Tarb in disgrazia

1

Lo so che non avrei dovuto firmare quei documenti di arruolamento nella Riserva, all’università. Ma chi poteva pensare che li avrebbero presi sul serio? Quando uno ha dieci anni entra nel Giovani Scrittori di Slogan. A quindici, nella Piccola Lega del Libero Mercato. All’università, è la volta della Riserva. Lo fanno tutti. Vale per due corsi al semestre, e uno non deve fare Letteratura Inglese. Tutti quelli furbi lo fanno.

Ma per qualcuno che era finito in disgrazia, come me, non era poi una cosa tanto furba.

Se non avessi perso la testa, avrei potuto cercare un sistema per cavarmela… magari andare da Mitzi e implorare un lavoro… magari trovare un medico che mi dichiarasse inabile. Magari il suicidio. Quello che feci, andò molto vicino alla Possibilità N° 3. Mi presi una sbronza di Mokie mescolandola con Vodd-Quor, e mi svegliai su un trasporto truppe. Non ricordavo assolutamente di essermi presentato a rapporto, e quasi niente delle ultime quarantott’ore. Buio totale.

E un mal di testa totale. Non ebbi la possibilità di apprezzare le sordide miserie dei viaggi militari, perché ero troppo assorbito dalle miserie interne della mia testa. Riuscivo appena ad aprire gli occhi senza provare fitte mortali di dolore, quando mi scaricarono insieme ad altri cinquecento a Camp Rubicam, Nord Dakota, per due settimane di corso d’aggiornamento ufficiali. Consisteva in gran parte nel sentirsi dire che stavamo compiendo uno dei doveri più sacri nei confronti della società, e in esercitazioni a ranghi serrati. Poi ci fecero impacchettare le tastiere e i dischi dei computer, ce li caricammo sulle spalle e ci imbarcammo per l’esercitazione sul campo.

Esercitazione sul campo. Mi venivano i brividi solo a pensarci.

Il primo trasporto truppe era stato un inferno. Questo era quasi identico, eccetto che durò molte ore di più e dovetti affrontarlo da sobrio. Niente cibo. Niente cesso. Niente spazio per uscire dal bozzolo dove uno avrebbe dovuto «riposarsi». Niente da bere a parte l’acqua… e quest’ultima era la cosa più simile alla pura acqua di mare a cui si potesse arrivare senza violare la legge. Ma la cosa peggiore era che non sapevo quanto sarebbe durato. Alcuni dicevano che saremmo andati fino a Hyperion, per dare ai minatori di gas una lezione. L’avrei pensato anch’io, non fosse stato per il fatto che il trasporto aveva solo ali e jet. Niente razzi. Quindi niente viaggi spaziali; perciò doveva essere da qualche parte sulla Terra.

Ma dove? Le voci che si spandevano nell’aria fetida, da cuccetta a cuccetta, erano l’Australia… no, il Cile… neanche per sogno; avevano sentito dire all’ingegnere di volo che era l’Islanda.

Finimmo nel Deserto del Gobi.

Uscimmo dall’aereo con i nostri zaini e le nostre vesciche piene da scoppiare, e ci allineammo per essere contati. La prima cosa che notammo, fu che faceva caldo. La seconda che era secco. Non voglio dire il normale secco che c’è m certe giornate d’estate. Voglio dire secco. Il vento soffiava dappertutto una fine polvere bianca. Ci s’infilava fra le dita. Se uno teneva la bocca chiusa, si infilava anche fra i denti, e muovendo la mascella la si sentiva scricchiolare. Ci misero un’ora a contarci, poi ci fecero salire su un convoglio formato da dieci rimorchi e una motrice, che ci trasportò su quelle strade bianche e polverose fino agli alloggi.

Il posto è noto tecnicamente come Regione Autonoma di Xinjiang Uygur, ma tutti la chiamavano la Riserva. Era lì che vivevano alcuni degli ultimi gruppi di aborigeni non civilizzati. Uygur, Hui, Kazak: quelli che non avevano mai fatto la transizione alla società di mercato, quando il resto della Cina si era unito. Attorno a loro fiorisce la civiltà: RussCorp a nord; Indiastry a sud, e CinaHan alle loro porte. E loro se ne stanno lì, come se niente fosse! Mentre avanzavamo, tossendo e soffocando, vedevamo gli uomini seduti in cerchio, sulle strade laterali, che non alzavano neppure gli occhi a guardarci. Lo squallore era sconvolgente. Le case di fango gli crollavano addosso, e nel cortile c’era una pila di mattoni di fango, che si seccavano al sole, pronti per costruire una nuova casa quando quella vecchia fosse crollata del tutto. Davanti avevano una vecchia antenna arrugginita, per captare la TV via satellite, che di sicuro non era più in grado di ricevere immagini decenti… E c’erano sempre i bambini, a centinaia, che ridevano e ci facevano segni. Che ragione avevano di essere tanto felici? Non per le loro case, senz’altro. Di sicuro non dopo che arrivammo noi e gli requisimmo le migliori… quello che doveva essere stato un motel per turisti (ve l’immaginate qualcuno che andava in un posto del genere volontariamente?), con veri condizionatori d’aria alle finestre e una vera fontana nel cortile. Naturalmente la fontana era chiusa. E anche i condizionatori d’aria. E così pure l’energia elettrica. Così mangiammo (se si può chiamarlo mangiare: bistecche di soia e frappa di latte sintetico) alla luce delle candele! Agli ufficiali promisero una sistemazione migliore la mattina dopo, quando i comandanti ci avessero smistato, ma per il momento, se non ci dispiaceva…

Che ci dispiacesse o no, non faceva nessuna differenza, perché non c’era altro posto dove poter andare, se non nelle stanze del motel. Non sarebbero state neanche tanto male, se la fureria avesse messo dei materassi sui letti per dormirci sopra. Così distendemmo la maggior quantità possibile di vestiti, e cercammo di prender sonno, nel caldo e nella polvere, mentre tutti quanti intorno tossivano, e da fuori arrivavano rumori strani. Il peggiore era una specie di ululato meccanico: «Aaaah», e qualche volta «Aaaah-ee!». Mi addormentai chiedendomi quale macchinario primitivo facessero funzionare per tutta la notte. Chiedendomi cosa ci facessi lì. Chiedendomi se sarei mai tornato alla Torre, per non parlare del cinquantacinquesimo piano. Chiedendomi soprattutto che probabilità avessi di trovarmi un paio di Mokie, la mattina dopo, dal momento che la confezione da dodici che mi ero messo nello zaino era quasi finita.


— Sei Tarb? — gracchiò una voce aspra nel mio orecchio. — In piedi. Il rancio è fra cinque minuti, e il colonnello vuole vederti fra dieci.

Sollevai una palpebra. — Il che?

La faccia china sulla mia non si ritrasse. — In piedi! — ruggì, e mentre lo mettevo a fuoco, vidi che apparteneva a un uomo dalla pelle scura, accigliato, con le mostrine di maggiore e una sfilza di nastrini sulla tuta mimetica.

— Subito — farfugliai, e riuscii a ricordarmi di aggiungere «signore». La faccia non sembrò soddisfatta, comunque si allontanò. Mi spostai verso il bordo del letto, cercando di evitare le più aguzze e arrugginite delle molle (avevo metà del corpo ricoperto di graffi), e affrontai il problema di infilarmi i pantaloncini e la maglietta. Il problema si dimostrò risolvibile, anche se penso di averlo fatto nel sonno. Il problema di dove fosse il «rancio» non fu un problema per niente, perché dovetti solo seguire una lenta coda di soldati, con gli occhi rossi e la barba lunga, diretta verso quella che era denominata «Sala da Pranzo A». Perlomeno c’era il Caffeissimo. Meglio ancora, c’erano Mokie, anche se queste non le passava il governo, e persi momenti preziosi a farmi cambiare banconote in monete dalle poche facce familiari, che stavano attaccando i loro Om’Let. Naturalmente il distributore automatico inghiottì le prime tre monete senza darmi in cambio neanche una Mokie, ma al quarto tentativo ci riuscii; era cala, ma mi permise di affrontare il sole accecante con un po’ più di coraggio.

