che ti dica com’è, per decidere se provare anche tu.

— Quello che voglio, Nels, è andare ai Consumisti Anonimi. E voglio che tu mi ci porti.

Lui guardò con desiderio il letto caldo e invitante. — Accidenti, Tenny. È aperto a tutti. Non occorre che ti ci porti io.

Scossi la testa. — Mi sentirei meglio se andassi con qualcuno — confessai. — Per favore. E presto. So che domani sera c’è una riunione…

Lui si mise a ridere. Quando ebbe finito di ridere, mi batté sul braccio. — Hai un sacco di cose da imparare, Tenny. C’è una riunione ogni sera. È così che funziona. E adesso se vuoi darmi le calze…

Nels Rockwell era fatto così. Mentre si stava vestendo, pensai a come potevo restituirgli il favore. Avrei dovuto lasciare quel buco in condominio, naturalmente. Perché non pagare due o tre mesi in anticipo, e lasciarlo a lui per quel tempo, in maniera che potesse scegliersi il momento migliore per dormire? Sapevo che doveva fare il turno di notte proprio per questo; così avrebbe potuto premere un altro turno, magari guadagnare qualcosa in più…

Ma mi trattenni. Non faceva bene a un consumatore, mi dissi, fargli venire delle idee più grandi di lui. Se la cavava benissimo così. Potevo fargli più male a interferire.

Così tenni la bocca chiusa, ma in fondo al cuore gli ero davvero grato.


I Consumisti Anonimi si rivelarono una cattiva idea. Me ne accorsi nel giro di due minuti. Il posto dove Rockwell mi aveva portato era una chiesa.

Non che ci sia niente di male, in sé. Anzi, era abbastanza interessante: non ero mai stato dentro una chiesa, prima. Inoltre, potevo considerarla una specie di ricerca per il mio lavoro agli Intangibili, il che significava che potevo farmi rimborsare il taxi (anche se Rockwell avrebbe voluto prendere il pedibus).

Ma la gente! Non erano solo consumatori. Erano la feccia dei consumatori: vecchietti rinsecchiti con tic facciali; ragazze grassocce e accigliate, con quel tipo di pelle che viene a mangiare soia solida; e poca anche di quella. C’erano due giovani sposi che parlavano nervosamente fra di loro, a bassa voce, con un bambino in mezzo che urlava freneticamente senza che nessuno li badasse. C’era un uomo con la faccia da furetto, fermo vicino alla porta, come se non riuscisse a decidersi se andarsene o rimanere… be’, anche per me era lo stesso. Quella gente erano dei perdenti. Un consumatore bene addestrato è una cosa. Ma quelli esageravano. Erano stati allevati e istruiti a fare quello che il mondo chiedeva da loro: comprare le cose che noi delle Agenzie avevamo da vendere. Ma che facce ebeti, stordite! Ciò che faceva il buon consumatore era la noia. La lettura era scoraggiatale case non erano una gioia a stare… cos’altro potevano fare delle proprie vite, se non consumare? Ma quella gente aveva fatto una parodia di questa nobile (be’, abbastanza nobile) missione. Erano ossessionati. Quasi uscii a cercare una Mokie, per togliermi di dosso i brividi che mi davano, ma visto che ero venuto fin lì, decisi di rimanere per la riunione.

Quello fu il mio secondo errore, perché il seguito fu disgustoso. Per prima cosa, dissero una preghiera. Poi cominciarono a cantare alcuni inni. Rockwell mi diede una gomitata, facendomi segno di unirmi, mentre gracchiava con quanto fiato aveva in gola, ma io non ebbi neppure il coraggio di guardarlo in faccia.

Poi fu ancora peggio. Uno dopo l’altro, quei poveri disgraziati si alzarono e cominciarono a singhiozzare le loro squallide storie. Quella si era rovinata la vita a forza di masticare Nic-O-Chew, quaranta pacchetti al giorno, finché le erano caduti i denti, ed era stata licenziata perché non poteva più fare il suo lavoro… che era quello di telefonista. Quell’altro era diventato maniaco di deodoranti e dei rinfresca-alito, e aveva cancellato a tal punto ogni traccia di esalazioni corporee che adesso aveva la pelle screpolata e le mucose secche. La coppia col bambino frignante… erano mokomani come me! Li guardai esterrefatto. Come avevano fatto a lasciarsi cadere così in basso? Sicuro, anch’io avevo un problema con le Mokie. Ma il solo fatto di essere lì significava che stavo facendo qualcosa per quel problema. In nessun modo mi sarei lasciato ridurre a dei rottami come loro due. — Forza Tenny — mormorò Rockwell, dandomi una gomitata. — Non vuoi testimoniare?

Non so cosa gli dissi, eccetto che era compresa la parola «arrivederci». Scivolai fino alla porta; avevo bisogno di aria. Mentre ero fermo sull’entrata, respirando a pieni polmoni, l’uomo con la faccia da furetto mi raggiunse. — Diavolo — disse sogghignando furtivamente, — ho sentito quello che diceva il vostro amico. Vorrei averlo io il vostro problema, invece del mio.

A nessuno piace sentirsi dire che la propria croce è meno pesante di quella di uno sconosciuto. Non fui cortese. Dissi: — Il mio problema è brutto abbastanza per me, grazie. — Per qualche ragione, mi sentivo la mente confusa in quel momento. Provavo contemporaneamente mezza dozzina di desideri e di avversioni separate… il bisogno disperato di una Mokie, il disprezzo per quei fantocci di Consumisti Anonimi, un fastidio acuto per Faccia-di-Furetto, il desiderio ardente di Mitzi Ku che mi prendeva di tanto in tanto… e sotto tutto questo, qualcos’altro che non riuscivo a identificare. Un ricordo? Un’ispirazione? Una decisione? C’era qualcosa che mi sfuggiva. Aveva a che fare con quello che stava succedendo dentro… no, qualcosa che era successo prima, qualcosa che aveva detto Rockwell?

Faccia-di-Furetto, mi resi conto all’improvviso, mi stava sibilando nell’orecchio. — Cosa? — sbraitai.

— Ho detto — ripeté lui, nascondendosi la bocca con la mano e guardandosi intorno, — che conosco uno che ha quello che vi serve: pillole anti-Mokie. Tre al giorno, una ogni pasto, e non avrete più bisogno della Mokie.

