Capitolo 63.

Abbiamo passato diversi giorni sull'isola. Ed è vero, non abbiamo

mai litigato. Anzi. Ci siamo anche divertiti. Non avrei mai

immaginato che fosse possibile così, con una lei poi... L'altra

sera

mi sono ritrovato disperso tra le onde del mare. Sembravano dolci

per come erano morbide e calde, in quell'acqua bassa, senza

corrente. O forse è stato tutto per la bellezza e la semplicità di

quel

bacio che ci siamo dati. Così, in silenzio, guardandoci negli

occhi,

abbracciati sotto la luna, senza andare oltre. Abbiamo riso,

abbiamo

chiacchierato, siamo rimasti abbracciati. La cosa bella di

un'isola come questa è che non hai appuntamenti. Tutto quello

che fai, lo fai solo perché ti va, non perché lo devi fare.

Mangiamo

ogni sera in un piccolo ristorante. È tutto in legno, ed è proprio

sul mare, roba che se fai tre scalini, sei già in acqua. Leggiamo

il menù senza capire bene cosa c'è scritto veramente. Alla fine

chiediamo sempre spiegazioni. Quelli che ci lavorano sono tutti

molto gentili e sorridono. E dopo aver ascoltato le loro

spiegazioni

più o meno comprensibili, fatte di gesti e di risate, ci

accordiamo

ogni volta su un piatto diverso. Forse perché vogliamo provarli

un po' tutti, perché speriamo che almeno uno prima o poi ci

piaccia. Ma soprattutto perché stiamo bene.

"E mi raccomando senza sughi strani, senza niente sopra.

Nothing, nothing..."

I tipi sentendoci parlare così, fanno cenno di sì con la testa.

Sempre. Anche quando diciamo delle cose assurde. Alla fine non

sappiamo mai cosa ci porteranno veramente. A volte ci dice bene,

a volte male. Cerco di consigliare Gin.

"Comunque sei vai sul 'pescado' arrosto vai sempre sul sicuro."

Ride.

"Madonna, ma sei già vecchio. Il bello è proprio provare tutto."

Mi guardo in giro. Non c'è quasi nessuno su quest'isola. A un

tavolino lontano da noi mangia un'altra coppia. Sono più grandi

e più silenziosi di noi. È normale che crescendo si abbiano meno

cose da dire? Non lo so e non lo voglio sapere. Non ho fretta. Lo

scoprirò quando sarà il momento. Gin invece parla un sacco, del

più e del meno, di cose divertenti e interessanti. Mi rende

partecipe

di pezzi della sua vita che io non avrei mai potuto conoscere,

neanche immaginare, se non attraverso lei. E io l'ascolto,

guardandola

negli occhi, senza mai perderci di vista. E poi ha sempre

mille proposte.

"Senti, ho avuto una bellissima idea. Domani andiamo su un'isola

qui davanti, anzi no, prendiamo una barca e usciamo a pescare,

no, no, meglio, facciamo un po' di trekking all'interno... Eh, che

ne dici?"

Io sorrido. Non glielo dico che l'isola ha un diametro di appena

un chilometro.

"Certo, bellissima idea."

"Ma quale è bellissima? Te ne ho proposte tre!"

"Tutte e tre bellissime."

"A volte mi sembra proprio che mi prendi in giro."

"Perché dici così? Sei bellissima."

"Vedi, mi prendi in giro."

Mi alzo, mi siedo vicino a lei e le do un bacio. Lungo.

Lunghissimo.

Con gli occhi chiusi. Un bacio totalmente libero. E il vento

cerca di passare tra le nostre labbra, il nostro sorriso, le

nostre

guance, tra i capelli... Niente, non ce la fa, non passa. Nulla ci

divide.

Sento solo delle piccole onde che si rompono sotto di noi, il

respiro del mare, che fa eco ai nostri che sanno di sale... E di

lei. E

per un attimo ho paura. Che io abbia voglia di perdermi di nuovo?

E poi? Cosa succederà? Boh. Mi lascio andare. Mi perdo in quel

bacio. E abbandono quel pensiero. Perché è una paura che mi piace,

sana. Gin all'improvviso si stacca da me, si allontana e mi fissa.

"Ehi, ma perché mi guardi così? A che pensi?"

Le prendo i capelli portati in avanti dal vento. Li raccolgo

dolcemente

nella mia mano. Poi glieli porto indietro, liberando il suo

viso, ancora più bello.

"Ho voglia di fare l'amore con te."

Gin si alza. Prende la giacca. Per un attimo sembra arrabbiata.

Poi si gira e mi fa un bellissimo sorriso.

"Mi è passata la fame. Andiamo?"

Mi alzo, lascio dei soldi sul tavolo e la raggiungo. Cominciamo

a camminare sul bagnasciuga. L'abbraccio. La notte. La luna. Un

vento ancora più leggero. Barche lontane al largo. Vele bianche

sbattono. Sembrano fazzoletti lì a salutarci. Ma no, non partiamo.

Non ancora. Piccole onde del mare ci accarezzano le caviglie,

senza

fare troppo rumore. Sono calde, lente, silenziose. Hanno rispetto.

Sembrano un preludio di un bacio che vuole spingersi più in là.

Hanno paura quasi di farsi sentire. Un cameriere arriva con dei

piatti al nostro tavolo. Ma non ci trova più. Poi ci vede. Ormai

lontani.

Ci chiama. "Domani, mangiamo domani." Il tipo scuote la testa

e sorride. Sì, quest'isola è bellissima. Qui tutti hanno rispetto

dell'amore.

Capitolo 64.

Quando ero piccolo e tornavo dalle vacanze, Roma mi sembrava

sempre diversa. Più pulita, più ordinata, con meno macchine,

con un senso di marcia improvvisamente cambiato, con un

semaforo in più. Questa volta mi sembra identica a quando

l'abbiamo

lasciata. È Gin che mi sembra diversa. La guardo senza che

se ne accorga. Aspetta ordinata in fila il nostro turno per

prendere

il taxi. Muove ogni tanto i capelli, ravvivandoli, li allontana

dal viso e loro, ancora insaporiti di mare, ubbidiscono. No, non

diversa. Semplicemente più donna. Tiene la sua sacca tra le gambe

e uno zaino non troppo pesante sulla spalla destra. Austera e

dritta ma morbida nei tratti. Si gira, mi guarda e sorride. È

mamma?

Oddio, che aspetti sul serio un bambino? Sono stato un pazzo.

Mi guarda curiosa cercando forse di indovinare i miei pensieri.

Io la guardo invece cercando di indovinare della sua pancia.

Sono già in due? Mi ricordo di uno sceneggiato che ho visto da

piccolo. La storia di Ligabue. Ma non il cantante. Il pittore.

Guardando

una sua modella, dipingendola su una tela, Ligabue, dalla

diversa luce dei suoi occhi, dai morbidi tratti del suo corpo,

capisce

che è incinta. Ma io non sono un pittore. Anche se forse sono

stato più pazzo di Ligabue.

"Si può sapere a che pensi?"

"Ti sembrerà assurdo ma a Ligabue."

"Oh, ma dai, non sai quanto mi piace sia come cantante che

come uomo."

Canticchia allegra perfettamente intonata. Sa tutte le parole di

Certe notti, ma non ha indovinato uno dei miei pensieri. Per

fortuna.

Almeno questa volta. "Ehi! La sai una cosa? Ligabue mi piace

anche come regista... L'hai visto tu Radiofreccia?"

"No."

È arrivato il nostro turno. Mettiamo le valigie nel portabagagli

e saliamo sul taxi.

"Peccato, a un certo punto c'è una bella frase... Credo che c'è

un buco grosso dentro, ma che il rock and roll, qualche amichetta,

il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli

amici be', ogni tanto questo buco me lo riempiono."

"Sembra forte... certo che te ne ricordi di citazioni tu, eh?"

Gin insiste. "E Da dieci a zero?"

"Neanche."

"Ma sei sicuro che pensavi al cantante e non a Ligabue il

pittore?"


Mi guarda incuriosita e strafottente. Questa ragazza mi preoccupa.

Dico la strada della casa di Gin al tassista che fa cenno di sì

con la testa e parte. Oh. Tutti sanno tutto. Io mi infilo gli

occhiali.

Gin ride.

"Ti ho beccato eh? O non sai neanche chi è?"

Non si aspetta risposta. Decide di lasciarmi stare. Si appoggia

sulla mia spalla come durante i voli in aereo. Come tutte queste

ultime

notti. La vedo riflessa nello specchietto del tassista. Chiude

gli occhi. Sembra riposare, poi li riapre di nuovo. Incrocia il

mio

sguardo anche attraverso gli occhiali. Sorride. Forse ha capito

tutto.

Forse. Ma una cosa è sicura. Se sarà una bambina la chiamerò

Sibilla.

Un ultimo saluto. "Ciao. Ci sentiamo." Con lo zaino in spalla

e la sacca in mano entra nel portone. La vedo andar via così,

senza

poterle dare una mano. Non ha voluto.

"Non voglio essere aiutata e soprattutto non mi piacciono gli

addii troppo lunghi. E vattene! "

Gin troppo forte. Risalgo sul taxi e do il mio indirizzo. Il

tassista

fa un cenno di sì con la testa. Conosce anche questo. Be',

d'altronde

è il suo lavoro. In un attimo mi tornano in mente tanti momenti

del viaggio. È come un album sfogliato velocemente. Allora

scelgo le foto più belle. I tuffi, i baci, gli scherzi, le cene,

le chiacchierate

senza tempo, l'amore senza tempo, i risvegli senza tempo.

E ora? Sono preoccupato e non solo per il fuso orario. Mi manca.

Lasciarla a casa proprio dopo un viaggio è come partire di nuovo

ma senza saper dove andare e soprattutto con chi. Solo. E Gin

già mi manca. Di questo sono preoccupato. Sono diventato troppo

romantico?

"Siamo arrivati, dotto'."

Per fortuna c'è il tassinaro che mi riporta alla realtà. Scendo.

Non aspetto il resto, prendo la mia roba ed entro in casa.

"C'è nessuno?" Silenzio. Meglio così. Ho bisogno di entrare

piano piano, senza troppi rumori, senza troppe domande, nella mia

vita di tutti i giorni. Metto a posto un po' di roba dalla sacca,

butto

in bagno nella vasca quello che c'è da lavare e mi faccio una

doccia.

Non sento il fuso ma per fortuna sento il telefonino. Esco dalla

doccia. Lo prendo al volo. Mi asciugo un attimo prima di

rispondere.

E lei, Gin.

"Ohi, l'ho acceso un secondo fa, prima di fare la doccia. Lo

sapevo

che non potevi resistere."

"Pensa che io ti avevo chiamato per sapere tu come te la cavavi.

Non è che stai dando le capocciate? Sei in crisi totale da

astinenza...

d'amore?"

"Io?"

Allontano il telefonino di poco e fingo di rivolgermi a un folto

pubblico femminile lì di fronte. "Calma ragazze, calma... Arrivo!

"

Gin fa finta di essere scocciata.

"Strano che non hai detto vengo. E in un attimo ragazze! Saresti

stato più sincero. Non le illudere! Ah! Ah!"

"Uhm! Velenosa. Se la metti su questo piano parliamo con Romani,

due partecipazioni a qualche trasmissione come il caso dell'anno

e ripartiamo subito per il giro del mondo."

" Senza andar troppo lontano... Comincia a prepararti il discorso

per i miei, dovrai passare di qui tra qualche giorno."

"Cosa?"

"Be', se ancora non arrivano 'loro' è meglio che passi tu, no?"

"Cosa?"

"Ma sì, siamo allo scadere, e 'loro' non si vedono, quindi sono

incinta! Preparati la promessa di matrimonio, le scuse e tutto il

resto.



Rimango in silenzio.

"Ecco bravo! Hai capito! Divertiti con quelle ragazze che hai

lì, che ti è rimasto poco tempo! "

"Ma io pensavo che mi sarei dovuto occupare solo della scelta

del nome. "

"E certo. La cosa più facile! No guarda, a quello ci penso io.

Tu preoccupati di tutto il resto. Sai cosa dice sempre la mia

mamma?

'Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!'"

"Bicicletta... Se è femmina la potremmo chiamare così. Sarebbe

sicuramente una ragazza molto sportiva e poi che ne so, in onore

di tua mamma."

"Meno male. Credevo fossi già in stato depressivo. Invece ce la

fai ancora a dire qualche cretinata."

"Sì, ma sono le ultime. Sai come papà dovrò essere ancora più

serio. Ma sei sicura piuttosto che sono io il papà? Mio nonno

diceva

sempre: 'Mater semper certa est, pater numquam'."

"Ecco bravo, vivi nell'incertezza. Stai sicuro che se è scemo vuol

dire che è tuo ! "

"Meno male che ero in crisi d'astinenza d'amore! "

"Step... non litighiamo."

"E chi vuole litigare?"

"Mi manchi..." Allontano di nuovo il telefonino.

"Ragazze, volete sapere che ha detto? Che le manco..."

"Dai... non fare lo stupido."

"Sei cambiata?"

"Cioè?"

"Di solito mi dici scemo."

"E cosa è meglio scemo o stupido?"

"Be', diciamo che stupido per me è meglio... e poi scusa scemo

hai detto che chiami mio figlio, a me devi chiamarmi stupido per

forza sennò in questa casa non si capisce più niente. Sai che

confusione?"


"Cretino!"

"Ecco... E adesso cretino chi è? L'altro?"

Ridiamo. Continuiamo a ridere così. A parlare senza più sapere

bene di cosa, né perché^Poi decidiamo di attaccare, promettendoci

di sentirci domani. È un'inutile promessa. L'avremmo fatto

comunque. Quando perdi tempo al telefono, quando i minuti

scorrono senza che te ne accorgi, quando le parole non hanno

senso,

quando pensi che se qualcuno ti ascoltasse penserebbe che sei

pazzo, quando nessuno dei due ha voglia di attaccare, quando dopo

che lei ha attaccato controlli bene che l'abbia fatto veramente,

allora sei fregato. O meglio sei innamorato. Che poi è un po' la

stessa

cosa...

Capitolo 65.

I giorni seguenti a Roma tornano lentamente normali. Le ore

riprendono

il loro posto. Torna a far freddo. Ognuno a stare nella

propria casa. Il mare si allontana. Così come il suo ricordo.

Rimangono

solo le foto di quello splendido viaggio. Finiscono in chissà

quale cassetto presto anche loro dimenticate. Romani è stato

felice

di vederci, così allegri e abbronzati, soprattutto grazie a lui.

Ancora

più felice nel vederci accettare quel contratto di lavoro, sempre

grazie a lui. Paolo e Fabiola sembrano andare d'accordo. Paolo ha

abbandonato l'idea di fare l'agente. Il mio agente. È tornato a

fare

il commercialista. Fa prendere tutte le decisioni a Fabiola, la

sua

donna, così i conti tornano facilmente. Perché se a lui i conti

non

tornassero sia in ufficio che fuori, potrebbe impazzire. Da quanto

sento dai racconti di Paolo, mio padre e la sua donna, della quale

non ricordo assolutamente il nome né voglio fare il minimo sforzo

per ricordarlo, vanno d'amore e d'accordo. D'amore. Anche su

questo

non voglio fare il minimo sforzo. Della vita sentimentale di mamma

invece Paolo non sa nulla. O almeno non mi dice nulla. E

preoccupato

però della sua salute. Le ha visto fare diverse ricerche in

ospedale.

Ma anche di questo Paolo non sa nulla. O anche in questo caso

non mi vuole dire nulla di più. E anche su questo non riesco a

fare

uno sforzo. Non ce la faccio. Già mi è sembrato difficile leggere

il libro che mamma mi ha regalato. Una storia simile alla nostra

ma

con un lieto fine. Un lieto fine, sì. Ma quello è un libro.

"Ciao, che stai facendo?"

"Sto preparando la borsa e me ne vado un po' in palestra..."

Tutto è tornato alla più grande normalità. Anche Gin.

"Ma dai, anch'io più tardi ci vado. Oggi mi tocca." Fa una pausa

cercando nel suo calendario delle palestre a vela. "La Gregory

Gym a via Gregorio VII ! Meno male che non è troppo lontana. Ci

vediamo più tardi?"

"Certo."

"Allora un bacio e a dopo."

Non sapevo cosa sarebbe successo, che di quel "certo" non sarei

stato poi più così certo.

In palestra saluto un po' di gente. Poi comincio ad allenarmi.

Senza spingere troppo, senza forzare con il peso. Ho paura di

stirarmi.

È troppo tempo che non mi alleno. "Ehi, bentornato."

È Guido Balestri, magro e sorridente come sempre. Con la sua

tuta bordeaux sbrindellata come sempre, con una felpa radicai-

chic

ma di marca come tutte le sue cose, anche quelle come sempre.

"Ciao. Ti alleni?"

"No. Ero passato in palestra proprio con la speranza di trovarti.

"

"Non ho una lira..." ride divertito forse perché sappiamo

benissimo

tutti e due che è l'ultima cosa della quale potrebbe avere

bisogno. "E per un po' devo evitare risse."

"E certo, a farsi vedere troppo uno si brucia. Ormai sei un divo

della rissa ! "

Capisco che deve aver seguito tutta la vicenda. Ma lui preferisce

farmelo notare. E per bene. "Ho ritagliato tutti gli articoli:

l'eroe,

il paladino, il giustiziere della tv..."

"Sì, non ci sono andati leggeri."

"Be', neanche tu, dalle foto che ho visto!"

"Non lo sapevo. Hanno pubblicato anche le foto dei tre? Questa

me la sono persa."

Ma non è importante. Ho ancora ben presente la scena reale

con tanto di originali in carne e ossa. Lascio cadere il discorso.

"Allora, a parte gli scherzi, cosa posso fare per te?"

"Sono io che posso fare qualcosa per te. Ti passo a prendere

alle nove Step, ti va?"

"Dipende."

"Ehi, ma sei diventato una di quelle fighette che credono di

avere solo loro l'esclusiva del piacere maschile? Della serie

'verrei

ma non posso'! Dai, ti porto a una bella festa, gente tranquilla,

roba

fina, non dirmi che sei finito in qualche gabbietta femminile?

Vediamo un po' di amici, roba tranquilla! "

L'idea di fare una rimpatriata mi va. È passato un sacco di tempo.

Perché no. Staccare un attimo da tutto. Un tuffo nel passato.

Penso a Pollo ma non mi fa male. Una bella nuotata è quello che

ci vuole. Pacche sulle spalle di gente che non vedo da troppo

tempo.

Qualche bel racconto del passato, strette di mano e sguardi

sinceri.

Amici di risse. Gli amici più veri.

"Perché no."

"Ok, allora dammi l'indirizzo che ti passo a prendere in

macchina."


Ci salutiamo. "Alle nove! Mi raccomando..."

Continuo ad allenarmi ancora un po'. Ci metto più foga.

Presuntuoso.

Che fai? Vuoi tornare in forma per incontrare gli amici

di un tempo? Essere all'altezza dei loro ricordi? Step, il mito! E

autoironico

decido di smettere e farmi una bella doccia.

Poco dopo a casa. Mi squilla il telefonino.

"Ciao, ma non sei passato."

Gin è un po' delusa. "No... è che pensavo fossi ancora in

palestra.


"Macché! Ho dovuto aiutare mia madre a portare su la spesa.

Poi si è accorta che aveva dimenticato di comprare il latte e

allora

sono andata io. Poi sono tornata e si è accorta che si era

dimenticata

il pane e sono andata di nuovo io. Ed era pure rotto l'ascensore.

"

"Be', non sarai andata in palestra ma ti sei tenuta lo stesso in

forma."

"Sì certo. Ho dei glutei fantastici! Vuoi venirli a vedere adesso?

Devo giusto andare a ritirare qualche panno in terrazzo che

stasera

mi sa che piove."

"No, non posso. Mi passa a prendere un mio amico fra poco."

"Ah..." Gin sembra rimanerci male.

"Un mio amico, ho detto, Guido Balestri, quello alto magro...

C'era quella sera che siamo andati dal Colonnello." Cerco di

rassicurarla.