Trovare l’ufficio del colonnello fu molto più difficile. Nessuno dei nuovi arrivati, come me, aveva la più pallida idea di dove fosse. I veterani, a quanto pareva, erano ancora felicemente addormentati nelle loro brande, aspettando che la calca nella sala mensa diminuisse, in modo da potersi godere la colazione con comodo. Un paio di indigeni che si aggiravano con scope e secchi di acqua grigia e schiumosa (pur non mostrando segno alcuno di usarli) furono felicissimi di darmi indicazioni: ma dal momento che non avevamo un linguaggio comune, non riuscii a capire dove mi indirizzavano. Mi trovai così ai bordi del campo, superai un cancello, e un odore repellente mi assalì le narici, e nello stesso istante quel terribile Aaaah-ee! mi riempì le orecchie.

Il mistero dei rumori meccanici di quella notte fu chiarito. Con mio infinito disgusto scoprii che le macchine non erano macchine. Quella gente teneva degli animali. Animali vivi! Non in uno zoo, o impagliati, a dovere in qualche museo, ma m mezzo alle strade, che tiravano carretti, e perfino defecavano proprio dove la gente camminava. Ero capitato in una specie di posteggio per quelle creature. Vi giuro che per un attimo fui sul punto di vomitare la Mokie che avevo appena bevuto.

Quando riuscii finalmente a trovare l’ufficio del colonnello, ero naturalmente in ritardo di almeno venti minuti, ma avevo imparato alcuni fatti sul duro mondo in cui ero stato gettato. Gli animali che emettevano quel verso si chiamavano asini. Un tipo più piccolo di asino, con le corna, si chiamava capra, ma avevano anche polli, cavalli e yak. E ognuno di questi aveva un odore peggiore, e abitudini più disgustose, dell’altro. Quando finalmente capitai nei pressi di una costruzione in mattoni con la scritta: «Qg 3° Btg. & Comp. Coni.» sapevo di essere sulla buona strada per la mia prima reprimenda, ma non mi importava. C’era il condizionatore d’aria, e funzionava, e quando il primo sergente mi disse accigliato che avrei dovuto aspettare, e che il colonnello mi avrebbe mangiato vivo, l’avrei baciato, perché l’aria era,fresca, i suoni disgustosi provenienti da fuori erano attutiti… e vicino alla porta c’era un distributore di Mokie.

Il sergente fu facile profeta. Le prime parole del colonnello furono: — Siete in ritardo, Tarb! Cominciate male! Voi pubblicitari mi fate proprio venire i nervi!

In un’altra situazione, le avrei risposto per le rime, ma quella non era una situazione normale. Il colonnello era un libro aperto per me: una veterana con il petto pieno di nastrini guadagnati nelle campagne in Sudan, Nuova Guinea, Patagonia. Senza dubbio era venuta dalla gavetta, con l’antico odio dei consumatori per le classi superiori. Ingoiai le parole che mi salivano alle labbra, rimasi fermo sull’attenti più che potei e dissi: — Sissignora.

Lei mi guardò con lo stesso disgusto con cui io avevo guardato gli asini. Scosse la testa. — Cosa me ne debbo fare di voi, Tarb? Avete qualche capacità non indicata nella vostra scheda personale… cuoco, idraulico, cameriere?

Dissi indignato: — Signora! Sono un redattore pubblicitario di prima classe!

— Lo eravate — mi corresse lei. — Qui siete solo un ufficiale qualunque, e io devo trovarvi un lavoro.

— Ma senz’altro le mie capacità… la mia abilità nel creare una campagna promozionale…

— Tarb — disse lei stancamente, — tutta questa roba la fanno al Pentagono. Qui noi non ci occupiamo di strategia. Siamo solo quelli che la applicano. — Fece scorrere cupamente un elenco… esitò… proseguì… tornò indietro e mise il dito su una riga della tabella Organizzativa.

— Cappellano — disse soddisfatta.

Spalancai gli occhi. — Cappellano? Ma non ho mai… voglio dire, non conosco niente…

— Voi non conoscete niente di niente, tenente Tarb — disse, — ma fare il cappellano è un lavoro facile. Imparerete subito. Avrete un assistente che sa già tutto… e dovrebbe essere un posto dove non avrete la possibilità di combinare guai. Potete andare! E cercate di tenervi fuori dai piedi finché la campagna non sarà finita, così poi sarete un problema per qualcun altro.


Così cominciai la mia carriera come cappellano al Quartier Generale Terzo Battaglione e Compagnia Comando (pesanti proiettori limbici e schermi aerei): non l’incarico migliore del mondo, ma sempre meglio che andare porta a porta con la fanteria. Il colonnello mi aveva promesso un assistente esperto, e così fu. Il sergente maggiore Gert Martels aveva sul petto alquanto sporgente nastrini che risalivano alla Cambogia.

Quando misi piede nel mio dominio per la prima volta, mi salutò, con un saluto svogliato, ma con un sorriso caloroso. — Buongiorno, tenente, — disse con voce melodiosa. — Benvenuto al Terzo!

Mi accorsi subito che il sgt/mg Martels sarebbe stata la cosa migliore del mio incarico… be’, la seconda migliore, almeno. L’ufficio in se stesso era squallido. Era l’ex lavanderia del motel, e si vedevano ancora le macchie di detersivo e candeggiante dove c’erano state le macchine. Lungo le pareti correvano ancora tubi chiusi da tappi. Ma c’era l’aria condizionata! Era situata nel motel con le fontane e le piante, solo che ora le fontane funzionavano, e noi ultimi arrivati eravamo stati spostati negli alloggiamenti «regolari», in maniera che il resto del motel potesse accogliere gli uffici del QG. Suppongo che l’aria condizionata fosse la terza buona cosa, in ordine di importanza. Quella migliore di tutte era un distributore automatico di Mokie, e da come ronzava, capii che le Mokie ne sarebbero uscite ghiacciate. — Come facevate a saperlo? — chiesi. La sua faccia, bella per quanto segnata da cicatrici, si illuminò con un altro di quegli eccellenti sorrisi.

— È dovere di un assistente — disse — sapere queste cose. E ora, se il tenente vuole sedersi alla sua scrivania, sarò felice di rispondere alle sue domande…

Andò ancora meglio di così. Non dovetti neppure fare le domande, perché il sergente Martels sapeva meglio del tenente quello che il tenente aveva bisogno di sapere. Questa era la strada per il circolo ufficiali; questi i permessi che avevo l’autorità di firmare; quello là sulla parete era il citofono, usato solo da un amico nell’ufficio del colonnello per avvertirci che il colonnello medesimo veniva dalle nostre parti. E in caso il tenente non apprezzasse il cibo della mensa, il tenente aveva sempre il privilegio di essere stato occupato m doveri di emergenza durante le ore di mensa, e di doversi accontentare di uno «spuntino» nella sala privata ufficiali. Il tenente, aggiunse con aria innocente, aveva anche il privilegio di portare con sé la propria assistente, qualora lo ritenesse necessario.

Perché mai, mi chiesi beatamente, avevo avuto tanta riluttanza ad abbandonare l’ossessiva scalata al successo del mondo pubblicitario, per venire in quel paradiso terrestre?


Be’, proprio un paradiso non era. Le notti erano ancora un inferno. Gli alloggiamenti «regolari» si rivelarono baracche di schiuma solidificata, circondate da trincee. L’unica «aria condizionata» di cui disponessero erano dei piccoli ventilatori a batterie solari, e le pareti di schiuma durante il giorno assorbivano ogni caloria dell’accecante sole del Gobi, per restituircele di notte. Poi c’erano gli insetti. C’erano anche gli incessanti versi notturni degli animali nei recinti fuori dal campo. E c’erano le ore insonni. miserabili, in cui pensava a quello che poteva fare Mitzi, e a chi si era preso il mio lavoro alla Taunton, Gatchweiler e Schocken. C’era anche il fatto che il calore del deserto prosciugava dal mio corpo le Mokie con la stessa velocità con cui le ingurgitavo, ed ogni giorno diventavo più magro e più teso. Il secondo giorno Gert Martels mi guardò allarmata. — Il tenente — disse — lavora troppo. — Nulla di più falso, naturalmente: doveva ancora venire un soldato da me per ricevere conforto spirituale. — Suggerirei che il tenente si scriva un permesso e si prenda una giornata di libertà.

