Sergej Luk'janenko I guardiani della notte

Si autorizza la diffusione del presente testo a sostegno della causa della Luce.

La Guardia della Notte

Si autorizza la diffusione del presente testo a sostegno della causa delle Tenebre.

La Guardia del Giorno

Prima Storia Un destino speciale

Prologo

La scala mobile saliva lenta, a fatica. Era proprio una vecchia stazione, niente di che. Il vento correva all'impazzata nel tubo di cemento e gli scompigliava i capelli, gli strappava il cappuccio, s'insinuava sotto la sciarpa, trascinandolo verso il basso.

Il vento non voleva che Egor salisse.

Lo supplicava di tornare indietro.

Era incredibile, ma nessuno intorno pareva prestare attenzione al vento. La gente era poca: verso mezzanotte la stazione si svuotava. Anche sulla scala accanto a Egor non c'era praticamente nessuno: una o due persone dietro di lui. Tutto qui.

Solo il vento.

Egor s'infilò le mani in tasca e si voltò. Già da un paio di minuti, da quando era sceso dal treno, aveva sentito uno sguardo estraneo su di sé. Per quanto fosse inquietante, non gli faceva paura e anzi lo attraeva, pungente come un ago.

Proprio in cima alla scala mobile c'era un uomo con una divisa. Non da poliziotto, da militare. Più in là una donna con un bambino assonnato, aggrappato al suo braccio. Poi un altro uomo, giovane, con una vistosa giacca arancione e un walkman. Pareva dormire mentre camminava.

Niente di sospetto, anche per un ragazzino che rincasava troppo tardi. Egor alzò di nuovo lo sguardo. Il militare, appoggiato al lucido corrimano, cercava di adocchiare tra i rari passeggeri una preda facile.

Non c'era niente che facesse paura.

Il vento sospinse Egor un'ultima volta e poi si placò, rassegnato all'idea che fosse vano lottare. Il ragazzino si girò ancora una volta e corse su per i gradini. Doveva affrettarsi, non era chiaro il perché, ma doveva. Di nuovo avvertì senza ragione delle fitte d'ansia e fu percorso da un brivido.

Forse era il vento.

Egor schizzò fuori dalle porte socchiuse e fu travolto da una nuova ondata di gelo penetrante. I capelli, ancora bagnati dopo la piscina — il phon era rotto — gli si ghiacciarono subito. Si calcò di più il cappuccio in testa, passò senza fermarsi davanti ai chioschi e si inabissò nel sottopassaggio. In superficie c'era molta più gente, ma l'ansia non lo lasciava. Si voltò, senza rallentare il passo: nessuno lo seguiva. La donna col bambino stava raggiungendo la fermata del tram, l'uomo con il walkman si era fermato davanti al chiosco ed esaminava le bottiglie, il militare non era nemmeno uscito dal metrò.

Il ragazzo attraversava il sottopassaggio, accelerando sempre più il passo. La musica, appena percettibile, ma straordinariamente gradevole. La melodia sottile di un flauto, gli accordi di una chitarra, il suono ritmato di uno xilofono. La musica lo chiamava, impaziente. Egor scansò una combriccola che veniva di corsa verso di lui, superò un tizio ubriaco che si trascinava a stento. Era come se gli fossero fuggiti via tutti i pensieri dalla mente. Si mise a correre.

La musica lo chiamava.

Ai suoni s'intrecciavano parole ancora inafferrabili, quasi impercettibili, eppure irresistibili. Egor uscì dal sottopassaggio, si fermò per un istante, inspirando l'aria gelida. Neanche a farlo apposta il filobus stava arrivando. Una fermata ed era quasi a casa…

Con le gambe che sembravano intorpidite il ragazzino si avviò lentamente verso il filobus, che aspettò per qualche secondo con le portiere aperte, poi le richiuse e si allontanò. Egor lo fissò con uno sguardo vuoto. La musica era ancora più forte, riempiva tutto il mondo circostante, dal grattacielo semicircolare dell'albergo fino a un "casermone con le zampe" che s'intravedeva a poca distanza: la sua casa. La musica lo sollecitava ad andare a piedi. Lungo il viale ben illuminato, dove passava poca gente. Mancavano solo cinque minuti per arrivare a casa.

E per arrivare alla musica ancora meno…

Egor percorse un centinaio di metri, ma poi l'albergo smise di proteggerlo dal vento. Una corrente d'aria ghiacciata gli trafisse il viso e quasi soffocò l'invitante melodia. Il ragazzino cominciò a barcollare e si fermò. L'incanto era svanito, in compenso la sensazione di essere spiato da uno sguardo estraneo l'aggredì di nuovo, insieme alla paura. Si voltò: un altro filobus si avvicinava alla fermata. E alla luce dei fanali balenò ancora una volta la giacca di un vistoso colore arancione. L'uomo della scala mobile l'aveva seguito. Con gli occhi sempre socchiusi, ma insospettabilmente veloce e risoluto.

Egor ricominciò a correre.

La musica risuonò con una nuova intensità, lacerando la cortina di vento. Lui poteva già distinguere le parole… poteva, ma non voleva.

La cosa più giusta da fare era proseguire per il viale, accanto ai negozi chiusi ma vivacemente illuminati, e ai passanti ritardatari, così da essere visibile agli automobilisti in transito.

Invece Egor svoltò in un portone. La musica lo attirava lì dentro.

Era buio pesto. Davanti al muro ondeggiavano due ombre. Egor le vide attraverso una nebbia, filtrate da una luce azzurrina e spettrale. Un giovane e una ragazza vestiti con abiti molto leggeri, come se nel cortile non ci fossero venti gradi sotto zero.

La musica echeggiò per l'ultima volta, suadente e trionfante. Poi tacque. Il ragazzino sentì il suo corpo afflosciarsi. Era fradicio di sudore, le gambe non lo reggevano più, aveva voglia di sedersi sul fango gelato del marciapiede.

— Carino… — disse sottovoce la ragazza. Pallida, con un viso magro e le guance scavate. Solo gli occhi sembravano vivi: neri, enormi, magnetici.

— Lasciamene… almeno un pochino… — disse il giovane. E sorrise. Sembravano fratello e sorella, non per i tratti del viso, ma per un non so che di inafferrabile, di comune a entrambi, che li avvolgeva come un velo polveroso e translucido.

— A te? — La ragazza distolse per un istante lo sguardo da Egor. Il torpore si attenuò, ma in compenso Egor fu assalito dal terrore. Fece per aprire la bocca, ma incontrò lo sguardo del giovane e non riuscì a gridare. Come fosse avvolto in un freddo strato di pellicola trasparente.

— Su, prendi!

La ragazza rise sarcastica. Spostò lo sguardo su Egor e protese le labbra come per un bacio celestiale. Pronunciò piano le ben note parole che già danzavano nella musica irresistibile.

— Vieni qui… Vieni da me…

Egor restò immobile. Non aveva la forza di fuggire, malgrado il terrore, malgrado il grido trattenuto in gola.

Davanti al portone passò una donna con due grossi cani da pastore al guinzaglio. Piano, rallentando, come se si muovesse sott'acqua, in un incubo. Egor vide con la coda dell'occhio i due cani che tiravano verso il portone e sentì balenargli nel cuore una folle speranza. I cani da pastore ulularono, un po' incerti, con un misto di odio e timore. La donna si fermò per un istante, fissando sospettosa il portone. Egor afferrò il suo sguardo indifferente, come attraversasse il vuoto.

— Su, andiamo! — La donna strattonò il guinzaglio e i cani arretrarono verso le sue gambe.

Il giovane scoppiò a ridere sommessamente.

La donna affrettò il passo e sparì dal suo orizzonte.

— Non viene! — esclamò capricciosa la ragazza. — Ma guardalo, non viene!

— Chiamalo più forte! — tagliò corto il giovane. E si adombrò. — Impara.

— Vieni! Vieni da me! — ripeté con insistenza la ragazza. Egor era lì a due metri, ma per lei era importante che fosse lui a superare la distanza.

Ed Egor capì che non aveva più la forza di lottare. Lo sguardo della ragazza gli stava puntato addosso, aderiva all'invisibile pellicola di plastica, le parole lo sollecitavano e lui si rendeva conto di non poter fare nulla. Sapeva di non dover andare e tuttavia fece un passo. La ragazza sorrise, scoprendo i denti bianchi, regolari.

— Togliti la sciarpa.

Non poteva più lottare. Con le dita tremanti si levò il cappuccio e allentò la sciarpa, senza sfilarla. Si mosse verso i suoi magnetici occhi neri.

Il viso della ragazza era mutato. La mascella inferiore pendeva, le labbra si contrassero. Brillarono i lunghi canini, non umani.

Egor fece un altro passo.

Capitolo 1

La notte era cominciata male.

Mi svegliai che faceva quasi buio. Rimasi coricato a osservare tra gli spiragli delle persiane gli ultimi raggi di luce e a riflettere. Era ormai la quinta notte di caccia senza nessun risultato. E anche oggi era poco probabile che andasse bene.

Nell'appartamento faceva freddo, i termosifoni erano appena tiepidi. Solo una cosa mi fa amare l'inverno: fa buio presto e per le strade la gente è poca. Ma tant'è… da un pezzo avrei mollato tutto e me ne sarei andato via da Mosca, a Jalta o a Soči. Proprio sul Mar Nero, e non in qualche lontana isola del Pacifico: mi piace sentire intorno a me la lingua di casa…

Sciocche fantasticherie, certo.

È ancora presto per starmene in pace, in qualche paese caldo.

Non ho ancora terminato il servizio.

Il telefono, quasi attendesse il mio risveglio, si mise a trillare perentorio e ripugnante. Trovai a tentoni il ricevitore e me lo attaccai all'orecchio, in silenzio, senza dire una parola.

— Anton, rispondi.

Tacevo. Larisa aveva un tono efficiente, adeguatamente concentrato, ma già stanco. Non doveva aver dormito per tutto il giorno.

— Anton, ti metto in comunicazione col Capo?

— Non ce n'è bisogno — bofonchiai.

— Non ti sarai appena svegliato…

— Già.

— Hai il solito turno oggi.

— È successo niente di nuovo?

— No, niente di nuovo.

— Hai qualcosa per far colazione?

— Lo troverò.

— D'accordo. Buona fortuna.

L'augurio era espresso in tono fiacco, annoiato. Larisa non mi credeva. E di sicuro neanche il Capo.

— Grazie — replicai all'ininterrotto segnale del telefono. Mi alzai, feci una visita in gabinetto e in bagno. Misi il dentifricio sullo spazzolino, ma mi resi conto che era tardi e lo deposi sul bordo del lavandino.

In cucina era buio, ma non accesi la luce. Aprii lo sportello del frigorifero: la lampadina svitata congelava tra gli alimenti. Guardai dentro il tegame, coperto da uno scolabrodo nel quale galleggiava un pezzo di carne semispappolato. Tolsi lo scolabrodo, portai il tegame alle labbra e bevvi un sorso.

Se qualcuno ritiene che il sangue di maiale sia buono, si sbaglia.

Rimisi il tegame coi resti del sangue rappreso al suo posto e tornai nel bagno. La lampadina azzurra e fioca scacciava appena il buio. Mi strofinai a lungo i denti, con accanimento, poi non resistetti e feci un altro giro in cucina e tracannai un sorso di vodka gelata. Ora lo stomaco non solo si era scaldato, ma bruciava. Un delizioso miscuglio di sensazioni: freddo sui denti e caldo nello stomaco.

— Che ti venga… — attaccai a dire all'indirizzo del Capo, ma poi mi ricredetti in tempo. Stavo per imprecare in modo poco ortodosso. Mi spostai nella camera e mi misi a raccattare i capi del mio guardaroba disseminati dovunque. I pantaloni erano finiti sotto il letto, i calzini sul davanzale, la camicia chissà perché era appesa alla maschera coreana. L'antico imperatore mi fissava con disapprovazione.

— Fa' la guardia, piuttosto — borbottai. Il telefono squillò di nuovo. Attraversando con un balzo la stanza, trovai il ricevitore.

— Anton, volevi dirmi qualcosa? — s'informò l'invisibile interlocutore.

— No, nulla — dissi cupo.

— Be', potresti anche aggiungere un: "Lieto di servirla, Eccellenza."

— Non sono lieto. Non può farci niente… Eccellenza.

Il Capo tacque: — Anton, ti prego comunque di prendere più sul serio l'attuale situazione. D'accordo? Ti aspetto domattina per il rapporto. E… buona fortuna.

Non mi ero sentito in imbarazzo. Però la mia irritazione s'era placata. Dopo aver nascosto il cellulare nella tasca della giacca, aprii l'armadio in anticamera. Per un po' riflettei su come completare l'equipaggiamento. Avevo dei dispositivi nuovi che mi erano stati regalati dagli amici nell'ultima settimana. Eppure mi limitai a prendere la solita attrezzatura, universale e sufficientemente compatta.

Presi il walkman. Non avevo bisogno di ascoltare e poi… la seccatura era che il nemico era implacabile.

Prima di uscire osservai a lungo la scala dallo spioncino.

Nessuno.

Così era cominciata l'ennesima notte.

Viaggiai in metrò per circa sei ore, girando a casaccio da una linea all'altra e a tratti sonnecchiando, consentendo così alla mia coscienza di riposare e ai canali emozionali di sbloccarsi. Tutto chiuso. No, qualcosa d'interessante l'avevo visto, ma si trattava di casi ordinari, per principianti. Solo verso le undici, quando il metrò s'era in parte svuotato, la situazione cambiò.

Me ne stavo seduto con gli occhi chiusi ad ascoltare già per la terza volta durante quella serata la Quinta Sinfonia di Manfredini. Il walkman era assolutamente folle: una mia compilation personale dove compositori italiani barocchi si alternavano a Bach e gli Alisa a Ritchie Blackmore e ai Piknik.

Mi sentivo bloccato: ero tutto un crampo, dalle caviglie alla gola. Emisi persino un sibilo, aprendo gli occhi e scrutando l'intero vagone.

La ragazza la notai subito.

Molto giovane, carina. Con una pelliccetta elegante, una borsetta e un minuscolo libro in mano.

E con un vortice nero talmente smisurato sopra la testa come non ne vedevo da anni.

Dovevo avere uno sguardo folle. La ragazza lo percepì, mi fissò e subito si voltò.

Faresti meglio a guardare in su!

Ma, certo, lei non aveva il potere di vedere il vortice. Il massimo che poteva percepire era una leggera inquietudine. E con l'angolo dell'occhio un baluginio sbiadito sopra la testa… come di mosche in volo o un alito di vento che increspa l'asfalto in una giornata torrida…

Non poteva vedere nulla. Nulla. E avrebbe vissuto ancora un giorno o due finché non avesse messo il piede in fallo sul ghiaccio e poi battuto con un colpo mortale la testa. Oppure fosse finita sotto un'auto. O dentro un portone si fosse imbattuta nel coltello di un teppista ignaro del perché stava uccidendo quella ragazza. E tutti avrebbero detto: "Una ragazza così giovane, con tutta la vita ancora davanti, le volevano tutti bene…"

Sì, certo, ci credo: ha un viso buono e grazioso, solo un po' stanco, ma senza cattiveria… Accanto a una ragazza così ti senti diverso. Cerchi di essere migliore, ma la cosa ti pesa. Con una come lei si preferisce fare amicizia, flirtare un po', dividere le proprie scoperte. Di una come lei di rado ci si innamora… Però tutti l'amano.

Tranne un esperto mago nero prezzolato.

Il vortice malefico in effetti è un'apparizione piuttosto banale. Dopo aver guardato attentamente, riuscivo a distinguerne cinque o sei sospesi sui passeggeri. Erano tutti vischiosi, sbiaditi, turbinavano appena. Risultato del più comune e dilettantesco dei malefici. Come quando, per esempio, uno dice all'indirizzo di un altro: "Che tu possa crepare, canaglia!" O con una formula più essenziale e delicata: "Che ti venga un accidente!"

E fuoriesce dalle Tenebre un piccolo vortice d'aria che annulla la fortuna e risucchia le forze.

Solo che una comune maledizione, da dilettanti, improvvisata, non dura che un'ora o due, o al massimo ventiquattro. E le sue conseguenze sono sgradevoli, ma non letali. Invece il vortice nero sopra la ragazza era ben fatto, stabile, opera di un mago esperto. Anche se non lo sapeva, la ragazza era già morta.

Macchinalmente allungai la mano verso la tasca, cercando di capire dove fossi e mi inalberai. Ma perché i cellulari non funzionano nel metrò? Come se chi li possiede non viaggiasse sotto terra…

Ora ero combattuto tra l'incarico principale che dovevo eseguire, anche senza speranza di successo, e la ragazza condannata a morire. Non sapevo se fosse possibile aiutarla, ma ero costretto a seguire l'artefice del vortice…

E in quell'istante ricevetti un altro colpo. Del tutto diverso. Né crampi, né dolore, solo mi si seccò la gola, le gengive s'intorpidirono, il sangue mi pulsò alle tempie e la punta delle dita cominciò a prudermi.

Ci siamo!

Ma perché proprio nel momento peggiore?

Mi alzai. Il treno aveva già rallentato in prossimità della stazione. La ragazza mi passò accanto e percepii il suo sguardo. Mi seguiva. Aveva paura. Evidentemente il vortice malefico la rendeva inquieta, anche se lei non lo avvertiva, costringendola a scrutare chi le stava intorno.

Forse per questo era ancora viva?

Cercando di non guardare nella sua direzione, affondai la mano nella tasca. Tastai l'amuleto: una fredda sbarra cesellata di onice. Rallentai ancora un secondo, cercando di escogitare altre azioni.

No, non c'era via d'uscita.

Strinsi la sbarra nel pugno. La strofinai con le dita e la pietra si riscaldò, emanando l'energia accumulata. La sensazione non era illusoria, ma questo era un calore che non si misurava col termometro. Era come se stringessi un carbone ardente… un carbone coperto di fredda cenere, ma incandescente all'interno.

Dopo aver caricato l'amuleto, gettai uno sguardo alla ragazza. Il vortice ondeggiava, piegandosi verso di me. Era tanto potente da intaccare l'intelletto.

Colpii.

Non solo nel vagone, ma in tutto il treno, anche un solo Altro avrebbe visto lo scoppio accecante trapassare con uguale leggerezza il metallo e il cemento…

Non avevo mai colpito prima un vortice malefico di una struttura così complicata. E non avevo mai dotato prima l'amuleto di una carica così potente.

L'effetto fu del tutto inatteso. Le deboli maledizioni scagliate sulle altre persone furono subito spazzate via. Una donna anziana che si passava stancamente la mano sulla fronte si guardò stupita il palmo: la sua crudele emicrania cessò di colpo. Un giovane, che fissava ottusamente il vetro, sussultò, il suo viso si rilassò e dai suoi occhi sparì una cupa angoscia.

Il vortice nero sopra la ragazza si ridusse di circa cinque metri, una buona metà schizzò fuori dal vagone. Ma non perse la sua struttura e rifluì zigzagando verso di lei.

Che potenza!

Che struttura mirata!

Si dice, ma in verità io non l'ho mai constatato, che se il vortice si è ridotto di due o tre metri perda l'orientamento, colpendo la persona più prossima. Anche questo è negativo, ma la maledizione di un altro ha un effetto assai più debole e la nuova vittima ha maggiori possibilità di salvarsi.

Questo vortice balzò indietro, come un cane fedele che torna dal padrone in pericolo!