"Boh, non me lo ricordo. Ok come vuoi. Oh, io su in terrazzo

ci vado lo stesso. Poi chi c'è c'è..."

"Dai, non fare la sciocca. Ancora niente?"

"Ancora niente. Per adesso sei ancora un ipotetico papà..."

"Be', allora ne approfitto e ancora per stasera esco. Dai, magari

ci sentiamo dopo."

"No magari. Ci sentiamo dopo! E chiamami senza chi!"

"Ok." Rido. "Come vuole il terzo dan." Non faccio in tempo

a chiudere con Gin che suona il citofono. È Guido. "Scendo."

Capitolo 66.

Raffaella gira per casa. Niente da fare. Non le tornano i conti.

Peggio del salumiere sotto casa che ogni volta ti segna qualcosa

in

più sul conto della spesa, o il benzinaio giù nella piazza che ti

lava

la macchina e poi ti fa il pieno. Persone di fiducia che poi si

scusano

con la solita frase: "Guardi che non è tanto, è l'euro, signo',

che

c'ha fatto raddoppia' tutto". Sembra che sia stato coniato apposta

per le loro truffe. Ma qui si tratta di altro. Di Claudio. Claudio

è

cambiato. Anche come ha fatto l'amore l'altro giorno, che non ha

voluto togliersi la camicia. È strano. Oltre la musica, ha

cambiato

perfino il tipo di lettura. Ha sempre letto solo "Diabolik" e al

massimo

"Panorama". E guarda caso questo lo prendeva sempre quando

sulla prima pagina c'era una bella ragazza. Naturalmente mezza

nuda. E fino a qui è tutto normale. Sosteneva sempre che

all'interno

c'era un importante articolo sul mondo della finanza. Ma ora?

Come si spiega quel libro? Raffaella si avvicina al comodino di

Claudio

e lo prende in mano. Poesie di Guido Gozzano. Lo sfoglia. Niente.

Non c'è niente. Poi improvvisamente qualcosa cade ed è in mezzo

alle pagine. Una cartolina. La gira subito veloce per vedere cosa

c'è scritto. Niente. Solo il timbro e la firma di chi l'ha

spedita. Una

"F". Solo una semplice "F". E un timbro dal Brasile. Chi può

avergliela

mandata? Qualcuno che è stato in Brasile. Guarda la data sul

timbro. È stata spedita sei mesi fa. Chi può essere andato tra gli

amici

che conosciamo in Brasile sei mesi fa? Filippo, Ferruccio, Franco.

No. Non mi sembra che ci sia andato nessuno. E soprattutto che

nessuna moglie ce l'avrebbe mai lasciato andare. A meno che non

sia uno di loro che è andato di nascosto... e manda una cartolina

a

Claudio con una "F"? No. I conti non tornano. Gira la cartolina e

la guarda. C'è una bella ragazza brasiliana. La classica foto di

una

che passeggia sulla spiaggia con un culo in bella mostra e un

costume

tipo filo interdentale. La cosa strana è che si vede perfettamente

il suo viso e sorride. Niente. La rimette nel libro e comincia a

sfogliarlo.

A un certo punto trova una frase sottolineata in rosso. Ma

com'è possibile? Claudio odia il rosso. Non lo avrebbe mai usato.

Gli ricorda i tanti errori che faceva a scuola in italiano,

proprio perché

non leggeva mai niente. E il verso sottolineato, poi: "Non amo

che le rose che non colsi". Con aggiunto un punto esclamativo.

Punto

esclamativo? Qualcuno che oltretutto ha rovinato la sintassi del

poeta, l'ha deturpata, violentata. Uno che non ha rispetto di

nulla

e di niente. Neanche di me. Soprattutto di me. Raffaella va

velocemente

alle ultime pagine per vedere se c'è il prezzo, se è stato

tagliato

o coperto. No, il prezzo c'è. Guarda meglio. Lo porta vicino

al viso. E improvvisamente se ne accorge. Ci sono tracce di colla.

Il

prezzo era coperto. L'adesivo è stato tolto. È stato Claudio! Non

voleva far vedere il nome del negozio dove questo libro è stato

preso.

Gliel'hanno regalato! Ed è stata quella "F". Quella stronza di

"F". Raffaella mette tutto a posto. Deve escogitare un piano.

Purtroppo

l'unica persona che conosce alla Telecom è il dott. Franchi,

un amico di Claudio. A lei non direbbe mai niente, né le

telefonate

o i messaggi che Claudio manda. Figurati. Quella stupida

solidarietà

maschile. Non parlerebbe mai neanche sotto tortura. Raffaella

il suo telefono l'ha già controllato, più volte. Non un messaggio,

né inviato né ricevuto. Anche le telefonate effettuate, quelle

ricevute

o perse, sono poche. Troppo poche. È un telefonino pulito,

troppo pulito. Quindi è sporco. Ma come può fare? Non è certo come

quel deficiente taccagno di Mellini che per risparmiare aveva

fatto un abbonamento " You&Me", quello dove scegli il numero che

chiami più spesso, e sul contratto aveva fatto segnare

direttamente

il numero dell'amante. Quello è stato un gioco fin troppo facile

da

scoprire. Che poveraccio. Almeno in quello poteva avere un po' di

stile. Dovrebbe essere felice ora, che risparmia su tutto. È stato

lasciato

anche dall'amante. Ma forse l'ha fatto apposta per farsi scoprire.

Quando un marito lascia un messaggio nel telefonino vuol dire

che comunque non gliene frega più niente della moglie. E non sa

come dirglielo. Così si risparmia pure la faticaccia. Che

poveracci

che sono gli uomini. Cioè, per assurdo dovrei essere felice che

leva

il copriprezzo del libro e che mi nasconde tutto... E così, mentre

valuta

disperata questa sua ultima considerazione, improvvisamente

le viene un'idea. Un lampo, un attimo, un'illuminazione. Socchiude

gli occhi e comincia a studiarla in tutti i suoi particolari. E

alla

fine sorride, perché capisce che è perfetta.

Poco più tardi. Claudio rientra a casa. Raffaella gli va incontro

salutandolo.

"Ciao, come stai? È andato bene il lavoro?"

"Benissimo."

"Vieni che t'aiuto."

Claudio si fa sfilare la giacca, ma rimane perplesso. Cos'è questa

improvvisa gentilezza? C'è qualcosa che non va. Avrà scoperto

qualcosa? Un altro problema delle figlie? Tanto vale affrontarla

subito.

Claudio la segue in camera da letto.

"Tutto bene tesoro? C'è qualche problema?"

"No, tutto a posto, perché? Vuoi qualcosa da bere?"

Mi chiede anche se voglio qualcosa da bere. Allora un problema

c'è. E grosso.

"Ma Daniela come sta?"

"Benissimo, ha fatto gli esami. Dovrebbero consegnarglieli proprio

oggi, ma sembra tutto a posto. Ma perché mi continui a fare

tutte queste domande?"

"Sai Raffaella, mi sembri così gentile."

"Ma io sono sempre gentile."

"Ma non così gentile! "

È vero, pensa Raffaella. Cavoli, mi sto tradendo.

"Hai ragione, non ti si può nascondere niente! Mi ero

completamente

dimenticata che mi aveva invitato Gabriella per giocare

a burraco da lei. E invece avevamo detto che forse andavamo al

cinema coi Ferrini. "

"Ah." Claudio sospira, rilassandosi. "Ma figurati, cara, voglio

essere sincero. Me n'ero dimenticato anch'io. Non solo. M'ha

chiamato

Farini che stasera mi dà la rivincita a biliardo, ma ti rendi

conto!

Ormai è sicuro, viene al nostro studio! "

"Bene, sono felice! Allora fatti una bella doccia, così ti

rilassi.

Se perdi di nuovo pensa che lo fai apposta per fargli piacere... e

non è carino ! "

"Hai ragione, stasera lo batto, sono sicuro." Claudio si spoglia

del tutto e s'infila nella doccia. Si rilassa sotto il getto

dell'acqua.

Che bello, pensa, mai niente m'è sembrato così facile. E lei si

sente

perfino in colpa. Posso andare all'Hotel Marsala senza problemi

e godermela fino a tarda notte. Come sono fortunato... E non

sa quanto si sbaglia. Raffaella ha appena messo a punto il suo

piano.

Ora non ha più dubbi. Non è perfetto: è diabolico. Claudio finisce

di fare la doccia. Si asciuga velocemente eccitato all'idea

d'uscire

e la saluta con affetto.

"Ma che fai tu? Non esci?"

"No, noi giochiamo verso le dieci. Così aspetto anche Daniela

che torna, mi fa piacere."

"Hai ragione, salutamela e divertiti."

"Anche tu."

Raffaella lo saluta con un sorriso. Claudio esce di corsa. Ma se

avesse avuto gli occhi anche dietro la nuca avrebbe visto come

quel

sorriso, appena si è voltato, si è tramutato in una smorfia

terrificante.

Quello di una donna che sa il fatto suo. E che andrà fino in

fondo. Raffaella prende il telefono di casa e chiama tutt'e due le

figlie.

Poi tutte le sue amiche più intime, quelle che potrebbero in

qualche modo cercarla sul suo telefonino. A tutte dice la stessa

cosa.

Per tutte inventa la stessa bugia.

Capitolo 67.

Poco dopo sono in macchina con Balestri. Gli ho portato una

birra. Guida allegro e sportivo, non solo per la birra forse.

"Ecco.

Siamo arrivati." Via di Grottarossa. Scendiamo. Alcune macchine

sono posteggiate di fronte alla villa ma non ne riconosco nessuna.

Suona a un citofono. Corsi. Anche il cognome non lo conosco. Guido

mi guarda curioso, sembra divertito.

"Oh, Guido, non è che hai sbagliato indirizzo? Non vedo le

moto di nessuno, Corsi poi? Ma chi è?"

"È questa la villa, fidati. Stai tranquillo. Almeno una persona

sono sicuro che la conosci." Aprono il cancello. Entriamo. La

villa

è molto bella, vetrate coperte da tende dai diversi colori si

affacciano

su tutto il giardino. Una piscina semivuota riposa poco

più in là aspettando i primi di maggio e lì vicino un campo da

tennis

con tanto di terra rossa e rete tirata sembra farle da guardia. Un

cameriere sorridente ci aspetta sulla porta, si fa di lato e ci fa

entrare

richiudendola alle nostre spalle.

"Grazie."

Guido lo saluta. Sembrano conoscersi. "C'è Carola?"

"Certo è di là, venga." Ci accompagna per un corridoio. Quadri

illuminati si alternano perfetti all'interno di un'impeccabile

libreria,

tra libri antichi, vasi cinesi morbidamente colorati e oggetti

di cristallo. Tutti delicatamente incastonati in quel legno

chiaro.

Arriviamo in un grande salotto. Il cameriere si fa da parte. Una

ragazza

ci corre incontro.

"Ciao."

Abbraccia Guido salutandolo affettuosamente ma non sulle

labbra. Deve essere Carola.

"Ce l'hai fatta?" Guido si gira verso di me e sorride come a dire:

"Certo Carola, non vedi che è qui?". Carola mi guarda. Rimane

per un attimo sorpresa. Mi osserva con attenzione come se mi

stesse valutando. Socchiude gli occhi, li stringe come se non

credesse

che io... sono io.

"Ma lui... è lui?"

Guido le sorride. "Sì, è lui."

"Sì, penso proprio di essere io... Di solito mi chiamano Stefano,

Step per gli amici... Ma 'lui' non mi avevano mai chiamato...

Lui? Mi spiegate cosa sta succedendo?"

E improvvisamente da quella porta semichiusa, da quel salotto

fatto di persone sconosciute, di voci lontane e confuse, di libri

antichi, di quadri dipinti dal tempo, sento una risata. La sua

risata.

Di lei che mi è mancata, di lei che ho cercato, di lei sogno di

mille

notti. Babi. Babi. Babi. Babi è seduta su un divano in mezzo al

salotto e tiene banco e racconta qualcosa e ride e tutti ridono.

Mentre

io, da solo, rimango in silenzio. Ecco il momento che ho tanto

atteso. Quante volte in America, frugando nei ricordi, spostando

pezzi dolorosi, macigni di delusioni, sono andato giù, in fondo,

fino

a trovare quel sorriso. E ora eccolo lì, davanti a me. E lo divido

con altri. Tutto ciò che era mio, solo mio. E improvvisamente mi

ritrovo a correre attraverso un labirinto fatto di momenti: il

nostro

primo incontro, il primo bacio, la prima volta... L'esplosione

impazzita

del mio amore per te. E in un attimo ricordo tutto quello

che non ti ho potuto dire, tutto quello che avrei tanto voluto che

tu sapessi, la bellezza del mio amore. Quella avrei voluto

mostrarti.

Io, semplice cortigiano ammesso alla tua corte, inginocchiato

davanti

al tuo più semplice sorriso, di fronte alla grandezza del tuo

regno, avrei voluto mostrarti il mio. Su un piatto d'argento,

allargando

le braccia in un inchino infinito, facendoti vedere il mio dono,

quello che provavo per te: un amore senza confini. Ecco, mia

signora, vedi, tutto questo è tuo. Solo tuo. Oltre il mare e in

fondo,

laggiù, oltre l'orizzonte. E ancora Babi, oltre il cielo e oltre

le

stelle, e ancora, oltre la luna e oltre quel che è nascosto. Ecco,

questo

è il mio amore per te. E altro ancora. Perché questo è solo ciò

che ci è dato di sapere. Io ti amo oltre tutto quello che non ci è

dato

di vedere, oltre quello che non ci è dato di conoscere. Ecco,

questo

e chissà quant'altro ancora avrei voluto dirti. Ma non ho potuto.

Non ho potuto dirti nulla che tu avessi voglia di ascoltare. E

ora? Cosa potrei dire ora a quella ragazza seduta sul divano? A

chi

posso mostrare le meraviglie di quel grande impero che le

appartenevano?

Ti guardo e non ci sei più. Dove sei finita? Dov'è quel

sorriso che mi rendeva naufrago di certezze, ma così sicuro di

felicità?

Vorrei scappare ma non c'è tempo, non c'è più tempo. Eccoti.

Babi si gira lentamente verso di me.

"Step! Non ci credo... Che sorpresa..." Si alza e mi corre

incontro.

Mi abbraccia, mi stringe forte e mi bacia dolcemente. Sulla

guancia. Poi si stacca, non andando troppo lontano però. Mi

guarda negli occhi e sorride.

"Come sono felice di vederti... Ma che ci fai qui?"

Mi viene in mente Carramba che sorpresa! Cosa avrebbe gridato

la Raffa nazionale? Ah sì. "Babi è qui!" Ma non mi dà tempo.

Comincia a parlare. Ride e parla, parla e ride. Sembra sapere

tutto

di me. Sa dove sono stato, cosa ho fatto in America, gli studi, il

mio lavoro.

"E poi sei tornato in Italia i primi di settembre. Il 3 credo per

essere precisi. E non mi hai fatto neanche gli auguri per il

compleanno...

Non ti sei ricordato, eh? Be', ma ti perdono..."

E continua così, ridendo. Il 6 settembre era il suo compleanno

e io, quel giorno, me lo sono perfettamente ricordato, come

sempre.

Come ogni anno, anche in America, come ogni altra cosa che

aveva avuto a che fare con lei, le più belle, le più dolorose. E

lei?

Lei mi perdona. Di che? Di non averla saputa dimenticare?

"Era il 6 settembre! Vedi che non ti ricordi..."

"Ah già, è vero." Le sorrido e la lascio andare avanti. Parla lei

per tutti e due, decide lei, va avanti lei, come ha sempre fatto.

"E poi hai fatto una trasmissione televisiva e poi ho visto quei

giornali. Con quelle foto. Per salvare quella ragazza. Come si

chiama?

Be', ora non mi ricordo. Comunque ti ho cercato ma..."

Per fortuna va avanti. Senza chiedermi il nome. Ginevra. Gin

per gli amici. Dovrei chiamarla. Devo chiamarla. Le ho detto che

ci saremmo sentiti dopo. Magari. Sì, ha detto magari. Mi posso

sempre

attaccare a quel "magari". Spengo il telefonino. Mi giro. Mi viene

d'istinto. Vedo Guido che mi sorride. Se ne accorge e mi fa

l'occhiolino.

Lui perfido Lucignolo, io stupido Pinocchio nelle mani

di una Fata Turchina. Buona o cattiva? E lo vedo andar via.

Chiudersi

la porta alle spalle lasciandomi solo. Solo con lei, con Babi,

solo con il destino del mio passato. Babi che mi prende la mano.

"Vieni che ti presento i miei amici." E mi trascina così, più

ragazza,

più donna, più certa, più matura. Più... più non so che.

"Ecco, lui è Giovanni Franceschini, il proprietario del Caminetto

Blu... Lui invece è Giorgio Maggi, dai, lo dovresti conoscere,

ha quella grande società immobiliare che si occupa di

compravendite.

Dai, che ora sta andando fortissimo: Casa Dolce Casa si

chiama."

"No, non la conosco, mi spiace." E sorrido e saluto come se

m'importasse qualcosa di tutto questo. E altri nomi, e altre

storie.

Titoli commerciali di giovani pseudonobili di questa società che

non ha più nessun titolo... Almeno per me.

"E lei invece è Smeralda, la mia amica del cuore! "

Babi mi si avvicina complice, gatta, fa le fusa e mi suggerisce

calda all'orecchio: "Diciamo che ha preso il posto di Pallina".

E ride. E io sento solo il suo Caronne. E la guardo. Almeno

quello è rimasto. E vorrei dirle: "Chi ha preso invece il posto

mio?".

Il mio posto. Già. Perché pensavi di averne uno? Mi potrebbe

rispondere.

Allora sto zitto. Sto in silenzio. La guardo mentre continua

questo strano ballo di presentazioni. Lei, abile cortigiana, dama

impeccabile di quella sua alta società, della sua corte dorata. E

danza, e ride e manda indietro la testa e cascate di capelli e

profumo

e ancora la sua risata. E ancora... Ancora tu. Ma non dovevamo

vederci più... E sento tutto il mio dolore. Quello che non so,

quello che non ho vissuto, quello che ormai mi manca. Per sempre.

Ma quante braccia ti hanno stretta per diventar quel che sei.

Come hai ragione. Come è vero. Che importa. Tanto lei non me lo

dirà, purtroppo. Così resto in silenzio. E la guardo. Ma non la

trovo.

Allora vado a cercare quel film in bianco e nero durato due anni.

Una vita. Quelle notti passate sul divano. Lontano. Senza riuscire

a farmene una ragione. Graffiandomi le guance, chiedendo

aiuto alle stelle. Fuori, sul balcone, fumando una sigaretta.

Seguendo

poi quel fumo verso il cielo, su, più su, oltre... Lì, dove

proprio noi

eravamo stati. Quante volte ho nuotato in quel mare notturno,

perso

in quel cielo blu, portato dai fumi dell'alcol, dalla speranza di

incontrarla di nuovo. Su e giù, senza sosta. Lungo Hydra, Perseo,

Andromeda... E giù fino a Cassiopea. Prima stella a destra e poi

dritto, fino al mattino. E ancora oltre. E a tutte chiedevo:

"L'avete

vista? Vi prego... Ho perso la mia stella. La mia isola che non

c'è.

Dove sarà ora? Cosa starà facendo? Con chi?". E intorno a me il

silenzio di quelle stelle imbarazzate. Il rumore fastidioso delle

mie

lacrime sfinite. E io stupido che cercavo e speravo di trovare una

risposta. Datemi un perché, un semplice perché, un qualsiasi

perché.

Ma che sciocco. Si sa. Quando finisce un amore si può trovare

tutto, tranne che un perché.

Capitolo 68.

Claudio guida tranquillo. Ogni tanto controlla lo specchietto per

vedere se Raffaella lo sta seguendo. Niente. Nessuna macchina

dietro

di lui, nessun sospetto. Solo una volante della polizia, che a un

certo punto accende i lampeggianti e sgomma. Claudio la vede

sfrecciare

veloce girando a destra, giù per la Cassia. Non l'hanno degnato

di uno sguardo. E ti credo, pensa tra sé, io sono un cittadino

modello,

non ho mai fatto niente di male. E del tutto convinto della sua

completa innocenza scala e prende corso Francia, diretto a tutta

velocità

a via Marsala. Poco dopo è a Porta Pia. Si ferma vicino

all'Europa,

posteggia e tira fuori il telefonino dalla tasca. Lo apre,

controlla.