— Un permesso per andar dove, in questo inferno? — sbottai, poi ci ripensai. Non avevo già avuto una conversazione simile a quella una volta… su Venere… con Mitzi? — Be’ — dissi ripensandoci, — immagino che fra dieci anni mi pentirei di non aver visto tutto quello che c’è da vedere. Solo che vieni anche tu.

Così, venti minuti più tardi, sedevamo schiena a schiena su una specie di carrettino a quattro ruote, con una tendina sulla testa, pedalando lungo la strada polverosa verso la metropoli di Urumqi. Automezzi militari ci passavano accanto ruggendo e sollevando ondate di polvere alte un paio di metri. Che bel divertimento! La conversazione era quasi impossibile, non solo perché guardavamo in due direzioni opposte, ma perché metà del temo dovevamo tossire per liberarci la gola dalla polvere, fino a quando Gert non tirò fuori delle specie di mascherine da chirurgo da metterci sul naso e sulla bocca.

Fortunatamente Urumqi (pronunciato U-RUM-ci… il che dice molto sugli Uygur) non era molto lontana. E non era neppure molto di niente, una volta arrivati. La strada principale aveva dei veri alberi, una doppia fila, ma sotto gli alberi c’era solo polvere gialla. Niente erba, niente fiori. C’erano una dozzina di Uygur, con mascherine di loro fattura, che scopavano le foglie cadute. Come se nell’aria non ci fosse già abbastanza polvere, quelli ne sollevavano a nuvole, in caso rimanessimo a corto. — Voglio una Mokie — gridai raucamente, e Gert si voltò a dirmi: — Resistete, tenente!

— Mi chiamo Tenny.

— Resisti, Tenny, siamo quasi arrivati. Laggiù, vedi? Spaccio Militare, e hanno tutte le Mokie che vuoi.

Infatti era così; e non solo quello: avevano un bar, e una tavola calda con cibi di marca, aperta a tutti i ranghi, e un circolo ufficiali con Omni-V via satellite. E toilette con lo scarico! E (questo vi dà un’idea di quale celestiale lusso fosse, dopo quarantott’ore sul campo) fu solo aver notato tutte queste cose, che mi accorsi dell’aria condizionata. — Quanti permessi posso firmarmi? — chiesi.

— Tutti quelli che vuoi — disse Gert, e ci dirigemmo per prima cosa alla tavola calda. Quando dissi che offrivo io, lei sembrò divertita, ma non sollevò obiezioni ci mangiammo panini con Tacchino del Fattore e Panevero, insieme a una mezza dozzina di Mokie, comodamente seduti a un tavolo vicino alla finestra, guardando sdegnosamente gli indigeni di fuori. — Ci sono posti peggiori di questo — annunciò Gert, ordinando un altro Caffeissimo.

Allungai una mano e le toccai i nastrini sul petto. Lei non si ritrasse. — Tu ne avrai visto qualcuno, vero?

La sua espressione si scurì. — Penso che la Nuova Guinea sia stato il peggiore — disse, come se il ricordo ancora le pesasse.

Annuii. Tutti sapevano della Nuova Guinea, e di come centinaia di indigeni erano morti nei disordini che si erano verificati quando il Caffeissimo e il Manzovero erano finiti.

— È un lavoro sacrosanto, Gert — dissi con voce piena di comprensione. — Non restano molte riserve di selvaggi. Spazzarle via è necessario… un lavoro duro, ma qualcuno deve farlo. — Lei non rispose. Bevve un sorso di Caffeissimo senza guardarmi. Dissi: — So che quello che ho fatto io non si può paragonare a quello che avete fatto voi veterani. Ma ho passato sei anni su Venere, sai.

— Vice console e addetto morale — disse lei annuendo. Lo sapeva.

— Be’, i Venusiani non sono molto meglio di questi selvaggi. Fanatici, antivendite, retrogradi… togli loro un po’ di tecnologia, e andrebbero benissimo in questa riserva! — Indicai con un gesto la strada fuori. Un gruppo di soldati semplici bighellonavano presso l’ingresso dell’albergo, cercando di attirare gli Uygur con Mokie, visori tascabili, Nic-O-Chew, ma gli indigeni si limitavano a scuotere la testa sorridendo, e se ne andavano. — Scommetto che la maggior parte non sanno neppure che esiste la civiltà. Vivono così da secoli.

Lei guardò la strada, con espressione indecifrabile. — C’è dell’altro, Tenny. Noi non siamo i primi invasori che vedono. Ci sono stati i Manciù, i Mongoli, gli Han, e sono sopravvissuti a tutti.

Tossicchiai… ma non per la polvere. — Invasori non è esattamente la parola che avrei scelto, Gert. Noi siamo civilizzatori. Quello che stiamo facendo qui è una missione importante.

— Importante lo è senza dubbio — disse lei secca, con un tono che mi colse di sorpresa. — L’ultima prima del grande assalto, eh? Non hai mai pensato che c’è una progressione logica: Nuova Guinea, Sudan, Gobi? E poi… — D’improvviso si interruppe e si guardò intorno, come se temesse che qualcuno potesse sentirla.

Questo potevo capirlo bene, perché stava dicendo cose che avrebbero potuto costarle care, se fossero finite alle orecchie della gente sbagliata. Ero sicuro che lei non le pensasse sul serio. Non nel fondo del suo cuore. Le truppe combattenti, la punta di lancia della civiltà, non potevano essere biasimate se ogni tanto si facevano venire delle strane idee. Nella società civile, discorsi del genere potevano portare a un sacco di guai. Ma qui… — Sei sotto tensione, Gert — dissi gentilmente. — Prendi un altro Caffeissimo, ti farà bene.

Lei mi guardò in silenzio per un momento, poi rise. — Va bene, Tenny — disse, facendo un cenno alla cameriera indigena. — Sai una cosa? Sarai un ottimo cappellano.

Mi ci volle un momento per rispondere… Per qualche ragione, non sembrava un complimento. — Grazie — dissi alla fine.

— E per aiutarti nella tua missione — disse lei, — sarà meglio che ti spieghi quali sono i tuoi doveri. Ci sono due generi di persone che verranno da te per aiuto. Il primo, è composto da quelli che sono preoccupati per qualche cosa: hanno ricevuto una lettera dalla fidanzata o dal fidanzato che vuole piantarli, oppure pensano che la loro mamma stia male, o sono convinti di diventare pazzi. Il modo per aiutarli, è dirgli che non si preoccupino e dargli un permesso di ventiquattr’ore. Il secondo genere, è quello dei piantagrane. Non sanno stare in formazione, dormono durante le guardie, non superano l’ispezione. Quello che devi fare con loro, è mandare una nota al sergente maggiore, dicendogli di sospendere per una settimana i permessi, e di dir loro che devono cominciare a preoccuparsi. Ogni tanto capita qualcuno con un vero problema, e quello che devi fare…

L’ascoltai annuendo di tanto in tanto, e in effetti mi sentivo piuttosto bene. Allora non sapevo che due di queste persone con dei veri problemi le conoscevo.

E che entrambe erano sedute al mio tavolo.


I doveri di cappellano non erano assillanti. Mi lasciavano un sacco di tempo per lunghi pranzi ad ora tarda nella mensa ufficiali, e per uscite serali a Urumqi. Mi lasciavano anche il tempo per chiedermi, piuttosto frequentemente all’inizio, cosa diavolo ci facessi lì: perché l’operazione per, la quale eravamo stati spediti da un emisfero all’altro sembrava non dovesse mai cominciare… Qualunque cosa dovesse cominciare. Quando chiesi lumi a Gert Martens, lei alzò le spalle e disse che era la buona vecchia tradizione militare: muoversi in gran fretta e aspettare, così smisi di preoccuparmi. Presi a vivere alla giornata. Il vecchio albergo di Urumqi che era stato requisito come spaccio militare mi divenne familiare quanto la mia tenda di schiuma… Anzi, era all’albergo che passavo le mie notti tutte le volte che potevo, non solo a causa dell’aria condizionata, ma perché ognuna delle vecchie e malconce camere aveva un bagno privato, cori water, vasca da bagno e doccia. Spesso funzionavano tutti e tre. E nella sala ufficiali c’era l’Omni-V.