Il treno si stava arrestando. Gettai un ultimo sguardo al vortice: era di nuovo sospeso sopra la ragazza e turbinava più veloce… E io non potevo fare nulla, proprio nulla. Lì accanto, nella stazione, c'era l'obiettivo di tutte le mie peregrinazioni di settimane per Mosca. Non potevo andare oltre, per seguire la ragazza. Il Capo mi avrebbe mangiato vivo… e con tutta probabilità non solo in senso figurato…

Quando le porte si aprirono stridendo, rivolsi alla ragazza un ultimo sguardo, affrettandomi a memorizzare la sua aura. Le possibilità di ritrovarla nella città immensa erano poche. Eppure dovevo provarci.

Ma non ora.

Mi precipitai fuori dal vagone e mi guardai intorno. L'esperienza sul campo non bastava, in questo il Capo aveva assolutamente ragione. Ma il metodo d'insegnamento da lui usato non mi piaceva affatto.

Come facevo, dannazione, a trovare l'obiettivo?

Osservavo con la vista normale le persone, ma nessuna di loro mi insospettiva. Finora c'era stata una gran ressa di passeggeri: in fondo mi trovavo in centro, nella Kurskaja, sulla linea circolare, c'erano persone in arrivo dalla stazione e venditori che si disperdevano, e ancora quelli che si affrettavano a prendere le coincidenze per i loro quartieri dormitorio… Socchiudendo gli occhi potevo osservare uno spettacolo più attraente: quello delle aure che sbiadivano, come sempre verso sera. Tra esse un'aura maligna ardeva come una macchia di un rosso brillante e l'aura di una coppietta, che evidentemente aveva fretta di raggiungere casa, riluceva di un arancione penetrante. Simili a strisce di un grigio-marrone slavato erano invece le aure evanescenti degli ubriachi.

Ma non c'era alcun indizio. Solo secchezza alla gola, torpore alle gengive e il martellare folle del cuore. Il sapore del sangue sulle labbra. Un'eccitazione crescente.

Tutti segni marginali e tuttavia persino troppo evidenti per mancarli.

Ma chi erano? Chi?

Il treno si mosse alle mie spalle. La sensazione che l'obiettivo fosse vicino non si era ancora attenuata; voleva dire che non c'eravamo ancora. Avanzò un convoglio. E sentii che l'obiettivo sussultava, muovendosi incontro a quello.

Avanti!

Attraversai la banchina, e destreggiandomi verso i segnali tra i passeggeri che mi fulminavano, raggiunsi la coda del treno. La sensazione cominciò ad attenuarsi. Corsi fino al vagone di testa… c'era… si faceva più vicina…

La gente entrava nei vagoni. Corsi lungo tutto il convoglio, mentre una densa saliva mi riempiva la bocca, i denti cominciavano a dolermi e le dita erano in preda ai crampi… Nella cuffia ronzava la musica:

In the shadow of the moon,

She danced in the starlight

Whispering a haunting tune

To the night…

Oh, un motivo appropriato. Incredibilmente appropriato.

E non di buon augurio.

Saltai tra le porte che si chiudevano, mi bloccai, concentrandomi su me stesso. Avevo indovinato? Con la vista non riuscivo neppure adesso a mettere a fuoco l'obiettivo…

Avevo indovinato.

Il treno sfrecciò lungo l'anello e i miei sensi in tumulto gridavano: "È qui! È qui vicino!"

Avevo indovinato anche il vagone?

Dopo aver guardato di sottecchi i miei compagni di viaggio, rinunciai alla speranza. Qui non c'era nessuno degno di attenzione.

Pazienza, bisognava aspettare…

Feel no sorrow, jeef no pain,

Feel no hurt, ther's nothing gamed…

Only love will then remain,

She would say.

Al Prospekt Mira sentii che l'obiettivo si allontanava. Balzai fuori dal vagone e mi incamminai verso la coincidenza. Era lì vicino, da qualche parte, vicino…

Alla stazione radiale la percezione dell'obiettivo si fece quasi tormentosa. Avevo già esaminato alcuni possibili candidati: due ragazze, un giovane, un ragazzino. Erano tutti dei potenziali candidati, ma chi era di loro?

I quattro salirono nello stesso vagone. Era già una fortuna. Li seguii e mi misi ad aspettare.

Una delle ragazze scese alla fermata Rižskaja.

La percezione dell'obiettivo non si era indebolita.

Il giovane scese alla Alekseevskaja.

Magnifico. La ragazza o il ragazzino? Chi dei due?

Osai guardare entrambi di sottecchi. La ragazza era grassottella, rosea, immersa nella lettura di "Moskovskij Komsomolec". Non sembrava per nulla turbata. Il ragazzino, al contrario, esile e fragile, stava davanti alla porta e passava un dito sul vetro.

Al mio sguardo la ragazza era molto, ma molto… più appetibile. Due a uno che si trattava di lei.

Ma forse qui c'entrava solo il sesso.

Sentivo già il Richiamo. Che era ancora senza parole. Solo una lenta, tenera melodia. Subito smisi di ascoltare il suono che usciva dalla cuffia: il Richiamo aveva sommerso la musica.

Né la ragazza né il ragazzino parevano agitarsi troppo. O possedevano una soglia di tolleranza molto elevata oppure, al contrario, erano stati subito sopraffatti.

Il treno giunse alla stazione VDNCh. Il ragazzino uscì sulla banchina e si incamminò in fretta verso la vecchia uscita. La ragazza rimase.

La maledizione!

Entrambi erano ancora vicinissimi e io non potevo capire chi sentivo dei due!

La melodia ci avvolgeva inebriante e in essa cominciarono a insinuarsi delle parole.

Una voce di donna!

Mi precipitai fuori dalle porte che si chiudevano e mi affrettai sulle tracce del ragazzino.

Magnifico. La caccia era alla fine.

Va bene, ma come potevo farcela con l'amuleto scarico? Non ne avevo idea…

Scese pochissima gente, sulla scala mobile salimmo in quattro. Il ragazzino per primo, dietro di lui una donna con un bambino, poi io, e subito dopo uno sgualcito e attempato colonnello. L*aura del colonnello era bella, luminosa, di una tonalità tra il grigio acciaio e l'azzurro. Pensai persino con ironia, per la stanchezza, di chiedere il suo aiuto. Gente come lui crede ancora nell'"onore degli ufficiali".

Solo che l'aiuto di un vecchio colonnello sarebbe servito meno di quello di un acchiappamosche per scacciare un elefante.

Dopo aver smesso d'imbottirmi la testa di fesserie, fissai di nuovo il ragazzino. Con gli occhi chiusi, scansionai l'aura.

Il risultato fu scoraggiante.

Era circonfusa da un chiarore cangiante, traslucido e a tratti si colorava di rosso, a tratti di verde cupo con bagliori blu scuro.

Un caso raro. Un destino ancora indeterminato. Un potenziale ancora insondato. Il ragazzino poteva diventare un gran delinquente o un uomo retto e buono, o anche una nullità come la maggioranza degli esseri umani al mondo. Era ancora tutto in divenire, come si dice. Simili aure possono averle i bambini di due o tre anni, ma in quelli più grandi s'incontrano molto di rado.

Ora era chiaro perché il Richiamo fosse indirizzato proprio a lui. Era una vera délicatesse, per così dire.

Sentii che la bocca mi si riempiva di saliva.

Stava andando avanti da troppo tempo, da troppo tempo… Fissai il ragazzino, il suo collo sottile sotto la sciarpa e maledissi il Capo, le consuetudini, i rituali, tutto ciò di cui era fatto il mio lavoro. Le gengive s'intorpidirono, la gola si seccò.

Il sangue aveva un gusto salato e amaro, ma solo col sangue potevo placare quella sete.

La maledizione!

Il ragazzino balzò fuori dalla scala mobile, corse nel vestibolo, scomparve dietro le porte a vetro. Per un attimo mi sentii meglio. Rallentai il passo e lo pedinai, mettendo a fuoco le sue mosse con la coda dell'occhio: il ragazzino s'inabissò nel sottopassaggio. Ormai correva, il Richiamo lo trascinava, attirandolo verso di sé.

Più in fretta!

Dopo aver raggiunto il chiosco, gettai al venditore due monetine e dissi, avendo cura di non mostrare i denti: — Da sei, con l'anello.

Il ragazzo brufoloso con gesti lenti — a quanto pare anche lui aveva provveduto a scaldarsi lì al lavoro — allungò la bottiglietta. E avvertì per onestà: — La vodka non è un gran che. Non è roba avvelenata, è una Dorochovskaja, ma…

— La salute è preziosa — tagliai corto. La vodka era chiaramente un surrogato, ma era proprio quello che mi andava bene. Con una mano strappai la capsula sotto l'anellino di filo di ferro attorcigliato, con l'altra presi il cellulare e tirai fuori l'antenna. Il venditore sgranò gli occhi. Tracannai un sorso — la vodka puzzava di cherosene e il sapore era ancora più schifoso, era di sicuro contraffatta — e corsi verso il sottopassaggio.

— Pronto.

Non era Larisa. La notte di solito era Pavel di turno.

— Anton. Nei pressi dell'Hotel Kosmos, dove ci sono i cortili. Seguo una traccia.

— Devo mandare una squadra? — Dalla voce trapelava un certo interesse.

— Sì. Ho già scaricato l'amuleto.

— Che è successo?

Un barbone, che schiacciava un sonnellino in mezzo al sottopassaggio, allungò la mano nella speranza che gli cedessi la bottiglietta. Lo superai di corsa.

— Ce n'è un altro… Sbrigati, Pavel.

— I ragazzi sono già partiti.

A un tratto mi parve che mi trafiggessero le tempie con degli aghi incandescenti. Ah, farabutto…

— Pasa, non rispondo di me — mi affrettai a dire, interrompendo la comunicazione. E mi fermai davanti all'uniforme di un poliziotto.

E ti pareva!

Perché i tutori umani dell'ordine devono sempre comparire nel momento meno opportuno?

— Sergente Kaminskij — si precipitò a dire come uno scioglilingua il poliziotto più giovane. — I documenti…

Interessante, di che vogliono accusarmi? Di ubriachezza molesta in luogo pubblico? Probabile.

Infilando la mano in tasca, sfiorai l'amuleto. Era appena tiepido, ma bastava.

— Non li ho — dissi.

Due paia d'occhi mi frugarono, pregustando già una preda, ma ben presto non furono che vuote pupille, senza più un barlume di intelligenza.

— Da qui non è mai passato — ripeterono i due uomini in coro.

Non c'era tempo di programmarli. Dissi la prima cosa che mi venne in mente: — Comprate della vodka e riposatevi. Fate con calma. Su, marsc!

L'ordine aveva centrato l'obiettivo. Prendendosi per mano, come ragazzini a zonzo, i poliziotti si precipitarono fuori dal sottopassaggio verso i chioschi. Mi sentii un po' a disagio pensando alle conseguenze di quell'ordine, ma non c'era il tempo di aggiustare la faccenda.

Uscii dal sottopassaggio persuaso che fosse già tardi. Invece no. Stranamente il ragazzino non era andato lontano. Stava lì in piedi, a un centinaio di metri, dondolandosi appena. Quella sì che era resistenza! Il Richiamo era tanto intenso che stupiva che i rari passanti non si gettassero nelle danze, che i filobus non sterzassero dal viale per irrompere nell'androne incontro a un irresistibile destino…

Il ragazzo si guardò intorno. Sembrava fissarmi. E proseguì in fretta.

Fine, era crollato.

Lo seguii, in preda all'ansia sul da farsi. Era meglio aspettare la squadra: sarebbe arrivata in una decina di minuti, non di più.

Ma le cose avevano preso una brutta piega per il ragazzo.

La compassione è un sentimento pericoloso. Oggi le avevo già ceduto due volte. Prima in metrò, esaurendo la forza dell'amuleto nel tentativo infruttuoso di annientare il vortice malefico. E ora di nuovo, seguendo le tracce del ragazzo.

Molti anni fa avevo udito una frase che non mi sentivo affatto di condividere. Non la condivido neppure oggi, anche se innumerevoli volte mi sono reso conto della sua verità: «Il bene comune e il bene concreto raramente vanno insieme…»

Già, ora lo capivo.

Ma, forse, esiste una verità che è peggio della menzogna.

Correvo incontro al Richiamo. Di sicuro lo percepivo in modo diverso da come lo sentiva il ragazzo. Per lui l'invito era una seducente, irresistibile melodia che lo privava della volontà e della forza. Per me, al contrario, era una sfrenata eccitazione del sangue.

Un'eccitazione del sangue…

Il mio corpo, di cui mi ero preso gioco per una settimana, si rivoltava. Avevo voglia di bere, ma non acqua (potevo soddisfare la sete, senza alcun danno per me stesso, anche con la neve sporca di città), non alcol (tenevo una bottiglietta di pessima vodka non raffinata sotto il braccio e anche questa non mi avrebbe arrecato nessun danno). No, volevo sangue.

E non di maiale o di bue, ma proprio umano. Maledetta caccia…

«Devi superare questo stadio» mi aveva detto il Capo. «Cinque anni nella sezione analitica non sono mica pochi, non trovi?» Non so, forse non erano pochi, ma a me piaceva. Del resto, anche il Capo da più di un secolo non svolgeva il lavoro operativo.

Sfrecciai davanti alle vetrine sfavillanti, che esponevano ceramiche Gžel' taroccate ed erano zeppe di cibi di plastica. Accanto, lungo il viale, le auto correvano, e i passanti erano rari. Anche questa era una finzione, un'illusione, solo una delle facce del mondo, l'unica accessibile agli esseri umani. Per fortuna non ero un essere umano.

Senza rallentare la corsa, creai il Crepuscolo.

Il mondo sussultò, scostandosi. Fui colpito da dietro le spalle come dal riflettore di un aeroporto, e una lunga ombra sottile s'infittì e acquisì volume, si allungò su se stessa nello spazio dove non c'erano altre ombre. Si staccò dal sudicio asfalto, si levò, ondeggiando come una densa colonna di fumo. Si muoveva veloce dinanzi a me…

Accelerando la corsa, raggiunsi la grigia silhouette ed entrai nel Crepuscolo. I colori del mondo sbiadirono, mentre le auto sul viale parvero rallentare e finire in panne.

Mi approssimavo al luogo.

Penetrando nell'androne già mi preparavo ad assistere alla fine della storia. Il corpo del ragazzo immobile, senza vita, esangue, e i vampiri pronti a scomparire.

Ma ero arrivato in tempo.

Il ragazzino stava dinanzi alla ragazza vampiro, che aveva già allungato i canini, e si scioglieva lentamente la sciarpa. Era poco probabile che in quel momento avesse paura. Il Richiamo ottundeva del tutto la sua coscienza. Stava piuttosto sognando quei canini aguzzi che si avvicinavano.

Accanto c'era il giovane vampiro. Sentii subito che, dei due, lui era il più importante: era stato lui a iniziare la ragazza, lui ad addestrarla al sangue. E, cosa più infame, aveva una licenza registrata a Mosca. Il bastardo!

In compenso le mie probabilità di farcela aumentavano…

I vampiri si voltarono verso di me, straniti, senza comprendere che cosa stesse accadendo. Il ragazzo si trovava ancora nel Crepuscolo e io non avrei potuto, dovuto vederlo… e neppure loro.

Poi il viso del giovane a poco a poco si distese, sorrise persino, amichevole, sereno: — Salve…

Mi aveva scambiato per uno di loro. E non era il caso di biasimarlo per l'errore: adesso io ero davvero uno di loro. O quasi. La settimana di preparazione non era stata inutile: avevo cominciato a sentirli… e avevo quasi attraversato il Crepuscolo…

— Guardiano della Notte — dissi. Allungai la mano con l'amuleto. Era scarico, ma non era così facile accorgersene a distanza. — Uscite dal Crepuscolo!

Il giovane avrebbe forse anche ubbidito. Confidando che non sapessi nulla della scia di sangue che si erano lasciati dietro e che la faccenda potesse essere classificata come "tentativo di non autorizzata interazione con un essere umano". Ma la ragazza non aveva la stessa capacità di autocontrollo e non era in grado di ragionare.

— A-ahhh!!! — Con un intenso ululato si avventò contro di me. E meno male che non aveva conficcato i denti nel ragazzino: in quel momento era incapace di intendere e di volere, come un tossico in crisi di astinenza.

Per un essere umano sarebbe stato un colpo troppo violento, nessuno avrebbe potuto pararlo.

Ma io mi trovavo nel medesimo stadio di realtà della vampira. Alzai la mano e le spruzzai la vodka dalla bottiglietta sul viso stravolto dalla trasformazione.

Perché i vampiri tollerano così poco l'alcol?

Il minaccioso ululato divenne un debole sibilo. La vampira ruotò su se stessa, colpendosi con le mani il volto da cui cadevano strati di pelle e di carne grigiastra. E il ragazzo girò sui tacchi e si diede alla fuga.

Tutto si era risolto anche troppo semplicemente. Il vampiro che aveva ottenuto la licenza non era un ospite di passaggio con cui doversi battere alla pari. Scagliai la bottiglia contro la vampira, allungai la mano e afferrai il filo che si dipanava dal marchio di registrazione. Il vampiro prese a rantolare, afferrandosi la gola.

— Uscite dal Crepuscolo!

Sembrava aver capito che le cose si stavano mettendo molto male per lui. Si chinò su di me, cercando di attenuare la pressione del filo, allungando nel movimento i canini e trasformandosi.

Se l'amuleto fosse stato carico, l'avrei tranquillamente tramortito.

Ma così dovetti ucciderlo.

Il marchio — il cui sigillo mandava bagliori azzurri sul petto del vampiro — scricchiolò quando lanciai il mio ordine muto. L'energia convogliata da qualcuno con una forza assai superiore alla mia si riversò nel suo corpo morto. Il vampiro correva ancora. Era sazio, energetico e le vite altrui ancora alimentavano la sua carne morta. Ma resistere a un colpo di tale violenza era impossibile: la pelle si prosciugò, avvolgendo le ossa come pergamena, dalle orbite fuoriuscì del liquido vischioso. Poi la colonna vertebrale si spezzò e i resti sussultanti rotolarono ai miei piedi.

Mi voltai: la vampira poteva ancora riprendersi. Ma non c'era nessun pericolo. Attraversò il cortile correndo a scatti. Dal Crepuscolo non era comunque uscita e solo io potevo vedere questo sconvolgente spettacolo. Be', anche i cani, certo. In qualche angolo una cagnetta minuscola non la smetteva di abbaiare istericamente, paralizzata dall'odio e anche dalla paura, sentimenti che la razza canina prova verso i morti viventi da che mondo è mondo.

Per inseguire la vampira non mi bastavano le forze. Dopo essermi sgranchito, presi l'impronta dell'aura: smunta, grigia, putrida. L'avremmo ritrovata. Ora non poteva più nascondersi da nessuna parte.

Ma dov'era finito il ragazzino?

Dopo essere uscito dal Crepuscolo creato dai vampiri, poteva essere caduto in uno stato di incoscienza o di torpore. Nell'androne non c'era più. Non avrebbe mai potuto sfrecciare davanti a me senza che lo scorgessi… Dall'androne mi precipitai dentro il cortile e così lo vidi. Era sfrecciato via quasi più velocemente della vampira. Bravo! Fantastico! Non aveva bisogno d'aiuto. Il rischio era che si ricordasse di quanto era avvenuto, anche se… chi avrebbe creduto a un ragazzino? E poi al mattino il ricordo sarebbe sbiadito nella sua memoria, e si sarebbe dissolto trasformandosi in un incubo irreale.