Niente, nessun messaggio. Con Francesca eravamo rimasti che

ci vedevamo all'albergo alle nove e mezzo. Se ci fossero stati

problemi

o avesse finito prima, mi avrebbe mandato un messaggio. Meglio

così. Meno messaggi ci si manda, meno probabilità si hanno di

essere scoperti. Dopo che Raffaella ha aperto l'estratto conto e

mi

ha fatto quell'interrogatorio di terzo grado sulla stecca da

biliardo,

non posso più telefonare o mandare messaggi dal mio telefonino. È

troppo rischioso. Raffaella sarebbe capace perfino di chiamare

Franchi

e di fare un terzo grado pure a lui. Quello non è abituato a una

belva come lei, solidarietà maschile o meno, alla fine

crollerebbe. Ne

sono sicuro. È meglio se chiamo sempre dall'ufficio e se i

messaggi

li ricevo e basta e poi li cancello. Claudio chiude il telefono e

se lo rimette

nel taschino dove lo tiene sempre. Poi, tranquillo e rilassato,

decide di concedersi una sigaretta. Quando ci vuole ci vuole. Oggi

poi non c'è nessun tipo di ansia. Così Claudio si accende una

bella

Marlboro. Ma se avesse guardato bene il suo telefonino, si sarebbe

accorto che è leggermente più nuovo del solito. È in quel caso non

ci sarebbe stata ansia. Ma vero e proprio terrore.

Beep. Beep. Il suono dell'arrivo di un messaggio. Il telefonino

di Claudio lampeggia sul tavolo. Lo sapeva. Era solo questione di

tempo. Raffaella allora sorride e lo prende in mano. Aspetta un

attimo.

Lo guarda indecisa. Ecco, questo è il momento che potrebbe

cambiare totalmente la mia vita. E pensare che quando Claudio ha

voluto prendere quei due cellulari identici da 3, perché erano in

promozione,

io l'ho tanto criticato. Povero Claudio, pensa, oggi aver

potuto scambiare il mio telefonino con quello che teneva nella

giacca

non ha prezzo. Poi il suo viso cambia improvvisamente,

s'indurisce.

La rabbia lo trasforma. Allora decide di aprirlo. Di scoprire

quella carta, quel messaggio che potrebbe mettere definitivamente

fine alla più importante partita della sua vita. Lo apre e poi

legge.

"Ciao tesoro! Ho finito adesso. Allora ci vediamo lì alle nove

e mezzo, come deciso."

Raffaella strabuzza gli occhi, diventano verdi di bile, gli escono

dalle orbite, dalla rabbia digrigna i denti, affanna nel respiro.

Vorrebbe lanciare il telefonino di Claudio contro il muro, ma sa

che perderebbe ogni traccia di quella "F" di merda, di quella

donna

che si permette di chiamarlo "tesoro". E improvvisamente capisce

l'importanza di quel telefonino, unico indizio, unica prova

per un processo del domani. Una mappa perfetta per poterla portare

ora al "suo" tesoro. Raffaella si ricompone, respira forte, si

rilassa.

Deve ritrovare la lucidità. Deve agire d'astuzia. Prende il

telefonino

di Claudio e scrive lentamente la risposta.

"Devo venire in taxi. Mi hanno preso la macchina a casa. Cosa

dico al tassista?" poi invia. E aspetta. Spera di non aver

commesso

nessun errore, nessun modo di scrivere diverso, che non ci

fosse nessun segnale tra loro, tipo "passo e chiudo" o qualche

altra

stronzata del genere. Claudio è stato attento, ma non è poi così

geniale. Non poteva mai sospettare che io sostituissi il suo

telefonino

col mio. E proprio in quel momento il messaggio di ritorno

arriva.

"Tesoro che fai mi scrivi? Avevi detto che era pericoloso. Non

so la strada esatta, ma basta che gli dici Hotel Marsala e ti ci

porta

di sicuro. A tra poco. Voglio prenderti come l'ultima volta..."

E alla lettura di quest'ultime parole Raffaella si sente quasi

morire.

Le si stringe lo stomaco, le si irrigidisce la mascella, le prende

un attacco di fegato. Poi va al telefono di casa e compone un

numero.

3570. Dopo alcuni secondi la voce della centralinista del

radiotaxi

le risponde.

"Per favore, subito un taxi a piazza Jacini. È urgente. Aspetto

in linea. "

Dopo qualche secondo arriva una voce registrata.

"Venezia 31 in due minuti."

Raffaella attacca per confermare. Poi ci pensa su e le viene quasi

una risata isterica. Venezia 31. A Venezia è stato il loro primo

viaggio. Ed è su un taxi chiamato così che finirà tutto. Poi corre

in

bagno e vomita anche quello che non ha mangiato.

Poco più tardi. Fermo al piazzale di Porta Pia, Claudio guarda

l'ora. Sono le nove. Ho ancora mezz'ora. Ha sete. Decide di andare

a prendere una birra a un bar poco distante. Accende la macchina

e fa un'inversione a U. Anche se ha commesso un'infrazione,

è stato prudente. Aveva controllato che non venisse nessuno. C'era

solo un taxi che arrivava da in fondo la strada. Se fosse stato

attento

avrebbe letto la sua sigla: Venezia 31. Certo, anche quella non

gli avrebbe detto niente. Ma se fosse stato ancora più attento, se

avesse guardato anche dentro al taxi, allora avrebbe capito che

per

lui non c'era più scampo.

Raffaella scende dal taxi, paga ed entra nell'Hotel Marsala. Si

guarda intorno. Un ambiente orribile. Una pianta finta in un

angolo.

A terra un tappeto rosso consumato. Vicino al muro c'è una

vecchia panchina dal legno mangiato. Lì davanti, un tavolino col

vetro rotto e alcune riviste vecchie distrattamente poggiate

sopra.

Un portiere si affaccia dal bancone.

"Buonasera, posso aiutarla? Le serve qualcosa?"

"Il signor Gervasi mi ha consigliato questo albergo. È in camera?"


Il portiere la guarda. Ma è un attimo. Ne ha viste abbastanza

per sapere che a volte è meglio farsi gli affari propri. Poi si

gira.

Controlla nella cassetta delle chiavi. La diciotto è ancora lì.

"No, non è ancora arrivato." Sorride alla signora in maniera

cortese.

"Bene, grazie, allora, se non le dispiace, lo aspetto qui."

Raffaella si siede sulla panchina, stando attenta a non farlo con

troppo slancio. Ci mancherebbe solo questo, cadere e rompersi una

gamba ed essere portata all'ospedale. Ora che sa la verità, che è

arrivata

al capolinea, in fondo alla sua corsa. Questo incontro finale

non se lo vuole perdere per niente al mondo. Raffaella apre un

giornale

e lo sfoglia velocemente. Ma è come se non vedesse le foto, le

scritte, le pubblicità. Solo pagine colorate. Di rosso sangue. E

proprio

in quel momento arriva Francesca. Apre la porta a vetri dell'hotel

ed entra con la sua solita allegria, salutando il portiere.

"Ciao, Pino! Claudio è arrivato?"

Il portiere guarda lei. Poi Raffaella. Risponde quasi balbettando.

"No... ancora no."

"Allora dammi le chiavi, che lo aspetto su."

Il portiere le dà le chiavi numero diciotto e poi decide di andare

nell'altra stanza. In alcuni casi è meglio non aver visto niente.

Raffaella sbatte il giornale sul tavolino e si alza. Va verso di

lei,

si ferma a un passo e la guarda negli occhi. Francesca rimane

senza

parole. Spaventata, fa un passo indietro. Raffaella

improvvisamente

la riconosce. Non ci posso credere. Che stupida che sono

stata. Quella non era una cartolina. Era una foto plastificata. È

lei

quella ragazza sulla spiaggia. Lei è "F".

"Ma che succede?"

Raffaella fa quasi un sorriso di sfida.

"Niente, un controllo. Come ti chiami?"

"Francesca, perché?"

In un attimo quella "F" prende vita. Francesca la stronza.

"Stai aspettando Claudio, vero?"

Francesca non riesce a capire. O forse non vuole capire. Comunque

Raffaella non le dà il tempo. Prende il telefonino di Claudio

e compone il numero, il proprio numero.

"Aspetta, che ora te lo passo."

Claudio ha appena preso una birra, ne sta bevendo un sorso in

macchina, quando quasi si strozza sentendo suonare quel telefonino

dalla tasca. Vibra e suona con uno squillo che però non è il suo.

Lo prende. Lo guarda sorpreso, non capendo. Poi lo apre. E in quel

momento vede quello che non si sarebbe mai aspettato. Il suo nome,

"Claudio", che lampeggia enorme sul display. Ma com'è possibile

che mi sto chiamando? Non capisce più niente. Quello è il

suo ultimo, stupido pensiero, prima di poter realizzare, di

capire,

di cadere nel baratro del dramma. Continua a guardare il suo nome

come ipnotizzato da quello squillo, non capendo che quel suono

è la sua chiamata per un'andata senza ritorno nel mondo degli

inferi. Poi all'improvviso non ce la fa più e decide di

rispondere.

"Pronto?" quasi timoroso, preoccupato di sentire chissà cosa

dall'altra parte. E infatti c'è proprio lei, l'ultima persona che

avrebbe

voluto sentire. Sua moglie.

"Ciao Claudio, aspetta che ti passo una persona."

Claudio resta senza parole, non fa in tempo a dire nulla, mentre

Raffaella poggia il telefonino sull'orecchio di Francesca. Claudio

non può immaginare, non vuole immaginare quale sarà ora la

seconda voce che sentirà... Chi è la persona vicino a sua moglie?

Chi può essere? Allora, completamente disorientato, decide di

ritentare

lo stesso.

"Pronto...?"

"Claudio sei tu? Sono Francesca... c'è qui una donna che mi ha

chiesto..." ma non fa in tempo a finire. Raffaella le leva il

telefonino

dall'orecchio e riparla con Claudio.

"Ti aspetto a casa."

Proprio in quel momento, Claudio passa in macchina davanti

all'Hotel Marsala col telefonino ancora aperto e le vede insieme:

Raffaella e Francesca. Claudio non crede ai suoi occhi, rimane

sbigottito

e accelera, cercando in qualche modo di fuggire. Ma non sa

che da questo momento non ha più scampo.

Francesca si rivolge scocciata a Raffaella.

"Ma scusa, gli stavo parlando, perché mi hai chiuso? Tu sei

maleducata..."


Raffaella le sorride, poi le prende dalle mani le chiavi della

stanza.

Francesca la lascia fare. Il grosso quadrato di legno pesante, con

sopra il numero diciotto attaccato alle chiavi, ciondola dalle

mani

di Raffaella.

"Era questa la stanza dove tu 'prendevi' Claudio?" Francesca

non risponde. Raffaella alza un sopracciglio. "Io non sono

maleducata.

Io sono la signora Gervasi. E tu, tu non sei un cazzo! " e le

dà il quadrato di legno in piena faccia, rompendole il naso e

stampando

per sempre nei suoi ricordi quel numero diciotto.

Capitolo 69.

"Ehi, Step, ma mi stai sentendo?"

"Certo..." Mento.

"Come sono felice di vederti... ma perché non mi hai chiamato

quando sei tornato?"

"Be', non sapevo..."

"Non sapevi cosa?" Ride coprendosi la bocca. Muove i capelli

portandoli all'indietro. "Se sono sola?" Mi guarda. Ora con occhi

più intensi. Senza quel fiore in bocca. Ma non dice altro, e io

ripenso al nostro Battisti. A quando lei si faceva le trecce, alle

sue

guance rosse, alle nostre cantine buie... Al mare nero. Ma non

aspetto

risposta.

"Bevo qualcosa."

E per fortuna trovo subito un rum. Un Pampero, il migliore.

Ne prendo un bicchiere e lo butto giù. Io vorrei... Ne prendo un

altro. Non vorrei... Me lo scolo tutto di un fiato. Ma se vuoi...

Un

altro bicchiere ancora. Come può uno scoglio arginare il mare?

Non ho mai saputo rispondere a quella domanda. Torno da lei, ci

sediamo su un divano. E guardandola trovo la risposta. È

impossibile.

Il mare è infinito. Proprio come i suoi occhi. E il mio scoglio...

Be', il mio scoglio è troppo piccolo. Lei mi guarda e ride.

Ride.

"Hai bevuto, eh?"

"Sì, qualcosa."

E in un attimo siamo lì, all'ombra, come quelle due biciclette

abbandonate. E passa del tempo. Non so quanto. E lei mi racconta

tutto, tutto quello che si può raccontare, che decide di

raccontarmi.

Lei donna. Lei che era chiara e trasparente come me... E prima

che le chieda quante braccia l'hanno stretta per diventar quel

che è, la serata finisce. Proprio come la mia bottiglia. "Ciao

Carola,

ciao ragazzi."

E tutti si salutano, si scambiano baci, appuntamenti, si ricordano

un impegno futuro. E ci troviamo fuori dal portone. Soli, poco

dopo.

"Che fai?"

"Eh, niente. Sono venuto con il mio amico Guido in macchina,

ma lui se ne è andato."

"Non ti preoccupare. Ho io la mia. Ti accompagno io, dai."

E salgo su una Minicooper blu ultimo modello con tanto di stereo

e ed. "Buffo, eh?" Mi guarda mentre guida.

"Ci siamo conosciuti con un passaggio in moto dove io sono

salita dietro di te e ci ritroviamo con un passaggio in macchina

dove

stavolta sali tu."

"Sì, buffo..." Non so cosa aggiungere. Mi chiedo solo se Guido

aveva immaginato anche questo. Lucignolo impeccabile dalla

mente geniale. Rivedo il suo sorriso, l'occhiolino e la sua uscita

di

scena perfetta, da grande confezionatore di destini... Ma perché

proprio il mio.

"Tieni." Babi mi allunga la sua sciarpa.

"Grazie. Ma non ho freddo!"

Ride. "Sciocco." Ora mi guarda più seria. "Mettitela sugli occhi.

Non devi vedere. Ti ricordi, no? Ora tocca a me. E tocca a te

stare al gioco."

Senza parlare me la lego intorno alla testa così come aveva fatto

lei. Quella volta in moto dietro di me. Lei e i suoi occhi

bendati,

volare via tranquilli. Lei abbracciata a me, senza vedere,

lasciandosi

portare verso quella casa ad Ansedonia, il suo sogno, di

notte, quella notte, la sua prima volta... Ora la sento guidare

tranquilla,

alzare un po' lo stereo, lasciarmi portare così dalla musica,

da lei, da quella bottiglia di rum finita dentro di me.

"Ecco, siamo arrivati."

Mi levo la mia sciarpa-benda e nella penombra la scorgo. La

Torre.

"Ti ricordi? Quella volta che ti sei addormentato?"

Come posso dimenticare? Poi quando mi sono svegliato abbiamo

litigato e poi abbiamo fatto pace. Come facevamo pace. Come

si fa pace tra innamorati. E senza neanche accorgermene me la

trovo tra le mie braccia. Eppure non abbiamo litigato. Questa

volta

no... Mi bacia. Morbida, senza pudori, sorride nella penombra.

"Ehi, ma quanto hai bevuto?"

Un po'.

Ma non sembra importargliene poi più di tanto. E continua così,

accarezzandomi. "Mi sei mancato, sai?" Mi sento sciocco, cosa

posso dire? Come posso saperlo? E sarà vero poi? Perché mi dice

così? Perché? E io? Io non so proprio che dire. Vorrei stare

zitto.

Ma mi esce un semplice "Sì?".

"Sul serio." Sorride. Poi mi sbottona la camicia, si spinge oltre.

E continua tranquilla. Senza fretta, ma decisa, sicura, ancora più

sicura, se mi ricordo, di come l'avevo lasciata.

"Vieni esci fuori..."

Quasi mi spinge dalla macchina e ride divertita all'idea che ha

iniziato a piovere. Si apre la camicetta, si toglie il reggiseno,

scoprendosi

il seno. Si lascia accarezzare dall'acqua e poi da me che

scivolo con la lingua sui suoi capezzoli bagnati. Con le mani

sicure

mi apre la cinta, mi sbottona i pantaloni lasciandoli cadere giù,

infila la mano dentro e mi sussurra all'orecchio.

"Eccolo... Ciao... Quanto tempo..."

Spinta come non era mai stata. Non con me almeno. Poi mi bacia

sul petto mentre l'acqua dal cielo continua a cadere. E Babi

scivola

giù lasciandosi portare da quelle gocce fino a trovarlo. E io mi

lascio andare così, portato dal rum, dalla pioggia che cade dal

cielo,

da lei caduta così in basso. E mi piace. E lo fa bene. Mi piace

da morire e ne soffro quasi nell'ammetterlo. Ormai bagnato, tutto

e dappertutto, rapito dalla sua bocca che mi succhia, quasi con

rabbia,

io mi lascio portare. Tutto quel tempo passato. Quel dolore

sofferto... Quella donna perduta... Alzo la testa al cielo. Le

gocce

di pioggia si vedono all'improvviso, accarezzate da quel fascio di

luce di una luna lontana. Vorrei fare come Battisti... "Ma io gli

ho

detto no e adesso torno a te con le miserie mie, con le speranze

nate

morte che io non ho più il coraggio di dipingere di vita..." E

invece

resto. E lei continua così, senza fermarsi, più veloce, con la

sua bocca quasi avida di tutto ciò che è mio. Poi si stacca, si

alza,

mi assale, mi tira a terra e io mi lascio cadere. Mi stendo vicino

a

lei, sotto la pioggia. E mi sale sopra e si alza la gonna e sotto

non

ha già più nulla. Bagnata dappertutto mi allarga le mani ed è

sopra

di me. Comincia a cavalcarmi. L'acqua scende. Mi tengo con le mani

al terreno, mi gira la testa, ho bevuto troppo, lei da lassù

sorride

e gode e mi guarda, vogliosa, sensuale, spinta. E io tocco il

grano

bagnato, l'erba, e la stringo e, per un attimo, non vorrei essere

lì. Ma come... E quel suo sorriso tanto amato? Non era per questo

che sei tornato? E all'improvviso un lampo. Senza luce. Come un

uccello notturno, un battito d'ali, fragoroso nella sua

delicatezza.

La sua voce.

"Mi chiami dopo?"

"Sì, magari ti chiamo."

"Come magari? Mi chiami! Anzi... Chiamami senza chi!"

E allora come dei pixel, dei frame, una foto sovraesposta,

un'immagine

sfocata, una semplice polaroid... Improvvisamente si forma

lucida nella mia mente. Gin. Dolce Gin, tenera Gin, divertente

Gin, pulita Gin. Mi appare tutta, in tutta la sua bellezza. E la

luna

lontana sembra ripropormi un suo nuovo viso. Affranta,

dispiaciuta,

delusa, tradita. E in quel pallore lunare vedo tutto quello

che non avrei mai voluto vedere... Come per incanto la pioggia

si infittisce, i fumi dell'alcol si dileguano. E io,

improvvisamente lucido,

provo a sfilarmi da sotto di lei. Ma Babi mi stringe più forte,

mi tiene fermo, va su e giù, quasi con rabbia, continua la sua

corsa

con ancora più foga, no, non mi lascia scappare. Quasi trascinata

da quel mio voler fuggire, mi cavalca e gode, senza darmi respiro,

né tregua, né riposo. Ancora, ancora e ancora. Si sfila solo

all'ultimo quando ormai io vengo. E soddisfatta, appagata, ormai

sazia, si accascia su di me. Si abbandona così, lasciando lì da

qualche

parte per terra due poveri innocenti. Il mio seme e la mia colpa.

Poi mi dà un bacio leggero, che non so di cosa sappia. So solo

che mi sento ancora più in colpa. E mi sorride, sotto la pioggia,

più

spinta di sempre, più donna di allora. Diversa. Specchio deforme

di ciò che ho tanto amato.