Non che fossero tutte rose. Tanto per cominciare, quello che volevo vedere io erano i notiziari. Per poterli avere, dovevo passare davanti a tutti gli altri ufficiali, affamati di civiltà, la maggior parte di grado più elevato di me, che volevano vedere solo sport, spettacoli di varietà, telefilm e pubblicità… soprattutto pubblicità. Il tipo di notizie che mi interessavano non era quello solito: la coppia sorridente e commossa che aveva vinto il premio Consumatore del Mese a Detroit, o i discorsi del Presidente, o la storia dei sei peditaxi distrutti, con undici morti, quando la punta del vecchio Chrysler Building era crollata schiacciando mezzo isolato sulla Quarantaduesima Strada. A me interessavano le vere notizie, il Mondo della pubblicità, gli orari e il numero degli spot giornalieri. Le notizie erano trasmesse alle sei del mattino, dal momento che ci trovavamo dalla parte opposta del globo, e non avevo speranza di vederle a meno di non passare la notte all’albergo… e naturalmente di svegliarmi in tempo. Non era una cosa facile. Svegliarmi diventava sempre più difficile ogni mattina. L’unica cosa che alla fine poteva indurmi ad uscire dal letto era non tenere Mokie in camera, in maniera che appena aperti gli occhi dovessi alzarmi per cercarne una.

E anche quello che vedevo non era tutto allegro. Una mattina ci fu uno spot della durata di un intero minuto dedicato al mio progetto sui Consumisti Anonimi. Era stato lanciato con un budget di sedici milioni di dollari. Era un grande successo. Ma non era mio.

A questo ero preparato. Quello a cui non ero preparato era il commentatore, con quel sorriso untuoso e avido che ha la gente quando qualcuno mette a segno un buon colpo, il quale terminò rendendo omaggio alla nuova dinamica Agenzia che era venuta dal nulla a sfidare i giganti… Haseldyne & Ku.

Il capitano che arrivò in quel momento nella sala, con in mano i pesi per fare i suoi esercizi mattutini, non seppe mai quanto fu fortunato. Lo lasciai vivere. Se non l’avessi sconvolto a tal punto con la mia esplosione di rabbia quando cercò di cambiare canale, mi avrebbe senza dubbio fatto rapporto per comportamento scorretto, ma non credo che avesse mai visto una tale violenza sulla faccia di un uomo. Mi aggrappai con tutte le mie forze al selettore. Non distolsi neanche gli occhi quando lui si allontanò di soppiatto, con i suoi pesi in mano. Stavo girando disperatamente il quadrante, alla ricerca di frammenti di notizie. Con duecentocinquanta canali che arrivavano dai satelliti, era come cercare il tagliando vincente in un bidone di spazzatura. Non pensai a quante possibilità avessi. Clic: le previsioni del tempo coreane; clic, uno spot-jockey; clic: un kiddy-porno con partecipazione del pubblico; clic… continuai così per un po’. Riuscii a trovare il riassunto conclusivo del notiziario notturno della BBC, e quello mattutino della RussCorp da Vladivostok. Non riuscii a mettere assieme l’intera storia. Non ero sicuro elle tutti i pezzi si incastrassero. Ma la Haseldyne & Ku era una notizia mondiale, e il succo era chiaro. Dambois non mi aveva detto tutta la verità. Mitzi e Desmond Haseldyne avevano incassato i soldi e messo in piedi una nuova agenzia, vero. Ma. non si erano presi solo i soldi. Si erano portati via l’intero dipartimento Intangibili dalla T.G.&S., staff e clienti compresi…

E avevano rubato la mia idea.


La cosa seguente di cui mi resi conto, fu che ero a mezza strada fra la città e il quartier generale, su quella orribile strada calda e polverosa, e che andavo a piedi.

Non avevo mai provato una rabbia simile. Ero quasi fuori di me… anzi, del tutto, perché altrimenti non mi sarebbe mai venuto in mente di camminare in quell’inferno, dove anche gli indigeni si facevano portare dagli asini o dagli yak. Avevo sete. Avevo ingoiato Mokie su Mokie, mescolate con tutti gli alcolici a disposizione del bar ufficiali. Ma era tutta evaporata lungo la strada, e il residuo rimasto era rabbia concentrata, cristallizzata.

Come potevo tornare alla civiltà? Tornare e ottenere giustizia; ottenere quello che mi era dovuto da Mitzi Ku! Doveva esserci un sistema. Ero cappellano. Potevo scrivermi un permesso per gravi motivi familiari? Se no, potevo fingere un collasso nervoso, o trovare un medico amico che mi fornisse pillole. che davano palpitazioni di cuore? Se non potevo fare nessuna di queste cose, quante possibilità avevo di imbarcarmi clandestinamente sul prossimo aereo da carico diretto in America? Altrimenti…

Naturalmente, non potevo fare nessuna di queste cose. Avevo visto cosa succedeva a quei poveri imbecilli piagnucolosi che venivano nel mio ufficio con le loro storie semi-inventate di mogli infedeli e intollerabili dolori al fondo della schiena; non esistevano licenze per gravi motivi familiari, alla Riserva, e nessuna possibilità di imbarcarsi clandestinamente.

Ero bloccato.

Ero anche sul punto di sentirmi male. Il troppo bere e le notti insonni non erano stati la cura migliore per il mio fisico impregnato di Mokie. Il sole era senza pietà, e ogni volta che un veicolo mi superava, mi sembrava di sputare i polmoni a forza di tossire. C’erano anche un sacco di veicoli; si era sparsa la voce che finalmente l’operazione stava per cominciare. Da un momento all’altro. I grossi pezzi di attacco erano stati sistemati. Alle truppe erano stati forniti gli obbiettivi designati. I supporti logistici erano operativi.

Mi fermai di colpo in mezzo alla strada, oscillando sulle gambe e cercando di raccogliere le idee. C’era un significato, qui, una speranza… Ma certo! Una volta conclusa l’operazione saremmo stati rispediti nella civiltà. Sarei stato ancora in servizio, ma in qualche base in America, dove mi sarebbe stato facile ottenere un permesso di quarantott’ore, per poter tornare a New York e affrontare Mitzi e farle sputare…

— Tenny! — gridò una voce. — Oh, Tenny, grazie al cielo ti ho trovato… Sei nei guai!

Socchiusi gli occhi, nella polvere e nel riflesso del sole. Un «taxi» Uygura due ruote mi si era fermato vicino, e ne stava scendendo Gert Martels, con la faccia preoccupata. — Il colonnello è sul piede di guerra! Dobbiamo ripulirti prima che ti trovi!

Mi mossi incespicando verso il suono della sua voce. — Al diavolo il colonnello — gracchiai.

— Ti prego, Tenny — mi implorò, — sali sul taxi. Stenditi giù, così se passa la Polizia Militare non ti vede.

— Che mi vedano! — La cosa strana del sergente maggiore Martels, era che continuava a sparire: per un po’ era una figura di fumo nero, contro il cielo accecante; per un po’ era perfettamente chiara, e potevo perfino leggere l’espressione sul suo viso: preoccupazione, ribrezzo; poi, curiosamente, sollievo.

— Hai un attacco cardiaco! — gridò. — Grazie al Cielo! Il colonnello non potrà dire niente di fronte a un attacco cardiaco! Autista! Sai dove essere ospedale militare? Vai presto, bene? — E venni trascinato sul carrettino dalle braccia forti di Gert Martels.

— Chi ha bisogno di un ospedale? — chiesi rabbiosamente. — Io non ho bisogno di nessun ospedale. Tutto quello che mi serve è una Mokie… — Ma non ebbi la mia Mokie. Non ebbi niente. Anche se l’avessi avuta, non avrei potuto farmene niente, perché proprio in quel momento il cielo si oscurò e mi si chiuse attorno come un bozzolo di lana nera, e per dieci ore non seppi più niente.