O era meglio raggiungere il ragazzino?

— Anton!

Dal viale arrivavano di corsa Igor' e Garik, la nostra inseparabile coppia di operativi.

— La ragazza se n'è andata!

Garik correndo tirò un calcio al cadavere prosciugato del vampiro, sollevando nell'aria gelida una nuvola di polvere. Gridò: — L'impronta!

Gli rimandai l'immagine della vampira in fuga. Garik corrugò il viso e aumentò la velocità. Gli operativi si lanciarono nella caccia. Igor' mi gridò: — Occupati tu dei rifiuti!

Annuendo, come se attendesse una risposta, uscii dal Crepuscolo. Il mondo s'illuminò. Le sagome degli operativi si dissolsero, persino la neve che attecchiva nella realtà ordinaria smise di essere calpestata da piedi invisibili.

Con un sospiro mi avviai verso la Volvo grigia parcheggiata sul ciglio della strada. Sul sedile posteriore si trovava una banale attrezzatura: un robusto sacco di plastica, una paletta e una scopa. In cinque minuti spazzai i resti quasi inconsistenti del vampiro e occultai il sacco nel bagagliaio. Da un monticello di neve, lasciato da un portinaio negligente, raccolsi un po' di neve sporca, la disseminai nell'androne, la calpestai, mescolando i resti putrefatti col fango. Non avrai una sepoltura da essere umano, tu non sei un uomo…

E così era tutto.

Tornai alla macchina, sedetti al volante, mi misi la cintura. Era andato tutto bene. Anzi, benissimo. Il vecchio vampiro era morto, i ragazzi avrebbero catturato la sua amica e il bambino era vivo.

Già. m'immaginavo come sarebbe stato contento il Capo.

Capitolo 2

— Un lavoro fatto coi piedi!

Cercai di obiettare, ma la replica successiva, sferzante come uno schiaffo, mi chiuse la bocca.

— Un'azione scadente!

— Ma…

— Almeno sei consapevole dei tuoi errori? Risposi prudente: — Sì, in qualche misura…

Mi piace stare in questo ufficio. Sopite sensazioni infantili si risvegliano nel mio cuore nel vedere tutti quei gingilli divertenti, conservati sugli scaffali di vetro molato, disseminati lungo i muri e sulla scrivania insieme coi dischetti del computer e i documenti d'ufficio. Dietro ogni oggetto, dall'antico ventaglio giapponese al pezzo di metallo arrugginito con sopra inciso un cervo simbolo di una casa automobilistica, c'è sempre una storia. Quando il Capo è in vena si ascoltano da lui racconti molto, molto interessanti.

Ma il problema è che raramente è in vena.

— Va bene. — Il Capo smise di andare su e giù per l'ufficio, sedette nella poltrona di pelle e si accese una sigaretta.

— Riferisci, allora.

Il suo tono era professionale, come esigeva il ruolo. Agli occhi di un essere umano poteva apparire come un manager medio sui quarant'anni, uno di quelli su cui il governo ama riporre le proprie speranze.

— Di che cosa dovrei riferire? — chiesi io, rischiando di incocciare in un altro giudizio non proprio lusinghiero del Capo.

— Degli errori. Dei tuoi errori.

Allora era così… D'accordo.

— Il mio primo errore, Boris Ignat'evič — esordii nel tono più innocente — sta nel non aver compreso correttamente il mio incarico.

— Ma va'! — esclamò lui.

— Be', io ritenevo che il mio obiettivo fosse quello di rintracciare un vampiro che si era dato alla caccia attiva sul territorio di Mosca. Di rintracciarlo e… renderlo inoffensivo.

— Già, già — approvò il Capo.

— Ma in realtà lo scopo essenziale dell'incarico era quello di verificare la mia idoneità al lavoro operativo e all'azione sul campo. Partendo da un'errata valutazione dell'incarico, o meglio seguendo il principio del "dividi e difendi"…

Il Capo sospirò, annuendo. Qualcuno che non lo conosceva avrebbe potuto pensare che fosse stato smascherato.

— E tu hai violato in qualche misura questo principio?

— No. E per questo ho fallito l'incarico.

— Come mai hai fallito?

— All'inizio… — Guardai di sottecchi la bianca civetta delle nevi impagliata, custodita sotto vetro sullo scaffale. Aveva mosso o no la testa? — All'inizio ho esaurito la carica dell'amuleto nel vano tentativo di neutralizzare il vortice malefico…

Boris Ignat'evič si adombrò. Si lisciò i capelli.

— Va bene, partiamo da qui, allora. Ho studiato l'immagine e se tu non l'hai abbellita…

Scrollai la testa indignato.

— Ti credo. Annullare un vortice simile con l'amuleto è impossibile. Te la ricordi la classificazione?

Al diavolo! Ma perché non avevo dato un'occhiata ai miei vecchi appunti?

— Sono sicuro che non te la ricordi. Non importa, questo è un vortice non classificabile. Non saresti mai riuscito a cavartela… — Il Capo oltrepassò la scrivania e in un misterioso sussurro disse: — E devi sapere che…

Mi misi in ascolto.

— … Che neppure io ci sarei riuscito, Anton.

Era una confessione inattesa e non riuscii a replicare nulla. La certezza che il Capo potesse assolutamente tutto, mai espressa da nessuno a parole, era però radicata in tutti i dipendenti dell'ufficio.

— Anton, un vortice di questa forza… può annullarlo solo il suo creatore.

— Bisogna trovarlo… — dissi io incerto. — Mi dispiace per la ragazza…

— Non è lei il problema. Almeno non solo lei.

— Perché? — Avevo fatto una gaffe e subito mi ripresi: — Bisogna fermare il mago delle Tenebre?

Il Capo sospirò.

— Forse ha la licenza. Forse aveva il diritto di lanciare la maledizione… Il problema non è neppure il mago. Un vortice malefico di quella forza… ricordi quando in inverno è caduto l'aereo?

Sussultai. Non era stato il risultato di un lavoro lasciato a metà, quanto piuttosto l'esito di una serie di lacune nelle nostre leggi: il pilota su cui avevano lanciato la maledizione non era riuscito a cavarsela coi comandi e l'aereo di linea si era abbattuto sui quartieri della città. Centinaia di persone innocenti avevano perduto la vita…

— Vortici di quella portata non siamo in grado di sistemarli a campione. La ragazza è condannata, ma non perché su di lei potrebbe cadere il solito mattone dal tetto. E più probabile che salti in aria una casa o che si scateni un'epidemia, o che su Mosca cada per caso la bomba atomica. Ecco qual è il guaio, Anton.

Il Capo si voltò di colpo, incenerì con lo sguardo la civetta. Lei ricompose in fretta le ali, e il lampo negli occhi di vetro si spense.

— Boris Ignat'evič… — dissi, in preda al terrore. — E colpa mia…

— È chiaro che è colpa tua. Solo una cosa ti salva, Anton. — Il Capo si schiarì la voce. — Cedendo alla compassione, hai agito in modo corretto. L'amuleto non poteva annullare del tutto il vortice malefico, ma ha allontanato temporaneamente il rischio di una catastrofe infernale. Ora abbiamo un vantaggio di ventiquattro… forse di quarantotto ore. Ho sempre ritenuto che azioni non premeditate ma positive producano un esito migliore di quelle premeditate ma crudeli. Se non avessi usato l'amuleto, ora tutta Mosca sarebbe sotto le macerie.

— Che possiamo fare?

— Cerchiamo la ragazza. Proteggiamola… compatibilmente con le nostre forze. Ce la faremo un'altra volta a destabilizzare il vortice malefico. E nel frattempo riusciremo a trovare il mago che ha scagliato la maledizione e a costringerlo ad annullare il vortice.

Annuii.

— Lo cercheranno tutti — disse il Capo in tono distratto. — Richiamerò i ragazzi dalle ferie, entro domattina arriveranno Il'ja e Semën da Sri Lanka ed entro l'ora di pranzo tutti gli altri.

— Entro domattina? — Guardai l'orologio. — Mancano ancora ventiquattr'ore.

— Ma no, entro stamattina — rispose il Capo, ignorando il sole di mezzogiorno dietro il vetro. — Lo cercherai anche tu. Forse avrai di nuovo fortuna… Continuiamo la disamina dei tuoi errori?

— Vale la pena perdere tempo? — chiesi io timidamente.

— Non temere, non stiamo perdendo tempo. — Il Capo si alzò, si avvicinò allo scaffale, tolse la civetta impagliata, la mise sulla scrivania. Da vicino era chiaro che si trattava proprio di una civetta impagliata, in lei non c'era più vita che in un collo di pelliccia… — Torniamo ai vampiri e alla loro vittima.

— Io ho lasciato andare la vampira. E i ragazzi non l'hanno presa — confermai in tono rammaricato.

— Non recriminare, ti sei battuto con onore lo stesso. La domanda riguardava la vittima.

— Sì, il ragazzo ha conservato la memoria. Ma se l'è data letteralmente a gambe…

— Anton, torna in te! Il ragazzo l'hanno agganciato col Richiamo a parecchi chilometri di distanza! Doveva entrare nell'androne come un automa! E quando il Crepuscolo fosse scomparso perdere i sensi! Anton, e se dopo tutto ciò che è avvenuto ha conservato la facoltà di muoversi, vuol dire che ha un magnifico potenziale magico! — Il Capo tacque.

— Sono uno scemo.

— No. Forse sei stato troppo tempo relegato in laboratorio. Anton, quel ragazzo potenzialmente è più forte di me!

— Questa poi…

— Su, lascia perdere la piaggeria…

Il telefono prese a squillare sulla scrivania. Doveva essere qualcosa di urgente: erano in pochi a conoscere il numero diretto del Capo. Io, per esempio, non lo conoscevo.

— Zitto! — intimò lui all'apparecchio che non aveva colpe. E l'apparecchio tacque. — Anton, dobbiamo ritrovare il ragazzino. La vampira che è fuggita di per sé non è pericolosa. Saranno i ragazzi a raggiungerla, oppure la catturerà una pattuglia ordinaria. Ma se succhierà il sangue del ragazzino o, peggio ancora, lo inizierà… Tu non sai cos'è un autentico vampiro. I nostri vampiri attuali sono come zanzare paragonate a Nosferatu. E lui non era neanche uno dei migliori, si dava pure delle arie… Insomma, il ragazzo dev'essere ritrovato e, se possibile, assunto nella Guardia. Non abbiamo diritto di lasciarlo alle Tenebre: l'equilibrio a Mosca crollerebbe definitivamente.

— È forse un ordine?

— Una licenza — precisò tetro il Capo. — Io, come ben sai, ho diritto di dare ordini del genere.

— Lo so — mormorai. — Da chi si comincia? Da lui, presumo.

— Fa' come ti pare. Forse, però, è meglio dalla ragazza. E cerca anche di ritrovare il ragazzino.

— Posso andare?

— Almeno dormi.

— Ho dormito benissimo, Boris Ignat'evič…

— Non credo. Ti consiglio di dormire almeno un'oretta.

Non ci capivo più niente. Mi ero alzato alle undici, mi ero precipitato subito in ufficio e mi sentivo in forma e pieno di energie.

— Eccoti un aiutante. — Il Capo toccò con il dito la civetta impagliata. L'uccello dispiegò le ali e prese a stridere.

Dopo aver deglutito, mi decisi a domandare: — Ma chi è? Che cos'è?

— E perché vuoi saperlo? — chiese il Capo, fissando gli occhi della civetta.

— Per decidere se voglio lavorare con lui!

La civetta mi guardò e cominciò a sibilare come un gatto infuriato.

— La domanda è posta male. — Il Capo scosse la testa. — Se acconsentirà lei a lavorare con te, ecco qual è la domanda.

La civetta ricominciò a stridere.

— Sì — disse il Capo, rivolgendosi all'uccello. — Per molti versi hai ragione, ma chi è stato a chiedere un nuovo appello?

L'uccello si placò.

— Prometto che intercederò. E questa volta ci sono delle possibilità.

— Boris Ignat'evič, la mia opinione è che… — attaccai.

— Scusami, Anton, ma la tua opinione non mi interessa… — Il Capo tese la mano, la civetta spostò maldestramente le zampe piumate e si sistemò sul palmo. — Tu non comprendi la tua fortuna.

Tacqui. Il Capo si avvicinò alla finestra, la spalancò e tese la mano. La civetta frullò le ali e volò giù in basso. E bravo l'uccello imbalsamato!

— Ma… dove…?

— Da te. Lavorerete in coppia… — Il Capo si grattò la radice del naso. — Già! Ricordati che si chiama Ol'ga.

— La civetta?

— Sì, la civetta. Le darai da mangiare, l'accudirai e tutto andrà bene. Ma ora… dormi ancora un po' e poi alzati. Dall'ufficio puoi anche non passare, aspetta Ol'ga e mettiti al lavoro. Controlla la linea circolare del metrò, per esempio…

— Come faccio a dormire… — cominciai. Ma il mondo tutt'intorno si offuscò, sbiadì e si dissolse. L'angolo del guanciale mi si era conficcato dolorosamente nella guancia.

Ero sdraiato nel mio letto.

Mi sentivo la testa pesante e gli occhi come fossero pieni di sabbia. La gola era secca e doleva.

— Ah… — mandai un gemito rauco, girandomi sulla schiena. I tendoni pesanti mi impedivano di capire se fosse ancora notte o giorno fatto. Guardai di sbieco l'orologio: le lancette luminose indicavano le otto.

Era la prima volta che avevo ottenuto udienza dal Capo in sogno.

Si trattava di un fatto sgradevole, in primo luogo per il Capo, cui era toccato irrompere nella mia coscienza.

Doveva proprio mancargli il tempo, se era stato costretto a continuare il mio addestramento nel mondo dei sogni. Ma era andata così… Che realtà! Non me l'aspettavo. La scelta dell'incarico, questa civetta idiota…

Sussultai: dall'esterno bussavano al vetro. In modo impercettibile ma insistente, con un rumore come di unghie. Giungevano delle strida soffocate.

Cosa aspettavo ancora?

Balzai in piedi, mi sistemai alla bell'e meglio le mutande e corsi alla finestra.

Uno scatto. Scostai le tende. Alzai le persiane.

La civetta era posata sul davanzale. Strizzava un poco gli occhi: dopotutto era l'alba e per lei c'era troppa luce. Dalla strada era difficile capire cosa fosse quell'uccello che si era posato sul davanzale del decimo piano. Ma se solo i vicini avessero dato un'occhiata fuori, sarebbero rimasti sbalorditi. Una civetta delle nevi nel centro di Mosca!

— Ma che diavolo è… — dissi piano.

Avrei voluto esprimermi in modo più colorito, ma mi avevano disabituato fin dall'inizio del mio impiego nella Guardia. O meglio: ero stato io a disabituarmi. Quando cominci a vedere una o due volte un vortice malefico sopra una persona contro cui hai imprecato, subito ti abitui a tenere a freno la lingua.

La civetta mi fissava. Attendeva.

E intorno strepitavano altri uccelli. Uno stormo di passeri, che si era posato su un albero poco distante, si abbandonava ad assordanti cinguettii. Le cornacchie erano più ardite: si erano posate sul balcone dei vicini, sugli alberi più prossimi. E gracchiavano, senza sosta, saltando di tanto in tanto giù dai rami e mulinando davanti alla finestra. L'istinto le avvertiva delle disgrazie che incombevano da quel vicino inatteso.

Ma la civetta non reagiva.

Avrebbe sputato sia sui passeri sia sulle cornacchie. Se solo avesse potuto, s'intende.

— Ma tu chi sei allora? — borbottai, aprendo la finestra e staccando le cornici incollate. Aveva reso un bel servizio il Capo al suo socio… alla sua socia…

Con un solo battito di ali la civetta entrò nella stanza, si posò sull'armadio guardaroba e socchiuse gli occhi. Era come se vivesse là da un secolo. Si era forse congelata lungo il tragitto? Ma no, era una civetta delle nevi…

Richiusi la finestra, riflettendo sul da farsi. Come sarei riuscito a comunicare con lei, a nutrirla, e come poteva, di grazia, questo pennuto essermi d'aiuto?

— Ti chiami Ol'ga? — chiesi, dopo aver concluso con la finestra. Dalle fessure filtrava aria, ma di questo ci saremmo occupati poi. — Ehi, uccello!

La civetta aprì un occhio. Mi ignorava, quasi quanto gli indaffarati passerotti.

A ogni istante mi sentivo sempre più a disagio. In primo luogo si trattava di un socio con cui era impossibile comunicare. E poi anche di una femmina!

Sia pure una civetta.

E se mi fossi infilato i pantaloni? Stavo lì con addosso solo le mutande sgualcite, con la barba lunga, insonnolito…

Sentendomi l'ultimo degli idioti, afferrai dei vestiti e uscii dalla stanza. La frase da me lanciata alla civetta mentre me ne andavo: «Mi scusi, torno tra un minuto» suonava come degno completamento di tutto l'insieme.

Se quest'uccellino era davvero ciò che pensavo, non dovevo avergli fatto la migliore delle impressioni.

Ciò che desideravo di più era farmi una doccia, ma non potevo permettermi di perdere così tanto tempo. Mi limitai a radermi e a infilare la testa che mi ronzava sotto il rubinetto dell'acqua fredda. Sulla mensola, tra lo shampoo e il deodorante, c'era anche dell'acqua di Colonia che di solito non usavo.

— Ol'ga? — chiamai, guardando nel corridoio.

La civetta era in cucina, sul frigorifero. Sembrava morta, era come un uccello imbalsamato, sistemato lì per divertimento. Quasi come sullo scaffale del Capo.

— Sei viva? — le chiesi.

Un occhio giallo ambra mi fissò tetro.

— D'accordo. — Allargai le braccia. — Ricominciamo dall'inizio, vuoi? So di non averti fatto la migliore delle impressioni. E ti dico francamente che per me è un fatto cronico.

La civetta ascoltava.

— Non so chi tu sia. — Dopo essermi accomodato sullo sgabello, mi sistemai davanti al frigorifero. — E non puoi neppure raccontarmelo… ma posso immaginarlo. Mi chiamo Anton. Cinque anni fa si scoprì che ero un Altro.

Il suono che mandò la civetta era simile a una risatina soffocata.

— Già — confermai. — Proprio cinque anni fa. È andata così. La mia barriera di separazione era molto elevata. Non volevo vedere il mondo del Crepuscolo. E non lo vedevo. Finché non fu il Capo a imbattersi in me.

Sembrava che per la civetta la cosa si facesse interessante.

— Lui si occupava dell'addestramento pratico. Addestrava gli operativi a scoprire i potenziali Altri occulti. E si imbatté in me… — Sogghignai, ripensandoci. — E naturalmente infranse la mia barriera. Poi tutto fu semplice… Frequentai il corso di adattamento e cominciai a lavorare nella sezione analitica… Così, senza troppi cambiamenti nella mia vita, diventai un Altro, quasi senza accorgermene. Il Capo non era contento, ma taceva. Il lavoro lo facevo bene… e lui non ha il diritto di immischiarsi nel resto. Ma una settimana fa è comparso un vampiro-maniaco. E io ho avuto l'incarico di neutralizzarlo. Forse perché tutti gli operativi erano occupati. In effetti perché scoprissi cos'è la guerra, e forse questo è giusto. E poi in una settimana sono morte tre persone. Un professionista avrebbe catturato quella coppietta nell'arco di ventiquattr'ore…

Mi sarebbe piaciuto davvero sapere che cosa pensava Ol'ga. Ma la civetta non emetteva alcun suono.