— Mio Dio — gridai, — mi state offrendo una droga? Io non sono un consumatore. Lavoro in un’Agenzia, io! Se vedo un poliziotto, vi faccio mettere dentro… — E in effetti mi guardai in giro alla ricerca di un’uniforme della Brinks o della Wackerhut; ma come al solito, non c’è mai un poliziotto quando ne hai bisogno, e in ogni modo quando tornai a guardare, Faccia-di-Furetto era sparito.

E così pure la mia idea, qualsiasi fosse stata.


I reni umani non sono fatti per sopportare quaranta Mokie-Koke al giorno. Ci furono dei momenti, nelle ventiquattr’ore seguenti, in cui mi chiesi se dopo tutto Faccia-di-Furetto non avesse avuto una buona idea. Alcune caute indagini alla clinica dell’Agenzia (oh, com’erano gentili con me adesso!) solidificarono le nozioni vaghe che avevo in testa. Le pillole furono una brutta notizia. Funzionavano, ma dopo un po’, forse sei mesi, forse meno, forse più, il sistema nervoso cedeva e alla fine c’era il collasso. Questo non lo volevo. È vero, avevo perso peso, e la mia faccia, allo specchio, quando mi depilavo, mostrava nuovi segni di tensione ogni mattina; ma funzionavo ancora discretamente.

No, diciamo la verità: funzionavo magnificamente. Tutte le statistiche mostravano che la Religione era in crescita: bastoncini di incenso, più 0,03; candele più 0,02; un’indagine campione su trecentocinquanta tempi zoroastriani scelti a caso mostrava un aumento dei fedeli mattutini di quasi l’uno per cento. Il Vecchio in persona mi mandò a chiamare. — Avete fatto colpo sul Comitato di Pianificazione — tuonò. — Tarb, vi faccio tanto di cappello! Cosa possiamo fare per facilitarvi il lavoro? Volete un altro assistente?

— Ottima idea, signore! — dissi subito, e aggiunsi senza pensarci due volte: — Cosa sta facendo di bello Dixmeister?

E così il mio vecchio apprendista tornò a far parte della mia squadra. Apprensivo, servizievole, pieno di scuse… consumato dalla curiosità. Proprio come lo volevo io.

E non era il solo ad essere divorato dalla curiosità, perché tutti nell’Agenzia sapevano che stava succedendo qualcosa di grosso, ma nessuno sapeva cosa. Il bello era che nessuno sapeva quanto poco io stesso sapevo. Direttori di sezione e capi redattori, sulla strada fra il nono e il quindicesimo piano, decidevano una dozzina di volte al giorno di prendere la scorciatoia attraverso il mio ufficio. Per pura cortesia si fermavano a battermi sulla spalla e a dirmi come tutti parlavano bene del mio lavoro… e che dovevamo vederci, a cena, o a bere qualcosa, o per fare un giro al club. Io sorridevo, e non accettavo alcuni invito. Ma neppure li respingevo, perché se avessero insistito troppo, avrebbero scoperto quanto in effetti ero ignorante. Così mi limitavo a dire: — Sicuro! — e: — Appena possibile! — e se si trattenevano troppo, prendevo un telefono e ci mormoravo dentro fino a quando, sorridenti ma rodendosi dentro, non se ne andavano. Mentre Dixmeister, nel cubicolo accanto al mio ufficio, mi teneva gli occhi addosso, preoccupato e torvo, finché non si accorgeva che lo guardavo, e allora mi faceva un sorriso da. cane bastonato.

Ah, come mi piaceva!

Naturalmente, il buon senso mi diceva di non tirare troppo la corda. Io ero solo un piccolo ingranaggio nei piani di Haseldyne e Mitzi. Ero tollerato, più che necessario. Anzi: non ero necessario per niente, tranne per il fatto che era più facile per loro tenermi lì che tapparmi la bocca.

Tutto quello che dovevo fare, era continuare a render loro più facile tenermi dentro che fuori… E poi… e poi sarebbe venuto il momento in cui l’operazione sarebbe andata in porto, e Mitzi e Haseldyne sarebbero stati proprietari. E con un po’ di fortuna, Tenny Tarb sarebbe stato dei loro. Direttore di sezione… no, pensai, bevendomi una Mokie, meglio ancora: D.G.E.! E questo era un sogno di gloria. Lo sapete cos’è un re? Ve lo dico io cos’è un re: paragonato a un Direttore Generale Esecutivo di una grossa Agenzia, un re è niente.

E il futuro?, pensai aprendo un’altra Mokie. Se Mitzi e io fossimo tornati insieme, a tempo pieno? Se ci fossimo perfino sposati? Sé io non fossi stato solo un Q.G.E. ma un azionista proprietario dell’Agenzia? Sogni intossicanti! Facevano apparire il mio piccolo problema con le Mokie una cosa da niente. Con i soldi potevo permettermi la migliore disintossicazione del mondo. Potevo perfino… Un momento… cos’era? L’idea che si era formata nel mio subconscio alla riunione dei Consumisti Anonimi.

Mi alzai di scatto, e quasi rovesciai la Mokie. Dixmeister arrivò di corsa, spaventato. — Signor Tarb? State bene?

— Sto benissimo, Dixmeister — gli dissi. — Senti, non ho visto il Vecchio passare lungo il corridoio un momento fa? Vedi se puoi raggiungerlo… chiedigli se vuole venire nel mio ufficio un momento.

Mi sedetti e aspettai, mentre l’idea assumeva la sua forma perfetta nella mia mente.


Non si può avere il Vecchio senza il suo branco di tirapiedi, tre o quattro, che lo seguivano passo passo e si affollavano sulla soglia mentre lui faceva le sue visite. Tutti avevano titoli altisonanti, e ciascuno di loro guadagnava quattro volte quello che guadagnavo io, ma erano sempre tirapiedi. Li ignorai. — Grazie per essere venuto, signore — dissi con un gran sorriso. — Volete sedervi? Prego, prendete la mia sedia.

Non si può avere il Vecchio, inoltre, senza cinque minuti di chiacchiere preliminari. Si sedette e comincio a raccontarmi dei vecchi tempi, e di come aveva fatto i soldi, evitando di guardare il distributore di Mokie, come se fosse una dentiera che mi ero dimenticato sul tavolo. Riascoltai per la seconda volta la saga di come era tornato da Venere con i milioni vinti alla lotteria, e li aveva scommessi tutti sulla speranza di trasformare due Agenzie defunte in un successo strepitoso. — Ha funzionato, Tenn — disse con voce roca, — grazie ai prodotti! È su questo che è stata costruita la T.G.&S. i prodotti. Non ho niente da dire contro gli Intangibili, ma sono le merci che la gente ha bisogno di farsi vendere, per il loro bene e per il bene della stessa umanità!