"Sai Step, ti devo dire una cosa..."

Mentre mi rivesto sotto l'acqua, sotto la pioggia che vorrei

purificatrice,

sotto le nuvole scure che mi guardano inquisitorie, sotto

quella luna che sdegnata mi ha voltato la faccia. Lei continua.

"Spero solo che non ti arrabbi."

Continuo a vestirmi in silenzio. La guardo. Io? Arrabbiarmi io?

Ora che non ci sei più? E come potrei arrabbiarmi?

Si porta con tutt'e due le mani i capelli bagnati all'indietro.

Poi

piega la testa, cercando per un attimo di tornare bambina. Ma non

è più possibile. Non ci riesce.

"Ecco... ti volevo dire che tra qualche mese mi sposo."

Capitolo 70.

Notte fonda. Claudio ha girato per tutta Roma. Non riesce a

credere a come si è fatto fottere. Come ha fatto a non accorgersi

che non era il suo telefonino, ma quello di sua moglie. D'altronde

sono identici. Mannaggia a me e a quando ho dato retta a quella

pubblicità. Era una trappola. Ho risparmiato, sì... ma ora quanti

danni mi toccherà pagare? E per quanti anni? Non riesce a

quantificare

tutto quello che lo aspetta. Ma tanto vale affrontarlo. Ormai *

sono le due. Saranno anche tutti andati a dormire, no? Posteggia

sotto casa, fuori dal cancello, proprio per non far sentire

che rientra. Poi corre su per la salita col passo felpato, nella

notte,

apre piano il portone, lo richiude sempre senza far rumore. Poi

la porta di casa, piano piano, lentamente, piegando la maniglia

della porta interna con dolcezza, per non far rumore. Ma lo scatto

finale lo tradisce.

"Papà, sei tu? " Daniela compare dal salotto. "Ciao! Ti ho

aspettato

in piedi perché sono felicissima! Ho fatto gli esami, mi hanno

dato oggi tutte le risposte. Il bambino sta bene e soprattutto non

ho l'Aids!"

Ma Claudio non fa in tempo a esserne felice. Dal buio della cucina

;

gli si scaraventa addosso Raffaella, lo aggredisce da dietro,

montandogli quasi a cavalcioni, urlando, graffiandogli con le

unghie

le guance, accecandolo, strappandogli i capelli, mordendogli

le orecchie. Raffaella è una specie di arpia, uno strano volatile

urlante

aggrappato sulla sua schiena. Ha le gambe strette intorno alla

sua vita e non lo molla. Claudio comincia a urlare pure lui dal

dolore e corre come un pazzo per il corridoio, sotto gli occhi

esterrefatti

di Daniela che non sa assolutamente nulla e che pensava di

poter dividere coi genitori la sua felicità. Claudio, arrivato

alla fine

del corridoio, si gira di botto e si lancia con una spallata

dentro

al grande armadio, sfondandolo con tutta l'arpia sulle spalle.

Finisce

sotto cappotti, pellicce e altri abiti che cadono dalle

rastrelliere.

In mezzo a quell'odore di naftalina, alle scatole di scarpe, ai

tanti

regali di feste passate ormai andate perdute. Claudio si riesce a

liberare da Raffaella, si tira fuori dall'armadio e corre in

camera

sua. In quel momento esce Babi dalla sua stanza.

"Ma che succede? Che, ci sono i ladri?" Poi vede il padre in

faccia,

tutto insanguinato. "Ma che ti è successo? Che ti hanno fatto?"

In quel momento arriva Raffaella.

"Che gli hanno fatto? Che ci ha fatto! Erano mesi che scopava

con una brasiliana in un albergo alla stazione ! " e così dicendo

strappa

via dall'armadio, distrutto, un pezzo di anta e cerca di colpire

Claudio che si chiude in camera. Tira fuori la sua valigia. Poi

apre

l'armadio ma non crede ai suoi occhi: tutte le camicie, le

giacche,

i pantaloni, i maglioni e tutti i completi sono strappati,

tagliati, lacerati.

Una specie di grande, immenso armadio di coriandoli di

classe. Claudio allora prende l'unica cosa che gli è rimasta. Apre

la

porta ed esce dalla stanza. Babi gli corre incontro.

"Papà, ma dove vai?"

"Me ne vado. M'avete rotto i coglioni tutti. Non capite quando

una persona ha bisogno di libertà..."

Raffaella gli piomba da dietro e lo colpisce alle spalle, tra

collo

e nuca, col pezzo dell'anta dell'armadio. Ma Claudio è più veloce

e ci mette in mezzo il libro di Gozzano, Poesie. E poi dicono

che la letteratura non aiuta. Così corre via, attraversa il

corridoio e

fa per uscire di casa. Ma Babi lo raggiunge sulla porta.

"Papà, ma a me chi mi accompagnerà all'altare?"

"Mamma. Ha sempre deciso tutto lei. Che si occupi pure di

quest'ultima rottura di coglioni!"

E così dicendo si libera anche di lei. E scende di corsa le scale.

Pffiuu. Claudio tira un sospiro di sollievo. Pensavo peggio.

Scende

le scalette del portone quando improvvisamente gli piomba addosso

un'altra persona.

"Ah!" Claudio si mette in posizione di difesa. Ma è Alfredo,

l'ex di Babi, completamente ubriaco con una bottiglia in mano.

"Signor Gervasi, lei mi deve aiutare, guardi come sto! Non può

far sposare Babi con questo Lillo solo perché guadagna più di me

e come? Vendendo mutande! Ma non se ne vergogna? E tutta la

nostra amicizia? I giorni passati a tavola? Dove li mette, eh?

Dove

li mette? Lei se ne pentirà! Ha capito?"

Claudio lo guarda e sorride sfinito.

"Non sono riuscito a salvare il mio matrimonio, figurati se mi

devo preoccupare di quello degli altri."

"Ah sì? Allora ora le faccio vedere io! " Alfredo avanza. Agita

minaccioso la birra, facendola roteare e andandogli contro.

Claudio

non ha più dubbi. Gli sferra un calcio in mezzo ai coglioni.

Alfredo

si accascia a terra e si piega su se stesso, dolorante. Claudio

dà un calcio alla birra, mandandola lontana.

"Non ho avuto problemi con Step, figuriamoci se mi preoccupa

uno come te!"

E se ne va via felice, guardando le stelle, sognando la nuova vita

che lo aspetta e un po' preoccupato per tutti quei vestiti che si

dovrà ricomprare.

Capitolo 71.

"Sì, pronto?"

"Ehi, ma che fine hai fatto ieri sera? Ti ho chiamato un sacco,

ma prima non prendeva, poi dava staccato."

Gin. Mi sento morire. Perché ho risposto al telefonino?

"Eh sì... siamo andati con Guido a mangiare in un locale, ma

non mi ero accorto che lì non prendeva. Era sotto."

Non so più che dire. Mi viene da vomitare. E lei, cosa assurda,

mi salva.

"Sì, sottoterra. Ho provato un po', poi mi sono addormentata.

Oggi non ci possiamo vedere. Che pizza ! Devo accompagnare mia

madre da una zia fuori Roma. Ci sentiamo dopo? Io non lo stacco,

eh? Dai scherzo! Un bacio bello e dopo, quando sei sveglio, uno

ancora più bello!"

E chiude. Gin. Gin. Gin. Con la sua allegria, Gin con la sua

voglia

di vivere. Gin con la sua bellezza. Gin con la sua purezza. Mi

sento una merda. Sto di merda. Vuoi il rum, vuoi tutto il resto.

Mamma quanto ho bevuto. Quanto avevo bevuto può essere preso

come giustificazione? Non è sufficiente. Ero capace di intendere

e di volere. Di dire di no fin dall'inizio, di non andare con lei,

di

non mettermi la sciarpa, di non baciarla. Colpevole! Senza ombra

di dubbio. Ma un'ombra ce l'ho. E se avessi sognato? Scendo giù

dal letto. Quei vestiti poggiati sulla sedia ancora bagnati di

pioggia,

quelle scarpe ancora sporche di fango non lasciano più dubbi.

Altro che sogno. È un incubo. Colpevole. Colpevole oltre ogni

ragionevole

dubbio. Cerco nella testa una frase, parole a cui aggrapparmi.

Perché attorno a me non trovo nulla? Mi viene in mente

qualcosa che mi disse una volta il prof di Filosofia: "Il debole

dubita

prima della decisione; il forte dopo". Mi pare fosse di Kraus.

Quindi secondo lui io sarei forte. Eppure mi sento così stupido e

debole. E così stupido artefice di questa mia condanna mi trascino

in cucina. Un po' di caffè mi aiuterà. Passerà un giorno e poi un

altro e poi un altro ancora. E poi tutto questo sarà lontano, sarà

del

passato. Mi verso del caffè già pronto. È ancora caldo. Deve

averlo

lasciato Paolo prima di uscire. Mi siedo al tavolo. Ne bevo un

po', mangio un biscotto. Poi vedo un biglietto. La scrittura la

riconosco.

È di Paolo. Perfetta e ordinata come sempre. Questa volta

però mi sembra solo un po' traballante. Forse era stanco e lo ha

scritto di corsa. Lo leggo. "Sono andato con papà all'ospedale

Umberto

I. Mamma è stata ricoverata lì. Vieni presto per favore." Ora

capisco la scrittura incerta. Si tratta di mamma. Lascio il caffè

e mi

vado a fare veloce una doccia. Sì, ora mi ricordo. Paolo me ne

aveva

parlato, ma non mi sembrava particolarmente preoccupato. Mi

asciugo, mi vesto e dopo pochi minuti sono già sulla moto. Un po'

di vento in faccia mi fa riprendere subito. Va tutto bene. Va

tutto

bene, Step. È quel "vieni presto per favore" che mi fa stare male.

Capitolo 72.

"Mi scusi, sto cercando la signora Mancini, dovrebbe essere

ricoverata

qui da voi."

Un infermiere svogliato dall'aria annoiata sottolineata da una

sigaretta che penetra dalle sue labbra poggia un "Corriere dello

Sport" aperto su chissà quale acquisto e butta un occhio al

computer

che ha davanti.

"Mancini hai detto?"

"Sì."

Poi mi viene in mente che potrebbe aver usato il cognome da

giovane. Non mi viene da non sposata. Qual era? Ah sì.

"Potrebbe essere anche Scauri."

"Scauri? Sì, eccola qui. Scauri. Secondo piano."

"Grazie."

Faccio per cercare nel reparto. Ma appena supero la sua

postazione,

l'infermiere annoiato sembra essersi svegliato di botto e

mi si para contro. "No, non puoi andare. Le visite sono alle

quindici."


Guarda l'orologio alle mie spalle. "Tra un'ora circa, devi stare

fuori."

"Sì, lo so, ma mia madre..."

"Lo so. Non me ne frega niente di tua madre. Alle quindici vale

per tutti. "

E in un attimo rivedo il biglietto di Paolo. "Vieni presto per

favore."


E poi non ci vedo più. Lo afferro alla gola con la mano destra

e lo spingo con tutto il peso fino a trovare il muro più vicino e

lì lo

spalmo. Mi poggio con la mano aperta sulla sua gola con tutto il

mio peso.

"Devo vedere mia madre. Ora. Subito. Non voglio creare incidenti.

Non mi fermare. Per favore..."


Uso la stessa parola usata da Paolo sperando che possa ottenere

qualche risultato. L'infermiere vuole dire qualcosa. Allento la

presa.

L'infermiere riprende fiato e bofonchia "Secondo piano". Poi

tossisce.

"Letto centoquattordici." Tossisce di nuovo. "Vai pure."

Grazie!

Mi allontano così, velocemente, prima che ci ripensi, prima che

dica o faccia qualcosa di giusto che però, in questo momento, mi

sembrerebbe profondamente sbagliato. Come fermarmi di nuovo.

Troppo profondamente sbagliato. Centoventi, centodiciannove.

Destra e sinistra. Avanzo così tra alcuni letti, tra alcune

persone distese,

tra alcune vite abbandonate sulla soglia di un più o meno felice

baratro. Un vecchio sdentato mi accenna un sorriso. Abbozzo

una risposta ma non mi viene granché. Centosedici. Centoquindici.

Centoquattordici. Eccolo. Quasi ho paura ad avvicinarmi. Mia

madre. La vedo lì, distesa tra le lenzuola, pallida, piccola come

non

mi era mai sembrata. Mia madre. Sembra avere avvertito qualcosa,

un leggero rumore che però non ho fatto. Forse solo un battito

accelerato, quello del mio cuore nel trovarla così. Si gira verso

di

me e sorride. Si aggiusta alzandosi sui gomiti, spostando indietro

la schiena. Ma un dolore improvviso le dipinge il viso facendole

passare quell'idea dalla testa. Si affloscia così, ricadendo sul

cuscino,

guardandomi imbarazzata per quel tentativo fallito. Le corro

subito vicino. La prendo delicatamente da sotto la schiena e la

tiro

piano verso il capezzale. L'aiuto stando bene attento a non urtare

tutti quei fili che penzolano giù con chissà quale medicina,

perdendosi

nelle sue braccia. Il suo viso è attraversato da una smorfia,

dipinto del dolore. Ma è solo un attimo. È passato. Mi sorride

mentre

prendo una sedia libera da un letto lì vicino e mi metto accanto

a lei, al suo capezzale per non farla parlare ad alta voce, per

non

farla stancare, non più.

"Ciao."

Prova a parlare ma io le faccio "Shh" portando l'indice alla

bocca.

Rimaniamo così in silenzio per qualche attimo. Poi sembra stare

meglio.

"Come stai, Stefano?"

È assurdo. Lei che lo domanda a me. Un suo sorriso delicato.

Mi guarda cercando risposta. Provo a parlare ma non mi escono le

parole.

"Bene." Riesco a dire prima che accada. Una parola di poco

più lunga si sarebbe rotta tra le mie labbra, come un fragile

cristallo.

Il mio dolore sarebbe andato in mille pezzi, in frantumi, come

uno specchio sottilissimo con riflessa tutta la nostra vita,

quella

mia e di mia madre. Insieme. Le sue parole, i suoi racconti, le

sue risate, i suoi scherzetti, le sue corse, le sue sgridate. Il

suo cucinare,

il suo farsi bella. Scivolano così via, senza possibilità di

essere

trattenute, come gocce d'acqua sul vetro di una macchina in

corsa, sul finestrino di un aereo in partenza, in caduta libera da

una

doccia di mare lasciata aperta e spazzata dal vento. Mamma. Come

lei ha fatto tante volte con me, mi viene naturale. Le prendo la

mano. Lei me la stringe come risposta. Sento le sue dita più

magre,

alcuni anelli più liberi, la pelle quasi posata a caso su quelle

ossa

sottili. Porto la sua mano alla mia bocca e la bacio. Ride,

leggera.

"Cos'è, il bacio del perdono?"

"Shh." Non voglio parlare. Non ce la faccio a parlare. "Shh."

Poggio la mia guancia sul dorso della sua mano. Mi lascia

tranquillo

su quell'umano cuscino piccolo ma pieno d'amore. Il mio, il suo?

Non so. Rimango lì a riposare, con gli occhi chiusi, con il cuore

tranquillo, con le lacrime sospese, in silenzio. Mi accarezza la

testa

con l'altra mano e gioca un po' con i miei capelli.

"Hai letto il libro che ti ho regalato?"

Faccio cenno di sì con la testa oscillando leggero sulla sua mano,

il mio cuscino. La sento sorridere.

"Hai capito allora che può succedere? Tua mamma è una donna,

una donna come tutte... Come tutte? Forse più fragile."

Rimango in silenzio. Cerco un aiuto, qualcosa, non ce la faccio.

Mi mordo il labbro inferiore e trattengo le lacrime. Aiuto. Chi mi

aiuta? Mamma aiutami. "Ho sbagliato, è vero, e il Signore ha

voluto

che proprio tu lo scoprissi. Ma è stata una punizione troppo

grossa. Perdere per quest'errore mio figlio."

Mi alzo di scatto e riesco a sorriderle, tranquillo, forte, come

mi vuole lei, come mi ha fatto lei, mia mamma.

"Ma non mi hai perso. Sono qua."


Mi sorride. Riesce a stendere il braccio e a farmi una carezza

sulla guancia. "Ti ho ritrovato allora."

Le sorrido e faccio cenno di sì con la testa.

"E ti perderò di nuovo."

"Ma perché? No... vedrai che andrà tutto a posto."

Mamma chiude gli occhi e scuote la testa.

"No. Me l'hanno detto. Ti perderò di nuovo."

Fa una pausa e mi guarda. Poi sorride piano piano. Vedo sul

suo viso la felicità di avermi accanto e poi, invece, il dolore

che le

viene da dentro. Improvviso. Una piccola smorfia. Chiude gli

occhi.

Poco dopo li riapre, di nuovo serena. Il dolore è passato. Mi

guarda e sorride.

"Ma stavolta non sarà per colpa mia."

Rimango in silenzio. Vorrei trovare qualcosa da dire, tornare

indietro, laggiù. Scusarmi per tutto quel tempo passato. Vorrei

non

essere mai entrato in quella casa, non averla vista con un altro

uomo,

non averla disturbata, non averne sofferto, essere stato prima

capace di capire, di accettare, di perdonare. Invece no. Non

riesco

a parlare. Non so fare altro che stringerle la mano, leggermente,

con la paura che tutto si possa di nuovo spezzare. Ma lei mi

salva,

mi aiuta, ancora una volta. D'altronde è mia madre. Mamma.

"Parliamo di ciò che ci ha allontanato."

Mi coglie di sorpresa. Rimango in silenzio.

"Non facciamo finta di niente. Credo che non ci sia nulla di

peggio che far finta di niente. Se sei qui, vuol dire che in

qualche

modo lo hai superato."

Niente, non parlo. Allora cerca di aiutarmi.

"Be', non credo comunque che sei andato fino in America per

colpa mia, no?" Sorride. E quel suo sorriso rende tutto più

facile.

"Avevo voglia di un po' di vacanza."

"Due anni? Te la sei presa comoda. Comunque mi dispiace per

quello che è successo. Tuo fratello non ha capito nulla. Tuo padre

invece non ha voluto capire. Ci sarebbe dovuto essere lui al tuo

posto.

Erano successe cose..." si ferma. Improvvisamente una fitta di

dolore attraversa il suo sorriso. Come un'onda leggera venuta da

chissà dove. Poi sparisce di nuovo e mamma riapre gli occhi. E

torna

a cercare il sorriso. Lo trova.

"Vedi, non devo parlare. Meglio così. Almeno di lui ti rimarrà

sempre un bel ricordo. Sono io la colpevole, quella che ha

rovinato

tutto, ed è giusto che io paghi." Un'altra fitta. Sembra più forte

questa volta. Mi avvicino a lei.

"Mamma..."

"Non è niente, sto bene, grazie..." Fa un lungo respiro. "Mi

danno queste medicine così forti. A volte è come se non ci fossi.

Sogno anche se sono sveglia, non sento più niente. È bello.

Dev'essere

una droga. Ora capisco perché voi ragazzi ne prendete così

tanta. Fa dimenticare qualsiasi tipo di dolore. "

"Io però non l'ho mai fatto."

"Lo so. Hai saputo vivere vicino al tuo dolore. Ora basta però.

Non gli permettere più nulla. Fatti restituire la tua vita."

Restiamo per un po' in silenzio.

"Mi sei mancata, mamma."

Poggia la sua mano sulla mia e me la stringe. Cerca di farlo con

forza, ma la sento debole, fragile. Guardo la sua mano. È magra.

Ha perso molto di quella vita che lei stessa generosamente mi ha

dato. Poi mi lascia andare.

"Comunque, Stefano, non volevo parlare di me."

"Cosa vuoi sapere?"