— Qual è la cosa più importante per mantenere l'equilibrio? — chiesi tuttavia. — Una promozione nella mia qualifica operativa o la vita di tre persone del tutto innocenti?

La civetta taceva.

— Non ho intercettato i vampiri coi soliti metodi previsti — proseguii comunque. — Sono dovuto entrare in contatto. Non mi sono messo a bere sangue umano. Me la sono cavata con quello di maiale. E tutti questi preparati… già, tu naturalmente li conosci…

Dopo aver accennato ai preparati mi alzai, aprii l'armadietto sopra la cucina a gas, presi un barattolo di vetro. Era rimasta un po' di polverina grumosa e marroncina sul fondo; consegnarla in amministrazione non aveva senso. Versai la polverina nel lavandino e feci scorrere l'acqua: nella cucina si diffuse un inebriante e obnubilante profumo. Risciacquai il barattolo e lo gettai nel secchio della spazzatura.

— Per poco non ho perso il controllo — osservai. — Nel più banale dei modi. Ieri mattina tornavo dalla caccia… e mi sono imbattuto nella mia vicina di casa, una ragazza… Non ho neppure osato salutarla, mi erano già spuntati i canini. E stanotte quando ho sentito il Richiamo diretto contro il ragazzino… per poco non mi sono unito ai vampiri.

La civetta mi fissò negli occhi.

— Pensi che sia per questo che il Capo mi ha incaricato? — Un uccello imbalsamato. Un pugno di piume, imbottito di ovatta. — Perché ti guardassi negli occhi?

Suonò il campanello. Trasalii, allargando le braccia: non c'era niente da fare, era colpa sua, qualunque interlocutore sarebbe stato meglio di questo noioso uccello. Accesi la luce, raggiunsi la porta e aprii.

Sulla soglia c'era un vampiro.

— Entra — gli dissi. — Entra, Kostja.

Indugiò sulla soglia e alla fine entrò. Si lisciò i capelli. Notai che aveva le mani sudate e lo sguardo sfuggente.

Kostja aveva solo diciassette anni. Era un vampiro dalla nascita, un comune, normale vampiro urbano. Una condizione molto sgradevole: i suoi genitori erano vampiri, e un bambino in quelle condizioni non aveva quasi nessuna possibilità di crescere come un essere umano.

— Ho riportato i CD — bofonchiò Kostja. — Eccoli.

Presi la pila di CD, senza neppure stupirmi che fossero così tanti. Di solito occorreva fare lunghe pressioni sul ragazzo per farglieli restituire: era maledettamente distratto.

— Li hai ascoltati tutti? — chiesi. — Li hai registrati?

— Hmm… be', io vado…

— Aspetta. — Lo afferrai per la spalla e lo spinsi dentro la stanza. — Che significa?

Taceva.

— Lo sai già? — gli chiesi, intuendo.

— Noi siamo in pochissimi, Anton. — Kostja mi guardò negli occhi. — Quando qualcuno finisce nel Crepuscolo, lo percepiamo subito.

— Già. Togliti le scarpe, andiamo in cucina e parliamone seriamente.

Kostja non obiettò. Immaginavo eccitato il da farsi. Cinque anni addietro, quando ero diventato un Altro e il mondo mi aveva rivelato il suo lato oscuro, mi attendeva una quantità di scoperte stupefacenti. Ma che proprio sopra di me abitasse una famiglia di vampiri fu una delle più scioccanti.

Lo rammento come fosse ieri. Tornavo dalle lezioni, quelle che mi ricordavano mio malgrado l'istituto che avevo da poco finito di frequentare. Tre lezioni di due ore l'una, un lettore, il caldo soffocante a causa del quale i camici bianchi si attaccavano al corpo; affittavamo un'aula dell'istituto di medicina. Tornando a casa mi trastullavo per strada, finendo ogni tanto nel Crepuscolo per un attimo (non ero ancora così esperto), oppure cominciavo a sondare i passanti. E sulla scala mi imbattei nei vicini.

Persone davvero carine. Volevo chiedere loro in prestito un trapano e il padre di Kostja, Gennadij, muratore di professione, venne da me e mi aiutò a cavarmela con le pareti di cemento, dimostrandomi concretamente come un intellettuale non possa sopravvivere senza l'aiuto di un proletario…

E di colpo capii che loro non erano esseri umani.

Fu terribile. La loro aura grigio-marrone, il senso di oppressione… Rimasi annichilito e li guardi con terrore. Polina, la madre di Kostja, aveva mutato leggermente espressione del viso, il ragazzino era rimasto immobile e si era voltato. E il capofamiglia mi si era avvicinato, scomparendo a ogni passo nel Crepuscolo, con quell'andatura aggraziata tipica dei vampiri che sono a un tempo vivi e morti. Il Crepuscolo è il loro habitat consueto.

— Salve, Anton — mi disse.

Il mondo intorno era grigio e morto. Io stesso non mi accorgevo di come, seguendolo, stessi affondando nel Crepuscolo.

— L'ho sempre saputo che una volta o l'altra avresti oltrepassato la barriera — continuò. — Va tutto bene.

Feci un passo indietro e Gennadij sussultò.

— Tutto in regola — disse. Si aprì la camicia e mostrò il timbro della licenza, un marchio azzurro sulla pelle grigia. — Siamo tutti in regola. Polina! Kostja!

Anche sua moglie aveva attraversato il Crepuscolo e si era sbottonata la camicetta. Il ragazzo non si muoveva, aspettava un cenno dal padre per mostrare anche lui il marchio.

— Devo controllare — mormorai. I miei passi erano incerti, per due volte incespicai e ricominciai da capo. Gennadij aspettava paziente. Il timbro mi diede la risposta che volevo. Si trattava di una registrazione senza scadenza, non c'era nessuna violazione della procedura…

— Tutto in regola? — chiese Gennadij. — Possiamo andare?

— Io…

— Va bene così. Lo sapevamo che prima o poi saresti diventato un Altro.

— Andate — dissi. Non era previsto dal regolamento, ma ora non avevo tempo di pensare alle regole.

— Sì… — Prima di uscire dal Crepuscolo, Gennadij indugiò. — Io sono stato ospite a casa tua… Anton, ti rinnovo l'invito a entrare…

Era tutto in regola.

Quando se ne furono andati mi sedetti su una panchina, accanto a una vecchia che si riscaldava al sole. Mi accesi una sigaretta, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. La vecchia mi fissò e disse: — Brava gente, vero, Arkašen'ka?

Ogni volta confondeva il mio nome. Le restavano ancora sì e no due o tre mesi di vita, lo vedevo con chiarezza.

— Non proprio… — risposi. Fumai tre sigarette e poi me la filai a casa. Mi trattenni un po' sulla soglia a osservare come svanivano le grigie tracce "da vampiro" rimaste. Mi avevano insegnato proprio quel giorno a vederle…

Fino a sera bighellonai. Sfogliai gli appunti che spiegavano quand'era il caso di passare nel Crepuscolo. Nel mondo ordinario questi quaderni sembravano completamente vuoti. Avrei voluto telefonare al coordinatore del mio gruppo oppure al Capo, alla cui tutela ero affidato. Ma sentivo di dover decidere da solo.

Quando arrivò il buio non mi trattenni più. Salii al piano di sopra e suonai. Venne ad aprirmi Kostja. Trasalii. Nella realtà, come anche la sua famiglia, sembrava perfettamente normale…

— Chiama i tuoi vecchi — gli dissi.

— Perché? — borbottò lui.

— Voglio invitarvi a bere un tè.

Gennadij si materializzò dietro le spalle del figlio, all'improvviso: era di gran lunga più dotato di me, che ero un neofita delle Forze della Luce.

— Sei sicuro, Anton? — chiese dubbioso. — Questo non è assolutamente previsto. È tutto in regola.

— Ne sono certo.

Tacque. Si strinse nelle spalle: — Verremo da te domani, se ti va bene. Non amareggiarti.

A mezzanotte ero fuori di me dalla gioia per il loro rifiuto. Verso le tre di notte cercai di addormentarmi, rassicurato dal fatto che non avrebbero mai trovato la strada di casa mia.

Verso mattina stavo in piedi davanti alla finestra, senza aver chiuso occhio, a contemplare la città. Di vampiri ce n'erano pochi. Pochissimi. Nel raggio di due, tre chilometri non ce n'era nessun altro.

Che significava essere rifiutati? Rifiutati non per aver commesso un delitto, ma per l'eventualità potenziale di commetterlo? E che vita poteva mai essere la loro… — anche se vita non era un'espressione del tutto appropriata — sempre sotto sorveglianza?

Tornando dalle lezioni, comprai un dolce per il tè.

Ed ecco qui Kostja, un ragazzo buono, intelligente, studente della facoltà di fisica, che aveva avuto la sfortuna di essere un morto vivente, seduto accanto a me, che faceva girare il cucchiaino nella zuccheriera. Da dove gli veniva tanta timidezza?

Da principio faceva un salto da me quasi ogni giorno. Io ero esattamente il suo opposto, combattevo dalla parte della Luce. Ma l'avevo ammesso a casa mia e con me non doveva nascondersi. Poteva chiacchierare, affondare nel Crepuscolo e vantarsi dei poteri che gli si erano rivelati. "Anton, lo sai?, sono riuscito a trasformarmi." "I miei canini hanno cominciato ad allungarsi, grrrr!"

E la cosa strana è che tutto ciò appariva normale. Io ridacchiavo osservando i tentativi del giovane vampiro di trasformarsi in pipistrello. Questo era un incarico che spettava a un vampiro di livello superiore quale lui non era, e se fosse dipeso dalla Luce non sarebbe mai diventato.

— Kostja, io mi sono limitato a eseguire il mio incarico.

— E hai fatto male.

— Avevano violato la legge. Capisci? Non è nostra procedura farli sparire. Non solo le Forze della Luce l'avevano accolto, ma anche tutti gli Altri. Questo ragazzo…

— Lo conoscevo — disse inaspettatamente Kostja. — Era uno allegro.

Che diavolo…

— Ha sofferto?

— No — scossi la testa. — Il marchio uccide lentamente.

Kostja trasalì, per un istante chinò gli occhi sul petto. Se attraversi il Crepuscolo, il marchio lo distingui anche attraverso i vestiti, altrimenti non riesci proprio a individuarlo. Voleva dire che non l'aveva attraversato. Ma come facevo io a sapere che cosa provano i vampiri?

— Che potevo fare? — chiesi. — Li uccideva. Uccideva persone che non avevano nessuna colpa. Completamente indifese dinanzi a lui. Aveva iniziato una ragazza… con brutalità, con violenza, una che non doveva affatto diventare una vampira. Ieri per poco non hanno finito un ragazzino. Così per gioco. Non per fame.

— Tu sai che significa per noi avere fame? — chiese Kostja, dopo una pausa di silenzio.

Eh, sta crescendo… Proprio sotto i nostri occhi…

— Sì… Ieri… per poco non diventavo un vampiro.

Calò per un attimo il silenzio.

— Lo so. L'avevo sentito… sperato.

Diavolo dell'inferno! Avevo intrapreso la mia caccia. E loro avevano cacciato me. O meglio, mi avevano teso un'imboscata, aspettando che il cacciatore si trasformasse in preda.

— No — dissi io. — Scusami tanto.

— Già, lui era colpevole — Kostja continuò. — Ma perché bisognava ucciderlo? Lo si doveva giudicare. Tribunali, avvocati, capi d'accusa, tutto secondo le regole…

— Non è previsto che gli umani vengano immischiati nelle nostre questioni! — ruggii io. E per la prima volta Kostja non reagì.

— Tu non sei stato umano per troppo tempo!

— E non me ne rammarico affatto!

— Perché l'hai ucciso?

— Perché altrimenti lui avrebbe ucciso me!

— Io l'avevo iniziato!

— Questo è anche peggio!

Kostja tacque. Allontanò il tè e si alzò. Il solito ragazzino impudente e moralista fanatico. Solo che era un vampiro.

— Vado…

— Aspetta un momento. — Mi mossi verso il frigorifero. — Prendilo. Mi hanno rifornito, ma non mi serve.

Tolsi delle ampolle da duecento grammi di sangue donato tra le bottiglie di acqua minerale Boržomi.

— Non occorre.

— Kostja, lo so che è un vostro eterno problema. A me non serve. Prendilo.

— Vuoi comprarmi? Cominciai a stizzirmi.

— Ma perché dovrei comprarti? Buttarlo via è stupido, tutto qui! È sangue. Donato da esseri umani per aiutare gli altri!

E allora Kostja sogghignò sinistramente. Allungò la mano, prese una delle ampolle, la stappò, togliendo con facilità e destrezza la capsula di latta. Si portò la boccetta alle labbra. Sogghignò di nuovo, tracannando un sorso.

Non avevo mai visto come si nutrivano. E non ci tenevo neppure.

— Smettila di fare il buffone — dissi.

Kostja aveva le labbra insanguinate. Un rivolo sottile di sangue gli scorreva lungo la guancia. Non solo scorreva, ma era come se venisse assorbito.

— Ti disgusta il modo in cui ci nutriamo?

— Sì.

— Allora anch'io ti disgusto? E tutti noi…?

Scossi la testa. Non sfioravamo mai questo argomento. Così era più facile.

— Kostja… per vivere tu hai bisogno di sangue. E di tanto in tanto anche di sangue umano.

— Noi in genere non viviamo.

— Dico così genericamente. Per muoverti, pensare, parlare, sognare…

— Che ne sai tu dei sogni dei vampiri?

— Ragazzo, al mondo c'è una quantità di persone che ha bisogno continuamente di versare del sangue. E non sono meno di voi. E poi ci sono casi estremi. Per questo esiste la donazione, per questo è un'opera meritoria e in continua espansione… Non sorridere. Conosco i vostri interventi meritori a favore del progresso della medicina e della diffusione della donazione. Kostja, se qualcuno per vivere… per esistere necessita di sangue, non è un male. E che vada a finire nelle vene o nello stomaco, anche questo è irrilevante. Il problema è come tu te lo procacci.

— Tutte parole. — Kostja ridacchiò. Mi sembrò che per un istante avesse attraversato il Crepuscolo per emergerne subito dopo. Sta crescendo, il ragazzo, sta crescendo. E in lui si sta manifestando una vera forza. — Ieri tu hai dimostrato qual è il tuo vero atteggiamento verso di noi.

— Ti sbagli…

— Ma smettila… — Allontanò la bottiglietta e poi, cambiando idea, la reclinò sul lavandino. — Non abbiamo bisogno delle tue…

Alle mie spalle si udì un verso. Mi voltai: la civetta, di cui mi ero del tutto dimenticato, girò la testa verso Kostja e dispiegò le ali.

Non avevo mai visto un'espressione simile sul viso del ragazzo.

— Ah… — fece. — Ah…

La civetta ripiegò le ali e chiuse gli occhi.

— Ol'ga, stiamo parlando! — ruggii. — Dacci un minuto…

L'uccello non reagì. Ma Kostja continuava a posare lo sguardo ora su di me ora sulla civetta. Poi sedette, con le mani intrecciate sui ginocchi.

— Che hai? — chiesi.

— Posso andare?

Non era solo stupito o spaventato, era scioccato.

— Va'. Ma prima prendi tutto…

Si affrettò a raccogliere le ampolle e a ficcarsele in tasca.

— Prendi un sacchetto, testa di legno! Non si sa mai, potrebbe esserci qualcuno sulle scale…

Il vampiro sistemò ubbidiente le ampolle nel sacchetto con la scritta: FACCIAMO RISORGERE LA CULTURA RUSSA! Sfiorando la civetta, uscì nel corridoio e s'infilò in tutta fretta le scarpe.

— Torna pure — gli dissi. — Io non sono tuo nemico. Finché non supererai il limite, non sarò tuo nemico.

Annuì e uscì come un razzo dall'appartamento.

Stringendomi nelle spalle, richiusi la porta. Tornai in cucina e fissai la civetta: — E allora? Che cosa è successo?

Dal suo sguardo giallo ambrato non trapelava nulla.

Allargai le braccia: — Come faremo a lavorare insieme? Come faremo a collaborare? Sei dotata di qualche strumento per comunicare? Mi sto confidando con te, mi senti? Ti sto parlando con franchezza!

Non avevo ancora attraversato completamente il Crepuscolo, mi ero proiettato solo col pensiero. Non si deve mai avere troppa fiducia negli sconosciuti, ma era poco probabile che il Capo mi avesse assegnato un'aiutante non affidabile.

Non vi fu risposta. Se anche poteva comunicare per via telepatica, Ol'ga certo non aveva intenzione di farlo.

— Che misure adottiamo? Bisogna cercare quella ragazzina. Ricevi l'immagine?

Non vi fu risposta. Dopo aver sospirato, lanciai a caso all'uccello un frammento della mia memoria.

La civetta dispiegò le ali e svolazzando venne a posarsi sulla mia spalla.

— Allora senti, eh? Ma non ti abbassi a dare una risposta. Va bene, se vuoi così. Che cosa devo fare?

Continuava il solito gioco del silenzio. Del resto, sapevo che cosa fare. Che non avessi nessuna speranza era un altro discorso.

— E come farò ad andarmene in giro per strada con te sulla spalla?

Uno sguardo beffardo, davvero beffardo. E l'uccello sulla spalla volò via nel Crepuscolo.

Allora le cose stavano così: era un osservatore invisibile. Non soltanto un osservatore: la reazione di Kostja alla civetta era stata più che emblematica. A quanto pare le Forze delle Tenebre conoscevano l'aiutante che mi era stata assegnata assai meglio di un qualunque agente della Luce.

— D'accordo — le dissi compiacente. — Mangia qualcosa, va bene?

Presi uno yogurt e mi versai un bicchiere di succo d'arancia. Il mio nutrimento dell'ultima settimana, ossia bistecche semicrude e succo di carne, quasi per niente distinguibile dal sangue vero e proprio, mi dava ormai la nausea.

— A te va del succo di carne, vero? La civetta si voltò.

— Be', come vuoi — le dissi. — Sono sicuro che non appena ti verrà fame troverai il modo di comunicare con me.

Capitolo 3

Mi piace camminare per la città al tramonto. Ma senza diventare invisibile, altrimenti rischi di essere investito a ogni istante. Così la gente si limita a trapassarti con lo sguardo senza notarti. Ma ora mi toccava lavorare allo scoperto.

Il giorno non fa per noi. Per quanto buffo, gli alleati della Luce lavorano di notte quando si attivano le Forze delle Tenebre. Non si può mai dire di che siano capaci le Forze delle Tenebre. I vampiri, i mutantropi. I maghi neri di giorno sono tenuti a vivere come comuni esseri umani.

Per la maggior parte, s'intende.

Ora camminavo avanti e indietro intorno alla stazione Tul'skaja. Come mi aveva consigliato il Capo, avevo perlustrato tutte le stazioni della linea circolare in cui avrebbe potuto scendere la ragazza con l'infernale vortice nero. Avrebbe dovuto lasciare una traccia, seppure debole, almeno distinguibile. Avevo deciso di setacciare i rami radiali.

Una stazione idiota, un quartiere idiota. Due uscite, dislocate a una discreta distanza l'una dall'altra. Il mercato, il pomposo grattacielo della polizia tributaria, l'immenso caseggiato. C'erano tante di quelle emanazioni oscure che individuare la traccia del vortice malefico era problematico.

Soprattutto se qui lei non si era fatta viva.