— Giusto, signore — dissi, perché nessun’altra risposta è permessa quando parla il Potere. — Però ho una piccola idea che vorrei proporvi. Conoscete i Consumisti Anonimi?

Mi lanciò un’occhiata come una folgore di tempesta. I solchi verticali fra gli occhi erano profondi come quelli di Mitzi e ce n’erano molti di più. — Quando vedo i Consumisti Anonimi penso sempre che sono manovrati dai Venusiani. Quando va bene, sono degli spostati!

— Sicuro che sono degli spostati, ma c’è qui un mercato potenziale che secondo me non abbiamo sfruttato. Vedete, questi Consumisti Anonimi sono fuori controllo. Prendono Caffeissimo cinquanta volte al giorno, o tante di quelle Mia-menta che manderebbero in rovina un Funzionario di prima classe; hanno ogni genere di mega-ipertropia del normale e decente consumo. Così vanno dai C.A. Poi cosa succede? La maggior parte riescono a trattenersi un paio di giorni. O meno. Poi ci ricascano. Entro una settimana sono peggio di prima. Diventano casi clinici, e sono persi per sempre al consumo. E nei casi di successo, è ancora peggio. Un vero e proprio lavaggio del cervello li porta a economizzare. Perfino a risparmiare.

— Ho sempre detto — annunciò con voce grave il Vecchio, — che i C.A. sono l’anticamera del Conservazionismo.

— Giusto! Ma noi non dobbiamo perderli. Dobbiamo solo indirizzarli. Non astinenza. Sostituzione.

Il Vecchio strinse le labbra. Naturalmente i vari tirapiedi seguirono il suo esempio. Nessuno aveva afferrato l’idea, e nessuno era disposto ad ammetterlo.

Li sciolsi dal dubbio. — Organizziamo un gruppo di mutuo soccorso per ogni tipo di sovra-consumo — spiegai — e li addestriamo a sostituire. Se sono Caffeissimo-dipendenti, li facciamo passare alla Nic-O-Chew. Dalla Nic-O-Chew alla zecca di San Jacinto…

Schiarita di gola dalla porta. — La Zecca di San Jacinto non è uno dei nostri clienti — disse il Tirapiedi n. 2.

Continuai imperturbato: — Allora a qualcuno che sia nostro cliente, naturalmente… siamo un’Agenzia a spettro completo, abbiamo qualcosa per ogni settore di consumo, no? Per esempio, un consumatore che da cinque anni abbia sviluppato una dipendenza da Caffeissimo, e che sia sul punto di andare in tilt, ha ancora anni di vita utile come divoratore di Diete Starrzelius. — Il Vecchio gettò una sola occhiata al suo tirapiedi, che si zittì. — La parte successiva — dissi, — è quella che ritengo ci renderà di più. Pensiamo a questi gruppi di mutuo soccorso. Perché non potrebbero essere veri e propri club? Come logge. Con tasse di iscrizione. I membri potrebbero comprare insegne e cose del genere: orologi, anelli, magliette. Vestiti da cerimonia. Sempre diversi ad ogni gradino della gerarchia, e fatti in maniera tale da non poter essere utilizzati di seconda mano…

Prodotti — sussurrò il Vecchio, e i suoi occhi scintillavano.

Era la parola magica; l’avevo conquistato. Il suo seguito se ne accorse prima di me, naturalmente, e la stanza si riempì di congratulazioni e di progetti. Un dipartimento interamente nuovo all’interno degli Intangibili. Prima un’indagine preliminare di due settimane, tanto per essere sicuri che non ci fossero ostacoli, e per individuare le zone di maggior profitto. Il progetto doveva passare al Comitato di Pianificazione, ma poi… — Quanto entrerà in azione, Tenny — disse il Vecchio con un gran sorriso, — sarà tutto tuo! — E poi fece il gesto rituale che generazioni di dirigenti pubblicitari hanno fatto per mostrare la loro ammirazione incondizionata: si tolse il cappello e lo mise sul tavolo.

Fu un momento di gloria. Mi sentivo scoppiare il cuore. E non vedevo l’ora che se ne uscissero dall’ufficio, perché quel progetto geniale avrebbe beneficato ben poco il suo inventore. Denaro, sì. Promozioni e prestigio, sì. Ma la sostituzione non poteva curare le compulsione limbale… mio Dio, come volevo una Mokie!


Riuscivo anche a vedere la mia signora di ottone, una volta ogni tanto, anche se non molto spesso. Si fece vedere nel mio ufficio, in risposta alla nota che le avevo fatto avere sul mio nuovo progetto, e si guardò intorno con aria distratta mentre io mi scusavo per essere andato dal Vecchio invece di aspettare… ehm, dopo. — Nessun problema, Tenn — disse allegramente, ma come se pensasse ad altro. — Non interferirà con i nostri… ehm, piani. Se possiamo vederci? Ma certo… prestissimo… ci sentiamo… ciao! — Non fu proprio prestissimo. Non venne a trovarmi, né mi invitò ad andare da lei, e quando cercai di chiamarla per telefono, o era fuori, o aveva troppa fretta per parlarmi. Be’, non c’era niente di strano. Adesso che sapevo quali erano i suoi obiettivi, potevo capire che non avesse tempo per tutto, nella sua vita.

Ma volevo ancora vederla, e quando ricevetti una chiamata a sorpresa, nel mio ufficio, poco prima della chiusura, corsi subito da lei, scavalcai la Terza Segretaria, superai in fretta e furia la Seconda Segretaria e mi venne permesso di chiamare Mitzi dalla scrivania della Prima Segretaria. — Ho appena parlato al telefono con Honolulu — dissi. — Tua madre. Ho un messaggio da parte sua.

Silenzio all’altro capo del filo. Poi: — Puoi aspettarmi per un’ora, Tenny? Poi andiamo a berci qualcosa al bar dei Dirigenti.

Be’, non fu un’ora: furono quasi due, ma non mi importò di aspettare. Anche se ero sulla buona strada per diventare un pezzo grosso, il mio status ufficiale non era ancora così elevato da permettermi privilegi dirigenziali. Era già una soddisfazione essere stato ammesso, grazie all’invito di Mitzi, e poter sedere con il mio Drambuie, contemplando la città nebbiosa e nuvolosa, con tutta la sua meravigliosa ricchezza e le sue promesse, in compagnia dei miei pari… be’, quasi pari. Non mi snobbarono neppure. Anzi, quando finalmente Mitzi apparve e si guardò attorno per cercarmi, ebbi delle difficoltà a districarmi e a trovare un tavolo tranquillo per due.