2

Non furono ore oziose. La prescrizione per l’attacco di cuore era: reidratazione; fresco; riposo. Fortunatamente era la stessa indicata per i postumi di una sbronza. Ebbi quanto ordinato dal dottore. È vero che in quel momento non lo sapevo, perché all’inizio ero incosciente, e in seguito imbottito di sonniferi. Avevo una vaga consapevolezza di aghi con soluzioni saline e zuccherose che ogni tanto mi venivano infilati nel braccio, e di essere costretto a svegliarmi per ingoiare immense quantità di liquidi. E i sogni. Oh, i sogni. Sogni brutti. Sogni di Mitzi e Des Haseldyne che se la spassavano come maiali nei loro lussuosi attici, e si sganasciavano dalle risate quando pensavano a quel povero scemo di Tennison Tarb.

E quando mi svegliai, finalmente, pensai che stavo ancora sognando, perché c’era un sergente chino su di me con un dito sulle labbra. — Tenente Tarb? Mi sentite? Non dite niente… Fate solo cenno di sì, se potete…

Il mio errore fu di fare come mi aveva detto. Feci cenno di sì. La cima della testa mi si staccò, e rotolò in terra, esplodendo di dolore ad ogni rimbalzo.

— Immagino che abbiate un gran mal di testa, vero? Peccato… sentite, c’è un problema.

Il fatto che ci fosse un problema non era una novità per me. Restava solo da sapere a quale problema si riferisse. Sorpresa: non era nessuno di quelli di cui fossi consapevole, e non era tanto un problema mio, quanto di Gert Martels. Guardandosi intorno per vedere se arrivava l’infermiera, il sergente si chinò così vicino al mio orecchio che il suo fiato mi faceva solletico ai peli, e sussurrò: — Gert ha quel brutto vizio, lo saprete…

— Quale brutto vizio? — chiesi.

— Non lo sapete? — Sembrò sorpreso, poi imbarazzato. — Be’ — disse con riluttanza, — lo so che sembra proprio una cosa schifosa, ma un sacco di gente quando si trova esposta a ogni genere di influenza, lontano dalla civiltà…

Mio malgrado, e contro ogni buon senso, mi misi a sedere. — Sergente — dissi — non ho la più pallida idea di quello di cui state parlando.

Lui disse: — È andata con i selvaggi, tenente. E non ha l’equipaggiamento protettivo. E mancano due ore all’ora X.

Questo sì fu un colpo. — Vuoi dire che l’operazione e per questa notte? — gridai.

Lui fece una smorfia. — Per favore, abbassate la voce. Sì, comincia a mezzanotte, e adesso sono le dieci.

Lo fissai. — Questa notte? — ripetei. Dov’ero stato? Come mai non l’avevo saputo? Naturalmente era un’informazione segreta, ma di sicuro ogni soldato nel campo doveva saperlo da ore.

Il sergente annuì. — L’hanno anticipata perché il tempo è perfetto. — Adesso che sapevo cosa guardare, riconobbi il cappuccio di tessuto polarizzato sulle sue spalle, e la grossa cuffia che gli pendeva sotto il mento. — Il fatto è…

Un rumore in fondo alla sala. Una porta che si apriva. Una luce.

— Accidenti — imprecò il sergente. — Sentite, ho da fare. Andate a cercarla, va bene tenente? C’è un indigeno che vi aspetta giù, con l’equipaggiamento protettivo per tutti e due… vi porterà da lei… è … — Rumore di passi che si avvicinavano. — Mi scusi tenente — disse ansimando — devo andare.

E se ne andò.

Non appena l’infermiera ebbe fatto il suo giro e se ne fu andata, scivolai fuori dal letto, mi infilai i vestiti, uscii quatto quatto dal reparto. La testa mi martellava, e sapevo che l’ultima cosa di cui avevo bisogno era una nota per aver lasciato senza permesso l’ospedale, da aggiungere a tutte quelle che già avevo sul mio dossier. La cosa buffa fu che non esitai un solo istante.

Non esitai neppure abbastanza per rendermi conto che era strano. Solo più tardi mi venne in mente che c’erano state molte occasioni, nel passato, in cui qualcuno ci aveva messo lo zampino per salvarmi da qualche impiccio. Mai prima di allora avevo avuto difficoltà a dimenticarmene, quando si era presentata l’occasione di ripagare i favori. L’unica cosa che pensai, fu che avevo un debito verso Gert, e che lei aveva bisogno del mio aiuto. Così andai… fermandomi una volta sola all’ingresso dell’ospedale per rendermi un paio di Mokie dal distributore automatico. E sono convinto che se la macchina non fosse stata proprio lì, sarei anche andato senza le Mokie.

L’indigeno mi stava aspettando come annunciato, non solo con l’equipaggiamento completo per due, ma anche con asino e carretto. L’unica cosa che gli mancava, era la conoscenza dell’inglese. Ma dal momento che pareva sapere dove andare senza bisogno di istruzioni, la cosa non fu un problema.

Era una notte calda e buia, così buia che quasi metteva paura. Si poteva vedere il cielo! Non voglio dire il cielo diurno, o anche il cielo notturno quando le luci gli danno quella luminosità rossastra. Voglio dire le stelle. Tutti hanno sentito parlare delle stelle, ma quanti le hanno veramente viste? E ce n’erano milioni, in ogni punto del cielo, abbastanza luminose da vederci…

Abbastanza perché ci vedesse l’asino, almeno, perché non sembrò avere difficoltà a trovare la strada. Avevamo lasciato le strade principali, e ci dirigevamo verso le colline vicine. Fra noi e le colline c’era una valle. Ne avevo sentito parlare. Era una specie di curiosità da quelle parti, perché era fertile. Quello che rende il Gobi un gobi, ossia un deserto di sassi, è il vento e la siccità. La siccità trasforma la terra in polvere. Il vento la soffia via, finché quello che resta sono un’infinità di chilometri quadrati di pietra. Solo che qua e là, in qualche posto isolato, una valle, o il lato riparato di una collina, c’è un po’ di acqua, e questi posti trattengono la terra. Altri ufficiali mi avevano detto che quella era quasi come un vigneto italiano, con grappoli d’uva e ruscelli mormoranti. Non avevo pensato che valesse la pena di visitarla. Né avrei progettato di vederla in quel momento, di notte, quando l’inferno stava per scatenarsi entro… gettai un’occhiata all’orologio, brillante nella notte cupa… fra circa un’ora e cinque minuti. E in effetti non la visitammo. L’indigeno prese un sentiero che passava attorno al vigneto, fermo il carro, mi fece segno di scendere e mi indicò la cima di una collina.

Alla luce della stella distinsi, vagamente una costruzione, simile a una baracca, solitaria. — Devo andare lassù? — chiesi. Il selvaggio alzò le spalle e indicò ancora. — Il sergente Martels è nella baracca? — Un’altra alzata di spalle. — Al diavolo — dissi, e cominciai ad arrampicarmi.

La luce delle stelle non era sufficiente per vederci, dopo tutto. Inciampai e caddi a terra una dozzina di volte, su quella specie di sentiero… quel maledetto, sporco, polveroso sentiero, così secco che quando scivolavo, tornavo indietro per almeno un metro o due. Mi ferii almeno due volte. La seconda volta, mentre mi rimettevo in piedi, da dietro le colline si sentì una specie di colpo di tosse, whump, e un momento dopo whump… whump… whump da tutto il cerchio dell’orizzonte, e in molti punti le stelle vennero oscurate da macchie nere che si allargavano lentamente. Non c’era bisogno che qualcuno mi dicesse cos’erano: schermi aerei. L’operazione stava per cominciare.