Perlustrai tutto, cercando di scovare l'aura della ragazza, spiando talora attraverso il Crepuscolo l'invisibile uccello, che aveva nidificato sulla mia spalla. La civetta sonnecchiava. Anche lei non percepiva nulla, e dire che ero persuaso che i suoi poteri fossero migliori dei miei nella ricerca.

Una volta i poliziotti mi controllarono i documenti. Per due volte venni importunato da alcuni giovani sciroccati che volevano darmi quasi gratis, per soli cinquanta dollari, un phon cinese, un giocattolino e un minuscolo telefonino coreano.

E qui persi il controllo. Scacciai il molesto venditore ed effettuai una rimoralizzazione. Lieve, nei limiti del consentito. Forse il ragazzo si sarebbe cercato un altro lavoro. O forse no…

Ma in quell'istante fui afferrato per i gomiti. Fino a un momento prima non c'era nessuno e ora dietro le mie spalle stava una coppietta. Una ragazza simpatica, robusta, dai capelli rossi e un ragazzo dal viso cupo.

— Tranquillo — disse la ragazza. Nella coppia era lei il capo, lo intuii all'istante. — Guardiano del Giorno.

Luce e Tenebre!

Mi strinsi nelle spalle e li fissai.

— Identificati! — intimò la ragazza.

Non aveva senso mentire, la mia aura era stata filmata già da un pezzo e individuare la mia identità era solo questione di tempo.

— Anton Gorodeckij.

Erano in attesa.

— Altro — ammisi. — Agente della Guardia della Notte. Allontanarono le mani dai miei gomiti. E addirittura arretrarono di un passo. Non sembravano affatto amareggiati.

— Andiamo nel Crepuscolo! — intimò il giovane.

Non dovevano essere vampiri. Anche questo era un bene. Si poteva confidare su una certa obiettività. Sospirai e passai da una realtà all'altra.

La prima sorpresa consisteva nella giovane età della coppia. La ragazza strega aveva all'incirca venticinque anni e lo stregone trenta, più o meno come me. Avevo pensato che all'occorrenza avrei potuto persino rammentarmi i loro nomi: alla fine degli anni Settanta di streghe e di stregoni ne erano nati pochi.

La seconda sorpresa fu l'assenza della civetta sulla mia spalla. O meglio, c'era: potevo sentirne gli artigli, potevo vederla, ma soltanto in un momento di particolare tensione. Era possibile che l'uccello avesse cambiato realtà insieme con me e si trovasse a un livello più profondo del Crepuscolo.

La faccenda era sempre più interessante.

— Guardiano del Giorno — ripeté la ragazza. — Alisa Donnikova, Altra.

— Pet'ka Nesterov, Altro — borbottò il ragazzo.

— Ci sono problemi?

La ragazza mi trapassava col suo sguardo "firmato" strega. A ogni secondo diventava sempre più simpatica e seducente. Certo io ero protetto da un intervento diretto, era impossibile farmi un incantesimo, ma la cosa era piuttosto d'effetto.

— Non siamo noi ad avere problemi. Anton Gorodeckij. lei ha avuto un contatto non regolare con un essere umano.

— Sì? E quale?

— Un'interferenza di settimo grado — ammise malvolentieri la strega. — Ma un fatto è un fatto. Inoltre l'ha spinto verso la Luce.

— Dobbiamo fare rapporto? — A un tratto trovai la situazione esilarante. Del settimo grado. Una sciocchezza. Era un'azione al limite tra la magia e la banale conversazione.

— Lo faremo.

— E che cosa scriviamo? Che un agente della Guardia della Notte ha stimolato leggermente nell'uomo la repulsione per la truffa?

— Violando così l'equilibrio stabilito — disse lo stregone, scandendo le parole.

— Ma no! E quale danno ne ricavano le Tenebre? Se il ragazzo smetterà di vivere di piccoli espedienti, la sua vita peggiorerà. Sarà più morale, ma più infelice. Secondo il testo del Patto sull'equilibrio delle forze questa non è da ritenersi una violazione dell'equilibrio.

— Un sofisma — buttò lì la ragazza. — Lei è un agente della Guardia. Ciò che si può perdonare a un comune Altro, nel suo caso è un atto illegale.

Aveva ragione, si trattava di una piccola violazione, eppure…

— Mi infastidiva. Quando effettuo una perlustrazione ho il diritto di ricorrere a un'interferenza magica.

— Era in servizio, Anton?

— E come mai di giorno?

— Ho un incarico speciale. Potete chiedere informazioni ai vostri superiori. O meglio, avete il diritto di chiedere informazioni ai vostri superiori.

La strega e lo stregone si scambiarono un'occhiata. Per quanto opposti fossero i nostri scopi e la nostra morale, i nostri uffici erano tenuti a collaborare.

E, per dirla tutta, nessuno ama immischiare i propri superiori.

— Ammettiamo, Anton — convenne malvolentieri la strega — che possa cavarsela con un'ammonizione verbale.

Mi guardai intorno. Nella nebbia grigia la gente camminava lentamente. Gente comune, incapace di uscire dal proprio piccolo mondo. Noi, invece, eravamo Altri, non importava che io fossi un alleato della Luce e loro, i miei interlocutori, alleati delle Tenebre. Con loro avevo molte più cose in comune che non con qualunque altro normale essere umano.

— A quale condizione?

Non si può giocare a rimpiattino con le Tenebre.

Le regole sono fatte per essere infrante. Non si può scendere a compromessi. E, cosa assai più rischiosa, accettare doni. Ma le regole sono fatte per essere violate.

— Nessuna.

Guardai Alisa, cercando di individuare l'insidia nelle sue parole. Pet'ka era visibilmente contrariato dal comportamento della socia, si era adirato, voleva smascherare l'adepto della Luce con le prove del suo crimine. Significava che si poteva anche non prenderlo in considerazione.

In che cosa consisteva la trappola?

— Per me è inaccettabile — dissi, scoprendo con sollievo l'insidia. — La ringrazio, Alisa, per l'offerta di accomodamento reciproco. Posso acconsentire, ma prometto in un'analoga situazione di perdonare anche a voi una leggera interferenza magica, inclusa una di settimo grado.

— Va bene, Altro — acconsentì subito Alisa. Tese la mano e io la strinsi. — L'accordo individuale è concluso.

La civetta sulla mia spalla frullò le ali. Le sue strida infuriate mi colpirono l'orecchio. E di lì a un istante l'uccello si materializzò nel Crepuscolo.

Alisa arretrò, le sue pupille divennero di colpo due fessure verticali. Il ragazzo stregone perse subito la sua sbarra di difesa.

— Accordo concluso! — ripeté minacciosa la strega.

Che era successo?

Avevo capito in ritardo che non si doveva trattare in presenza di Ol'ga. Anche se… Che c'era poi di così terribile in quel che era accaduto? Come se altri agenti della Guardia non avessero mai concluso alleanze simili anche in mia presenza, o non fossero mai scesi a compromessi, non avessero collaborato con le Forze delle Tenebre, compreso il Capo! Non è auspicabile, certo! Ma bisogna!

Il nostro scopo non è annientare le Forze delle Tenebre. Il nostro scopo è mantenere l'equilibrio. Le Tenebre scompariranno soltanto quando gli umani vinceranno dentro di sé il Male. E noi spariremo soltanto se gli umani preferiranno le Tenebre alla Luce.

— L'accordo è concluso — dissi alla civetta in tono maligno. — Accettalo. Si tratta di una sciocchezza. Una banale collaborazione.

Alisa sorrise, mi salutò con la mano. Prese lo stregone per il gomito e insieme si ritirarono. Ancora un istante e, uscendo dal Crepuscolo, avrebbero camminato lungo il marciapiede. Come una coppia qualunque.

— Perché ti agiti? — chiesi io. — Nel lavoro non si può fare a meno di compromessi!

— Hai commesso un errore.

La voce di Ol'ga era strana, non adeguata al suo aspetto esteriore. Morbida, vellutata, melodiosa. Così parlano i mutanti gatti, non gli uccelli.

— Bene, bene. Allora sai parlare…

— Sì.

— E come mai prima tacevi?

— Prima andava tutto bene.

— Esco dal Crepuscolo, d'accordo? E così tu intanto puoi spiegarmi in che cosa ho sbagliato. I piccoli compromessi con gli agenti delle Tenebre sono una parte inevitabile del nostro lavoro.

— Tu non hai una qualifica che ti consenta di fare dei compromessi.

Il mondo intorno ridiventò a colori. Questo accade di solito quando con la videocamera si vira dal seppia tipico del vecchio cinema alla normale pellicola. L'analogia era molto felice. Il Crepuscolo è un po' come il vecchio cinema. Vecchio, arcaico, rimosso dall'umanità perché la vita risulti più facile.

M'inabissai nel metrò, apostrofando la mia invisibile interlocutrice: — Che c'entra qui la qualifica?

— Un Guardiano di livello alto è in grado di prevedere le conseguenze di un compromesso e di sapere se si tratta di una concessione che si neutralizza reciprocamente o invece di una trappola da cui si ricaverà più perdita che guadagno.

— Non credo che un'interferenza di settimo grado ci arrecherà un danno!

Un uomo che mi passava accanto mi fissò stupito. Stavo già per indirizzargli una frase del tipo: "Sono uno psicopatico, ma sono innocuo." Una di quelle frasi che riescono sempre a placare la curiosità eccessiva. Ma l'uomo aveva già affrettato il passo, giungendo forse da solo alla stessa conclusione.

— Anton, tu non sei in grado di prevedere le conseguenze. Hai reagito a una situazione leggermente fastidiosa in modo inadeguato. Il tuo piccolo sortilegio ha provocato un'intromissione da parte degli agenti delle Forze delle Tenebre. Sei sceso a compromessi con loro. Ma la cosa più triste è che non c'era nessun bisogno di quella interferenza magica.

— Sì, sì, lo ammetto. E ora che cosa facciamo?

La voce dell'uccello si ravvivò, si colorì di intonazioni. Forse era rimasto troppo a lungo senza parlare.

— Ora non fare nulla. Speriamo bene per il futuro.

— Riferirai al Capo dell'accaduto?

— No. Per il momento no. Siamo soci, non è così?

Mi sentii riscaldare il cuore. Gli errori sono errori, ma per quel repentino miglioramento nei rapporti con la mia partner ne era valsa la pena.

— Grazie. Che cosa consigli?

— Fai tutto quello che si deve. Segui la traccia. Avrei preferito ricevere un consiglio più originale…

— Andiamo.

Verso le due, oltre alla linea circolare avevo già perlustrato anche tutta la linea grigia. Forse sarò un pessimo operativo, ma non poteva sfuggirmi la traccia che avevo già individuato il giorno prima. La ragazza col vortice infernale sopra la testa non doveva essere uscita di lì. Evidentemente occorreva ricominciare dal luogo in cui ci eravamo incontrati.

Alla stazione Kurskaja uscii dal metrò, comprai a un distributore una confezione di insalata e un bicchiere di caffè. Un'occhiata agli hamburger e ai wurstel mi fece venire la nausea, malgrado la quantità puramente simbolica di carne che contenevano.

— Vuoi qualcosa? — chiesi alla mia invisibile compagna di viaggio.

— No, grazie.

In piedi sotto il nevischio raspavo con la forchetta nell'insalata Olivier, sorseggiando caffè bollente. Un barbone, che evidentemente contava sul fatto che prendessi una birra e gli lasciassi la bottiglia vuota, mi scansò e se ne andò a scaldarsi nella metropolitana. La giovane venditrice serviva i passanti affamati, una folla di persone senza volto fluiva di stazione in stazione. Alla bancarella dei libri il rivenditore aveva rifilato con aria mesta un libro all'acquirente. Che si lagnava.

— Forse sono di cattivo umore… — borbottai.

— Perché?

— Vedo tutto in una luce cupa. La gente è una massa di idioti o bastardi, l'insalata è congelata, le scarpe umide.

L'uccello sulla mia spalla stridette beffardo.

— No, Anton. Non è un problema d'umore. Senti approssimarsi qualcosa d'infernale.

— Non mi sono mai distinto per la mia capacità di percezione.

— Ma guarda un po'!

Diedi un'occhiata alla stazione. Cercai di scrutare i volti. Qualcuno sembrava percepire qualcosa. Chi non era né del tutto essere umano, né del tutto Altro provava un senso di ansia, di oppressione, ma non potendo comprenderne le cause manteneva in apparenza un'aria serena e florida.

— Le Tenebre e la Luce… Che può succedere, Ol'ga?

— Di tutto. Tu hai allontanato la catastrofe, ma le conseguenze saranno semplicemente devastanti. È l'effetto del contenimento.

— Il Capo non me ne aveva parlato.

— Perché mai? Tu hai agito bene. Adesso almeno hai una chance.

— Ol'ga, quanti anni hai? — chiesi. Tra gli umani questa domanda avrebbe potuto apparire offensiva. Per noi l'età aveva un'importanza relativa.

— Tanti, Anton. Mi rammento, per esempio, dell'Insurrezione.

— Della Rivoluzione?

— Dell'Insurrezione sulla piazza del Senato. — La civetta fece un risolino. Io tacqui. Facile che Ol'ga fosse anche più vecchia del mio Capo.

— Che rango hai, socia?

— Nessuno. Sono stata privata di tutti i diritti.

— Scusa.

— Non fa nulla. Mi sono rassegnata da un pezzo.

Il suo tono restava energico, persino beffardo. Ma qualcosa mi diceva che Ol'ga non si era rassegnata affatto.

— Se non sono troppo importuno, perché ti hanno ficcato in questo corpo?

— Non c'era scelta. Sopravvivere nel corpo di un lupo è di gran lunga più complicato.

— Aspetta… — Gettai l'insalata avanzata nel cestino. Fissai la spalla, senza vedere, naturalmente, la civetta. Per questo occorreva andare nel Crepuscolo. — Chi sei tu? Se sei un mutantropo, perché stai con noi? E se invece sei un mago, perché hai ricevuto un castigo così strano?

— Questo esula del tutto dalla nostra questione, Anton. — Per un istante la sua voce fu percorsa da una pungente nota metallica. — Tutto cominciò dal fatto che scesi a compromessi con le Tenebre. Che feci con loro un piccolo accordo. Mi sembrava di aver valutato le conseguenze e invece mi sbagliavo.

Ah, era così…

— Per questo dunque ti sei messa a parlare? Avevi deciso di mettermi in guardia, però sei arrivata tardi…

Silenzio.

Era come se Ol'ga fosse pentita della propria sincerità.

— Continuiamo a lavorare — dissi. E in quel momento nella mia tasca trillò il telefono.

Era Larisa. Ma come, faceva due turni di seguito?

— Anton, attento… Hanno trovato le tracce della tua ragazza. Stazione Perovo.

— Cazzo! — mi limitai a dire. Lavorare nei quartieri dormitorio era un tormento.

— Già — concordò Larisa. Non aveva nessuna stoffa come operativo… perciò forse stava al centralino. Ma era una intelligente. — Anton, fiondati a Perovo. I nostri si sono concentrati tutti lì, seguono le tracce. E c'è dell'altro. Laggiù hanno rilevato un Guardiano del Giorno.

Non ci capivo più niente: possibile che le Forze delle Tenebre fossero già al corrente di tutto? E non vedessero l'ora che si scatenasse l'inferno? Non era un caso che mi avessero fermato…

Sciocchezze. Una catastrofe a Mosca non era nell'interesse delle Forze delle Tenebre. Per la verità, nemmeno si sarebbero presi la briga di fermare il vortice: era contro la loro natura.

Così evitai d'infilarmi nella metropolitana. Presi un'auto, il che avrebbe dovuto darmi un certo margine di vantaggio, anche se piccolo. Sedetti accanto al conducente, un intellettuale dal viso smunto e dal naso con la gobba, sui quaranta. La macchina era nuovissima e il conducente dava l'impressione di uno più che benestante. Era persino strano che arrotondasse dando passaggi.

… Perovo. Un quartiere sterminato. Folle di persone. La Luce e le Tenebre, tutto s'intrecciava in un unico groviglio. Una fila di locali che proiettavano aloni luminosi e oscuri da tutti i lati. Lavorare quaggiù era come cercare un granello di sabbia sul pavimento di una discoteca sovraffollata, sotto le luci stroboscopiche…

Vantaggi pochi per me, o meglio nessuno. Ma avevano ordinato di andare e bisognava andare. Forse mi avrebbero chiesto di eseguire un'identificazione.

— Chissà perché ero convinto che avremmo avuto fortuna — mormorai, guardando la strada lastricata. Superammo Losinyj ostrov, l'"Isola degli alci", anche questo un luogo poco gradevole, dove avvenivano i sabba delle Forze delle Tenebre. E non sempre nell'osservanza dei diritti degli umani. Per cinque notti l'anno eravamo tenuti a tollerare tutto.

— Anch'io lo credevo… — bisbigliò Ol'ga.

— Come faccio a competere con gli operativi? — Scossi la testa.

Il conducente mi guardò di sottecchi. Il tragitto doveva essergli andato a genio. Non dovetti trattare sul prezzo. Ma un essere umano che parla da solo fa sempre pensare a qualcosa di insano.

— Ho cannato una cosa… — comunicai con un sospiro al conducente. — O meglio: l'ho eseguita male. Credevo di concludere oggi il mio incarico e invece si sono arrangiati senza di me.

— E perché ha tanta fretta? — s'incuriosì lui. Non sembrava un tipo particolarmente loquace, ma le mie parole l'avevano interessato.

— Mi hanno ordinato di andare — spiegai.

Interessante: chissà per chi mi aveva preso…

— E di che si occupa?

— Sono un programmatore. — Era una risposta onesta, dopotutto.

— Strepitoso — osservò il conducente. Chissà che ci trovava di strepitoso… — E le basta per vivere?

La domanda era retorica, e lo dimostrava il fatto che non avevo preso il metrò. Ma comunque risposi: — Perfettamente.

— Non glielo chiedo tanto per dire — fece il conducente. — Il mio gestore del server sta per lasciare il lavoro…

«Il mio…» Però!

— Personalmente lo vedo come un segno del destino. Do un passaggio a uno che si rivela essere un programmatore. Mi pare che lei sia predestinato. — Scoppiò a ridere, come per attenuare quelle affermazioni troppo perentorie. — Lavora con le reti locali?

— Sì.

— Ho una rete a cui sono collegate una cinquantina di macchine. Bisogna tenerla in ordine. Paghiamo bene.

Senza volere accennai un sorriso. Un bell'affare. Una rete locale. Uno stipendio niente male. E nessuno che pretenda che tu dia la caccia di notte ai vampiri, che beva il sangue e fiuti le tracce nelle strade gelate…

— Le lascio il mio biglietto da visita? — L'uomo infilò la mano nella tasca della giacca. — Pensi un po'…

— No, grazie. Purtroppo non sono io a decidere se posso lasciare il mio lavoro.

— È forse del KGB? — chiese il conducente, adombrandosi.

— No, di un'organizzazione più seria — risposi io. — Di gran lunga più seria. Ma simile.

— Hmm, già… — L'uomo tacque. — Peccato. Avevo già pensato che fosse un segno del cielo. Tu credi nel destino?

Al "tu" era passato con leggerezza e disinvoltura. Questo mi piacque.

— No.

— Perché? — si stupì sinceramente il conducente, come se avesse sempre avuto a che fare con fatalisti.

— Il destino non esiste. È dimostrato.

— Da chi?

— Da noi al lavoro.

Scoppiò a ridere.

— Grande! Allora vuol dire che non era destino! Dove devo lasciarti?