Lei era accigliata (era sempre accigliata negli ultimi tempi e sembrava nervosa. Aspettò che ordinassi il suo drink preferito: Mimosa, con champagne quasi autentico e succo d’arancia ricostituito, poi mi chiese: — Allora, cos’è questa cosa di mia madre?

— Mi ha chiamato, Mitzi. Mi ha detto che ha cercato di parlare con te fin da quando sei tornata, ma senza fortuna.

— Ma le ho parlato!

— Sì, una volta. Il giorno dopo essere atterrata. Per tre minuti, ha detto…

— Ero occupata!

— …e da allora non l’hai più richiamata.

C’erano almeno mezza dozzina di solchi sulla fronte ad avvertirmi, e la sua voce era gelida. — Tarb, parliamoci chiaro. Sono maggiorenne. I miei rapporti con mia madre non sono faccende che ti riguardano. È una vecchia impicciona, ed è per metà a causa sua che me ne sono andata su Venere, e se non voglio parlarle, nessuno mi obbliga a farlo. Chiaro? — I liquori arrivarono, e lei afferrò il suo. Prima di portarlo alle labbra aggiunse: — La chiamerò la prossima settimana — e trangugiò metà Mimosa.

— Non è male — ammise.

— Io lo so far meglio — osservai. Pensando: Maledizione, è meglio che me ne vada in fretta da quell’appartamento in condominio: non posso pretendere che Mitzi mi offra il suo ogni volta. E fu come se avessi parlato ad alta voce. Si appoggiò allo schienale, guardandomi pensierosamente. La maggior parte dei solchi erano spariti dalla sua fronte, a parte quei due che adesso parevano semi-permanenti, ma il suo sguardo era più indagatore di quanto mi piacesse.

— Tenny — disse, — c’è qualcosa in te che mi attrae moltissimo…

— Grazie, Mitzi.

— La tua stupidità, credo — continuò senza badare a quello che avevo detto. — Sì. È questo. Stupido e indifeso. Mi ricordi un topolino smarrito.

Provai a dire: — Solo un topolino? Non un gattino, almeno?

— I gattini crescono e diventano gatti. I gatti sono predatori. Credo che la cosa che mi piace di più di te è che hai perso le unghie da qualche parte. — Non mi stava guardando. Teneva gli occhi sulle luci nebbiose della città. Avrei dato un braccio per sapere quali frasi si stavano formando nella sua mente in quel momento, quelle che lei aveva bloccato prima che le uscissero dalle labbra. Sospirò. — Ne vorrei un altro — disse, ritornando nel mondo in cui c’ero anch’io.

Chiamai il cameriere, e gli mormorai qualcosa all’orecchio, mentre lei scambiava sorrisi e cenni della testa con dirigenti vari. — Mi dispiace di essermi intromesso nella questione di tua madre — dissi.

Lei alzò le spalle con aria assente. — Ho detto che la chiamerò. Non parliamone più. — Il suo viso si schiarì. — Come va il tuo lavoro? Ho sentito che il tuo nuovo progetto ha ottime prospettive.

Mi strinsi modestamente nelle spalle. — Ci vorrà ancora un po’ prima che possiamo dire se vale qualcosa.

— Sarà un successo, Tenn. Fino ad allora rimarrai nel ramo Religione?

Dissi: — Be’, sì, ormai me la cavo bene con quella. Credo che comincerò a seguire qualche altro corso, per accelerare la mia laurea.

Lei annuì, come se fosse d’accordo, ma disse: — Hai mai pensato di passare alla Politica?

Questo mi sorprese. — Politica?

Lei disse pensierosamente: — Non posso irti molto, per ora, ma potrebbe essere utile se cominciassi a metterci il naso.

Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Stava parlando del dopo! — Perché no, Mitzi? Trasferirò la Religione al mio Numero Due domani stesso! E adesso… abbiamo la serata davanti a noi…

Lei scosse la testa. — Tu ce l’hai, Tenny. Io ho qualcos’altro da fare. — Vide la delusione sulla mia faccia. Sembrò dispiaciuta anche lei. Osservò il cameriere che portava la seconda ordinazione, poi disse: — Tenny, lo sai che ho un sacco di cose per la testa in questo momento…

— Capisco perfettamente, Mitzi!

— Credi davvero? — Ancora quell’espressione pensierosa. — Comunque, capisci che sono occupata. Però non so se capisci cosa sento per te.

— Del bene, spero!

— Del bene e del male, Tenny — disse lei tristemente. — Del bene e del male. Se avessi un po’ di buon senso…

Ma non mi disse cosa avrebbe fatto se avesse avuto un po’ di buon senso, e dal momento che sospettavo quello che poteva essere, lasciai la frase in sospeso. — Alla tua salute — disse, esaminando la nuova Mimosa come se fosse una medicina, prima di berla.

— Alla tua — dissi, sollevando il mio bicchiere. Non era una Mimosa. Non era neppure un Caffè Irlandese, anche se lo sembrava. In cima c’era il normale strato di Quasicrema montata, ma quello che c’era sotto era la cosa che avevo mandato il cameriere a prendere nel mio ufficio: un decilitro di Mokie-Koke pura.

5

La mattina seguente, per prima cosa, feci schioccare le dita. Dixmeister si materializzò istantaneamente sulla soglia, aspettando ordini o un invito a entrare e sedersi. Non gli diedi né gli uni né l’altro. — Dixmeister — dissi, — la Religione sta procedendo egregiamente adesso, perciò ho deciso di passarla a… come si chiama?…

— Wrocjek, signor Tarb?

— Appunto. Ho un paio di giorni liberi, così voglio mettere la Politica sul binario giusto.

Dixmeister si mosse a disagio. — Be’, in effetti, signor Tarb — disse, — da quando il vecchio signor Sarms se n’è è andato, mi sono occupato quasi sempre io della Politica.

— È proprio questo che dobbiamo raddrizzare, Dixmeister. Voglio che tutti i rapporti e i progetti vengano convogliati sul mio monitor per l’approvazione, e li voglio questo pomeriggio. No, fra un ora… no, pensandoci meglio, facciamolo subito.

Lui cominciò a balbettare: — Ma… ma… — Sapevo qual era il problema; c’erano almeno cinquanta memorie separate da esaminare, e prepararne un riassunto decente richiedeva almeno mezza giornata di lavoro. Ma di questo mi importava poco o niente.