Sentii l’odore della baracca parecchi metri prima di arrivarci. Serviva per far seccare l’uva, e mandava puzza di vino. Ma al di sopra di quel ributtante odore di frutta, c’era qualcosa di più forte… no, non solo più forte. Quasi spaventoso. Assomigliava vagamente a del cibo… Manzo vero forse, o Tacchino del Fattore, ma c’era qualcosa di sbagliato nell’odore. Non come se fosse andato a male. Peggio. Il mio stomaco mi stava ricordando che da un po’ di tempo gli avevo reso la vita dura; l’odore quasi lo spinse alla rivolta. Inghiottii ed entrai a tentoni nella capanna.

Dentro c’era un po’ di luce. Avevano acceso un fuoco… per vederci, mentre mangiavano razioni rubate, immaginai. Ipotesi sbagliata. Altrettanto sbagliata quanto quella secondo cui «il brutto vizio» del sergente Martels fosse quello di andare a letto con gli indigeni, o magari ubriacarsi con qualche liquore distillato clandestinamente. Quanto ero stato ingenuo! C’erano cinque o sei soldati raccolti intorno al fuoco, e sul fuoco ci stavano essiccando un animale. Peggio ancora: stavano mangiando l’animale morto. Gert Martels mi guardò a bocca spalancata, e nella mano stringeva parte di una zampa. La teneva per l’osso…

Per il mio stomaco fu troppo. Dovetti uscire.

Ce la feci appena in tempo. Quando ebbi finito di vomitare tutto quello che avevo ingoiato nelle ultime ventiquattr’ore, tirai un profondo respiro e rientrai. Erano spaventati. Mi guardavano con facce pallide nella luce del fuoco.

— Siete peggio dei selvaggi — dissi loro, con la voce che mi tremava. — Siete peggio dei Venusiani. Sergente Martels! Mettetevi questo. E voi altri abbassate la testa, tappatevi le orecchie e non aprite gli occhi per un’ora. L’operazione inizia fra dieci minuti!

Non aspettai di sentire i loro angosciosi lamenti, e neppure di vedere se Gert Martels stava facendo quello che le avevo detto. Uscii da quel buco puzzolente il più in fretta possibile, scivolando per una decina di metri sul sentiero prima di fermarmi a mettermi la cuffia e il cappuccio. Naturalmente da quel momento non potei più sentire niente, e meno di tutto Gert Martels che mi raggiungeva. La conversazione era impossibile. Tanto meglio. Non avevo niente da dirle m quel momento. E niente da sentire. Raggiungemmo il carro con l’indigeno in attesa, ci sistemammo sopra, e io indicai in direzione del campo. L’indigeno prese le redini…

E in quel momento cominciò.


La prima fase fu di fuochi d’artificio: comunissimi fuochi d’artificio. Scoppi di stelle. Pioggia dorata. Cascate multicolori. Non erano tanto brillanti da attivare i riduttori di luce ad azione rapida dei nostri cappucci, ma abbastanza da lasciare esterrefatti, e il nostro cocchiere quasi lasciò cadere le redini, fissando il cielo ad occhi spalancati. Il tutto era punteggiato da esplosioni, che si sentivano molto attutite attraverso le cuffie, ma che echeggiavano sulle colline. Il paesaggio era illuminato dai fuochi; e questo era solo l’esca. Serviva a svegliare gli indigeni e a farli uscire all’aperto.

Poi le brigate campbelliane entrarono in azione.

Non erano più molte le esplosioni sonore, adesso, ma quelle che c’erano sembravano dei bang supersonici che avessero luogo fra le spalle e le orecchie. Incredibilmente alte. Anche attraverso la cuffia, erano dolorosamente elevate: se non fosse stato per le cuffie, metà dei soldati avrebbero sofferto di turbe uditive. Immagino che per gli indigeni fosse così. Seppi in seguito che in conseguenza del rumore, due ghiacciai sulle montagne si erano spaccati, e una valanga aveva travolto la popolazione di un villaggio Uygur mentre guardava il cielo a bocca spalancata. Ma il rumore era solo metà dello spettacolo. L’altra metà era la luce. Lampi accecanti. Anche attraverso i cappucci. Anche attraverso le palpebre. Non si era mai visto uno spettacolo simile. Malgrado i mezzi protettivi, sconvolgeva i sensi.

Poi, naturalmente, gli altoparlanti montati sui palloni cominciarono a diffondere il loro messaggio, e i proiettori riempirono gli schermi di vaporose immagini coloratissime, sensuali, affascinanti: tazze fumanti di Caffeissimo, tavolette di Cioccocrema e Nic-O-Chew, pantaloni e tute sportive Starrzelius… e cibi succosi, appena arrostiti, di Manzovero, mentre venivano tagliati a fettine, e sembrava quasi di sentirne il sapore in bocca… e si poteva in realtà sentirne l’odore, perché la Squadra Rinforzo Chimico del 9° Battaglione non era stata con le mani in mano, e dai loro generatori uscivano ondate di aroma di Caffeissimo e di Hamburger Manzovero, e, mio malgrado, di tanto in tanto anche l’aroma al cioccolato della Mokie… E sempre, al di sopra di tutto, i suoni assordanti e le luci lampeggianti… — Non guardare! — urlai all’orecchio del sergente Martels. Ma come poteva farne a meno? Anche se eravamo protetti dagli stimoli limbali grazie alle cuffie e ai cappucci, le immagini in se stesse erano così stimolanti, ispiravano un tale desiderio, che mi veniva l’acquolina in bocca e le mani mi andavano alle tasche in cerca della carta di credito. La maggior parte degli stimoli erano inefficaci su di noi, naturalmente. Ci era risparmiata la costrizione campbelliana. I messaggi verbali che rimbombavano da una collina all’altra erano nel dialetto Uygur. Ma il nostro conducente sedeva immobile, con la testa alzata, le redini dimenticate in grembo, gli occhi scintillanti, e sul suo viso l’espressione di un tale ineffabile desiderio che il cuore mi si sciolse. Infilai una mano in tasca e trovai mezza tavoletta di Cioccocrema; quando gliela diedi, lui mi rispose con un tale profluvio di gratitudine che, senza capire una parola, seppi che mi ero guadagnato la sua eterna devozione. Poveri selvaggi! Non avevano la minima possibilità di scampo.

O, per meglio dire, mi corressi subito, finalmente avevano la possibilità di entrare nel ricco e stimolante mondo del libero mercato. Dove i Manciù, i Mongoli, gli Han avevano fallito, i moderni imperativi culturali avevano trionfato.

Mi sentivo scoppiare il cuore. Tutte le preoccupazioni e le tragedie degli ultimi giorni erano dimenticate. Allungai una mano verso Gert Martels, seduta vicino a me nel carretto fermo, mentre le ultime immagini svanivano nel cielo, e le misi un braccio attorno alle spalle.

Con mio grande stupore, lei stava piangendo.


Entro le undici della mattina seguente, tutti gli spacci erano stati svuotati. Kazak, Uygur, Hui, imploravano la possibilità di comprare Popsic e Kelpy Krisp. L’intera operazione era stata un trionfo. Significava una citazione al merito per tutti i partecipanti, e una citazione speciale per alcuni.

Significava… poteva perfino significare l’occasione per me di rifarmi.

3

Ma, come si vide poi, l’occasione si fece aspettare. Riportai Gert, che aveva gli occhi arrossati e continuava ancora misteriosamente a tirar su con il naso, agli alloggi sottufficiali, e mi reintrodussi nell’ospedale senza difficoltà… Metà dei pazienti, e quasi tutto il personale infermieristico e medico, erano fuori, con i cappucci gettati sulle spalle, che parlavano eccitati dell’attacco. Mi mescolai con loro per un momento, mi feci strada fra la folla, trovai il letto e mi riaddormentai. Era stata una giornata dura.

La mattina seguente fu una copia del mio primo giorno: arrivò il maggiore, con un codazzo di medici, e mi disse che ero dimesso e dovevo presentarmi al quartier generale entro venti minuti. L’unica bella notizia fu che il colonnello non c’era. Aveva ordinato a se stessa di raggiungere il lusso di Shanghai, non appena l’operazione era terminata, per far rapporto al Comando Generale. — Ma non crediate di cavarvela per questo, Tarb — mi disse severamente il tenente colonnello che aveva preso il comando. — La vostra condotta è inconcepibile. Sareste un disonore per l’esercito anche come consumatore, e invece siete un pubblicitario. State attento a quello che fate, perché vi tengo d’occhio!