Eravamo già sullo Zelënyj Prospekt.

Mi misi a scrutare intorno, passando dallo stadio della realtà ordinaria a quello del Crepuscolo. Non riuscivo a distinguere nulla, i miei poteri erano insufficienti. Ma percepii. Attraverso una nebbiolina grigia baluginò un mucchio di lucine fioche. Come se tutto l'ufficio si fosse radunato lì…

— Eccoli…

Ora, trovandomi nella realtà ordinaria, non potevo scorgere i colleghi. Calpestavo la grigia neve di città in direzione del giardino tra i caseggiati e il viale sommerso da montagne di neve. Rari alberelli gelati, sequenze di orme che parevano quelle di ragazzini che avessero ruzzolato sulla neve o di ubriachi in cerca di una scorciatoia.

— Fa' un segno con la mano, ti hanno visto — mi suggerì Ol'ga.

Riflettei un po' e seguii il suo consiglio. Pensassero pure che sapevo benissimo passare con la vista da uno stadio di realtà a un altro.

Dopo essermi guardato intorno soprattutto per rispettare la procedura, creai il Crepuscolo e vi entrai.

C'era l'intero ufficio al completo. Tutta la sezione di Mosca.

Al centro stava Boris Ignat'evič. Vestito leggero, con un berrettino di pelo, ma chissà perché con la sciarpa. Lo vidi scendere dalla sua BMW, marcato stretto dalle guardie del corpo.

Accanto a lui c'erano gli operativi. Igor' e Garik: due perfetti guerrieri. Musi di pietra, spalle squadrate, facce ottuse e impenetrabili. Si capiva subito: avevano alle spalle otto classi, l'istituto e le squadre speciali di polizia. Nel caso di Igor' era vero alla lettera. Garik aveva invece due lauree. Malgrado la somiglianza esteriore e il comportamento pressoché identico nella sostanza, differivano decisamente. Il'ja sembrava un intellettuale raffinato, ma era difficile che qualcuno si lasciasse ingannare dagli occhiali dalla montatura sottile, dalla fronte alta e dallo sguardo innocente. Semën era un tipo esaltato: basso, tarchiato, con lo sguardo scaltro, indossava una logora giacca di nylon. Un provinciale giunto nella capitale. Per di più negli anni Sessanta, da uno dei tanti colcos modello. Erano agli antipodi. In compenso ciò che li accomunava era una splendida abbronzatura e un'espressione mesta del viso. Erano stati strappati dallo Sri Lanka nel bel mezzo delle ferie e non sembravano affatto godersela nella Mosca invernale. Ignat, Danila e Farid non c'erano, anche se potevo ancora sentire le loro tracce fresche. In compenso dietro le spalle del Capo stavano, senza mimetizzarsi affatto, ma quasi indistinguibili a una prima occhiata, i mutantropi Orso e Tigrotto. Quando li notai, mi sentii a disagio. Non erano dei semplici guerrieri. Erano dei grandissimi guerrieri. Non li convocavano per cose da poco.

E di specialisti l'ufficio ne aveva parecchi.

Nella sezione analitica ce n'erano cinque. Nel gruppo scientifico erano tutti specialisti, salvo Julja che però aveva solo tredici anni. Nell'archivio non ce n'erano e non se ne sentiva il bisogno.

— Salve! — dissi.

Uno accennò un saluto, qualcun altro sorrise. Ma ora erano altre le mie preoccupazioni. Boris Ignat'evič mi ordinò con un gesto di avvicinarmi, dopodiché proseguì il discorso che aveva evidentemente interrotto: — … non è nel loro interesse. E questo ci rallegra. Non ci daranno nessun aiuto… e va bene, è magnifico…

Era chiaro. Parlavano dei Guardiani del Giorno.

— Possiamo rintracciare la ragazza senza essere ostacolati e Danila e Farid ce l'hanno quasi fatta. Credo che sia questione di cinque-sei minuti… Eppure ci è stato inviato un ultimatum.

Afferrai lo sguardo di Tigrotto. Oh, il suo sorriso non faceva sperare nulla di buono… Era di sesso femminile. Tigrotto era in realtà una ragazza, ma il soprannome "Tigre" era decisamente inadatto a lei.

I nostri operativi non amavano quella parola, "ultimatum"!

— Il mago nero non è dei nostri. — Il Capo avvolse tutti nel suo sguardo annoiato. — Chiaro? Dobbiamo trovarlo per neutralizzare il vortice malefico. Dopodiché lo consegneremo alle Forze delle Tenebre.

— Lo consegneremo? — sottolineò incuriosito Il'ja.

Il Capo rifletté per un istante.

— Già, è giusto sottolinearlo. Noi non lo elimineremo e non gli impediremo di mettersi in contatto con le Forze delle Tenebre. Da quanto ho capito, neppure loro sanno chi è.

I volti degli operativi s'inacidirono. Qualunque mago nero nel territorio controllato era per noi una bella seccatura. Fosse pure registrato e rispettasse il Patto. Un mago di tale forza poi…

— Avrei preferito un'altra evoluzione degli eventi — disse Tigrotto in tono soave. — Boris Ignat'evič, durante lo svolgimento del nostro incarico potrebbero verificarsi delle situazioni indipendenti dalla nostra volontà…

— Temo che non si possano consentire situazioni simili — tagliò corto il Capo, che così, d'istinto, senza intenzione alcuna, simpatizzava per Tigrotto. Ma la ragazza subito tacque.

Anch'io avrei taciuto.

— Direi che è tutto… — Il Capo mi fissò. — È bene che tu sia venuto, Anton. Intendevo proprio parlarne in tua presenza…

Senza volere, mi irrigidii.

— Ieri ti sei comportato in modo corretto. Già, per la verità ti avevo incaricato di cercare i vampiri al solo scopo di sorvegliarli. Non è soltanto per le tue doti operative, Anton… è che ormai da un pezzo la tua situazione si è fatta complicata. Per te uccidere un vampiro è molto più difficile che per chiunque di noi.

— Sbaglia a pensarla così, Capo — dissi.

— Sono felice di sbagliarmi. Accetta la riconoscenza di tutti i Guardiani della Notte. Hai ucciso un vampiro e hai eliminato la traccia della vampira. E una traccia molto marcata. La tua esperienza nel lavoro d'indagine resta inadeguata. Persino con questa ragazza. La situazione era fuori norma, ma tu hai fatto una scelta umana… e così hai perso tempo. E l'impronta dell'aura era straordinaria. Ho capito fin dal primo istante dove cercarla.

Ero sconvolto. Nessuno che sorridesse, sogghignasse o mi fissasse con un sorrisetto maligno. Eppure mi sentivo umiliato. La civetta bianca, che nessuno vedeva, sussultò sulla mia spalla. Inspirai l'aria del Crepuscolo, fresca, inodore, un'aria che non era aria. Chiesi: — Boris Ignat'evič, per quale motivo mi ha dirottato sulla linea circolare, se già sapeva qual era il quartiere giusto?

— Potevo sempre sbagliarmi — replicò lui con una nota di stupore. — E poi te lo ripeto… quando si esegue un lavoro d'indagine è meglio non fidarsi dell'opinione del superiore più alto in grado. In guerra si è sempre soli.

— Ma io non ero solo — dissi piano. — E per la mia partner questo incarico è estremamente importante, lei lo sa meglio di me. Mandandoci a controllare dei quartieri che già si sapeva che erano vuoti… lei l'ha privata della sua occasione di riabilitarsi.

Il volto del Capo era di pietra: non trapelava nulla se lui non lo voleva.

— Il vostro incarico non è ancora concluso — replicò. — Anton, Ol'ga… resta ancora la vampira che deve essere neutralizzata. Qui nessuno ha il diritto di turbare il vostro lavoro: lei ha violato l'accordo. E poi c'è il ragazzo che ha mostrato una straordinaria resistenza alla magia. Occorre ritrovarlo e convogliare la sua forza a favore della Luce. Al lavoro!

— E la ragazza?

— È già stata localizzata. Gli specialisti cercheranno di neutralizzare il vortice. Se non si riuscirà, e sarà così, allora scopriremo chi ha lanciato la maledizione. Ignat, è compito tuo!

Mi voltai: Ignat era già accanto a lui. Alto, prestante, un bel giovane biondo, con la figura di un Apollo e il viso da star del cinema. Si muoveva senza farsi notare anche se questo nella realtà ordinaria non lo salvava dall'attenzione pressante che gli tributava il gentil sesso. Del tutto eccessiva.

— Non rientra nella mia qualifica — disse cupo Ignat. — Non è che sia il mio orientamento preferito!

— Con chi dormire lo sceglierai quando non sei in servizio — tagliò corto il Capo. — Ma in servizio decido io per te su tutto. Persino su quando andare al gabinetto.

Ignat si strinse nelle spalle. Mi guardò, come in cerca di solidarietà, e bofonchiò: — È una discriminazione…

— Qui non sei negli Stati Uniti — ripeté il Capo, e la sua voce si fece insidiosamente gentile. — Sì, certo si tratta di una discriminazione, è sfruttamento di un dipendente nella violazione delle sue esigenze personali.

— E non potrei averlo io questo incarico? — chiese timidamente Garik.

L'atmosfera si surriscaldò. Che Garik nelle questioni amorose fosse un fiasco totale non era un segreto per nessuno. Qualcuno scoppiò a ridere.

— Igor', Garik, voi continuerete a cercare la vampira — disse il Capo, quasi avesse preso sul serio la proposta. — Lei ha bisogno di sangue. L'hanno fermata proprio all'ultimo momento, ora sta impazzendo per la fame e per l'eccitazione. Aspettatevi una vittima da un momento all'altro! Anton, tu e Ol'ga cercate il ragazzino.

Tutto chiaro.

Di nuovo l'incarico più insignificante e più inutile.

In città si preparava una catastrofe infernale, in città c'era una giovane, selvaggia, affamata vampira! E io dovevo cercare un ragazzino dotato di notevoli poteri magici…

— Abbiamo la sua autorizzazione?

— Sì, certo. — Il Capo aveva ignorato la mia timida mossa.

Ruotai su me stesso e, in segno di protesta, uscii dal Crepuscolo. Il mondo sussultò, riempiendosi di colori e di suoni. Spuntai come un pezzo di idiota in mezzo a un giardinetto. A un osservatore esterno sarebbe apparso oltremodo strano. Le tracce erano sparite… e io me ne stavo in piedi su un monticello di neve, con intorno una distesa intatta.

È così che nascono i miti. Dalla nostra imprudenza, dai nostri nervi spezzati, da scherzi malriusciti e gesti esemplari.

— Niente di che — dissi, e avanzai con noncuranza verso il viale.

— Grazie… — mormorò una voce sommessa e tenera al mio orecchio.

— Di che, Ol'ga?

— Di esserti ricordato di me.

— Per te è davvero così importante eseguire l'incarico?

— Molto importante — rispose l'uccello dopo una breve pausa.

— Allora dovremo darci parecchio da fare.

Saltando sui monticelli di neve e sulle pietre — doveva esserci stato un ghiacciaio lì, oppure qualcuno aveva giocato a tirare le pietre in giardino — mi diressi verso il viale.

— Hai del cognac? — chiese Ol'ga.

— Del cognac? Sì, ce l'ho.

— Buono?

— Cattivo non può essere, se è vero cognac.

La civetta ridacchiò. — Inviteresti allora una signora a bere del caffè e del cognac?

Già m'immaginavo una civetta che beve dal piattino il cognac e per poco non mi sbellicai dal ridere.

— Con piacere. Andiamo in taxi?

— Lei vuole scherzare, ragazzo! — replicò all'istante Ol'ga.

Già. Ma quando era stata intrappolata in quel corpo d'uccello? E questo non le impediva di leggere i libri?

— Esiste una cosa che si chiama televisore — bisbigliò l'uccello.

Tenebre e Luce! Ero certo che i miei pensieri fossero al sicuro!

— La telepatia più dozzinale può sostituire perfettamente un'esperienza di vita… anche una profonda esperienza di vita — proseguì maliziosa Ol'ga. — Anton, i tuoi pensieri sono imperscrutabili per me. E dopotutto sei il mio partner.

— Ma io sono così in generale… — Feci un gesto con la mano. Era sciocco negare l'evidenza. — E che facciamo col ragazzino? Ce ne infischiamo dell'incarico? Non è affatto serio…

— È serissimo! — replicò Ol'ga contrariata. — Anton, il Capo ha ammesso di essersi comportato in modo scorretto. Ed è stato indulgente con noi, conviene approfittarne. La vampira ha puntato il ragazzo, capisci? Per lei è come un panino che non ha finito di addentare, che le è stato tolto di bocca. Lui è appeso a un filo. Lei ora ha il potere di attirarlo in qualunque tana in qualunque angolo della città. Ma questo è un vantaggio anche per noi. Non c'è bisogno di cercare una tigre nella giungla quando si può legare un capretto in un campo.

— A Mosca questi capretti…

— Questo ragazzo è appeso a un filo. La vampira non ha esperienza. Stabilire un contatto con una nuova vittima è più difficile che non attirarne una vecchia. Credimi.

Sussultai, scacciando un sospetto idiota. Sollevai la mano per fermare un'auto e dissi cupo: — Ti credo. Ti credo ora e per sempre.

Capitolo 4

La civetta uscì dal Crepuscolo subito dopo di me. Spiccò il volo — per un istante percepii la lieve puntura dei suoi artigli — e si diresse verso il frigorifero.

— Devo sistemarti un trespolo? — chiesi, chiudendo a chiave la porta.

Vidi Ol'ga parlare per la prima volta. Il becco sussultava, mentre lei tirava fuori con uno sforzo evidente le parole. A dire il vero non capisco come un uccello possa essere in grado di parlare. Tanto più con voce umana.

— Non è il caso, altrimenti comincerò a deporre le uova.

Era chiaro che tentava di scherzare.

— Se ti ho offesa, perdonami — le dissi per ogni eventualità. — Sto cercando anch'io di vincere l'imbarazzo.

— Capisco. È naturale.

Ficcai la testa nel frigorifero e scovai qualcosa per uno spuntino. Formaggio, salame, cetriolini e funghi sotto sale… Chissà se si accompagnava bene il cetriolino sotto sale a un cognac invecchiato di quarant'anni. Forse avrebbero avvertito un reciproco senso di disagio. Lo stesso che avvertivo io con Ol'ga.

Presi il formaggio e il salame.

— Scusa, ma non ci sono limoni. — Comprendevo tutta l'assurdità di quella preparazione, eppure… — Però il cognac è buono.

La civetta taceva.

Dal cassetto scostato sotto il bar presi una bottiglia di Kutuzov.

— L'hai mai provato?

— È la nostra risposta al Napoleon? — La civetta fece una risatina. — No, non l'ho mai provato.

L'assurdità di quella situazione aumentava. Sciacquai due bicchieri da cognac e li posai sul tavolo. Fissai dubbioso quel pugno di penne bianche. E il becco corto, ricurvo.

— Non puoi bere dal bicchiere. Vuoi che ti porti un piattino?

— Voltati.

Ubbidii. Udii alle mie spalle un fruscio di penne. Poi un sibilo leggero, sgradevole, che rammentava il frusciare di una serpe o una fuoriuscita di gas da una bombola.

— Ol'ga, scusa, ma… — Mi voltai.

La civetta era sparita.

Già, mi aspettavo qualcosa del genere. Avevo sperato che potesse assumere sembianze femminili almeno di tanto in tanto. E mi ero figurato mentalmente un ritratto di Ol'ga, la donna prigioniera nel corpo di uccello che ancora rammentava l'insurrezione decabrista. Chissà perché me l'immaginavo come la principessina Lopuchina in fuga dal ballo. Solo un po' più vecchia, più seria, con lo sguardo pieno di saggezza e un po' emaciata…

Sullo sgabello sedeva una donna giovane, giovanissima. Che non dimostrava più di venticinque anni. Con i capelli tagliati cortissimi, da maschio, le guance nere di fumo, come fosse scampata a un incendio. Bella, i tratti del viso fini, aristocratici. Ma quella pelle che sembrava bruciata, quella pettinatura rozza, mostruosa…

I suoi abiti mi scioccarono del tutto. Sudici pantaloni militari degli anni Quaranta, giacca di ovatta imbottita aperta e, sotto, una maglietta grigia da ginnastica. Piedi nudi.

— Sono bella? — chiese la donna.

— Ebbene sì — risposi io. — La Luce e le Tenebre… Perché hai quest'aspetto?

— L'ultima volta che ho assunto sembianze umane risale a cinquantacinque anni fa.

Annuii.

— Capisco, ti hanno utilizzata quando c'era la guerra?

— Mi utilizzano con tutte le guerre. — Ol'ga sorrise gentilmente. — Quando le guerre sono gravi. Altrimenti mi è proibito assumere sembianze umane.

— Ma ora non c'è nessuna guerra.

— Vorrà dire che ci sarà.

Questa volta non sorrise. Cercai di allontanare quella maledizione con un segno.

— Vuoi fare una doccia?

— Volentieri.

— Non ho abiti femminili. Un paio di jeans e una camicia ti vanno bene?

Annuì. Si alzò goffamente, tenendo in modo buffo le braccia e si fissò stupita i piedi nudi. Se ne andò nel bagno, come se non fosse la prima volta che faceva una doccia da me.

Mi fiondai nella camera da letto. Non doveva avere molto tempo.

I jeans erano vecchi, ma erano di una misura in meno rispetto a quelli che portavo adesso. Le sarebbero andati comunque grandi… E la camicia? No, meglio un maglioncino leggero. La biancheria… Eh, sì… come no, come no.

— Anton!

Feci una pila dei vestiti, agguantai un asciugamano pulito e tornai a razzo. La porta del bagno era aperta.

— Che rubinetti che hai…

— Sono d'importazione… Sto arrivando.

Entrai. Ol'ga stava nella vasca da bagno, con la schiena voltata verso di me e girava assorta la maniglia del rubinetto ora a destra ora a sinistra.

— Verso l'alto — le dissi. — Alzala, a sinistra scende acqua fredda, a destra calda.

— Chiaro, grazie.

Non provava il minimo imbarazzo per la mia presenza. Era comprensibile, se si pensava alla sua età e al suo rango… insomma, al rango che aveva avuto.

Ma io mi sentivo confuso. E per questo diventai cinico.

— Eccoti i vestiti. Forse troverai qualcosa che fa al caso tuo. Sempre se ne hai bisogno, naturalmente.

— Grazie, Anton… — Ol'ga mi fissò. — Non farci caso. Sono stata per ottant'anni dentro un corpo d'uccello. E ho trascorso la maggior parte del tempo in letargo, ma ora ne ho abbastanza.

Aveva occhi profondi, magnetici. Pericolosi.

— Ormai non mi sento più né un essere umano, né un Altro, né una donna. E neppure una civetta. Solo… una vecchia, abominevole idiota asessuata che qualche volta è in grado di parlare.

L'acqua della doccia la colpì. Ol'ga sollevò lentamente le braccia, si rigirò con piacere sotto i getti scroscianti.

— Togliermi questa fuliggine di dosso per me è molto più importante che… turbare un simpatico giovane.

Dopo aver incassato il "giovane", senza ulteriori polemiche, uscii dal bagno. Scossi la testa, presi il cognac e stappai la bottiglia.