"Mi ricordo che quando ero molto giovane, più piccola di te,

avevo avuto un ragazzo che mi piaceva tantissimo. Ero convinta

che avrei diviso tutta la mia vita con lui. Invece si è messo con

la

mia migliore amica e io ero come impazzita. Dovevi vedere i miei

genitori. Alla fine me ne sono fatta una ragione. E subito dopo ho

incontrato tuo padre. Vedi, sono stata felice che la mia prima

volta

fosse stata proprio con lui... Ecco, ciò che in un momento preciso

ci sembra così perfetto, col passare del tempo può non esserlo

più. Magari capiamo che non era poi così perfetto e anche se lo

abbiamo perso non è detto che non possiamo trovarlo ancora, o

addirittura trovare qualcosa di meglio."

Rimane per un po' in silenzio, mi sorride. Mi vorrebbe felice.

Vorrei tanto esserlo. Anche per lei.

"Ho conosciuto una ragazza."

"Ecco, era questo che volevo sentirti dire. Mi racconti com'è?"

"È divertente, è bella, è strana. È... particolare."

Proprio in quel momento: "Step!".

Martina, quella "sgnappetta" di undici anni conosciuta a piazza

Jacini, compare sulla porta.

"Non ci posso credere!"

"Oddio..." Mia madre rimane senza parole. "Non mi dire che

è lei la ragazza 'particolare' con la quale ti vedi ora? ! " Poi

comincia

a ridere. E alla fine tossisce e di nuovo viene rapita da una

fitta

di dolore. Ma passa subito. E torna ad aprire gli occhi. E sorride

subito.

"Martina, che ci fai qui?"

"Qui lavora mia madre, eccola."

Entra una bella donna con un camice bianco.

"Salve. Io sono la caposala e dovrei cambiare le flebo della

signora

e comunque questa non è l'ora delle visite."

"Sì, lo so, scusi."

"Ma mamma, lui è un mio amico, hai capito chi è, è Step, quello

della scritta sul ponte di..."

"Martina, accompagna fuori il signore. Faccio il mio servizio

e poi la faccio rientrare un attimo per salutare la sua parente,

va

bene?"

"Grazie."

Faccio per uscire dalla stanza quando mamma mi richiama.

"Stefano, mi puoi fare una cortesia? Mi puoi portare un bicchiere

d'acqua?"

"Certo" ed esco con Martina.

"Ma quella signora chi è?"

"Mia madre."

"Sta molto male?"

"Credo di sì, non ho ancora capito bene."

"Se vuoi chiedo meglio a mia madre. Lei sa tutto. Mia madre è

pazzesca sul lavoro. Oggi non poteva lasciarmi a casa e allora mi

ha fatto venire qui. Allora, vuoi che glielo chiedo?"

"No, Martina, lascia stare."

Ci rimane un po' male. Cammina vicino a me in silenzio.

"Dai, fammi vedere invece dove posso prendere l'acqua."

"Certo!" Si accende di nuovo. "Vieni, passiamo di qua che si

fa prima." Poco dopo rientriamo nella stanza. La caposala finisce

di controllare l'ultimo tubicino. Dà una schicchera precisa su una

bottiglietta rovesciata, controllando che il liquido cominci a

scendere.

Le sembra tutto ok.

"Bene. Signora, passo di nuovo verso la mezzanotte." Poi va

verso l'uscita. "Lei può rimanere altri cinque minuti."

Grazie.

"Vieni, Martina, andiamo." Prende la figlia per il braccio per

essere sicura che esca dalla stanza.

"Ahia, mamma, e non mi tirare! Vengo! Ciao Step, ci vediamo."

La saluto con la mano e riprendo posto vicino al letto. Poso il

bicchiere d'acqua sul suo comodino.

"Grazie, Stefano. Allora, non sapevo avessi delle fan. La caposala

mi ha raccontato, Martina e le sue amiche sono letteralmente

impazzite per la tua scritta."

"Già, non credevo di diventare famoso per questo. E dire che

non l'ho neanche firmata! "

Mia madre ride. "Ma le voci girano, che non lo sai? Si sa sempre

tutto. E lei? Lei che stava con te... tre metri sopra il cielo...

che

dice?"

"L'ho vista ieri."

"Che vuol dire che l'hai vista ieri? Ma scusa, non ti stai vedendo

con l'altra?"

Rimango in silenzio. Mamma allarga le braccia.

"Be', certo... Ora che ci penso, sono la persona meno adatta a

dirti qualcosa, no?"

Ci guardiamo. Poi all'improvviso ci mettiamo a ridere. Sembra

stare meglio. La medicina ha fatto effetto.

"Non so cosa hai fatto, ma vuoi un consiglio? Non dire niente

all'altra. Neanche che l'hai vista. Supera da solo in silenzio il

tuo

errore. Spero che quello che ho combinato io allora non sia una

cosa

ereditaria, sennò mi dovrei sentire in colpa anche per i tuoi di

errori."

"No, mamma, lascia perdere, già mi sento in colpa io. Ho tanto

desiderato incontrarla di nuovo, c'ho pensato giorno e notte, ho

sempre immaginato quel momento, come sarebbe stato..."

"E com'è stato?"

"Io e te... tre metri sotto terra! "

"È che a volte facciamo delle cose così stupide. E non quando

siamo innamorati ma quando pensiamo di esserlo." Rimaniamo in

silenzio.

"Be', meglio così. Almeno una cosa te la sei chiarita. La storia

passata è passata. Finita. Non potevi evitarlo, credo."

"Invece avrei dovuto, e come se non bastasse... si sposa."

"Ah, andiamo bene. È per questo che sei rimasto male?"

"No. L'assurdo è che non me n'è fregato niente. M'è sembrata

un'altra persona, una che non aveva niente a che fare con me, con

tutto quello che mi ricordavo, non era più quella ragazza che mi

era tanto mancata, per la quale ero stato così male. E la cosa

assurda

è che si sposa e che me l'ha detto quando era già tutto successo.

Mi sono sentito ancora più in colpa."

"Per quello che ti aveva detto?"

"No, per l'altra ragazza. Per quanto è diversa da lei e per quanto


non se lo merita."

Mia madre mi guarda. Poi sorride. E torna proprio a essere

quella mamma che mi è tanto mancata.

"Stefano, alcune cose devono capitare e sai perché? Perché se

fosse successo più in là poi non sarebbe stato più possibile

mettere

tutto a posto. Di questo, purtroppo, ne sono sicura."

Rimaniamo così per un po', in silenzio.

"Be', ora vado. Non voglio che torni la caposala e mi veda ancora

qui. "

"Io al posto tuo sarei più preoccupato se tornasse la piccola

fan."

"Ah, questo è sicuro! "

Le do un bacio sulla guancia. Lei mi sorride.

"Vienimi di nuovo a trovare."

"Certo, mamma."

Raggiungo la porta e mi giro di nuovo per salutarla. Mi sorride

da lontano e alza la mano. Fa anche l'occhiolino. Forse per farsi

vedere più forte.

"Stefano..."

"Sì, mamma, dimmi. Hai bisogno di qualcosa?"

"No, grazie, ho tutto. Bentornato."

Capitolo 73.

Ormai è il tramonto. Citofono. Qualcuno mi viene a rispondere.

"Mi scusi, c'è Ginevra?"

"No. È in chiesa, qui vicino, a San Bellarmino. Ma chi parla?"

Mi allontano. Non ho voglia di rispondere. Maleducato per una

volta. Perdonatemi anche voi. Ma oggi me lo posso permettere.

Entro

in chiesa in silenzio. Non so che dire, che fare, se pregare e

perché

poi. Ora no. Ora non ci voglio pensare. Alcune signore anziane

in ginocchio rivolte verso l'altare. Hanno tutte in mano il

rosario.

Lo muovono ogni tanto nervose tra le mani pronunciando parole

al Signore, preghiere che sperano Lui possa esaudire. Lui può,

certo. Ma chissà se ne ha voglia. Chissà se lo riterrà giusto,

sempre

che una giustizia ci sia. Ma non ci voglio pensare. Ho altro da

fare.

Io ho il mio peccato. Per me è tutto più facile. Eccola. La vedo

di spalle. Non è inginocchiata ma prega. Dice qualcosa comunque,

di sicuro anche lei al Signore. Mi avvicino piano.

"Gin?"

Si gira e mi sorride. "Ciao... Che bella sorpresa... stavo

ringraziando

il Signore. Sai..." Si porta la mano sulla pancia. "È tutto a

posto. Ero così preoccupata... cioè non è che non volessi... Ma

così

per caso, mi sembrava brutto. Una cosa così importante, così

bella,

avere un figlio..."

"Shh" le faccio. Le do un bacio leggero sulla guancia. Mi avvicino

poi al suo orecchio e tutto d'un fiato, senza più aspettare, senza

paura, io salto. Le racconto tutto, le sussurro il mio peccato,

lentamente,

sperando che capisca, che possa capire, che mi possa perdonare.

Ho finito. Mi tiro indietro. Lei mi guarda in silenzio. Io la

guardo. Non ci crede.

"È uno scherzo?" Prova a sorridere.

Scuoto la testa. "No. Perdonami Gin."

Mi inizia a colpire con tutti e due i pugni con rabbia, piangendo,

urlando, dimenticandosi di essere in chiesa, o forse, ancora più

giustificata per questo. "Perché? Perché? Dimmi perché? Perché

l'hai fatto? Perché?" Continua così, disperata, cade in ginocchio

e

continua a piangere, singhiozzando, cercando quella risposta che

io non ho. Poi va via correndo, lasciandomi lì, in quella chiesa

ancora

più vuota, sotto gli sguardi di quelle signore anziane che per

un attimo hanno dimenticato le loro preghiere e si occupano di me.

Le guardo e allargo le braccia. Magari voi poteste perdonarmi. Ma

non potete, voi no. Contro di voi, non ho peccato. Ho solo forse

dato un po' fastidio... Sì, per questo forse potete perdonarmi. Si

girano

di nuovo verso l'altare e riprendono in silenzio le loro

preghiere.

Forse mi hanno perdonato. Almeno loro. È con lei che sarà

più difficile.

Capitolo 74.

Qualche giorno dopo. Casa Gervasi è al buio. Un silenzio e una

tranquillità che da tempo non si concedeva. Del profumo leggero

di fiori. Babi guarda in cucina e si accorge che ci sono diversi

bouquet

da sposa per la prova.

"Vattene Lillo, non devi vedere! Rovini tutto, dai. Così ogni cosa

sarà una sorpresa per te. Non è più bello?"

"Speravo che potessimo stare un po' insieme, con tutta questa

preparazione si perde un altro tipo di allenamento."

"Più tardi magari, credo che ci siano i miei. Dai, vai a casa,

magari

dopo ti avviso. Se escono passi tu, sennò vengo io da te, va bene?


"Ok, come vuoi."

Babi dà un bacio leggero al suo futuro sposo. Lillo, leggermente

imbronciato, sorride, poi scende velocemente le scale e sparisce

nel

pianerottolo. Babi chiude la porta.

"Mamma... sei in casa?"

"Sono qui, in salotto."

Raffaella è seduta su un divano, ha le gambe allungate e beve

un tè verde che naturalmente oggi va molto di moda. Babi la

raggiunge.

Le tapparelle sono abbassate. Un pendolo leggero tiene il

tempo che passa. Qualche rumore dalla strada come un'eco lontana

e nulla più. Babi si siede sul divano di fronte a lei.

"Sai, mamma, pensavo una cosa... Noi non sappiamo niente di

cosa accade veramente nelle altre famiglie, come sono diverse, che

storia hanno..."

"Be', non lo so, ma di certo non possono superarci."

Si guardano e improvvisamente si mettono a ridere.

"No, questo proprio no. Ti devo dire una cosa. Ho visto Step

ieri sera. "

Raffaella torna seria.

"Perché me lo dici?"

"Perché avevamo deciso di dirci tutto." La mamma rimane lì a

pensare.

"Sì, proprio l'altro giorno mettevo a posto la tua stanza e ho

trovato il poster che ti aveva portato, quello che hai tenuto per

tanto

tempo attaccato sul tuo armadio. Dove facevate 'la pinna' come

la chiamate voi."

"Sì, me lo ricordo. Lo hai buttato?"

"No, quando sarà il momento lo butterai tu."

Uno strano silenzio tra loro, improvvisamente spezzato da Babi.

"Ieri ho fatto l'amore con Step."

"Lo dici apposta, eh? Vuoi stupirmi, mi vuoi sorprendere?"

Raffaella si alza, perde per un attimo la sua calma.

"Forza, dimmi la verità! Cosa vuoi da me, eh? dimmelo, cosa

vuoi?" Sembra volerla prendere a schiaffi, scuoterla con violenza.

È vicina, troppo vicina. Babi alza lo sguardo e le sorride

tranquilla,

serena.

"Cosa voglio da te? Figurati... Non so neanche cosa voglio da

me. Pensa se posso sapere quello che voglio da te. E poi tu quello

che potevi darmi me lo hai già dato."

Raffaella si rimette seduta. Un respiro lungo. Torna calma.

Rimangono

per un attimo in silenzio sedute su due divani. Figure

femminili di età diversa ma molto simili in tante cose, in troppe

cose.

Poi Raffaella sorride.

"Stai bene con questo nuovo taglio di capelli."

"Grazie, mamma. Come va con papà?"

"Bene. Figurati... tornerà. Ha voluto dimostrare qualcosa a se

stesso, ma tornerà. Non è capace di stare lontano. Lui non è un

problema. Piuttosto tu, che hai deciso?"

"Io? Su che cosa?"

"Ma come su che cosa? Dimmi che devo fare. Stasera vado alla

festa dei De Marini. Magari qualche amica mi chiede qualcosa,

vorranno sapere. Mi hai detto che hai visto Step ieri sera.

Allora?

Cosa hai deciso? Ti sposi lo stesso?"

"Certo. Perché non dovrei?"

Raffaella fa un sospiro, ora è più tranquilla. Tutto tornerà a

posto.

È solo questione di tempo e tutto tornerà perfetto come prima,

anzi meglio di prima.

Un nipote di chissà chi, un matrimonio come si deve e un marito

in punizione per un po'. Sì, tutto tornerà perfetto. Raffaella si

alza dal divano.

"Bene, allora posso andare. Stasera giochiamo a burraco. Ci sai

giocare?"

"No, ho visto che giocavano a casa della Ortensi ma non mi sono

seduta."

"Devi provarlo, è molto meglio del gin. È più divertente. Un

giorno che ho un po' di tempo te lo insegno, vedrai che ti

piacerà."

"Va bene."

Raffaella la bacia e fa per andar via.

"Mamma..."

"Sì, dimmi."

"C'è un altro problema."

Raffaella rientra nel salotto.

"Sentiamo."

"C'ho pensato. Però non ti devi arrabbiare. Io non voglio chiamare

i tavoli degli invitati coi nomi dei fiori. È troppo banale. L'ha

fatto anche la Stefanelli per il suo matrimonio. "

"Hai ragione."

"Che ne so, potremmo usare il nome delle pietre preziose per

esempio. Non è più elegante?"

Raffaella sorride.

"Molto. Hai ragione, è un'ottima idea. Faremo cambiare il

cartellone

e i segnatavolo. Fossero questi i problemi..."

E così la bacia di nuovo ed esce felice. È in gamba mia figlia. È

un po' come me, risolve sempre qualsiasi problema trovando la

soluzione

migliore. Raffaella va nella sua stanza a prepararsi. Dopo

poco tempo esce di corsa, elegante e impeccabile come sempre.

Vorrebbe arrivare puntuale a casa dei De Marini. E soprattutto ha

un'unica, ultima, grande preoccupazione. Questa sera deve

assolutamente

vincere a burraco.

Capitolo 75.

"Mamma, io esco."

"Va bene Gin. Telefonami però se fai troppo tardi. Fammi sapere

se torni per cena. Voglio farti quella pizza che ti piace tanto."

Non sento neanche le sue parole.

"Sì, grazie mamma."

Mi metto una felpa e decido di uscire, di perdermi così, senza

tempo. Solo io posso capire. Ho desiderato tanto tutto questo. E

ora? Niente, ora mi ritrovo senza niente, senza il mio sogno. Ma

era tutto vero poi quello che avevo tanto sognato? Non mi va di

pensarci. Sto malissimo. Uffa, non c'è niente di peggio che

trovarsi

in queste situazioni. Uno ne parla un sacco da fuori quando sente

tutte quelle situazioni assurde che riguardano le altre persone,

non so perché ma uno non pensa mai che ci possa finire dentro e

poi invece tac! Ecco che succede, ti riguarda direttamente,

neanche

ti fossi portata sfiga da sola. Cavoli, Gin, devi fare i conti con

il tuo orgoglio e la tua voglia di stare ancora con lui... Ma non

mi

va di fare i conti, porca trota! Che palle! In matematica sono

sempre

stata una negata. E poi in amore non esistono equazioni e conti

matematici! Mica c'è il ragioniere dei sentimenti, o peggio il

commercialista

dell'amore. Che, c'è da pagare anche la tassa sulla felicità?

Cavoli come pagherei se fosse vero... Ma che voglia che ho di

lui però... Sono a Ponte Milvio. Fermo la macchina e scendo. Mi

ricordo di quella notte, di quei baci, la mia prima volta. E poi

qui,

sul ponte... Mi fermo davanti al terzo lampione. Vedo il nostro

lucchetto.

Mi ricordo di quando ha buttato la chiave nel Tevere. Era

una promessa, Step. Era così difficile da mantenere? Mi metto a

piangere. Per un attimo vorrei avere qualcosa dietro per rompere

quel lucchetto. Ti odio, Step!

Risalgo in macchina e parto. Me ne vado in giro così, senza sapere

bene dove andare. Per un bel po'. Non so quanto. Non lo so.

So solo che ora cammino al mare. Persa nel vento, distratta dalle

onde, dalla cantilena delle correnti. Ma sto di un male. E poi mi

sento così stupida. Non ci credo, non è possibile. Mi manca da

morire

quello stronzo, mi manca tutto quello che avevo sognato. Sì,

certo, lo so, qualcuno mi potrebbe dire: "Ma Gin è normale. Cosa

ti aspettavi? Era la sua ragazza! Step è partito per l'America per

quanto stava male. È normale che ci sia ricaduto! ". Ah, sì? Ma

sentilo.

Dice così il tipo... Be', allora si dà il caso che io non sono per

niente normale, hai capito? Non mi ci sento e soprattutto non me

ne frega niente! Sì, è così. E allora? L'hai capito o no,

portasfiga

che non sei altro... Ah, ma io lo so, ne sono certa... Tu avevi

pensato

fin dall'inizio che sarebbe accaduto tutto questo, vero? Da

quando è iniziata la nostra storia... Be', sai che ti dico brutto

jellatore

che non sei altro? A me non me ne frega proprio niente di

niente. Perché io sono pazza! Va bene? Sì, sono pazza. Pazza di

lui

è vero, e di tutto quello che avevo sognato. Quindi te lo dico

subito,

se ti incontro, io ti spacco la faccia. Anzi no, meglio. Visto che

proprio lui insisteva tanto su questo, ti faccio un terzo dan che

te

lo ricordi a vita. E poi tu non puoi neanche immaginare quanto io

lo abbia desiderato.

Capitolo 76.

L'infermiere di turno è seduto davanti a un monitor. È sempre

lo stesso. Finisce di battere qualcosa al computer e poi mi vede

entrare.

Mi riconosce. S'irrigidisce di botto. Poi allarga le braccia,

accenna

un mezzo sorriso come a dire-: "Certo, certo, non è l'orario

ma puoi entrare".

"Grazie." Mi viene da ridere. Ma non è giusto. Mi sento anche

un po' in colpa. E non solo per questo. Lo so. Non mi piace

cambiare

le regole con la violenza. Ma ho bisogno di vedere mia madre.

Ora che l'ho ritrovata. Percorro il corridoio in silenzio. Dalle

camere

ai lati mi arrivano respiri affannati e doloranti. Tutto intorno

un

odore di pulito e di lavande. Ma un non so che di falso. Un uomo

si

trascina in pigiama con la barba incolta e gli occhi spenti. Ha

sottobraccio

una "Gazzetta dello Sport" di un rosa accartocciato. Forse

l'acquisto da parte della sua squadra di un nuovo giocatore

potrebbe

in qualche modo riaccenderlo. Chissà. Nel dolore le cose più

semplici

e banali assumono un valore inaspettato. Tutto diventa un

qualsiasi

appiglio per la vita, un interesse che in qualche modo ci possa

distrarre. Eccola. Sta riposando. Persa in un cuscino molto più

grande

del suo piccolo viso. Mi vede e sorride.