— Sissignore. — Cercai di tenere una faccia impassibile, ma credo che non ci riuscii, perché lui ringhiò: — Credete di andare a casa, vero, così non dovrete più preoccuparvi per queste cose?

Be’, era esattamente quello che avevo pensato. Era corsa voce che il cambio delle truppe sarebbe cominciato quello stesso giorno.

— Scordatevelo — disse con decisione. — I cappellani fanno parte del Personale, e compito del Personale è di far partire tutti gli altri prima di tornare a casa. Non andrete da nessuna parte, Tarb… A parte in prigione, se non vi mettete in riga!

Così ritornai mogio mogio al mio ufficio, e al sergente maggiore Martels. — Tenny… — cominciò lei imbarazzata.

Scattai: — Tenente Tarb, sergente!

Lei arrossì, inghiottì. — Sì, signore. Volevo solo scusarmi per il mio… il mio…

— Il vostro disgustoso comportamento, volete dire — finii severamente. — Sergente, la vostra condotta è inconcepibile. Sareste un disonore per l’esercito anche come… come soldato semplice, e invece siete un sottufficiale… — Mi fermai lì perché quelle parole mi ricordavano qualcosa. La fissai in silenzio per un momento, poi mi lasciai cadere pesantemente sulla sedia. — Oh, al diavolo, Gert. Dimentica quello che ho detto. Siamo fatti della stessa pasta.

Il rossore le lasciò il viso. Rimase lì incerta, strisciando i piedi a terra. Alla fine disse a bassa voce: — Posso spiegarti, per quella cosa sulla collina, Tenny…

— No, non puoi. Non è necessario. Portami una Mokie.


Il tenente colonnello Headley forse voleva davvero tenermi d’occhio, ma aveva solo due occhi, e per le operazioni di rientro aveva bisogno di usarli tutti e due. Le ingombranti apparecchiature limbali vennero impacchettate e caricate sugli aerei da trasporto, le truppe di assalto le seguirono nelle stive, e via nel cielo. Quando gli aerei tornavano non erano pero vuoti. Erano pieni di truppe ausiliarie, e soprattutto di merci. E le merci si volatizzavano come neve al sole. Ogni mattina, file di indigeni aspettavano l’apertura degli spacci, e tornavano alle loro capanne con le braccia piene di tavolette di dolci, sacchetti di patatine, amuleti Thomas Jefferson in Puro Pseudo-Argento per le mogli e i bambini. L’operazione era stata un completo trionfo. Non si erano mai visti consumatori così devoti come quei selvaggi, e mi sarei sentito orgoglioso di aver partecipato alla grande crociata se mi fosse restato un po’ di orgoglio. Ma questa era una merce che i Servizi Ausiliari non potevano fornire.

Se avessi avuto qualcosa da fare, sarebbe stato più facile. L’ufficio del cappellano era il posto più tranquillo della Riserva. Le vecchie truppe non avevano nessun motivo di venire a lamentarsi da me perché erano in procinto di tornare a casa; quelle ausiliarie erano troppo indaffarate. Gert Martels ed io, senza dirci una parola, ci eravamo divisi il lavoro. La mattina io sedevo da solo, nell’ufficio vuoto, trangugiando Mokie e desiderando di essere… qualsiasi cosa, e in qualsiasi posto, tranne quello che ero e dove ero. Perfino morto. Il pomeriggio lei prendeva il mio posto, e io me ne andavo al circolo ufficiali a Urumqi, litigando per il canale da guardare, e aspettando ore ed ore inutilmente nel tentativo di telefonare a Mitzi, o a Haseldyne, o al Vecchio… o a Dio. Provai perfino con l’ufficio del tenente colonnello, un paio di volte, nella speranza di farmi spedire via. Il momento buono per tornare a casa da eroe è prima che tutti si siano dimenticati del perché siete stato un eroe, e già l’operazione Gobi stava sparendo dai notiziari Omni-V. Niente da fare. E continuava a fare un caldo d’inferno. Per quante Mokie ingurgitassi, le sudavo più in fretta di quanto le mandassi giù. Non mi pesavo più, perché i numeri che vedevo sulla bilancia cominciavano a spaventarmi.

Il venerdì era il giorno peggiore, perché non cercavamo neppure di tenere aperto l’ufficio. Mi facevo strada a fatica fino a Urumqi attraverso le masse di indigeni con i loro carri, carretti e biciclette, tutti con la luce del consumo che brillava nei loro occhi, mentre si dirigevano ai bazar della grande città, riservavo una stanza, mi rifornivo di Mokie, mi dirigevo verso il circolo ufficiali, per i miei interminabili litigi per l’Omni-V, e le mie chiamate telefoniche…

E un giorno Gert Martels mi aspettava fuori dal circolo. — Terry — mi disse guardandosi intorno, per essere sicura che nessuno ci sentisse, — hai un aspetto terribile. Hai bisogno di passare qualche giorno a Shanghai. E anch’io.

— Non ne ho l’autorità — dissi cupamente. — Prova a chiederlo al tenente colonnello Headley, se ne hai voglia. Forse ti lascerà andare. Me no di sicuro. — Mi fermai perché lei mi aveva messo davanti agli occhi due permessi. Sulla striscia magnetica c’era la firma di Headley.

— A cosa serve essere amici del sergente maggiore — disse Gert, — se non infila un paio di richieste di permesso nella timbratrice del colonnello, quando ce n’è bisogno? L’aereo parte fra quaranta minuti, Tenny. Vuoi venire?


Shanghai! Perla dell’Oriente! Alle dieci di sera eravamo in un bar galleggiante sul Bund. Stavo bevendo la decima, o forse era la dodicesima Mokie corretta, e adocchiavo le ragazze del bar, con i capelli a caschetto, chiedendomi se dovevo abbordarne una finché ero ancora in grado di reggermi in piedi. Gert beveva DNC liscio, e ad ogni sorso si raddrizzava sempre più, stava più attenta a parlare e gli occhi le diventavano più vitrei. Succedeva qualcosa di strano con Gert Martels. Non era una brutta donna, a parte le cicatrici che le attraversavano la guancia sinistra dall’orecchio alla mascella. Ma non le avevo mai fatto delle avances, né lei a me. In gran parte questo era dovuto al codice militare e ai guai che potevano capitare a fraternizzare fra ufficiali e graduati di truppa, ma tanti altri avevano rischiato e se l’erano cavata. Ed era passato tanto tempo da quella volta con Mitzi. — Come è successo? — chiesi, chiamando la cameriera.

Lei fece un singhiozzo molto femminile, e voltò gli occhi per guardarmi. Le ci volle un secondo o due per mettermi a fuoco. — Come è successo cosa, Tennison? — chiese quasi sillabando.

Avrei risposto alla domanda, ma in quel momento arrivò la cameriera e dovetti ordinare un’altra Mokie-and-Djinn, e distillato neutro di cereali per Gerty. Poi mi ci volle un momento per ricordare. — Ah, già — dissi, — volevo dire come è successo che tu e io non l’abbiamo mai fatto.

Lei mi rivolse un sorriso solenne. — Se vuoi, Tennison.

Io scossi la testa. — No, non voglio dire se voglio, voglio dire come mai non ci siamo mai, come dire, ispirati a vicenda. — Lei non rispose subito. Arrivarono i bicchieri, e quando ebbi finito di pagare la cameriera, e porsi il DNC a Gert, vidi che piangeva.

— Eh, senti — dissi, — non volevo far valere il mio grado, o qualcosa del genere. È vero? — chiesi guardandomi intorno per avere conferma. Non ricordavo esattamente come fosse successo, ma pareva che altre quattro o cinque persone si fossero sedute con noi. Tutti sorrisero e scossero la testa… volendo forse dire che non l’avevo fatto, o forse che non capivano l’inglese. Ma uno di loro almeno lo capiva. Il civile grassoccio. Si chinò verso di me e gridò per farsi sentire nel frastuono:

— Tu lasci pagale me plossimo gilo, bene?