— Datti da fare, Dixmeister — dissi con aria benevola, appoggiandomi allo schienale e chiudendo gli occhi. Ah, come mi sentivo bene.

Mi ero quasi dimenticato di essere un mokomane.

Dicono che la Mokie-Koke dopo un po’ comincia ad avere degli strani effetti sulle decisioni che uno prende. Non è che non si riesca a prendere decisioni. Non è neanche che uno le prenda sbagliate. Quello che succede, è che uno si sente così preso dai suoi problemi che una decisione non gli basta più. Ne prende una, poi un’altra, poi un’altra ancora, e quando una persona normale non riesce più a tenergli dietro, il che capita sempre, perde la calma. Dixmeister probabilmente pensava che era proprio questo che mi stava succedendo, perché lo trattavo bruscamente piuttosto spesso. Ma io non ero preoccupato. Sapevo che avrebbe dovuto succedere questo, ma non avevo paura che succedesse a me. Oh, sicuro, forse fra molto tempo… dieci anni, cinque anni… tanto lontano nel futuro, comunque, che non avevo bisogno di preoccuparmi, dal momento che un giorno intendevo piantarla con quella roba. Alla prima occasione. E nel frattempo, tutto quello che toccavo si trasformava in oro. Perfino Dixmeister doveva ammetterlo. Passai due giorni sui progetti in corso, e ragazzi, come cambio il ritmo!

La prima cosa di cui mi occupai fu il dipartimento CAP. Sapete tutti cos’è un Comitato d’Azione Politica. È un gruppo di persone con un interesse particolare, disposte a tirar fuori i soldi per corrompere (be’ diciamo influenzare) uomini politici affinché promulghino leggi e regolamenti che favoriscano quella cosa di cui si interessano. Ai vecchi tempi, i CAP appartenevano soprattutto agli uomini d’affari e a quegli che si chiamavano sindacati. Mi ricordo di aver visto quei vecchi sceneggiati storici con l’Associazione Medici Americani e i rivenditori di macchine usate… giovani e zelanti medici che conquistavano l’esenzione dalle tasse per le conferenze a Tahiti; commercianti di macchine usate che si battevano per l’inalienabile diritto di mettere segatura nel cambio. Spettacoli del genere vanno bene quando uno è giovane, ma quando uno cresce, e diventa cinico, non crede più che la gente sia così brava e buona… Comunque, quelle battaglie sono state vinte da lungo tempo, ma i CAP sono ancora in circolazione. Sono un affare quasi altrettanto buono quanto la religione. Li formate, raccogliete i loro soldi, e loro per che cosa li spendono? Alla lunga, in pubblicità! O per loro stessi, o per le campagne dei candidati che appoggiano. Così in un solo giorno misi insieme una dozzina di nuovi CAP. C’era il CAP dei collezionisti (presi l’idea da Nelson Rockwell), il CAP dei coltelli a serramanico Noi ne abbiamo bisogno per pulirci le unghie. È colpa nostra se i criminali li usano per altri scopi?, il CAP dei pedalatori di taxi, il CAP degli inquilini, che aveva lo scopo di assegnare per legge più ore di sonno prima che arrivassero gli inquilini di giorno… Oh, ero proprio lanciato!

Era quasi troppo facile. Mi rimaneva tanta energia alla fine di una giornata che non sapevo cosa farne. Avrei potuto continuare con gli studi, ma a che scopo? Quanta carriera in più mi avrebbe fatto fare una laurea? Avrei potuto trasferirmi in una nuova casa, ma l’idea di mettermi a cercarla e di fare trasloco mi deprimeva… E c’era un’altra cosa. Mi sentivo sicuro. Da come andavano le cose avevo tutte le ragioni per essere sicuro. Ma già un’altra volta mi ero sentito proprio sicuro, e come se fosse apparsa dal nulla, la mano del Destino mi aveva brutalmente colpito… Rimasi nel condominio a tempo parziale. Parlavocon Nels Rockwell quando ci capitava di essere svegli insieme, e guardavo l’Omni-V a tutte le ore, quando lui non lo era. Guardavo lo sport, i serial, i cartoni animati, e soprattutto i notiziari. Il Sudan era stato appena portato alla civiltà, utilizzando le medesime tecniche cambpelliane che erano state usate su di me. Provai un senso di orgoglio perché il mondo ogni giorno migliorava; e un po’ di fastidio e risentimento perché le tecniche cambpelliane non avevano dopo tutto migliorato granché il mio mondo. Una balena era stata avvistata al largo di Lahaina, ma ulteriori indagini avevano mostrato che si trattava solo di un serbatoio di olio di jojoba che era andato perso. Le Olimpiadi primaverili erano in corso a Tucson, e c’era stato un grosso rivolgimento nella gara di monociclismo. La signora Mitzi Ku, intervistata all’ingresso della Torre della T.G.&S. aveva negatole voci secondo cui era sul punto di lasciare l’Agenzia…

Sembrava così dolce, e così stanca sul piccolo schermo, che avrei voluta… Non avrei voluto niente. Volevo e basta. C’erano troppo cose fra me e Mitzi per volere qualcosa di specifico.

Non rispose quando provai a chiamarla a casa.

Il modo per far avverare tutti i miei desideri riguardanti Mitzi, mi dissi, era di fare del mio meglio nella politica. Così la mattina dopo il povero Dixmeister se la vide brutta. — Qui si sprecano energie — gridai, — perché la Selezione ostacola il lavoro.

— Io faccio del mio meglio — disse lui cupo, ma io scossi la testa.

— La scelta dei candidati — spiegai, — è uno dei momenti più importanti in una campagna politica. — Lui era ancora imbronciato, ma fece finta di annuire con convinzione. Be’, quello naturalmente lo sapevano tutti. Era stato stabilito, già alla metà del ventesimo secolo, che un candidato non doveva sudare troppo, doveva essere più alto della media di almeno il cinque per cento, in maniera che non avesse bisogno di salire su una cassetta in un dibattito. Poteva anche avere i capelli grigi, ma dovevano essere folti. Non doveva essere troppo grasso (ma neanche troppo magro), e soprattutto doveva essere capace di recitare i suoi discorsetti come se ci credesse veramente.

— Senz’altro, signor Tarb — disse Dixmeister con aria indignata. — Lo dico sempre alla Selezione Centrale…

— Non basta, Dixmeister. D’ora in poi sarò io stesso a fare la prima selezione.

Lui spalancò la bocca. — Ma signor Tarb, il signor Sarms lasciava sempre che fossi io ad occuparmene.