Almeno una cosa era chiara: lei non era un mutantropo. Un mutantropo non avrebbe tenuto sul corpo dei vestiti. Ol'ga era una maga. Una maga, una donna di circa duecento anni, che ottant'anni fa era stata punita con la privazione del corpo. Era una specialista in scambi magnetici, l'ultima volta che era stata reclutata per una missione risaliva a cinquant'anni prima…

C'erano dati sufficienti per una ricerca nei computer della base. Non avevo accesso a tutti i file, non avevo il grado. Ma, per fortuna, i superiori non potevano neppure immaginare quante informazioni si ottenevano da una ricerca incrociata.

Naturalmente, se avessi davvero voluto scoprire l'identità di Ol'ga.

Versato il cognac nei bicchieri, mi misi in attesa. Ol'ga uscì dal bagno cinque minuti dopo, asciugandosi i capelli con la salvietta. Indossava i miei jeans e il mio maglione.

Non si può dire che si fosse trasformata del tutto… però era diventata più gradevole.

— Grazie, Anton. Non puoi immaginare con che piacere…

— Lo immagino.

— Immaginare non basta. L'odore, Anton… l'odore di bruciato. Io mi sono quasi abituata dopo mezzo secolo. — Ol'ga sedette goffamente sullo sgabello. Sospirò. — È brutto, ma sono felice dell'attuale crisi. Non importa che sia perdonata, purché abbia la possibilità di lavarmi…

— Puoi rimanere con queste sembianze? Esco a comprarti degli abiti adatti.

— Non è il caso. Ho solo mezz'ora al giorno.

Appallottolato l'asciugamano, Ol'ga lo gettò sul davanzale. Sospirò: — Potrei anche non riuscire a lavarmi la prossima volta. E neppure a bere il cognac… Alla tua salute, Anton!

— Alla tua!

Il cognac era buono, lo sorseggiai con piacere, malgrado la totale confusione nella mia testa. Ol'ga lo bevve d'un fiato, corrugò la fronte, ma commentò con cortesia: — Non è male.

— Perché il Capo non ti permette di assumere sembianze normali?

— Non è in suo potere.

Era chiaro. La punizione non arrivava dall'ufficio distrettuale, ma dai vertici superiori.

— Ti auguro buona fortuna, Ol'ga. Qualunque azione tu abbia commesso, sono certo che la tua colpa è già stata espiata da un pezzo.

La donna si strinse nelle spalle.

— Vorrei crederlo. Capisco che posso suscitare compassione, ma il castigo era giusto. Del resto… parliamone seriamente.

— Parliamone.

Ol'ga si allungò attraverso il tavolo verso di me. Disse con un misterioso sussurro: — Te lo dico con franchezza: mi sono stufata. Ho nervi saldi, ma così non si può vivere. La mia unica chance è quella di compiere una missione talmente importante che ai capi non resti altra via d'uscita che perdonarmi.

— E dove la troviamo una missione simile?

— L'abbiamo già. E consiste di tre tappe: proteggiamo il ragazzino e lo facciamo diventare un alleato delle Forze della Luce. La vampira la eliminiamo.

Ol'ga aveva un tono sicuro di sé e a un tratto le credetti. Proteggeremo lui ed elimineremo lei. Senza problemi.

— Solo che si tratta di inezie, Anton. A te un'azione simile consentirà di salire di grado, ma io non verrò salvata. L'importante è la ragazza col vortice malefico.

— Di lei si stanno già occupando, Ol'ga. Io… noi siamo stati esclusi dall'incarico.

— Non importa. Non se la caveranno da soli.

— Davvero? — chiesi con ironia.

— Non se la caveranno. Boris Ignat'evič è un mago potente. Ma in altri campi. — Ol'ga socchiuse gli occhi beffardamente. — E io è tutta la vita che mi occupo di catastrofi infernali.

— Ecco che cosa c'entrava la guerra! — esclamai.

— Naturalmente. Simili esplosioni d'odio in tempo di pace non avvengono. Quel bastardo di Adolf… ne aveva di seguaci, eppure l'avrebbero fatto fuori già nel primo anno di guerra. Insieme a tutta la Germania. Quella di Stalin era una situazione diversa: era circondato da un'adorazione abnorme… uno scudo potente. Anton, io sono una semplice donna russa… — un fugace sorriso sottolineò ciò che Ol'ga intendeva con la parola "semplice" — e ho trascorso tutta l'ultima guerra a proteggere i nemici del mio paese dalle maledizioni. Anche solo per questo mi meriterei il perdono, non credi?

— Sì, lo credo. — Avevo la sensazione che si fosse sbronzata.

— Un lavoro fetente… a tutti noi capita di dover andare contro la natura umana, ma giungere fino a tal punto… È così, Anton. Loro… non se la caveranno. Io… posso provarci. Anche se non ne ho la completa certezza.

— Ol'ga, se è una cosa così seria, devi fare rapporto…

La donna scosse la testa, aggiustandosi i capelli bagnati: — Non posso. Mi è proibito comunicare con chiunque, eccetto che con Boris Ignat'evič e il mio partner nell'incarico. A lui ho già detto tutto. Ora posso solo aspettare. E sperare di riuscire a cavarmela all'ultimo minuto.

— E il Capo non lo capisce questo?

— Al contrario, penso che lo capisca.

— E allora… — mormorai.

— Siamo stati amanti. Per molto tempo. E per di più siamo anche amici, il che succede assai di rado… E quindi, Anton, oggi risolviamo la questione del ragazzino e della vampira psicopatica. E domani aspetteremo. Aspetteremo finché non ci sarà una catastrofe infernale. Sei d'accordo?

— Devo riflettere, Ol'ga.

— Perfetto, pensaci. È ora, voltati.

Non feci in tempo. Forse non era stata colpa di Ol'ga. Non aveva calcolato bene il tempo che le era concesso.

Fu uno spettacolo disgustoso. Ol'ga prese a tremare, s'inarcò. Il corpo fu scosso da un'onda sussultoria: le ossa si piegarono, come fossero di gomma. La pelle cadde, mettendo a nudo i muscoli irrorati di sangue. Di lì a un istante la donna si trasformò in un ammasso di carne sgualcita, in una sfera informe. E la sfera si rattrappiva sempre di più, coprendosi di morbide piume bianche.

La civetta delle nevi spiccò il volo dallo sgabello con un grido un po' uccellesco e un po' umano. Si fiondò verso il suo posto prediletto sul frigorifero.

— Diavolo! — gridai, dimenticando ogni regola e insegnamento. — Ol'ga!

— Bello, eh? — La voce della donna era ansimante, ancora provata dal dolore.

— Perché, perché deve succedere proprio così?

— Fa parte del castigo, Anton.

Allungai la mano e sfiorai l'ala dispiegata e tremante.

— Ol'ga, sono d'accordo con te: risolviamo la questione del ragazzino e della vampira.

— Allora al lavoro, Anton!

Annuendo, uscii nel corridoio. Spalancai l'armadio con l'equipaggiamento, entrai nel Crepuscolo perché altrimenti non avrei visto nulla se non abiti e vecchia paccottiglia.

Un corpicino leggero si posò sulla mia spalla: — Che cos'hai?

— Ho esaurito l'amuleto di onice. Puoi ricaricarlo?

— No. mi hanno privato di quasi tutti i poteri. Mi è rimasto solo quello che serve per neutralizzare l'inferno. E anche la memoria, Anton… mi rimane ancora la memoria. Come pensi di uccidere la vampira?

— Non è registrata — dissi io. — Ho solo dei rimedi popolari.

La civetta ridacchiò.

— Il paletto di frassino si usa ancora?

— Io non ce l'ho.

— Capisco. E per via dei tuoi amici, vero?

— Sì. Non voglio che si spaventino, varcando la soglia.

— E allora che cosa usiamo?

Da un nascondiglio scavato tra i mattoni presi una pistola. Mi piegai sulla civetta. Ol'ga studiò attentamente l'arma.

— L'argento? Per i vampiri è molto nocivo, ma non letale.

— Dentro ci sono proiettili deflagranti. — Estrassi il caricatore dalla Desert Eagle. — Proiettili d'argento deflagranti. Calibro 044. Bastano tre colpi e si riempie di buchi, e il vampiro non è più in grado di reagire.

— E poi?

— Rimedi popolari.

— Non credo nella tecnica — mi fece eco Ol'ga. — Ho visto un lupo mannaro riprendersi dopo che era stato fatto a pezzi da una carica.

— E si è ripreso in fretta?

— Dopo tre giorni.

— E io che sto dicendo?

— D'accordo, Anton. Se non ti fidi dei miei poteri…

Era contrariata, lo capivo. Ma io non sono un operativo. Io sono un dipendente del quartier generale.

— Andrà tutto bene — la rassicurai. — Credimi. Su, concentriamoci sulla ricerca dell'esca.

— Andiamo.

— Ecco, è accaduto tutto qui — riferii a Ol'ga. Stavamo nell'androne. Naturalmente nel Crepuscolo.

Di tanto in tanto passava qualcuno, che cercava comicamente di scansarmi, sebbene fossi invisibile.

— Qui tu hai ucciso il vampiro. — Il tono di Ol'ga era molto professionale. — Già… Capisco, amico mio. Hai eliminato nel modo sbagliato i rifiuti… Ma non fa nulla…

Ai miei occhi non restava più alcuna traccia del vampiro defunto. Ma non stetti a discutere.

— Qui c'era una vampira… e tu l'hai colpita… no, hai fatto schizzare della vodka… — Ol'ga scoppiò a ridere piano. — Lei se n'è andata… I nostri operativi stanno perdendo smalto. La traccia è evidente anche adesso!

— Si è trasformata — dissi cupo.

— In un pipistrello?

— Sì, Garik ha detto che c'è riuscita all'ultimo momento.

— Male. La vampira è più forte di quanto sperassi.

— Ma non è selvatica. Beveva sangue vivo e uccideva. Non ha esperienza, ma di forza ne ha a bizzeffe…

— La elimineremo — disse in tono perentorio Ol'ga.

Continuavo a tacere.

— Ah, ecco qui la traccia del ragazzino. — La voce di Ol'ga si addolcì. — Però… ha un ottimo potenziale. Andiamo a vedere dove vive.

Uscimmo dall'androne, ci incamminammo lungo il marciapiede. Il cortile era grande, circondato da case da tutti i lati. Percepivo anch'io l'aura del ragazzino, anche se debole e confusa: doveva passare di qui regolarmente.

— Avanti — ordinò Ol'ga. — Gira a sinistra. Diritto. A destra. Alt…

Mi arrestai davanti a una via lungo la quale avanzava lento un tram. Dal Crepuscolo non ero ancora uscito.

— In questa casa — comunicò Ol'ga. — Avanti. Lui si trova là.

Era un casermone mostruoso. Piatto, altissimo. Sembrava poggiare su delle zampe e a una prima occhiata ricordava un gigantesco monumento a una scatola di fiammiferi. Alla seconda, un'esibizione patologica di megalomania.

— In una casa così si può uccidere — dissi — o impazzire.

— Occupiamoci di tutte e due le questioni — propose Ol'ga. — Sai, ho una grande esperienza in queste cose.

Egor non voleva uscire di casa. Quando i genitori erano andati al lavoro e la porta si era richiusa di colpo, lui subito si era sentito in preda alla paura. E sapeva che oltre i confini del suo appartamento vuoto quella paura si sarebbe trasformata in autentico terrore.

Non aveva scampo. In nessun luogo e in nessun modo. Ma la casa creava almeno un'illusione di sicurezza.

Il mondo si era spezzato, il mondo era crollato la notte prima. Egor aveva sempre ammesso onestamente, sebbene non davanti a tutti ma solo con se stesso, di non essere coraggioso. Del resto non era neppure un vigliacco. Vi erano cose delle quali si poteva e si doveva avere paura: teppisti, maniaci, terroristi, catastrofi, incendi, guerre, malattie incurabili. Ma si poteva fare di tutta un'erba un fascio e soprattutto erano pericoli lontani. Esistevano, erano reali, ma fuori della vita di tutti i giorni. Bastava rispettare le regole essenziali: non girare di notte, non introdursi in quartieri che non si conoscevano, lavarsi le mani prima di mangiare, non saltare sui binari. Sì, si poteva aver timore delle disgrazie, ma si capiva anche che le possibilità di rimanere inguaiati erano scarse.

Ora tutto era cambiato.

C'erano fenomeni ai quali era impossibile sfuggire. Fenomeni che non esistono e non possono esistere al mondo.

Esistevano i vampiri.

Rammentava distintamente — il terrore non l'aveva privato della memoria — ciò su cui aveva confidato ieri mentre correva a casa e, contro le sue abitudini, aveva attraversato la strada senza guardarsi intorno. E nutriva la timida speranza che al mattino ciò che aveva veduto in sogno non si avverasse.

Era la verità. Una verità impossibile. Ma…

Era accaduto ieri. Era accaduto a lui.

Era rincasato tardi, d'accordo, ma gli succedeva di tornare anche più tardi. Persino i suoi genitori, che secondo la ferma convinzione di Egor ancora non accettavano che lui avesse quasi tredici anni, erano tranquilli su questo punto.

Quando era uscito dalla piscina con gli altri ragazzi… erano già le dieci. Tutti insieme si erano infrattati da McDonald's e si erano fermati là una ventina di minuti. Di solito dopo l'allenamento chi poteva permetterselo andava da Mac. Poi… poi avevano raggiunto tutti insieme il metrò. Non era lontano. La strada illuminata. In sette o otto.

Allora era ancora tutto normale.

Nel metrò chissà perché aveva cominciato a sentirsi inquieto. Aveva guardato l'orologio e scrutato la gente intorno. Non c'era niente di sospetto.

Ma Egor aveva udito quella musica.

E aveva avuto inizio quel qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.

Aveva svoltato chissà perché nell'androne buio e maleodorante. Gli erano venuti incontro una ragazza e un ragazzo che erano lì ad aspettarlo. Che l'avevano stregato. E lui stesso aveva porto il collo alle labbra sottili, taglienti, non umane della ragazza.

Persino ora che era a casa, da solo, Egor avvertiva un brivido gelido, dolce, seducente corrergli lungo la pelle e solleticarlo. Ne provava desiderio! Aveva paura, ma desiderava accostarsi a quei canini risplendenti, a quel dolore momentaneo, dopo il quale, dopo il quale… dopo il quale qualcosa sarebbe probabilmente avvenuto…

E nessuno in tutto il mondo poteva aiutarlo. Egor non aveva dimenticato lo sguardo di quella donna che portava a passeggio il cane. Quello sguardo che l'aveva trapassato, sospettoso ma nient'affatto indifferente. Non si era spaventata, solo non aveva visto ciò che stava avvenendo… A salvare Egor era stata solo l'apparizione del terzo vampiro. Quel ragazzo pallido col walkman che non l'aveva mollato fin dal metrò. Si erano buttati su di lui come lupi affamati su un cervo catturato ma non ancora ucciso.

E a quel punto tutto si confondeva: era accaduto troppo in fretta. Le urla su una certa Guardia e su un certo Crepuscolo. Un lampo di luce blu e un vampiro aveva cominciato a dissolversi sotto i suoi occhi, come al cinema. Il combattimento della vampira cui avevano schizzato qualcosa sul volto.

E la corsa in preda al panico…

La comprensione graduale, terribile, sempre più terribile di ciò che era accaduto: non poteva raccontare nulla a nessuno. Nessuno l'avrebbe creduto. Capito.

I vampiri non esistono!

Non si può attraversare con lo sguardo le persone senza vederle!

Nessuno brucia nel vortice di un fuoco blu, trasformandosi in mummia, in scheletro, in un pugno di cenere!

"Non è vero" pensò Egor. — Sì che si può. Succede!

Quasi non riusciva a credere a se stesso…

Non era andato a scuola, ma in compenso aveva rassettato l'appartamento. Aveva voglia di fare qualcosa. Parecchie volte si era avvicinato alla finestra e aveva scrutato nel cortile.

Nulla di sospetto.

Ma sarebbe stato in grado di vederli?

Sarebbero venuti. Egor non ne aveva dubitato neppure un secondo. Lo sapevano che lui non li aveva dimenticati. L'avrebbero ucciso come testimone.

E non si sarebbero limitati a ucciderlo! Avrebbero bevuto il suo sangue e l'avrebbero trasformato in un vampiro.

Il ragazzo si avvicinò alla libreria dove metà dei ripiani era occupata dalle videocassette. Forse poteva trovare consiglio. Dracula, morto e contento… No, è una commedia. Amore all'ultimo morso. Tutte sciocchezze… La notte dei morti viventi. Egor trasalì. Questo film se lo ricordava. E ormai non rischiava più nulla a rivederlo. Com'è che dicevano nel film? «La croce ti aiuta se hai fede…»

Ma come poteva aiutarlo la croce se lui non era neppure battezzato? E se non credeva neppure in Dio? Non ci aveva mai creduto.

Ora, forse, avrebbe dovuto…

Se esistono i vampiri, allora vuol dire che esiste anche il diavolo; se esiste il diavolo, allora esiste anche Dio?

Se esistono i vampiri, allora esiste anche Dio?

Se esiste il Male, allora esiste anche il Bene?

— Non esiste nulla — disse Egor. Ficcò le mani nelle tasche dei jeans e andò in corridoio. Si guardò allo specchio. Forse aveva l'aria un po' troppo cupa, ma era esattamente un ragazzo come tanti altri. Voleva dire che per ora era tutto normale. Non avevano fatto in tempo a morderlo.

A ogni modo girò su se stesso, cercando di esaminarsi la nuca. No, non c'era nulla. Nessuna traccia. Il collo era inagrissimo e non proprio pulito…

L'idea gli era venuta all'improvviso. Egor si fiondò in cucina, spaventando il gatto che si era acciambellato sulla lavatrice. Prese a rovistare tra i sacchetti con le patate, le cipolle e le carote.

Eccolo. L'aglio.

Dopo averne pulito in fretta una testa, Egor si mise a masticarla. L'aglio era cattivo, e lui aveva la bocca in fiamme. Si versò un bicchiere di tè. Non lo aiutò più di tanto: la lingua bruciava, le gengive gli pizzicavano. Eppure avrebbe dovuto aiutarlo, no?

Il gatto lanciò un'occhiata in cucina. Fissò perplesso il ragazzo, miagolò deluso e si allontanò. Non capiva come si potesse mangiare una simile porcheria. Egor sputò nel palmo della mano e prese a spalmarsi la saliva sul collo. Anche a lui sembrava ridicolo, ma ormai non poteva più fermarsi.

Anche il collo cominciava a pizzicargli. Ottimo aglio. Qualunque vampiro sarebbe crepato al solo sentirne l'odore.

Il gatto si mise a strillare nell'anticamera. Egor si allarmò e sbirciò fuori dalla cucina. Niente. La porta era chiusa a tre mandate e con la catenella.

— Non urlare, Gresik! — intimò al gatto. — Altrimenti do l'aglio pure a te.

Valutata la minaccia, il gatto fuggì nella stanza da letto dei genitori.

Che cosa poteva fare ancora? L'argento, a quanto pare, aiutava. Spaventando una seconda volta il gatto, Egor entrò nella camera da letto e aprì l'armadio guardaroba. Sotto le lenzuola e gli asciugamani trovò una scatolina dove la mamma teneva i gioielli. Tolse una catenina d'argento e se la mise al collo. Avrebbe puzzato d'aglio e in ogni caso se la sarebbe dovuto togliere prima di sera. Era il caso che svuotasse il salvadanaio e si comprasse una catenina con la croce? E la portasse senza mai toglierla? Poteva dire che credeva in Dio. Succede: uno prima non credeva e poi all'improvviso crede!