— Perché no? — gli rivolsi un sorriso di ringraziamento, e tornai a Gert. — Scusami, cosa hai detto? — chiesi.

Lei ci pensò un momento, e il civile tornò a chinarsi verso di me. — Voi venite da Ulumuci, sì? — Mi ci volle un momento per capire che voleva dire Urumqi, poi gli dissi che era così. — Io capire semple! Voi blavissimi! Pago due li! — I marinai della Guardia Fluviale dello Wang Pu sorrisero e applaudirono. Fin lì arrivava anche il loro inglese.

— Credo — disse Gert con aria riflessiva, — che stavo per raccontarti la storia della mia vita. — Accettò il bicchiere in arrivo, fece un cenno di ringraziamento con la testa e lo trangugiò fra una frase e l’altra senza interrompersi. — Quando era piccola — disse, — eravamo una famiglia felice. Le cose che non riusciva a fare la mamma con la Soya-tem e il Fiordigrano e un paio di pizzichi di MSG! E a Natale c’era il Tacchino del Fattore… vera carne ricostituita, Dessert Jelatina al sapore di mirtillo e tutto il resto.

— Natale! — gridò il civile estasiato. — Oh, voi blavissimi con vostlo Natale!

Gert rivolse all’uomo un sorriso gentile ma distaccato, e allungò la mano per un altro bicchiere. — Quando ebbi quindici anni mio padre morì. Dissero che era bronco-qualcosa. Tossì fino a crepare. — Si interruppe per inghiottire, e questo fornì al civile grassottello un’occasione.

— Sapete che andavo scuola missionalia? — chiese. — Anche là c’era Natale. Oh, noi abbiamo glande debito con missionali!

Non mi era tanto facile sentire la storia di una vita, per non parlare di due. Il frastuono nel bar era aumentato di parecchio, c’era un sacco di gente, e anche se il vecchio battello era saldamente ancorato ai piloni del Bund, avrei giurato che dondolava sulle onde. — Vai avanti — dissi in generale.

Gert fu la più veloce. — Lo sapevi Tenny — disse — che una volta le fabbriche avevano dei depuratori nelle ciminiere? Trattenevano lo zolfo e il pulviscolo. L’aria era pulita, e la durata media della vita era otto anni di più rispetto ad oggi.

— Anche qui! — gridò il civile. — Quand’elo nella scuola missionalia…

Ma Gert non lo lasciò continuare. — Lo sai perché hanno smesso? Morte. Volevano più morti. Ci si fanno un sacco di soldi con i morti. In parte ci sono le compagnie di assicurazione: avevano calcolato che costa meno pagare le polizze sulla vita che le annualità. Poi c’è il Viro di affari delle assicurazioni sulla malattia: uno che è arrivato a cinquant’anni e ha passato tutta la sua vita nello smog sa che passerà un sacco di tempo ammalato, e così si premunisce… Se invece muore prima, è quasi tutto profitto netto. Poi naturalmente ci sono le pompe funebri. Non hai idea dei soldi che si fanno a seppellire i morti. Ma soprattutto… — si guardò intorno con un sorriso triste, — :…soprattutto, quando un consumatore supera l’età lavorativa, quanti soldi gli restano per comprare? Pochi davvero. E allora chi ha bisogno di lui?

Dissi nervosamente: — Gert, tesoro, cosa ne dici di andare a prendere una boccata di aria fresca? — Il vecchio civile sorrideva ondeggiando la testa; aveva bevuto tanto da non importargli più quello che diceva la gente intorno a lui. Ma uno dei marinai dello Wang Pu aveva la fronte aggrottata, come se capisse un po’ di inglese, dopo tutto. Gert tirò avanti come se niente fosse.

— Se l’aria fosse pulita — disse, — probabilmente il papà non sarebbe morto così, vero? — Tese il bicchiere vuoto con un dolce sorriso da bambina. — Potrei averne ancora un po’, per favore?

Dio benedica il vecchio civile. Fece arrivare la cameriera con un altro giro entro un minuto, e la faccia del marinaio si distese, quando ebbe il suo.

Ero ben lontano dall’essere sobrio, ma non tanto da non rendermi conto che Gert era conciata peggio di me. Feci uno sforzo per cambiare argomento. — Ti piacciono i missionari, allora? — dissi allegramente al nostro benefattore.

— Oh, blava blava gente, sì! Devo lolo tanto!

— Per aver portato il cristianesimo in Cina?

Lui mi guardò perplesso. — Quale Clistianesimo? Pel Natale. Tu sai cosa è Natale? Dico io! Mio mestiele… abbigliamento all’inglosso, tutti i tipi… Vendite natalizie sono qualantaquattlo pel cento delle vendite al dettaglio annuali, quasi cinquantotto pel cento del plofitto netto. Questo è Natale. Buddha, Mao, non dato mai niente di simile!

Sfortunatamente, aveva rimesso in moto Gert. — Il Natale — disse con aria sognante, — non è stato più lo stesso dopo che è morto il papà. Per fortuna lui aveva un vecchio fucile. Così andavo alla discarica dei rifiuti, vicino al porto… noi stavamo a Baltimora allora, e sparavo ai gabbiani e li portavo a casa. Naturalmente non erano come il Tacchino del Fattore, ma la mamma…

Quasi rovesciai il bicchiere. — Gert — gridai, — è meglio che ce ne andiamo! — Ma oramai era troppo tardi.

— …la mamma li cucinava in maniera tale che sembravano Manzovero, e ne mangiavamo fino a star male, e…

Non riuscì a finire. Il marinaio balzò in piedi, con la faccia contorta dalla rabbia e dal disgusto. Non capii le parole che disse, ma il significato era abbastanza chiaro. Mangianimali. E fu allora che esplose l’inferno.

Non ricordo molto bene la lotta, solo la PM che arrivava la seconda volta che mi tiravo su da sotto il tavolo. L’adrenalina e il panico avevano fatto evaporare un bel po’ dell’alcool che avevo in corpo, ma credetti di essere ancora ubriaco, allo stadio delle allucinazioni e del delirium tremens, quando vidi chi guidava la polizia. — Colonnello Heckscher! — mormorai. — Che buffo vedervi qui.

E fu allora che svenni.


Be’, fu un modo per tornare a casa. Quasi a casa. Arizona, comunque. Era lì che stava andando il colonnello Heckscher, e dal momento che eravamo ancora nominalmente membri del suo comando, non ebbe difficoltà a farci trasferire con lei fino alla corte marziale.

Così passai da un deserto a un altro. Pareva che metà delle truppe d’assalto di Urumqi ci fossero arrivate prima di me. Dalla mia stanza nel Quartiere Ufficiali (Gert era in prigione, ma io, essendo un ufficiale, ero agli arresti domiciliari), potevo vedere le tende che si stendevano fino all’orizzonte, in file ordinate, e proprio ai bordi del campo una fila di traghetti spaziali. Non che passassi molto tempo a guardare. La maggior parte lo passavo con l’avvocato militare che la corte mi aveva dato come difensore. Difensore! Aveva solo vent’anni, le sue credenziali principali erano che aveva lavorato nella Divisione Trademark e Copyright di una piccola Agenzia di Huston, in attesa di essere ammessa alla facoltà di giurisprudenza.

Ma avevo un amico potente. Il civile cinese non dimenticava i suoi compagni di bevuta. Non volle testimoniare contro di noi, e a quanto pareva aveva anche pagato l’intera flotta dello Wang Pu, perché quando vennero chiamati a deporre, via video, testimoniarono tutti che non parlavano inglese, non sapevano cosa avessimo detto io o Gert, non erano neppure sicuri che fossimo noi gli occidentali che erano nel bar quella sera. Così tutto quello di cui poterono accusarmi fu di condotta indegna di un ufficiale, e questo significava niente più che un congedo disonorevole.

Ma neppure niente di meno. Ci pensò il colonnello Heckscher. Comunque a me andò bene. Gert Martels si prese lo stesso CD, ma dal momento che era un graduato di carriera, le diedero del filo da torcere; e tanto per farle ricordare meglio il congedo, ci aggiunsero sessanta giorni di carcere duro.

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