— Il signor Sarms non c’è più. Selezione alle nove di domattina nel salone. Riempilo. — E gli feci segno di uscire e di chiudere la porta, perché era già passato da mezz’ora il momento della mia Mokie.


E il salone era pieno: tutti i novecento posti, eccetto la prima fila. Quella era per me… per me e per la mia segretaria, il mio truccatore, il mio regista. Percorsi il passaggio centrale senza guardarmi né a destra né a sinistra, feci segno al mio entourage di sedersi e saltai sul palcoscenico. Immediatamente Dixmeister arrivò di corsa e si mise di fronte alla platea. — Silenzio! — gridò. — Silenzio, per il signor Tarb!

Rimasi fermo a guardarli, aspettando di percepire i loro sentimenti. In effetti, erano già abbastanza in silenzio, perché loro sapevano dove si trovavano. Quella era la sala dove il Vecchio convocava i suoi dirigenti esecutivi, dove venivano presentati i prodotti più importanti, e i nuovi clienti sollecitavano i nostri servizi. Ognuno dei novecento sedili aveva il suo schienale, bracciolo, cuscino e presa per il microfono: i dirigenti dell’Agenzia viaggiavano in prima classe. E i novecento mandati dalla Selezione Centrale erano quasi tutti consumatori d’origine.

Perciò nella sala regnava un silenzio reverenziale, e quando percepii i loro sentimenti, seppi come dovevo rivolgermi a loro. Allargai le braccia, indicando il grane auditorio. — Vi piace quello che vedete? — chiesi. — Volete cose del genere per la vostra vita? È facile! Fate solo in modo di piacermi! Ognuno di voi verrà chiamato su questo palcoscenico e avrà dieci secondi per presentarsi. Dieci secondi! Non è molto vero? Ma sono tutti i secondi di uno spot-flash, e se non siete capaci i farlo qui, in questo auditorio, non potrete servire alla T.G.&S. Cosa farete con i vostri dieci secondi? Questo sta a voi. Potete cantare. Raccontare una storiella. Dire qual è il vostro colore preferito. Chiedermi il voto… Qualsiasi cosa! Quello che dite non ha importanza: l’importante è che mi spingiate a interessarmi a voi, e ad aiutarvi a farvi eleggere… Fate in modo di piacermi!

Feci un cenno con la testa a Dixmeister. Mentre il truccatore mi aiutava a scendere, Dixmeister balzò su e abbaiò: — Prima fila! A partire da sinistra! Voi là in fondo… sul palcoscenico!

Dixmeister saltò giù e si sedette al mio fianco, dividendo ansiosamente le sue occhiate fra la mia faccia e l’attore davanti a noi. L’attore era un tipo grande e grosso, capelli arruffati, occhi brillanti sotto le sopracciglia folte. Una faccia simpatica, tutto sommato. E aveva anche pensato bene a quello che doveva dire. — Io ho fiducia in voi tutti! — gridò — E voi potete avere fiducia in Marty O’Loyre, perché Marty O’Loyre vi ama. Aiutate Marty O’Loyre con il vostro voto il giorno delle elezioni!

Dixmeister schiacciò il pulsante del cronometro e sul monitor apparve il tempo: 10.00 secondi. Dixmeister annuì. — Ottimo tempismo e tre ripetizioni del nome. — Studiò la mia faccia, cercando di saltare dalla parte giusta nel momento giusto. — Un buon candidato al posto di sceriffo? — suggerì. — Solido, forte, comunicativo…

— Guarda come gli tremano le mani — dissi gentilmente. — Niente da fare. Il prossimo!

Una bionda alta e atletica, con i muscoli di chi passa lunghe ore a giocare al polo da tavola. — Troppo snob. Il prossimo.

Una negra anziana, con labbra grosse perennemente increspate. — Può andare come giudice testamentario, ma fatele tagliare i capelli. Il prossimo.

Due fratelli gemelli, con identiche voglie a forma di cuore sull’occhio destro — È una combinazione eccezionale, Dixmeister — gli feci la lezioncina. — Abbiamo due spot per consiglieri comunali? Bene. Il prossimo.

Pallida, esile, uno sguardo perso nel vuoto, non più di ventitré anni. — So cosa vuol dire esser infelici — disse… quasi singhiozzò. — Se mi aiutate, farò del mio meglio per aiutarvi…

— Troppo sdolcinata? — chiede Dixmeister.

— Non c’è nulla di troppo sdolcinato per il Congresso, Dixmeister. Prendi il nome. Il prossimo.

La rivelazione del gruppo fu un giovane imberbe, dai lineamenti spigolosi, che disse le sue battute con voce soffocata, mentre gli occhi dardeggiavano all’intorno pieni di paura. Sa il cielo come fosse riuscito a superare la Selezione Centrale, perché di sicuro non era un professionista, e la sua «presentazione» fu un resoconto balbettante di una gita da ragazzo al Prospect Park. E anche ben oltre il tempo. Dixmeister lo interruppe a metà di una frase, e mi guardò, con le sopracciglia sollevate in sprezzante divertimento. Mentre alzava la mano per mandar via il ragazzo lo fermai, perché qualcosa si stava facendo strada nella mia mente. — Aspetta un momento. — cercai di ricatturare il pensiero fuggevole. — Ecco… sì. Adesso ricordo. Le gare di monociclo, ieri… Uno dei vincitori aveva la stessa espressione di ansiosa stupidità. L’espressione dello sportivo. — In effetti, signor Tarb — disse il ragazzo dal palcoscenico — non sono molto sportivo io. Lavoro all’ufficio spedizioni della Starrzelius.

— Adesso sei un corridore di monociclo — gli dissi. — Vai al Guardaroba a farti dare i vestiti, e il signor Dixmeister ti troverà un allenatore. Dixmeister, prendi nota: «I miei amici pensavano che non fossi adatto per il monociclo, ma io non credo. Forse sono ostinato. Disposto a pagare il prezzo di un duro lavoro, sul monociclo o nella carica di …» vediamo…

— Deputato, signor Tarb? — azzardò Dixmeister, trattenendo il fiato.

Generosamente dissi: — Giusto, deputato. Forse. — In effetti quel disgraziato era troppo buono per il Congresso; pensavo a qualcosa di più, forse Vice-presidente. Ma potevo sistemare i particolari dopo, e nel frattempo non mi costava niente far sentire bene Dixmeister per un minuto. — Ah, un’altra cosa — aggiunsi, — chiama la Federazione Monociclistica e fagli vincere un paio di gare.