"Ciao, Stefano..."

Prendo una sedia lì vicino e mi metto ai piedi del suo letto.

"Allora?"

Mi guarda interrogativa. So già a cosa allude.

"Niente, non ce l'ho fatta. Mi dispiace. Gliel'ho detto."

"E com'è andata?"

"Mi ha picchiato."

"Oh, finalmente una che ti mena. Hai scelto la strada più

difficile.

È una ragazza molto particolare? "

La descrivo.

"E ho una foto."

Gliela faccio vedere. È curiosa. Piccole rughe appaiono sul suo

viso. Poi un sorriso di sorpresa. Poi di nuovo un segno di dolore

da

qualche parte nel suo corpo, nascosta, ben nascosta. Purtroppo.

"Ti devo dire una cosa..."

Mi preoccupo. Se ne accorge.

"No, Stefano. Non è niente d'importante... Cioè lo è, ma non

ti devi preoccupare."

Rimane per un po' in silenzio. Indecisa se dirmelo o no. Sembriamo

tornati a tanto tempo prima, quando io ero piccolo e lei,

lei stava bene. Mi faceva gli scherzi, mi nascondeva le cose, mi

prendeva

in giro, ci mettevamo a ridere. Mi viene da piangere. Non ci

voglio pensare.

"Allora, mamma, mi dici?"

"Io la conosco, Ginevra."

"La conosci?"

"Sì, hai molto gusto, cioè lei ha avuto molto gusto... insomma

è lei che ti ha scelto e tu hai combinato questo guaio..."

Preferisco non pensarci.

"Ma come la conosci? Cioè, come hai fatto?"

"Mi ha fatto giurare di non dirtelo. Come ho fatto? È lei che

mi ha voluto conoscere. Vedevo sempre questa ragazza che aspettava

sotto casa. Veniva spesso. All'inizio ho pensato che aspettasse

qualcuno che abitava nel palazzo. Poi però quando partivo con la

macchina la vedevo andar via. "

"E allora?"

"Allora un giorno me la trovo al supermercato e ci siamo urtate.

Non so se è stato un caso. Abbiamo fatto amicizia... Ci siamo

messe a parlare..." Tossisce. Si sente male. Lo sforzo è stato

tanto.

Cerca nell'aria dell'ossigeno, della vita, qualcosa... ma non

trova

nulla. Poi mi guarda e i suoi occhi pieni d'amore, di dolcezza,

occhi

di una donna che vorrebbe gridare. Ehi, che fai? Perché mi

guardi così? Sono tua mamma! Non puoi provare compassione per

me. E allora io torno suo figlio, egoista, ragazzino, insomma

proprio

come mi vuole lei.

"Allora, mi racconti bene?"

"Sì. Abbiamo fatto amicizia, non so come, ma abbiamo cominciato

a chiacchierare... Lei non sapeva che l'avevo già vista sotto

casa. Be', insomma, non ne sono tanto sicura. Fatto sta che le ho

raccontato un po' di me, di papà, di Paolo, di te..."

"Cosa le hai raccontato di me?"

"Di te?"

"Eh, di me e di chi sennò?"

"Che ti voglio bene, che mi mancavi, che eri andato fuori, che

saresti tornato... alla fine sembrava incuriosita della nostra

storia.

E chiedeva sempre se avevi telefonato... se ti eri fatto sentire."

"E tu?"

"E io che potevo dirle? Non sapevo mai niente di te. Poi ho saputo

che saresti tornato quel giorno, quando me lo ha detto Paolo

che ti sarebbe venuto a prendere all'aeroporto... E allora quando

con Ginevra ci siamo sentite..."

"Vi siete sentite? Ma perché, vi telefonavate pure?"

"Sì, c'eravamo scambiate il numero. Ma che cosa c'è di strano,

scusa? Eravamo diventate un po' come delle amiche."

Non riesco a crederci. Che strano. Sembra tutto così strano.

"Allora?"

"Allora che?"

"Niente, gliel'ho detto."

"E lei?"

"E lei ha continuato a chiacchierare, come se nulla fosse, ha

detto che si era iscritta e che andava in piscina... Ah sì, mi ha

fatto

ridere perché mi ha chiesto se volevo andare con lei... però se ci

penso una cosa strana c'è..."

Cosa?

"Da quando sei tornato sono andata spesso al supermercato..."

"E allora?"

"Da allora, non l'ho mai più incontrata."

La guardo. Rimango in silenzio. Poi annuisco e sorrido. Lei

vorrebbe

rispondere al mio sorriso, ma un'altra ondata di dolore le fa

chiudere gli occhi. Più a lungo stavolta. Le prendo la mano. Lei

me

la stringe con forza, una forza inaspettata. Poi allenta la presa

e riapre

gli occhi, stanca, più stanca di prima, accenna un sorriso.

"Stefano... ti prego..." Mi indica un bicchiere lì vicino. "Mi

porti

un po' d'acqua, per favore."

Prendo il bicchiere e mi alzo. Faccio alcuni passi e mi sento di

nuovo chiamare.

"Stefano..."

Mi giro. "Sì?"

"A questa mia amica Gin... mandale dei fiori, dei bellissimi

fiori."

Si poggia sul cuscino e mi sorride.

"Sì, mamma, certo..."

Esco dal reparto, trovo subito il bagno con l'acqua potabile che

mi aveva indicato Martina. Dopo averla fatta scorrere un po'

riempio

il bicchiere così come mi aveva insegnato lei, né troppo pieno

né troppo vuoto. Poco più della metà, la giusta misura. Rientro

nel

reparto. Mi bastano alcuni passi. La vedo lì, tranquilla, che

riposa.

Al centoquattordici. Con un sorriso leggero sul viso e gli occhi

chiusi,

così come l'avevo lasciata. Ma non mi ha voluto aspettare. Mamma

ha sempre odiato gli addii. E non so perché mi viene in mente

quando sono partito con il treno per la prima gita scolastica per

Firenze.

Le altre mamme erano tutte lì con i loro fazzolettini, bianchi

o colorati o quello che avevano sottomano, per salutare i

ragazzini

che si affacciavano dai finestrini degli scompartimenti. Io

mi sono affacciato. L'ho cercata giù sulla pensilina tra la gente,

tra

le altre mamme ma lei non c'era più. Non c'era già più. Proprio

come

adesso. Se ne è già andata. Mamma. Poggio il bicchiere sul

comodino

vicino a lei. Ti ho portato l'acqua, mamma. Non l'ho riempito

troppo proprio come tu mi hai insegnato. Mamma. L'unica

donna che non smetterò mai di amare. Mamma. Quella donna che

non avrei mai voluto perdere. E che invece ho perso due volte.

Mamma... Perdonami. Ed esco così, in silenzio, tra letti numerati,

tra persone sconosciute. Distratte dal loro dolore, non guardano

il

mio. Un allarme suona lontano. Due infermieri mi superano

correndo.

Uno mi urta senza volerlo, ma non ci faccio caso. Vanno da

mia madre. Stupidi, non sanno che è partita. Non la disturbate.

Lei

è così, non ama gli addii, non si gira indietro, non saluta.

Mamma.

Mi mancherai, più di quanto non mi sei già mancata in questi anni.

"Se quel che mi ha ferito anche te ferì, io ti penso in un campo

di fragole, io ti penso felice così, a ballare leggera,

bellissima, così..."

Parole di una canzone che riaffiora. Per te mamma, solo per

te. Portale via, tienile strette ovunque stai andando. Balla

bellissima

sul quel prato di fragole, libera finalmente da tutto quello che

ti aveva imprigionata qui. Sto piangendo. Scendo giù. Non c'è

l'infermiere

della postazione. C'è una donna. Mi guarda, curiosa per

un attimo, ma non dice niente. Ne avrà vista di gente uscire senza

nascondere il proprio dolore. Non ci fa più caso. Le sembriamo

tutti uguali, è quasi annoiata dalle nostre stupide lacrime che

non

possono niente. Esco. Ormai è pomeriggio. Il sole ancora alto, il

cielo limpido. Una giornata come tante altre ma diversa da tutte e

per sempre. Vedo arrivare mio padre e mio fratello. Sono lontani.

Chiacchierano sereni, sorridono. Chissà di cosa parlano. Non lo so

e non lo voglio sapere. Beati loro che ancora non sanno. Pochi

momenti

prima del dolore inevitabile, dell'impotenza totale,

dell'accettazione

definitiva. Che ne godano ancora. Ancora tranquilli e

felici, a loro insaputa. Ancora per poco. Cambio strada e mi

allontano.

Ho altro da fare adesso. Mi lascio andare, mi perdo nel vento.

Vorrei che il mio dolore diventasse leggero. Ma non è così. E ci

capito per caso, senza volerlo, giuro. Ora come ora non direi mai

una bugia. E vedo quel ragazzino con un suo amico.

"Allora ci si vede al Campetto alle quattro, va bene? Ehi, Thomas,

dico a te, va bene?! "

"Sì sì, ho capito, alle quattro, mica sono sordo."

"Sordo no, ma scemo sì. Tanto è inutile che stai lì, Michela non

arriva. "

"Ma chi ti dice che aspetto Michela! Cerco Marco, che mi doveva

riportare il pallone! "

"Sì sì, il pallone..."

A volte ci si trova al posto giusto nel momento giusto. Lo guardo.

Non mi pare certo uno che ha il diritto di snobbare miss

"sgnappetta"

degli Stellari. Martina almeno una possibilità se la merita.

Almeno una. Mi avvicino. Non ci fa caso più di tanto. Per un

attimo

mi guarda incuriosito, cerca di mettermi a fuoco per vedere se

mi conosce, se mi ha già visto da qualche parte. Allora gli do uno

schiaffone in pieno viso. E rimane così senza parole. Mi guarda

sbalordito,

ma senza piangere, aggrappato alla sua dignità. Poi gli dico

quello che dovevo dirgli. E lui ascolta in silenzio, senza

fuggire.

Mi piace quel ragazzino. Poi mi allontano in moto. Guardo nello

specchietto. E lo vedo diventare sempre più piccolo. Formica in

un mondo ancora da scoprire e da capire. Con la mano si massaggia

la guancia sinistra. Rossa come quella pizza buona che mi aveva

offerto Martina. E per un attimo il fatto che sono entrato già in

quelli che saranno i suoi ricordi mi fa sentire al sicuro. Vivrò

un po'

più a lungo. Poi penso a mamma, alle sue ultime parole, al suo

consiglio.

Sorrido. Sì, mamma. Certo, mamma. Come vuoi tu, mamma.

E ubbidiente come non lo sono stato mai, come quel figlio che

avrei tanto voluto essere, entro nel negozio più vicino.

Capitolo 77.

Poco più tardi. Casa Biro.

"Ginevra, posso entrare?" Gin apre la porta della camera a sua

madre. "Che c'è mamma?"

"Oggi pomeriggio hanno portato queste per te."

Avvolta da un grande mazzo di rose rosse la mamma si affaccia

nella sua camera, le sorride poggiandole sul letto.

"Hai visto che belle? E poi guarda... c'è una rosa bianca nel

mezzo. Sai che vuol dire vero?"

"No, che vuol dire?"

"È una richiesta di scuse. Qualcuno ti ha fatto qualcosa, qualcuno

si deve scusare?"

"No mamma, è tutto a posto. " Ma alle mamme non sfugge niente.

Quegli occhi arrossati di Gin poi non lasciano dubbi.

"Tieni..." Le passa un fazzolettino da naso e le sorride.

"Quando vuoi, siamo a tavola."

"Grazie mamma. Ma ora non mi va di mangiare."

"Va bene. Ma non te la prendere troppo. Non ne vale la pena."

Gin sorride alla mamma. "Magari..."

Prima di uscire la mamma le consegna un biglietto. "Tieni, c'era

questo tra le rose. Forse è la spiegazione di quella rosa bianca."

"Forse..."

La mamma la lascia sola, sola con il suo dolore, sola con i suoi

fiori, sola con il biglietto. Ci sono momenti che una mamma

conosce

bene. Forse perché ci è passata. Forse perché sa che una figlia

si può amare anche da lontano. Forse perché a volte quando c'è di

mezzo il dolore tutto quell'amore non può essere che d'intralcio.

Chiude la porta e la lascia lì. Con quel biglietto tra le mani. Il

mio

biglietto. Gin lo apre. Gin legge curiosa l'inizio.

"Me l'hai chiesta tante volte. Io ho detto sempre di no. Avrei

voluto regalartela per il tuo compleanno, per Natale, per una

festa

qualsiasi. Mai per chiederti perdono. Ma se dovesse servire, se

non

bastasse, se ne dovessi scrivere ancora mille e mille e mille

ancora,

farei anche questo perché non posso vivere senza di te. " E Gin

continua

a leggere. "Ecco quello che volevi. La mia poesia." Sorride e

legge, legge. Scivola tra le parole, piange, tira su con il naso e

ride

di nuovo. Si rialza e continua. I nostri momenti, la nostra

passione,

il viaggio, l'emozione. E continua sorridendo, tirando ancora

su con il naso, asciugandosi gli occhi, sbiadendo una mia parola

con qualche lacrima sfuggitale di mano. E va avanti così, fino

alla

fine. Non le dico di mia madre. Solo di noi. Non le parlo di altro

se non di me, del mio cuore, del mio amore, del mio errore. Rubo

le parole di un film visto e rivisto tante volte a New York...

"Voglio

che tu leviti, voglio che tu canti con rapimento... Abbi una

felicità

delirante o almeno non respingerla. Lo so che ti suona smielato,

ma l'amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi, io

ti dico: buttati a capofitto, trova qualcuno da amare alla follia

e che

ti ami alla stessa maniera. Come trovarlo? Be', dimentica il

cervello

e ascolta il tuo cuore. Io non sento il tuo cuore. Perché la

verità,

tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo. Fare il viaggio

e non innamorarsi profondamente, be', equivale a non vivere. Ma

devi tentare, perché se non hai tentato, non hai mai vissuto..." E

io

spero di averla convinta che lo aveva già trovato, quel qualcuno.

Un qualcuno che spera di essere un giorno perdonato. Ma non ho

fretta. "Ti aspetterò. E aspetterò. E aspetterò ancora. Per

vederti,

per averti, per sentirmi di nuovo felice. Felice come un cielo al

tramonto."

Gin si mette a ridere. Poi ha una strana sensazione, improvvisa.

Si gira di botto. Guarda sul suo tavolo. Lì nell'angolo dove

li ha sempre tenuti nascosti. E improvvisamente capisce. E si

sente morire. Corre subito di là.

"Mamma! Ma lo hai fatto entrare in camera mia! "

"Ma era quel ragazzo simpatico, quello dello champagne, no?

Sembra così per bene. E poi ti aveva portato quei bellissimi

fiori...

Non potevo dirgli di no, mi sembrava scortese. "

"Mamma... Tu non sai cosa hai combinato."

Capitolo 78.

Sono seduto nella mia stanza. Mi sento un ladro. E in effetti

lo sono. Ma sono troppo curioso. Quando li ho visti sul suo tavolo

non riuscivo a crederci. Tre diari, uno per ogni anno. Dalla

sua prima liceo. Gin è incredibile. Sempre disordinatissima, poi

improvvisamente precisa. Inizio a sfogliare il primo. Ha fatto un

sacco di scritte molto divertenti. Chissà chi è questo Francesco.

Fra'. Come lo chiama lei. E tutti cuoricini poi. Comunque non

l'ha avuta. Mi ha veramente sorpreso il fatto che non fosse mai

stata con nessuno. Non avrei mai creduto, sul serio. E troppo

tenera.

È bella poi... È com'è. Unica. Ha una forza, una determinazione...

A volte sembra distratta, invece sta seguendo tutto, si

guarda intorno, anche alle feste, mentre chiacchiera con un'amica

magari, e invece controlla con chi parlo, con chi non parlo, cosa

succede in fondo al salotto, chi è appena entrato, chi dice cosa

e su chi... E ride come una pazza e ha sempre una battuta

pronta...

Gin. Mi dispiace per quello che è successo. Ma la situazione

con Babi mi è sfuggita di mano. Non sapevo che cosa stavo facendo,

avevo bevuto. Sì... Dai Step, sembra che ce l'hai davanti

e le stai rispiegando tutto... è assurdo. A volte cerchi solo

l'amore.

Sì, ma non ti accorgi che quella donna che hai tanto amato è

fuggita, non c'è più. Eri tu ad averla inventata? Cerchi in quel

bacio

il disperato sapore di quello che hai tanto sentito, provato...

ma non c'è più. Chi te lo ha tolto? Nascosto? Rubato? Chi? Ho

ritrovato i suoi occhi, ma non quella luce, non quel sorriso che

mi è tanto mancato. Così, staccandomi da lei quella sera,

improvvisamente

ho capito: la mia Babi non c'era più. Niente, solo

i suoi capelli spenti come quel sorriso naufragato chissà dove.

Allora

ho richiuso gli occhi e sono fuggito lontano, in mezzo ai ricordi,

ballando ancora con loro, come un grande, unico carosello,

tutti per mano, ridendo, scherzando. E ho rivisto quella ragazza,

la Babi di allora, bella come un primo mare a primavera,

fresca e impaurita, desiderosa di amare ed essere amata, timorosa

anche del semplice togliersi un reggiseno. Eccola, lei per sempre

mia e di nessuno più... Ma i ricordi a volte non vanno disturbati.

Basta. Non ci voglio più pensare. Quel che è fatto è fatto.

Gin capirà. Deve capire. Se non lo avessi fatto avrei sempre

vissuto

nascosto, non sarei mai venuto allo scoperto. Tornare alla luce

dell'amore. Capirà. Deve capire. In fondo non sapeva nulla di

me, non mi aveva mai visto.

Ma cos'è qua? Inizio a leggere.

28 maggio 2002.

Oggi sono felice, felice come non sono mai

stata! Ho finalmente dimenticato del tutto Francesco,

cancellato, esploso, via, per sempre...

E ti credo, chissà che gaggio era...

Perché ieri è successa la cosa più incredibile

della mia vita. Ero a una festa da Roberta

Micchi, una più grande, una che se la tira una

cifra del quinto. Mi ero imbucata con altre due

amiche (Ele e Simo) e ce la stavamo divertendo

un casino quando sono arrivati loro... gli imbucati,

i Budokani.

Cavoli, non ci posso credere, dice di noi? Ma di quando sta

parlando?

Di quale festa? Continuo a leggere velocissimo.

Ho scoperto che si chiamavano così mentre tiravano

la torta della festeggiata e hanno centrato

Giò (il farlocco che ci prova con Ele) in

pieno viso!! ! Che mira. Hanno fatto un casino.

Secondo me è sparita anche un sacco di roba. Insomma

sono fuori. Sono completamente fuori per

lui. Mi ha urtato appena entrato. Mi ha chiesto

scusa però, e per non farmi cadere mi ha preso

al volo e mi ha tenuto abbracciandomi... Cavoli!

Ci siamo trovati col viso a un millimetro e

sono andata fuori di testa. Chissà se l'ha capito.

Ho saputo solo che si chiama Step! Buffo

come nome. Bello da morire come tipo! Spero solo

di rincontrarlo presto...

Cioè, ci siamo conosciuti. Ci siamo incontrati. O meglio, ci siamo

scontrati... Ma che vuol dire tutta questa storia? Cavoli, ma vuoi

vedere che alla festa dove ho conosciuto Babi, dove ho fatto la

doccia

con lei sulle spalle, lì c'era anche Gin? Ci siamo scontrati...

non

me la ricordo. Ma forse non è quella volta... Continuo a correre

veloce,

a sfogliare altre pagine, a cercare altri momenti, altri ricordi,

altre verità. E vado avanti come impazzito, sorpreso, imbrogliato.

Sfoglio veloce le pagine del diario. Gli occhi volano tra le

righe...

Avanti, indietro. Ecco.