— Ma signor Tarb — disse Dixmeister con un tremito nella voce, — non so se saranno disposti a…

— Diglielo, Dixmeister. Digli che razza di propaganda rappresenta una cosa del genere per il monociclo. Convincili. Capito? Bene. Il prossimo.

E il prossimo. E il prossimo. Per novecento volte. Ma avevamo bisogno di moltissimi candidati. Anche se c’erano quasi una dozzina di Agenzie con forti dipartimenti politici, non mancava lavoro per tutti. Sessantun legislature di stato. Novecento città grandi e piccole. Tremila contee. E il governo federale. Mettete tutto insieme, e mediamente c’era un quarto di milione di cariche elettive in concorso ogni anno. (Naturalmente solo una piccola frazione di queste erano abbastanza importanti — voglio dire, abbastanza costose — da meritare il tempo della T.G.&S.) Circa metà delle volte potevamo riciclare quelli già in carica, ma dovevamo comunque trovare ogni anno cinque o diecimila personaggi freschi da istruire, vestire, truccare, provare, dirigere… e forse eleggere. Di solito venivano eletti. Non aveva particolare importanza chi vinceva un’elezione, ma la T.G.&S. aveva una reputazione da proteggere. Perciò ci battevamo per i nostri candidati come se vincere o perdere facesse una vera differenza.

Prima di arrivare alla fine dei novecento, il thermos del «caffè» sul bracciolo della mia poltroncina era stato riempito due volte di Mokie, e il mio stomaco cominciava a rumoreggiare per i primi stimoli della fame. Salii ancora una volta sul palcoscenico, facendo segno ai superstiti. — Venite avanti — ordinai. Obbedirono prontamente; sapevano che per loro era un grosso colpo. Rinforzai questa consapevolezza: — Parliamo di soldi — dissi, e cadde un silenzio di tomba nella sala. — Un congressista è pagato quanto un redattore pubblicitario di nuova nomina. Un consigliere comunale prende poco meno. — Si sentì un rumore: non un rantolo, ma una sospensione del respiro, come se ognuno di loro contemplasse mentalmente il tipo di paga capace di innalzarli in un solo colpo oltre la classe dei consumatori. — E questo è solo il salario. È solo l’inizio. La parte più sostanziosa è costituita dagli onorari, le consulenze, gli incarichi — (non c’era bisogno che dicessi le bustarelle) — che si accompagnano alla posizione. E possono essere davvero sostanziose. Quanto? Be’, io conosco un paio di senatori che ogni anno guadagnano quanto un direttore generale. — Un brivido percorse la folla, e questa volta si sentirono veri rantoli. — Non vi chiederò se volete una cosa del genere, perché non credo che ci siano pazzi qui dentro. Vi dirò come arrivarci. Tre cose. Non impicciatevi di ciò che non vi riguarda. Lavorate sodo. Fate quello che vi viene detto. Quindi, se sarete fortunati… — li lasciai in sospeso un momento, prima di sorridere. — Per il momento tornatevene a casa. Ripresentatevi alle nove di domani mattina per ulteriori istruzioni.

Guardai l’orologio mentre uscivano. L’intera faccenda era durata poco più di quattro ore, e Dixmeister non la finiva di adularmi. — Uno splendido lavoro, capo! Sarms ci sarebbe restato una settimana a pensarci. E adesso — strizzò un occhio, — se non sono impertinente, conosco un posto dove servono vera carne, e qualunque distillato possiate nominare. Cose ne direste di un buon vecchio Martini…

— Il pranzo — lo interruppi, — sarà un panino nel mio ufficio, e altrettanto per te. Perché voglio questa sala piena di nuovo in novanta minuti!


Bene, così fu, o quasi, e trovammo altri settantun possibili candidati. Ma quando ordinai la stessa cosa per la mattina seguente, la Selezione Centrale poté mandarmene solo centocinquanta circa. Stavamo prosciugando le loro riserve più in fretta di quanto riuscissero a rimpiazzarle. Così uscii e gironzolai per la strada, da un distributore di Mokie-Koke a un altro, studiando facce, modi di camminare, gesti. Ascoltai conversazioni, ogni tanto cominciai una discussione, per vedere come reagiva il candidato. Poi tornavo a casa, o in ufficio, e guardavo i notiziari Omni-V, cercando del talento nella vittima di un incidente o in una madre piangente perché il figlio era stato derubato per strada… o anche qualcuno che aveva appena fatto una rapina, perché trovai uno dei migliori candidati al Congresso per il New Jersey fra i fermati dalla polizia dopo un tentativo di furto con scasso. Tenni Dixmeister sotto pressione perché non si lasciasse sfuggire di mano i particolari. Mi preparò un nastro con i candidati dell’Agenzia alla seconda nomina, e io visionai tutte le scene per scovare qualche tratto interessante, o qualche modo di fare di cui dovevano liberarsi, se volevano essere ripresentati da noi.

Uno mi diede da fare. Era il Presidente degli Stati Uniti, un vecchietto dall’aria simpatica con delle specie di bargigli che gli andavano dalla punta del mento al collo, e una faccia da mummia che aveva accompagnato la vita di tre quarti degli elettori. Aveva recitato la parte del papà nel remake porno per l’infanzia di Caro Papà… sapete, quello che mette sempre i piedi sugli escrementi dei cani e che scorreggia ogni volta che si china per raccogliere il fazzoletto. Era apparso sui notiziari mentre conversava con l’Alto Primo Segretario della Repubblica Liberista del Sudan. Una sequenza di venti secondi, ma il Sudanese era riuscito ad accendere due sigarette Verily, bere una tazza di Caffeissimo e rovesciarne metà sul suo nuovo vestito Starrzelius, in un accesso di tosse, mentre diceva: Oh, zi, zinor presidende, molde molde grazie per averci zalvado! — Ebbi un groppo alla gola pensando a quel piccolo selvaggio e a tutta la sua gente benedetta finalmente dal libero mercato… ma provai anche qualcos’altro. Non era il Sudanese. Era il Presidente. Non si era spostato abbastanza in fretta, e metà Caffeissimo gli era finito sulla giacchetta da cerimonia… E mi venne l’idea.

— Dixmeister! — sbraitai, e tre secondi dopo lui era sulla porta, in attesa di ordini. — Quel babbeo del monociclo. Come va?

— È caduto cinque volte questa mattina — disse Dixmeister cupamente. — Non so se ci riuscirà mai. Se volete continuare con lui…

— Certo che voglio!