L'ho visto! Sono le due e mezzo di notte e non

riesco a dormire. Sono stata sull'Olimpica e lui

era lì con il suo amico, Pollo credo che si chiami.

Ha vinto anche una gara! Mi piace da morire,

ma vedo che scherza un sacco con quella deficiente

del quinto, la Gervasi! Porca trota, Step, se ti

ci metti mi cali una cifra. Quella è una deficiente

(mi ripeto...), tutta casa e chiesa! Anzi,

non so neanche perché stava lì, ha fatto perfino

la Camomilla!!! O tu le trasformi Step, oppure

non so che pensare. Devi avere un dono magico

e non so proprio dirti quale, non vorrei essere

bora, ma certo con quella "bacchetta" ne combini

di casini!!! C'era anche quella trucida di

Maddalena. Chissà se è vero quello che dicono,

che hai una storia con lei. Be', non so proprio

che pensare. Ehi, magico principe! 10 e lode o

come cavolo ti chiamano, prima o poi ti accorgerai

anche di me (spero). Mi ero messa anche la

cinta Camomilla! Mi sei passato davanti e non mi

hai degnato di uno sguardo... Allora? TRASFORMAMI...

Sennò ti strego io. Be', vado a nanna.

Rimango senza parole e vado avanti. Ecco di nuovo qualcosa

che mi riguarda.

Ecco, lo sapevo, sta con gli altri e sono passati

a piazza Euclide. Me lo ha detto Ele che

fanno base fissa qui...

Vado ancora avanti. Sfoglio due, tre pagine veloci...

Non ci posso credere! Si sono messi insieme!! !

Step, ti odio!!! Come se non bastasse, quella

gnoccolona della Gervasi ha fatto a botte con

The Body! Con Madda Federici! Allora è vero che

avevi una storia con lei! A Babi le ha detto pure

bene... Gliele ha date. Non c'è giustizia,

cazzo... Eh, quando ci vuole ci vuole! Ma come

cazzo hai fatto a metterti con una così, Step!!!

Ti giuro che un giorno me lo dovrai spiegare. Ma

non ti accorgi che quella tipa non ha le palle?!

Che per lei tu sei un giocattolo che costava

troppo? Una volta che ti avrà avuto finirai nell'armadio

con tutti quei giocattoli del passato

che l'hanno già scocciata! Certo che a volte voi

uomini siete di un ridicolo, di un banale, non

vi accorgete dell'oro che avete vicino (io!) e

andate a cercare il rame lontano (lei!!!). Però

che culo che e'ha... voglio proprio vedere come

se la caverà. Porca trota se lo voglio vedere!!!

E infatti fa così. Sfoglio le pagine e mi accorgo che non mi ha

mai mollato un attimo. Pagina dopo pagina. Gin... Hai segnato

tutto.

C'eri sempre.

Ieri sono stata a Fregene. Ero da Mastino. È

passato. Mamma, da sogno. Già abbronzato, insomma

vorrei urlarlo! Step sei bono da paura!!

Stavamo giocando a rubabandiera mentre quella

morta della Gervasi stava seduta su un pattino

e a momenti neanche se n'è accorta che eri arrivato!

! Ma quanto può essere scema una così?!

E lui troppo fico l'ha fatta salire sulla sua


moto e l'ha bendata per portarla chissà dove...

Un rapimento da sogno... il MIO sogno! Oddio...

mi hanno rubato il mio sogno!!! Ridatemelo, è

miooooooo!

Troppo simpatica. Silenziosa spettatrice. Come posso dimenticare?

Quella volta che sono fuggito con Babi lì, alla casa sulle rocce,

alla Feniglia, sogni che s'infrangono sugli scogli del passato.

Non voglio pensare... Voglio andare avanti. Due pagine dopo.

Non ci posso credere! Non ci volevo credere!! !

E invece è vero. Mi ha chiamato Ele per avvisarmi...

Sono andata fino lì per vedere se era

vero. Non voglio fidarmi di nessuno in queste

occasioni. E invece è proprio così. Lì, su quel

ponte, bellissima!

IO E TE... TRE METRI SOPRA IL CIELO! Cioè, se

uno mi scrive una cosa del genere e chi lo molla

più! Gervasi, che culo che e'hai, porca trota!

E ancora, ancora...

Sono arrivati alla festa dov'ero anch'io, non

ci posso credere! Si sono vestiti da Tom e Jerry.

Oddio, sto troppo male...

E ancora...

È morto il suo amico Pollo. Ero lì in chiesa.

Avrei voluto abbracciarlo. Ho pregato per lui,

per il suo amore. Ma lui ha bisogno di lei in

questo momento. Non di me.

E continuo in silenzio tra quelle pagine a leggere pezzi della

mia vita. A rivederli attraverso la sua scrittura, le sue note

colorate,

le sue frasi sottolineate.

Si sono lasciati! Ho saputo che si sono lasciati.

Me lo ha detto Silvia (la Serva, la chiamano

così perché sa sempre tutto di tutti e vive

di servate!). È vero! Mi dispiace... so che

non dovrei essere così felice. Ma quanto lo sono,

da pazzi! Da pazzi! Voglio farti felice io,

Step. Voglio farti sentire amato... Ti prego,

dammi questa possibilità...

E ancora. Ancora.

È Natale. Sono uscita e sono andata verso casa

sua, cioè dove abita adesso, da suo fratello.

L'ho visto uscire in moto con dietro suo fratello

Paolo. Erano abbracciati, stavano ridendo.

Bene, sono felice. Mi sembra che stia meglio.

Se ami veramente una persona devi pensare

al suo bene, a ciò che lo rende veramente felice.

Non devi essere egoista... (Mamma, sto diventando

di un pesante...). Comunque gli ho visto

fare una pinna pazzesca con il fratello dietro

che urlava! Mi ha fatto troppo ridere. Sono

tornata a casa. Ho aperto il regalo dei miei. Mi

hanno fatto un pigiama pazzesco! Step, quando lo

vedrai, be', ti leccherai i baffi! (Che bora che

sono!) Poi mi sono messa a letto e ho abbracciato

il cuscino. Sono stupida? L'ho baciato fingendo

che fossi tu. Step. Mi piaci troppo! Mi

sono addormentata facendo un sogno... che poi è

anche un desiderio. T'incontrerò prima o poi...

E ancora. Ancora. Vado avanti tra pagine allegre e pezzi di vita

che riguardano solo lei. Ecco. Parla di nuovo di me.

Sto a pezzi. Sto malissimo. Ho saputo che parte.

Va fuori. Cavoli, dev'essere stata una storia

davvero importante la sua se ha preso questa

decisione. Mi ricordo però una frase che mia

madre mi ha sempre detto, è una cosa bellissima:

"Puoi cambiare il cielo ma non puoi cambiare

l'animo". Gli servirà andarsene? So solo che

ti aspetterò, Step...

È vero. A volte non serve stare sotto un altro cielo. Ciò che devi

risolvere è sempre dentro di te, dovunque tu sia. E ancora.

Ancora.

Non me ne frega niente, nessuno sa mai nulla di

Step! Cazzo, non è possibile! Ho deciso, voglio

conoscere sua madre. Lei qualcosa la saprà, no?

E ancora. Ancora. Sfoglio appena qualche altra pagina.

Ci sono riuscita. L'ho conosciuta "per caso"

al supermercato. Forse se n'è accorta... (spero

proprio di no!) Abbiamo legato un sacco... mi

piace, ma non so, è come se stesse male per qualcosa,

ha una sua tristezza, mi tratta da grande

però, è forte... Certo che è proprio bella. È

tutta suo figlio!

Mamma se n'era accorta. A lei non sfugge niente. E ancora. Ancora.


Sono felice. Siamo diventate amiche. Mi ha

raccontato un po' di cose di Step. Mi sembra di

conoscerlo da una vita. È proprio la persona che

avrei voluto incontrare. Sono strafelice perché

mi ha detto che torna la prossima settimana!

E ancora. Ancora.

E che cavolo! ! ! Ho sbagliato tutto. . . Sono arrivata

alle otto e mezzo di mattina... Non avevo

capito che arrivava alle otto e mezzo di sera!

Ma dicono a.m. e p.m. Ma che, uno sta a guardare

questi dettagli quando sa che sta arrivando

Step!!! Non ci posso credere! Sono andata all'aeroporto

e l'ho aspettato per dodici ore e

non ho avuto il coraggio di fare niente! Cioè

Step si è girato a un certo punto e io mi sono

nascosta di botto dietro una colonna e magari mi

ha pure visto! Cavoli, ha avvertito che qualcuno

lo guardava! Ma che e'ha gli occhi pure dietro...

Però è troppo carino. È dimagrito. È cresciuto.

È. . . è!

Non ci posso credere, è venuta pure all'aeroporto. E ancora.

Ancora.


Stasera lo becco, sono sicura. Ho già pensato

bene il piano. Sono andata giù nel garage

nel pomeriggio, ho aperto il tubetto che

congiunge il serbatoio al motore (Paolo mi ha

spiegato perfettamente tutto! Troppo forte Paolo,

e troppo facile il resto!!!), così non ha

più benzina. Dovrà farla per forza. Ho sentito

in palestra cosa faceva, quindi ha solo due

possibilità: o si ferma al benzinaio sulla Flaminia

o a quello su corso Francia. Ma uno subito

dopo la palestra vuole subito correre...

Per me va lungo. Ha voglia di vento, uno come

lui poi che ama tanto la moto... Be', comunque

nel dubbio blocco tutti e due i benzinai

self-service col lucchetto. Che mi frega! Lo

aspetto sulla Flaminia, se vedo che non arriva

torno indietro a quello di corso Francia.

Piano perfetto... Tanto uno testardo come lui

non accetterà mai di farsi fottere... mica per

i soldi, per il principio! Uno abituato a fottere...

non si fa fottere!

Non credo a quello che sto leggendo. Giro una pagina. E ancora.

Ancora.

Ce l'ho fatta!!! Wow wow wow! Sono tornata a

casa e ho fatto come Julia Roberts in Pretty Woman,

col pugno roteante vicino alla mia faccia

per festeggiare lo splendido piano riuscito. L'ho

conosciuto! Mitica Gin! ! ! Un altro po' e mi stendeva

sul cofano con un cazzotto in pieno viso.

Pfiu pfiu! Me la sono vista brutta. Lo sapevo

che si era nascosto, ma che potevo fare? Dovevo

far finta di cascarci e invece c'è cascato lui!

E di brutto!! ! Ho aspettato due anni e poi anche

le dodici ore all'aeroporto. Che fatica. Ma

sono sicura che ne varrà la pena! Sono sicura

che andrà benissimo, da sogno.

18 settembre.

Iaoooo! Mi è andata bene ma che dico strabene!!!

Ho passato il provino al TdV, dove lavora

lui. Roba da pazzi! Ce l'ho fatta!! Non ci

speravo proprio. Ma la cosa più assurda è che è

passata anche Ele! Oh, non aveva mai superato

un provino! Step... Ma portassi fortuna? Di una

cosa sono sicura. Ora lo vedrò tutti i giorni.

E ora? Ma dove scappi? Ma è troppo giusto così.

. . Troppo forte. Troppo bello. D'altronde ogni

tanto c'è giustizia a questo mondo! Oh, ancora

non ci credo però... Comunque questa poesia è

per te!

Step. Ho sempre avuto voglia di te.

Ho voglia di te.

Per tutto quello che ho immaginato, sognato,

desiderato.

Ho voglia di te.

Per quello che so e ancora di più per quello

che non so.

Ho voglia di te.

Per quel bacio che non ti ho ancora dato.

Ho voglia di te.

Per l'amore che non ho mai fatto.

Ho voglia di te anche se non ti ho mai assaggiato.


Ho voglia di te, di tutto te. Dei tuoi errori,

dei tuoi successi, dei tuoi sbagli, dei tuoi

dolori, delle tue semplici incertezze, dei pensieri

che hai avuto e di quelli che spero hai

dimenticato, dei pensieri che ancora non sai.

Ho voglia di te.

Ho così voglia di te che nulla mi basta.

Ho voglia di te e non so neanche perché...

Uffa. HO VOGLIA DI TE.

Improvvisamente sento un botto. Mi giro di colpo. Gin è sulla

porta della camera. Paolo è dietro di lei.

"Scusami Step, ma non sono riuscita a fermarla. Mi si è infilata

dentro casa come un razzo e..."

Alzo la mano. Paolo capisce. Si ferma. Sta zitto. Non dice più

niente. Rimane con la faccia da ebete, fermo sulla porta mentre

Gin

entra nella stanza. Cammina lentamente, mi guarda ma sembra

passarmi

attraverso. E come se il suo sguardo andasse lontano a cercare

chissà cosa. Scoperta nella sua verità d'amore. Oltre... Ha gli

occhi tristi. Bagnati. Privi di qualsiasi sorriso. Bellissimi. E

mi si

stringe il cuore. Perché ha una luce che conosco. Vedo tutto

quello

che ho vissuto, tutto quello che ho passato, tutto quello che è

naufragato.

"Gin... io..."

"Shh" mi fa lei. E si porta il dito indice davanti alla bocca,

come

una dolce bambina. Chiude gli occhi e scuote la testa.

"Non dire niente, ti prego..." Si riprende i diari, uno dopo

l'altro,

li poggia sul tavolo e li controlla. Li conta e l'infila nella sua

borsa. E se ne va via così, di schiena, senza voltarsi, in

silenzio.

Capitolo 79.

Una chiesa. Spoglia. Un centinaio di persone. Alcuni in piedi,

altri seduti, qualcuno appoggiato a quelle importanti colonne,

antiche,

scurite dal tempo passato, dalle tante preghiere ascoltate, dai

desideri invocati, dai dolori sofferti. Da loro, dai tanti. Dagli

altri.

E poi il mio dolore. Qui. Presente. Il dolore di non aver saputo

essere

fino in fondo protagonista della mia vita, di aver solo perso del

tempo... E per fare cosa poi? Giudicare. Io, giudicare mia madre.

E non riesco a capire come non me ne sia potuto rendere conto

allora.

Improvvisamente mi accorgo come tutto mi è sfuggito di mano,

come accecato da chissà quale ragione ho corso furioso, cieco,

rabbioso verso chissà quale giustizia... E solo ora capisco quanto

ho

fallito. Nel mio ruolo più semplice. Non mi si chiedeva altro,

nulla,

se non il silenzio. Non esprimermi. Anche perché non avevo titoli,

né ruolo, né mandato, né diritto... Niente. Niente che mi desse

quella facoltà: perdonare. Perdonare. Chi sono io per perdonare?

Chi siamo noi per perdonare, chi siamo per poterci dare questo

titolo? E invece no, testardo, egoista, cieco, sono voluto

diventare

giudice. Senza alcun diritto, senza alcun ruolo, senza meriti,

senza un perché. Senza. Prosopopea. Presa da chissà dove, da quale

sentito dire, frutto di quella borghesia più insulsa... E poi, la

cosa

ancor peggiore. Non solo arrogarsi il diritto di perdonare, ma

non saperlo neanche fare. Non perdonare. Ecco. Sono qui in questa

chiesa. In silenzio. E sto male. Non c'è niente di peggio che

sentire

la tua vita sfuggirti tra le mani come semplice sabbia che pensavi

un tempo fosse tua e che invece non ti appartiene più. Come

se tu fossi fermo in piedi, per caso, in uno stabilimento

qualsiasi,

schiavo del vento e di tutto quello che lui ha deciso per te. Non

ho

più niente tra le mani, non mi resta nulla. E me ne vergogno. Mi

guardo in giro. Mio padre, mio fratello, le loro compagne. Perfino

Pallina, Lucone, Balestri e gli altri miei amici. Qualcuno che

manca...

Qualcuno invece di troppo. Ma non mi va neanche di pensarci.

Quelle cose che si devono fare, per formalità, per finto buonismo,

perché non si ha mai il coraggio di essere coerenti fino in fondo,

perché non si sa mai cosa ci aspetta... No. Non ci voglio pensare.

Non oggi. Intorno a me poi tanta altra gente di cui non so neppure

il nome. Parenti lontani, cugini, zii, amici di famiglia, persone

che ricordo solo attraverso foto sbiadite, ricordi confusi di

feste,

di momenti passati, più o meno felici, di sorrisi, di baci e di

altro

ancora, che non so, di chissà quanti anni fa. Un prete ha letto un

brano. Ora sta dicendo qualcosa. Cerca di farmi capire come tutto

quello che sta accadendo è un bene per noi. È un bene per me. Ma

non riesco a seguirlo. No. Non ce la faccio. Il mio dolore è

tanto.

Non riesco a pensare, a capire, ad accettare, a essere

d'accordo...

Come può tutto questo essere un bene per me? Come, in che modo,

per quale assurda ragione? Ha detto cose, mi ha raccontato storie,

mi ha fatto promesse... Ma non riesce a convincermi. No. Solo

di una cosa sono sicuro. Mia madre non c'è più. Solo questo mi è

chiaro. E questo mi basta. O meglio, non mi basta affatto...

Mamma,

mi manchi. Mi manca il tempo di viverti di nuovo, di poterti

dire quello che ora ho capito. E lo dico in silenzio. Ma tu mi

senti.

Un organo comincia a suonare. Dal fondo della chiesa vedo arrivare

Gin. È vestita di scuro, cammina in silenzio. Passa lungo le

arcate,

si tiene fuori dalla vista dei molti, ma non dalla mia. Poi

appoggia

con dolcezza una corona ai piedi dell'altare e mi guarda. Da

lontano. In silenzio. Non accenna a niente. Né un sorriso, né un

rimprovero. Niente. Uno sguardo pulito come solo il suo può

essere.

Al di sopra di tutto, capace di non mischiare il dolore e il

rispetto

con qualunque altra cosa. Un ultimo sguardo. Poi la vedo

tornare in fondo alla chiesa. Poco dopo tutto è finito. All'uscita

la

cerco ma non c'è più. L'ho persa. Persone mi vengono incontro, mi

abbracciano, mi dicono cose, mi stringono la mano. Ma non riesco

a sentire, a capire... Cerco di sorridere, di dire grazie, di non

piangere.

Sì, soprattutto di non piangere. Ma non ci riesco. E non me

ne vergogno. Mamma, mi mancherai. Sto piangendo. Sto

singhiozzando.

E uno sfogo, una liberazione, è la voglia di essere ancora

bambino, di essere amato, di tornare indietro, di non voler

crescere,

di aver bisogno del suo amore puro. Qualcuno mi abbraccia, mi

tiene le spalle, mi stringe. Ma non sei tu, mamma. Non puoi essere

tu. E io mi appoggio, mi piego. Nascondo il mio viso e le mie

lacrime.

E vorrei che non fosse tardi. Mamma, perdonami.

Capitolo 80.

Alcuni giorni dopo. Non so quanti. Quel dolore che provi. Che

non riesci a capire da dove possa arrivare. Che non ti dà

spiegazioni.

Che ti sbatte giù come una grande onda che non avevi visto, che

ti ha preso alle spalle, che ti travolge, ti leva il respiro, ti

fa ruzzolare

sulla sabbia bagnata, su quei passi che ti sembravano così certi

nella tua vita. E invece no. Non lo sono. Non più. Sono giorni che

passo davanti al suo portone. Sono giorni che la vedo uscire nei

modi

più diversi. Nell'unico modo in cui lei è. Bella. Bellissima.