Lui inghiottì. — Nessun problema, signor Tarb. È tutto sotto controllo. Prendiamo un paio di monociclisti e gli montiamo la sua faccia in…

— Dieci minuti — ordinai, e ci riuscii. Entro nove minuti e trenta secondi era di nuovo nel mio ufficio a dirmi che gli spezzoni erano pronti. — Vediamo — ordinai, e lui tutto orgoglioso mi fece vedere quello che aveva scelto.

Erano tutti buoni, dovetti ammettere. Quattro corse. In ognuna il vincitore era abbastanza simile nell’aspetto al nostro babbeo, e ogni volta c’era un primo piano del vincitore, sorridente e ansimante, a cui potevamo sostituire il nostro, nello spot per la sua elezione. Ma ce n’era una che era meglio delle altre, perché era proprio quella che cercavo.

— Vedi? — chiesi. Naturalmente no. Agitai un dito. — L’incidente — dissi con aria paterna. In uno degli spezzoni il quarto monociclista sulla dirittura finale aveva deviato disperatamente per evitare il terzo. A qualche metro dal traguardo era finito a terra, a gambe levate. La telecamera aveva zoomato su di lui per un rapido primo piano della sua faccia, scornata e umiliata, prima di tornare sul vincitore.

E lui continuava a non capire niente. — Lo metteremo in corsa per le primarie presidenziali — annunciai.

Questo lo fece restare senza fiato. — Ma non ha… non è… non è possibile…

— È quello che faremo — ripetei — e c’è un’altra cosa. Hai notato il ciclista caduto? Non ti ricorda qualcuno?

Lui fece tornare indietro il nastro, bloccò l’immagine, guardò. — No — disse perplesso. — Non mi pare. A meno che… — trattenne il fiato. — Il Presidente? — Annuii. — Ma… ma è nostro. Non possiamo sconfiggere un nostro uomo…

— Quello che non possiamo, Dixmeister — scattai, — è permettere che il nostro uomo perda… chiunque sia. Ho detto «le primarie». Se il Presidente le vince, bene, avrà un’altra occasione. Ma se il monociclista lo supera, perché no? E useremo questo nastro! Monta la faccia del Presidente su quello che è caduto… è sufficiente un solo un flash, abbastanza per suggerire che è caduto sul traguardo… poi pensiamo allo spot del ragazzo.

Dixmeister mi fissò incredulo per un momento. Poi il concetto cominciò a farsi strada nella sua mente, e l’espressione divenne di adorazione. — Subliminalmente. — sussurrò, — è un capolavoro, signor Tarb.

Sì, lo era. Chi poteva fermarmi, ormai?

Eppure non ero felice.


Venerdì cominciai a sentirmi molto giù. Quando Mitzi mi passò accanto nel corridoio mi guardò stupefatta. — Sei dimagrito, Tenny! Cerca di dormire. Mangia qualcosa di decente… — Ma poi Haseldyne le diede uno strattone, e lei si infilò nell’ascensore, guardandomi preoccupata.

Era vero che ero dimagrito. E non dormivo molto. Mi accorgevo che diventavo sempre più irritabile, e perfino Nelson Rockwell pareva non aver più tanta voglia di parlare con me.

Avrei dovuto sentirmi felice. Il fatto che non lo fossi mi stupiva molto, perché mai nella mia vita avevo avuto di fronte un futuro così roseo. Mitzi e Haseldyne si stavano preparando a fare la loro mossa. Ad ogni ora io stavo dimostrando di essere l’uomo giusto da prendere con loro nell’operazione. Feci uno sforzo perimmaginarmi al cinquantacinquesimo piano, con una finestra nel mio ufficio d’angolo,e magari una doccia… E alla fine, fecero il colpo. Lo fecero proprio quel venerdì, a un quarto alle quattro del pomeriggio. Ero, andato in una specie di clinica per il recupero delle psiconeurosi, alla ricerca di un candidato per la corte d’appello, e quando tornai alla Torre, mi accorsi che era successo qualcosa. Tutti sussurravano, tutti avevano una faccia esterrefatta. Mentre salivo, sentii dietro di me il nome «Mitzi Ku». Smontando dalla scala mobile, aspettai la giovane assistente che aveva parlato e le sorrisi. — Mitzi è il nuovo capo qui, giusto?

Lei non sorrise. Mi guardò solo con aria strana. — Il nuovo capo sì. Qui no — e se ne andò.

Tremando, raggiunsi l’ufficio di Val Dambois. — Val, vecchio mio — chiesi — cosa è successo? C’è stato un cambio della guardia?

Lui mi gelò con un’occhiata. — Le mani — disse. — Tirale via dalla mia scrivania. Macchi la lucidatura.

Sì, c’era proprio stato un grosso cambiamento! — Ti prego, Val, dimmi cos’è successo!

Lui disse aspramente: — È stata la tua amichetta Mitzi, e quello scimmione di Haseldyne. Ma non è stato un cambio della guardia. Hanno preso per il naso tutti. È stata la vecchia manovra di Ichan. Hanno spaventato a morte il Vecchio facendogli credere che volessero prendere il controllo; hanno spinto gli azionisti a comprare da loro a dieci volte il valore che possedevano; hanno preso i soldi e hanno comprato un’altra Agenzia!

E io non avevo sospettato niente.

Mi diressi verso la porta, senza sapere neppure quello che stavo facendo, finché alle mie spalle Dambois pronunciò le parole magiche:

— Ancora una cosa. Sei licenziato.

Questo mi fece voltare di scatto. Spalancai la bocca. — Non puoi farlo! — Lui sogghignò. — Non è possibile. Il mio progetto sui Consumisti Anonimi…

Lui alzò le spalle. — È in buone mani. Le mie.

— Ma… Ma… — Poi ricordai, e mi gettai sull’unica mia speranza come un naufrago sul salvagente. — Ho un’anzianità! Sono di prima classe… ho un’anzianità… Non puoi licenziarmi!

Lui mi guardò irritato, poi strinse le labbra. — Hmmm — disse e si succhiò i denti. Compose sulla tastiera il mio codice personale e lo studiò un momento.

Poi la sua espressione si illuminò. — Ma Tarb — disse calorosamente, — tu sei un patriota! Non lo sapevo che fossi nella Riserva. No, non posso licenziarti, ma quello che posso fare è mandarti in servizio per un anno o due… C’è una specie di mobilitazione in corso…

Sentii una sensazione di vuoto nello stomaco. — È assurdo! Ho ancora la mia anzianità, lo sai. Quando questa emergenza sarà terminata…

Lui alzò le spalle. — Io penso sempre al lato bello delle cose — disse. — Dopo tutto potresti non tornare più.

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