Disordinata,

confusa, elegante, coi capelli raccolti, coi capelli lasciati

andare, giù, pazzi, ribelli. Con due ciuffi, con un vestito a

fiori, con

una salopette mezza calata, con un completo perfetto, con una

camicia

azzurra e il colletto tirato su e una gonna blu scura sotto. Con

dei jeans chiari, con un pinocchietto, con dei jeans strappati e

le cuciture

forti, che risaltano, che si fanno notare. Con tutti i suoi

vestiti

presi su Yoox. Gli accessori. I colori. La fantasia di sapersi

reinventare

ogni giorno. Così. Così com'è lei. Esce sempre da quello

stesso portone e sempre in maniera diversa. Ma ho visto qualcosa

che è sempre uguale. I suoi occhi. Il suo viso. Portano i segni

lontani

di un dispiacere vissuto. Come un sogno bellissimo interrotto

da una serranda tirata su da troppa rabbia. Come il suono

insistente

di un telefonino dimenticato acceso e fatto squillare da uno che

ha

sbagliato numero o, ancora peggio, da qualcuno che non ha nulla

da dire. Come un allarme fatto scattare da un goffo ladro

imbranato

che è già scappato nella notte. Una vita distratta ha urtato col

gomito la sua felicità. E sono stato io. E non posso nascondermi,

non posso giustificarmi. Posso solo sperare di farmi in qualche

modo

perdonare. Ecco. La vedo uscire. La vedo passare. È nella sua

macchina. E per la prima volta dopo tanti giorni nascosto

nell'ombra

faccio un passo in avanti, incrocio il suo sguardo. Fermo


i suoi occhi. Li faccio miei per un attimo. E con loro teneramente

imbarazzato sorrido. Parlo e spiego e racconto e cerco di non

farli andar via. Tutto con uno sguardo. E i suoi occhi sembrano

ascoltare in silenzio, annuire, capire, accettare sul serio quello

che

spero stiano dicendo i miei. Poi, quel silenzio fatto di mille

parole,

intenso come non mai, viene interrotto. Gin abbassa il suo

sguardo.

In cerca di qualcosa. Di un po' di forza. Di un sorriso. Di

qualche

parola detta a voce. Ma non trova niente. Niente. Allora torna

a guardarmi. Scuote leggera la testa. La sua guancia fa una

piccola

smorfia, un accenno di un mezzo sorriso, forse un'ombra di

possibilità. Come a dire "no, non ancora, è troppo presto". Almeno

questo è ciò che voglio leggere. E si allontana così, diretta

verso dove non mi è dato di sapere, verso la vita che l'aspetta,

forse

verso un nuovo sogno, sicuramente migliore di quello che io le

ho rubato. E ha ragione. E se lo merita. Così rimango lì in

silenzio.

Mi accendo una sigaretta. Do solo due tiri e la butto via. Non

ho voglia di niente. Poi capisco che non è vero. Allora la prendo

dal bauletto.

Lontano, più lontano, in quella stessa città. Macchine in

movimento,

clacson, vigili indaffarati, ausiliari inesperti preparati solo

in cattiveria. Rina, la cameriera dei Gervasi, esce dal

comprensorio

degli Stellari. Saluta il portiere col suo solito sorriso dalla

peluria

eccessiva. E continua decisa verso il cassonetto della spazzatura,

accompagnata da un profumo da pochi soldi che nasconde malamente

il lavoro di tutta una giornata. Apre il cassonetto spingendo

forte col piede deciso sulla barra di ferro. Butta con un arco

perfetto,

meglio di una pallavolista alla battuta, il sacchetto della

spazzatura.

Il cassonetto si richiude, come una mannaia lasciata andare

da un boia distratto. Ma non può finire la sua corsa. Da un angolo

spunta fuori un poster arrotolato. C'è la foto ingrandita di quel

ragazzo e quella ragazza a cavalcioni di una moto che "pinna". Il

grido ribelle di quel momento di felicità... di quell'amore ormai

dissolto

nel tempo. Tutto è passato. E ora, come spesso accade, è finito

tra la spazzatura.

Pallina esce di corsa dal suo portone. Allegra e decisa, elegante

come non è più stata. Sale sulla sua macchina e lo bacia ridendo.

Vuole riprendere in mano le redini della sua vita.

"Allora, dove andiamo?"

"Dove vuoi."

Pallina lo guarda e sorride. Ha deciso di buttarsi di nuovo. E

lui è la persona adatta.

"Allora decidi tu, andiamo senza meta per una sera."

E Dema non se lo fa ripetere due volte. Sono anni che aspettava

questo momento. Ingrana la marcia dolcemente e si perde nel

traffico leggero. Poi alza un po' il volume dello stereo e

sorride.

Eva, la hostess, è appena arrivata a Roma. Posa la valigia nella

camera d'albergo e subito prova a chiamarlo. Niente. Il suo

telefonino

è spento, peccato, avrebbe tanto voluto vederlo. Fa niente.

Ci pensa un po'. Poi sorride e compone un altro numero. Chi

viaggia in continuazione ha sempre un altro numero.

Daniela è seduta in camera sua. Ha appena saputo che è maschio.

Sfoglia il libro dei nomi, indecisa. Alessandro, Francesco,

Giovanni... cerca le origini e i significati di ognuno. Dev'essere

un

nome importante, di un condottiero, oppure di uno di quelli

strani,

particolari, che non si dimenticano. E sorride felice tra sé.

Almeno

questo lo posso decidere da sola. Poi si preoccupa. E se il

nome che scelgo è uguale a quello di suo padre? Così rimane

perplessa

e abbandona quel "Fabio" che le sembrava tanto giusto. Vuole

andare sul sicuro... e non sa quant'è inutile questo suo dubbio.

Di sicuro quel bambino non saprà mai il nome di suo padre.

Babi è in camera sua. Controlla felice la lista degli invitati.

Manca

poco. Uffa mamma, hai voluto anche i Pentesti che io non sopporto

e dei cugini che non abbiamo mai visto. Mamma e le sue regole.

Poi per un attimo pensa che quell'idea le piacerebbe da morire.

Sì, sarebbe un'idea bellissima. Invitare Step al suo matrimonio.

Sarebbe fighissimo. E non si rende conto di quanto è tutta sua

madre. Anzi no. Molto peggio.

Due signore si guardano in giro. Vogliono essere sicure che non

ci sia nessuno vicino. Poi tranquille, serve cospiratrici del

pettegolezzo

inutile, possono finalmente sfogarsi.

"Ti assicuro, l'ho visto con una ragazza giovane e molto

abbronzata..."


"Non ci credo... ma l'hai visto tu?"

"No, ma una persona molto fidata."

"Forse ho capito chi te l'ha detto, me l'aveva raccontato anche

a me, ma mi aveva detto anche di non farne parola con nessuno.

Comunque non è abbronzata, è di colore! E una brasiliana! "

"Sul serio? Che strano, da lui questo non me lo sarei mai

aspettato."


"Perché no? Lei è insopportabile! "

Le due donne ridono insieme. Poi rimangono un po' dispiaciute

per quella risata. Forse se lo stanno chiedendo: ma perché,

noi con i nostri mariti come siamo? Finiscono allora per sentirsi

in

colpa, per non sapersi dare bene una risposta. Forse non sono poi

così tanto diverse da lei. Raffaella è in fondo alla sala. Tutte e

due

la guardano. Lei incrocia il loro sguardo e sorride da lontano.

Anche

loro sorridono, complici e un po' goffe. Poi si guardano di nuovo.

Che ci abbia scoperte? Che abbia capito che parlavamo di lei?

E ognuna resta col suo dubbio, mentre Raffaella non le calcola già

più. Dedica ora tutta la sua attenzione all'avversaria.

"Et voilà... chiuso anche il secondo mazzetto. E guarda qui...

Ho fatto anche un burraco ! "

Inizia a contare veloce i punti, felice, senza perdersi dietro a

tutte quelle chiacchiere inutili.

"Ma arbitro, non c'era! " Claudio si alza in piedi, col suo

cappelletto

con la visiera che quasi gli vola via tanta è la foga del suo

entusiasmo, della sua felicità. Si rimette a posto il cappellino e

si

siede di nuovo vicino a Francesca.

"Hai visto anche tu Fra'... non c'era, no?"

E lei fa segno di sì. Non capendo poi tanto di pallone.

"Non c'è niente da fare, è sempre così! Vogliono far vincere

l'Aniene, finisce sempre così qui al Canottieri Lazio ! È perché

quelli

hanno più soci." Claudio, soddisfatto di questa geniale

intuizione,

abbraccia Francesca dandole persino un bacio sulle labbra,

fregandosene

di tutto e tutti, di chi lo conosce, di chi potrebbe vederlo,

di chi potrebbe giudicare... di chi potrebbe dire "Ma come,

ha vent'anni meno di te! ". Poi Claudio, rimettendosi a guardare

la

partita, si accorge che poco più in là ci sono proprio Filippo

Accado

e la moglie. Lo hanno sentito urlare e ora lo stanno fissando.

Lui li saluta con un grande sorriso, sbracciandosi quasi.

"Ciao Filippo. Ciao Marina" e abbraccia di nuovo Francesca,

volendo suggellare in tutto e per tutto e definitivamente quella

sua

ottima scelta. Anche perché, a essere precisi, ha ventiquattro

anni

meno di lui. I due Accado accennano un sorriso, preoccupati di

essere

diventati incolpevoli testimoni di quella che, almeno per loro,

fino a quel momento era stata semplicemente solo una diceria.

Claudio

lo sa. Ed è felice d'averla del tutto confermata. Poi guarda

Francesca.

Bella, morbida, naturalmente abbronzata, giovane e soprattutto...

non rompicoglioni! E le sorride.

"Certo, se mi fossi chiamato Paolo... saremmo stati noi i Paolo

e Francesca del terzo millennio ! "

E lei, che già non capiva nulla di calcio, fa segno di sì anche

questa volta. Claudio capisce d'essersi spinto troppo in là. È

vero,

non si può avere tutto. E allora, per ritrovare la sicurezza della

sua

scelta, tira fuori una sigaretta. Sta per accenderla ma questa

volta

Francesca sa cosa dire.

"Ma Claudio, ne hai fumata una poco fa..."

"Hai ragione cara." Sorride e rimette la sigaretta nel pacchetto,

poi riprende a guardare la partita. Con la coda dell'occhio, senza

farsi accorgere, osserva ancora Francesca. Lei ciancica una gomma

a bocca aperta, canticchiando una strana canzone brasiliana. Ha lo

sguardo un po' fumato, perso in chissà quale pensiero. Ho fatto

bene?

È veramente questo quello che volevo? Claudio ha un attimo

di panico. Be'... sì, penso proprio di sì. Almeno finché dura. Poi

ripensa

alla sua grande decisione. Al grande salto fatto appena una

settimana prima. In fondo è stata proprio Francesca a convincermi

del tutto. Sì, è lei la donna che aspettavo. Devo tutto a lei. È

merito

suo se la Z4 celeste ora è parcheggiata fuori dal circolo. Allora

Claudio riprende a guardare la partita entusiasta e felice.

"Forza ragazzi! Pareggiate! Fateci un bel goal!" e non sa che

proprio in quel momento un semplice boro della Garbatella si

è portato via la sua Z4. Con un semplice spadino da 1 euro se n'è

portati via 42.000... Euro più, euro meno.

Paolo e mio padre hanno deciso di andare al cinese a via

Valadier. Quello dove vanno tutti e da dove tutti escono puzzando

di fritto. Sono seduti a un tavolo. Ridono e scherzano in

compagnia

delle loro donne. Hanno ordinato un sacco di roba. Dalle alghe

fritte agli immancabili involtini primavera, dal maiale in

agrodolce

alla anatra pechinese. Passando per la zuppa di squalo, il

manzo croccante, i ravioli al vapore e quelli alla griglia, il

piatto

novità. Hanno assaggiato di tutto. Si sono rimpinzati provando

ogni tipo di salsa su quello strano piatto girevole che i cinesi

ti mettono

apposta al centro del tavolo per farti sentire un perfetto

orientale.

Ma quando ti arriva il conto anche se è scritto in cinese e ha

una strana linea finale a indicare uno pseudosconto, dovresti

capire

che per loro sarai sempre e solo un occidentale. Paolo e mio

padre si rubano di mano il foglietto. I cinesi stanno lì davanti.

Si

divertono e sorridono a guardarli. Che gliene frega a loro... Dopo

quella solita ridicola pantomima, comunque vada, uno dei due

pagherà

il conto.

Martina e Thomas sono seduti sulle scalette del comprensorio.

Mangiano un pezzo di pizza. Rossa.

"Però... è proprio buona. Dove la compri?"

"Qua vicino. Ti piace?"

"Molto."

"Sai, volevo offrirtela già da tanto tempo, ma non sapevo se ti

andava. "

"E certo che mi va! Anzi, magari domani la compro io e facciamo

ancora merenda qui. Si sta bene seduti sugli scalini. Ti va?"

"Forte, ok."

Poi Thomas, pulendosi come può la bocca con la maglietta, decide

di raccontarglielo.

" Sai Marti, qualche giorno fa stavo passeggiando in piazza quando

mi è successa una cosa stranissima."

"Cosa?"

"Mah, proprio qui. Stavo aspettando Marco che doveva riportarmi

il pallone e a un certo punto s'è fermato uno su una Honda

blu. Ma uno grande, almeno vent'anni. È sceso, m'ha dato una pezza

in faccia e poi lo sai cosa mi ha detto?"

"No, cosa?"

"Lascia stare Michela. E risalito in moto e se n'è andato. Ma ti

rendi conto? Michela che sta con uno di vent'anni!"

È un attimo. Martina sorride senza farsi vedere. Non ci può

credere. Step. È proprio pazzo quello. È uno di quelli che non

s'incontrano

spesso nella vita. Ma se accade, non c'è che da esserne felici.

Ma Thomas non molla.

"E sai chi sembrava? Ti ricordi quel tipo con il quale parlavi

un po' di tempo fa? Dai, quando io stavo seduto sulla catena e ti

ho salutato e voi stavate lì che parlavate davanti al giornalaio?

Hai

capito chi? "

"Sì, ho capito chi dici. Ma guarda che ti sbagli. Non è proprio

il tipo. E poi scusa, ma ti pare che uno come quello si mette con

Michela? Con Michela ci si mette uno come te."

"Io? Ma che sei pazza? Io le sto dietro perché s'è fregata il mio

ed dei Simple Plan, sai Still Not Getting Any? Gliel'avevo

prestato

un mese fa. Ma si vede che quando le ho detto 'Si chiama Pietro e

torna indietro' lei ha capito che il ed tornava indietro da solo!

"

Martina sorride. Non tanto per il tentativo malriuscito di

battuta,

ma perché inizia a capire come stanno le cose.

"Comunque se è quello il tipo, oh diglielo: 'A me di Michela

non me ne frega niente'."

"E certo per paura..."

"Ma che paura ! Io quello se lo ribecco lo faccio nero. Cioè,

magari

tra qualche anno. Ti giuro che comincerò ad andare in palestra.

Anzi no, di più, mi iscrivo al corso di wrestling, voglio

diventare

come John Cena, magari faccio anche una canzone rap. È un

tipo fortissimo, hai capito chi è?"

No.

"Ma non conosci nessuno! "

Thomas alza le spalle e dà un altro bel morso alla pizza. "Mmm

che buona..."Alla fine sorride anche lui, dimenticandosi di quel

fatto.

E fa bene. Nella vita cerchiamo sempre una spiegazione. Perdiamo

del tempo cercando un perché. Ma a volte non c'è. E per triste

che sia, è proprio quella la spiegazione. Thomas parla con

Martina,

ridono e scherzano di altre cose. Poi si guardano. Lei nello

stesso

modo di sempre. Lui come forse non aveva ancora mai fatto. E

sorride.

Forse perché lei lo ha tranquillizzato su quello schiaffo. Forse

semplicemente perché quella ragazzina non è poi così male. Non lo

sa. Non importa. Nel frattempo la pizza finisce. E qualcosa

inizia.

Poco più lontano. Un altro comprensorio. Lì dove in un modo

o nell'altro andranno tutti. Senza rogiti particolari, senza

investimenti

azzeccati o un colpo di fortuna. Dove si è ospiti naturalmente.

Senza riunioni di condominio, senza un amministratore noioso o

un vicino troppo rumoroso. In quel posto dove non è più importante

quanto guadagni ma quanto sei stato capace di dare. Il cimitero.

Nel silenzio di quei prati curati, tanti nomi e semplici foto non

riescono a raccontare il tanto di tutte quelle vite. Ma i volti, i

sorrisi,

il dolore dei loro visitatori raccontano in un attimo la bellezza

di tutto quello che sono stati e la loro continua mancanza. Ecco.

Da un po' di tempo Pollo non è più solo. Ora a fargli compagnia

c'è un altro pezzo della vita di Step. Sua madre. Tutti e due

hanno

dei fiori bellissimi, ancora freschi di vita e d'amore.

Quell'amore

che Step non ha mai risparmiato, che non ha mai avuto la

possibilità

di dimostrare fino in fondo. E nel silenzio di ogni giorno,

nell'eco

lontana della musica della vita che continua, un amico e una


madre stanno parlando. Di lui. Di tutto quello che è stato, di

quello

che i ruoli della vita non hanno permesso di dire. Quelle parole

che non sono state mai dette ma che sono sempre arrivate. Perché

l'amore non va mai perso.

Quando salgo sulla moto ormai è il tramonto. E proprio in quel

momento la vedo tornare. Gin. Con la sua guida veloce, così come

è lei. Segue la curva con la testa, canticchia la canzone che sta

ascoltando

in quel momento. Chissà qual è. Ma sembra di nuovo allegra.

Come sempre. Come l'avevo lasciata. Bella del suo sorriso, della

vita che ha, dei sogni che rincorre, dei limiti che non conosce.

Libera. Libera da tutto quello che non le interessa e anche di

più.

E allora mi allontano così, vedendola stupita, mentre sorride. E

sono

felice. Come non ero da tanto... Colpevole solo di quella scritta.

Immensa. Su tutto il suo palazzo di fronte. Splendida, diretta,

vera. E ora non ho più dubbi. Non ho rimorsi, non ho più ombre,

non ho peccato, non ho più passato. Ho solo una gran voglia di

ricominciare.

E di essere felice. Con te Gin. Sono sicuro. Sì, è proprio

così. Vedi, l'ho anche scritto. Ho voglia di te.

***

I miei ringraziamenti.

Vorrei dire grazie a tutti coloro che nel bene o nel male, e

soprattutto a loro

insaputa, mi hanno dato uno spunto. In fondo la vita è bella

proprio per questo,

perché non dipende solo da te. Un libro invece sì. Voglio

ringraziare chi mi ha volutamente

aiutato.

Grazie a Giulia e ai suoi ottimi consigli. Ma soprattutto ai

momenti bellissimi

che mi ha regalato. Ne ho nascosti alcuni in questo libro, perché

non vadano

dimenticati.

Grazie a Riccardo Tozzi e a sua nipote Margherita, a Francesca

Longardi e a

tutta la Cattleya, perché senza di loro magari questo mio secondo

libro non sarebbe

mai uscito.

Grazie a Ked (Kylee Doust) ! Al suo entusiasmo, al piacere di

ascoltare i suoi

ricordi che alla fine si confrontano con i miei e diventano dei

preziosi consigli.

Grazie a Inge e Carlo Feltrinelli e a tutti gli amici della forza

vendita che hanno

"materialmente" portato il mio libro in giro per l'Italia.

Grazie a Maddy che mi corregge, mi insegna molto e in cambio ride

e si diverte

imparando un po' di sano "gergo romano".

Grazie a Giulia Maldifassi, a Valeria Pagani e a tutte le amiche

dell'ufficio

stampa che mi hanno fatto conoscere e girare l'Italia!

Grazie ad Alberto Rollo che in maniera severa ma piacevole trova

sempre il

modo per indicarmi la via migliore dello scrivere e io

naturalmente lo ascolto.

Grazie ai Budokani, i miei amici, quelli veri, quelli che ci sono

sempre non

solo nelle pagine e nei ricordi.

Grazie a tutti i miei parenti che mi sopportano e dividono con me

il "divano

dei pensieri".

Grazie a Carlantoine, nobile ispiratore!

Grazie al mio "Brother" Mimmo. Quando gli leggo quello che ho

scritto,

lui chiude gli occhi. Poi sorride e annuisce come a dire: "Sì,

vanno bene". Fa

così anche in mare quando sceglie le correnti e il vento.

Grazie a Luce e ai suoi morselletti che mi piacciono sempre tanto.

Infine alcuni suggerimenti me li dà sempre il mio amico Giuseppe.

Mi sta vicino,

mi ascolta e alla fine ride con me. Devo dire che molto spesso ha

ragione.

Quindi, grazie anche a te.


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