Passò nel salotto e sedette sul divano allungando le gambe, gettando uno sguardo pensieroso tutt'attorno. Ce l'avevano in casa un ramo di frassino? In teoria no. E come era fatto un ramo di frassino? E se fosse andato all'orto botanico e si fosse ricavato un pugnale da un ramo?

Sarebbe andato benissimo, naturalmente. Ma l'avrebbe aiutato? E se di nuovo fosse risuonata quella musica… quella musica sommessa, irresistibile…? Si sarebbe strappato la catenina, avrebbe spezzato il pugnale e si sarebbe lavato il collo spalmato d'aglio?

Una musica sommessa, una musica sommessa… Nemici invisibili. Forse erano già lì accanto. Solo che lui non li vedeva. Non era in grado di vederli. E il vampiro sedeva lì e sogghignava, fissando quell'ingenuo ragazzo pronto a difendersi. E non gli faceva paura il ramo di frassino, né lo spaventava l'aglio. Come combattere un nemico invisibile?

— Gresik! — chiamò Egor. Il gatto non rispose, aveva un carattere difficile. — Vieni qui, Gresik!

Il gatto stava sulla soglia della camera da letto. Il pelo era ritto, gli occhi fiammeggianti. Fissava un punto oltre Egor, in direzione della poltrona dove stava il tavolino delle riviste. La poltrona era vuota…

Il ragazzo sentì corrergli lungo il corpo il solito brivido gelido. Fece un tale scatto che dal divano finì sul pavimento. L'appartamento era vuoto e chiuso a chiave. Intorno si era fatto buio, come se dietro la finestra il sole si fosse oscurato…

Lì accanto c'era qualcuno.

— No! — gridò Egor, strisciando via. — Lo so, lo so che ci siete!

Il gatto mandò un grido rauco e si precipitò sotto il letto.

— Ti vedo! — gridò Egor. — Non toccarmi!

Il portone anche così era tetro e parecchio sudicio. Ma, a guardarlo dal Crepuscolo, pareva una vera catacomba. Le pareti di cemento, che nella realtà ordinaria erano soltanto sporche, nel Crepuscolo sembravano coperte da un muschio grigio. Uno schifo. Si vedeva che qui non c'era un Altro a ripulire la casa… Passai il palmo della mano su un grumo particolarmente spesso, e il muschio si mosse allontanandosi dal calore.

— Brucia! — intimai.

Non amavo i parassiti. Anche quando non erano nocivi e si limitavano a succhiare le emozioni altrui. La teoria secondo cui ingenti colonie di muschio blu possono scuotere la psiche umana provocando stati depressivi o euforici non è stata ancora dimostrata. Ma io ho sempre preferito cautelarmi.

— Brucia! — ripetei, convogliando sul palmo della mano un po' di forza.

La fiamma, diafana e ardente, avvolse l'arruffata lanugine blu. Di lì a un istante bruciava tutto il portone. Indietreggiai verso l'ascensore, pigiai il pulsante ed entrai nella cabina. Era più pulita.

— Ottavo piano — suggerì Ol'ga. — Perché sprechi le forze?

— Piccolezze…

— Potresti avere bisogno di tutte quelle che possiedi. Lascia che cresca.

Tacqui. L'ascensore continuava a salire lentamente. Era l'ascensore del Crepuscolo, una copia identica a quello che stava a pianterreno.

— Come ben sai — dichiarò Ol'ga — la giovinezza… l'incapacità di scendere a compromessi…

Le porte si spalancarono. All'ottavo piano il fuoco era già spento, il muschio blu era cenere. Faceva caldo, più caldo di quanto facesse di solito nel Crepuscolo. C'era un leggero sentore di bruciato.

— La porta è questa… — disse Ol'ga.

— Lo vedo.

In effetti avevo percepito l'aura del ragazzo davanti alla porta. Non aveva neppure osato uscire di casa quel giorno. Magnifico. Stava lì legato alla fune come un capretto in attesa della tigre.

— Penso che entrerò — decisi. E spinsi la porta.

Non si aprì.

Impossibile!

Nella realtà le porte possono essere chiuse con i chiavistelli. Il Crepuscolo invece ha le sue leggi. Solo i vampiri hanno bisogno di essere invitati per entrare in casa d'altri, è il loro pedaggio per le energie in eccesso e per il loro approccio gastronomico agli esseri umani.

Per chiudere a chiave una porta nel Crepuscolo, si deve quanto meno essere in grado di entrarvi.

— La paura — disse Ol'ga. — Ieri il ragazzino era terrorizzato. È appena stato nel mondo del Crepuscolo. Ha chiuso dietro di sé la porta… e, senza rendersene conto, l'ha fatto in tutti e due i mondi.

— E che cosa facciamo?

— Entra più in profondità. Seguimi.

Mi guardai la spalla. Non c'era nessuno. Creare il Crepuscolo, quando ci si trova nel Crepuscolo, non è un gioco da ragazzi. Sollevai la mia ombra da terra parecchie volte prima che acquisisse volume e cominciasse a ondeggiare al contrario.

— Su, su che ce la fai — mormorò Ol'ga.

Entrai nell'ombra e il Crepuscolo si infittì. Lo spazio si riempì di una nebbia fitta. I colori si dissolsero. L'unico suono rimasto era il battito del mio cuore, greve e lento, rimbombante come quello di un tamburo percosso dal fondo di un burrone. Il vento sibilava, l'aria s'insinuava nei polmoni, spianando lentamente i bronchi. Sulla mia spalla apparve la civetta bianca.

— Non resisterò a lungo qui — mormorai, aprendo la porta.

Sotto i miei piedi sfrecciò un gatto grigio scuro. Per i gatti non esistono il mondo ordinario e quello del Crepuscolo, essi vivono contemporaneamente in tutti i mondi. Che bello che non siano dotati di ragione!

— Micio, micio! — bisbigliai. — Non aver paura, micino…

Più che altro per sperimentare le mie forze, chiusi a chiave la porta dietro di me. Ecco qua, ragazzo, ora sei molto più al sicuro. Ma ti servirà quando sentirai il Richiamo?

— Esci — disse Ol'ga. — Stai perdendo molto in fretta le forze. A questo livello di Crepuscolo fa fatica anche un mago esperto. Uscirò anch'io più su.

Con sollievo toccai la superficie. Già, io non sono un operativo, in grado di vagabondare per le tre fasce del Crepuscolo. E poi non ho neppure bisogno di farlo.

Il mondo si fece un po' più luminoso. Mi guardai intorno: l'appartamento era accogliente e non particolarmente profanato dalle emanazioni del mondo del Crepuscolo. Qualche strato di muschio blu davanti alla porta… Non era terribile, sarebbe crepato da solo, dato che la colonia principale era stata annientata. Si udirono anche dei rumori dalla cucina. Diedi un'occhiata.

Il ragazzino stava accanto al tavolo e mangiava aglio, bevendo tè bollente.

— Luce e Tenebre… — mormorai.

Ora il ragazzino sembrava ancora più piccolo e più indifeso di ieri. Goffo, magro, anche se non si poteva dire gracile: si vedeva che faceva sport. Portava jeans azzurri scoloriti e maglietta blu.

— Povero — dissi.

— Molto commovente — concordò Ol'ga. — Diffondere quelle voci sulle proprietà magiche dell'aglio è stata una bella mossa per i vampiri. Dicono che sia stato Bram Stoker a inventarle…

— L'aglio è utile — dissi.

— Sì, e protegge dai virus dell'influenza — aggiunse Ol'ga. — Come muore in fretta la verità, come è tenace invece la menzogna… Ma il ragazzo è davvero forte. Un nuovo operativo non guasterebbe alla Guardia del Giorno.

— Ma lui è dei nostri?

— Per il momento non è di nessuno. Il suo destino non è ancora formato, lo vedi anche tu.

— E quali sono le sue inclinazioni?

— Non si capisce. Per ora non si capisce. È troppo spaventato. Ora è pronto a fare qualunque cosa pur di salvarsi dai vampiri. È pronto a diventare un agente delle Tenebre o anche un agente della Luce.

— Non posso giudicarlo per questo.

— Certo. Andiamo.

La civetta spiccò il volo verso il corridoio. Io seguii le tracce. Ora andavamo tre volte più veloce degli esseri umani: uno dei tratti distintivi del Crepuscolo era il mutamento del corso del tempo.

— Aspetteremo qui — ordinò Ol'ga, comparendo in salotto. — Ci sono luce, calore, comfort.

Io sedetti in una soffice poltrona accanto al tavolino. Gettai un'occhiata al giornale, abbandonato lì sopra.

Non c'è nulla di più allegro che leggere la stampa attraverso il Crepuscolo.

CROLLANO I PROFITTI DEI CREDITI recitava il titolo a caratteri cubitali.

Nella realtà la frase appariva del tutto diversa: "Nel Caucaso cresce la tensione".

Adesso si poteva prendere il giornale e leggere la verità. Quella autentica. Leggere ciò che pensava davvero il giornalista che aveva abborracciato l'articolo sul tema commissionatogli. Quelle briciole d'informazione che aveva avuto da fonti non ufficiali. La verità sulla vita e la verità sulla morte.

Ma perché?

Da un pezzo ormai avevo imparato a infischiarmene del mondo degli esseri umani. Quel mondo era stato il nostro fondamento. La nostra culla. Ma noi eravamo Altri. Passavamo attraverso porte chiuse e tutelavamo l'equilibrio tra Bene e Male. Noi eravamo pochi e non eravamo in grado di moltiplicarci… La figlia di un mago non diventava necessariamente una maga, il figlio di un lupo mannaro non imparava necessariamente a trasformarsi nelle notti di luna piena.

Noi non siamo tenuti ad amare il mondo ordinario.

Noi lo tuteliamo solo perché viviamo grazie a esso come parassiti.

Detesto i parassiti!

— A cosa stai pensando? — chiese Ol'ga. In salotto comparve il ragazzino. Si precipitò in camera da letto, rendendosi conto di essere nel mondo ordinario. Prese a rovistare nell'armadio.

— Mah, niente. Sono triste.

— Succede. I primi anni succede a tutti. — La voce di Ol'ga era del tutto umana. — Poi ci farai l'abitudine.

— Per questo mi rattristo.

— Dovresti rallegrarti che siamo ancora vivi. All'inizio del secolo il popolo degli Altri raggiunse il suo minimo storico. Sai che si discusse allora dell'unificazione tra le Forze delle Tenebre e le Forze della Luce? Che si elaborarono dei programmi eugenetici?

— Sì, lo so.

— Per poco la scienza non ci uccise. Non credevano in noi, non volevano credere in noi. Fintanto che si è ritenuto che la scienza potesse migliorare il mondo.

Il ragazzo tornò in salotto. Sedette sul divano, si aggiustò sul collo la catenina d'argento.

— Che c'è di meglio? — chiesi io. — Siamo stati originati dagli uomini. Abbiamo imparato a muoverci nel Crepuscolo, a mutare la nostra natura di cose e persone. Che cosa è cambiato, Ol'ga?

— Che i vampiri almeno non vanno a caccia senza licenza.

— Dillo a un essere umano a cui hanno succhiato il sangue…

Sulla soglia comparve il gatto. Ci fissò, cacciò un urlo, guardando adirato la civetta.

— È una reazione a te — dissi. — Ol'ga, penetra più profondamente nel Crepuscolo.

— Ormai è tardi — rispose lei. — Scusa… avevo smesso di vigilare…

Il ragazzo balzò su dal divano. Nel modo più rapido possibile consentito nel mondo degli umani. Goffamente — ancora non capiva che cosa gli stesse accadendo — entrò nella sua ombra e cadde sul tappeto, fissandomi. Ormai nel Crepuscolo.

— Me ne vado… — bisbigliò la civetta, svanendo. Mi conficcò dolorosamente gli artigli nella spalla.

— No! — si mise a gridare il ragazzo. — Lo so, lo so che ci siete!

Mi alzai, allargando le braccia.

— Ti vedo! Non toccarmi!

Era nel Crepuscolo. Tutto qui. Era accaduto. Senza aiuto, senza corsi né attività stimolatrici, senza la guida di un mago tutor, il ragazzino aveva varcato la barriera tra il mondo ordinario e il mondo crepuscolare.

Ciò che vedi, ciò che senti la prima volta che entri nel Crepuscolo dipende per la gran parte da ciò che diventerai.

Agente delle Tenebre o agente della Luce.

"Non abbiamo il diritto di assegnarlo alle Forze delle Tenebre, l'equilibrio di Mosca s'infrangerebbe definitivamente."

Ragazzo, sei proprio al limite estremo.

E questo fa più paura di una vampira inesperta.

Boris Ignat'evič ha il diritto di deciderne l'eliminazione.

— Non temere — dissi io, senza muovermi dal mio posto. — Non temere. Sono un amico, non ti farò del male.

Il ragazzino strisciò in un angolo e si zittì. Non distoglieva lo sguardo da me ed era evidente che non aveva capito di trovarsi nel Crepuscolo. Per lui nella stanza si era fatto semplicemente buio, era calato il silenzio e dal nulla ero apparso io…

— Non temere — ripetei. — Mi chiamo Anton. E tu come ti chiami?

Taceva. A tratti deglutiva. Poi strinse la mano al collo, tastò la catenina e parve calmarsi un poco.

— Non sono un vampiro — gli dissi.

— Chi è lei? — Il ragazzino gridava. Meno male che nella realtà ordinaria questo grido penetrante non si poteva udire.

— Anton. Agente della Guardia della Notte.

Sbarrò gli occhi, come per il dolore.

— Il mio compito consiste nel proteggere gli esseri umani dai vampiri e da altre forze impure.

— Non è vero…

— Perché?

Si strinse nelle spalle. Era un bene. Cercava di valutare le sue azioni, di argomentare la sua opinione. Significava che la paura non l'aveva del tutto privato della capacità di ragionare.

— Come ti chiami? — ripetei. Si poteva intervenire sul ragazzino per togliergli la paura. Ma sarebbe stata un'interferenza magica e quindi proibita.

— Egor…

— Un bel nome. E io mi chiamo Anton. Capisci? Sono Anton Sergeevič Gorodeckij. Agente della Guardia della Notte. Ieri ho ucciso il vampiro che aveva cercato di aggredirti.

— Solo lui?

Magnifico. Si cominciava a dialogare.

— Sì, la vampira se n'è andata. Ora la stanno cercando. Non temere, sono qui per proteggerti… per annientare la vampira.

— Perché tutt'intorno è grigio? — chiese a un tratto il ragazzo.

Bravo! Davvero bravo!

— Te lo spiegherò. Solo, voglio precisare, io non sono tuo nemico. Va bene?

— Vedremo.

Si aggrappava alla sua assurda catenina come se avesse potuto salvarlo. Ragazzo, ragazzo, se fosse tutto così facile a questo mondo! Non ti salveranno né l'argento, né il ramo di frassino, né la croce benedetta. La vita si contrappone alla morte, l'amore all'odio… e la forza si contrappone alla forza, perché la forza non ha categorie morali. È tutto molto semplice. Ci ho messo due o tre anni a capirlo.

— Egor — mi avvicinai lentamente a lui. — Ascolta quello che ho da dirti…

— Fermo! — m'intimò, come se avesse avuto in mano un'arma. Sospirai e mi fermai.

— Va bene. Allora ascolta. Oltre al mondo ordinario degli esseri umani, visibile, ne esiste un altro oscuro, quello del Crepuscolo.

Era assorto. Malgrado la sua paura e aveva una paura nera — ero investito da ondate di angoscioso terrore — il ragazzino cercava di capire. Ci sono persone che restano paralizzate dalla paura. E altre a cui la paura dà forza.

Speravo ardentemente che lui fosse tra questi ultimi.

— Un mondo parallelo?

Ecco qua. Eravamo al fantasy. E sia, certe parole erano solo innocui suoni.

— Sì, e in questo possono entrare solo coloro che sono dotati di superpoteri.

— I vampiri?

— Non solo. Anche i lupi mannari, le streghe, i maghi neri…

I maghi bianchi, i guaritori, i profeti…

— Ma esiste davvero?

Era bagnato fradicio. I capelli erano appiccicaticci, la maglietta gli si era incollata al corpo, lungo le guance scorrevano rivoli di sudore. E tuttavia il ragazzo non distoglieva lo sguardo da me ed era pronto a fronteggiarmi. Come se ne avesse avuto la forza.

— Sì, Egor. Qualche volta tra gli esseri umani ve ne sono alcuni capaci di accedere al mondo del Crepuscolo. Essi passano dalla parte del Bene o del Male. Della Luce o delle Tenebre. Costoro si definiscono Altri. E così ci chiamiamo tra noi: Altri.

— Lei è un Altro?

— Sì, e anche tu.

— Perché?

— Tu ti trovi nel mondo del Crepuscolo, piccolo. Guardati intorno, ascolta. I colori si sono dissolti. I suoni si sono spenti. La lancetta dei secondi striscia appena sull'orologio. Sei entrato nel mondo del Crepuscolo… tu hai voluto vedere il pericolo e hai varcato il confine tra i mondi. Qui il tempo procede più lento, tutto è diverso. È il mondo degli Altri.

— Non ci credo. — Egor si voltò di scatto e mi fissò di nuovo. — E perché Gresik è qui?

— Il gatto? — Sorrisi. — Gli animali hanno le loro leggi, Egor. I gatti vivono in tutte le dimensioni spaziali simultaneamente, per loro non fa differenza.

— Non ci credo. — La voce gli tremava. — È soltanto un sogno, lo so. La luce si sta affievolendo… Sto dormendo. Mi è già successo.

— Hai forse sognato che accendevi la luce e la lampadina non si illuminava? — Conoscevo la risposta e oltretutto la lessi negli occhi del ragazzino. — O si illuminava debolmente come una candela? E tu camminavi e intorno fluttuavano le tenebre, e quando tendevi la mano non riuscivi a distinguere le dita?

Taceva.

— Succede a tutti noi, Egor. Gli Altri fanno sogni di questo tipo. È il mondo del Crepuscolo che s'insinua in noi, ci chiama, ci ricorda della sua esistenza. Tu sei un Altro. Anche se sei ancora piccolo, sei un Altro. E dipende solo da te…

Non capii subito che aveva gli occhi chiusi e la testa reclinata di lato.

— Idiota — mi bisbigliò Ol'ga dalla spalla. — È la prima volta che entra da solo nel Crepuscolo! Non ha la forza per farlo! Trascinalo fuori immediatamente o resterà qui per sempre!

Il coma crepuscolare è una tipica malattia dei neofiti. Me ne ero quasi scordato, non mi era mai capitato di lavorare con Altri così giovani.

— Egor! — Feci un balzo verso di lui, lo scrollai, lo afferrai per le ascelle. Era leggero, leggerissimo: nel mondo crepuscolare non cambiava solo il corso del tempo. — Svegliati!

Non reagiva. Così il ragazzo era riuscito in un'impresa che ad altri costa mesi di allenamento: entrare da solo nel Crepuscolo.

— Trascinalo! — Ol'ga prese il comando della situazione. — Trascinalo, presto! Non si sveglierà da solo!

Era la cosa più difficile. Avevo seguito delle lezioni di pronto soccorso, ma non mi era mai capitato di trascinar fuori qualcuno dal Crepuscolo.

— Egor, torna in te! — Lo schiaffeggiai sulle guance. Prima piano, poi assestandogli sonori ceffoni. — E allora, ragazzo? Stai uscendo dal Crepuscolo! Svegliati!

Diventava sempre più leggero, svaniva tra le mie braccia. Il Crepuscolo gli aveva prosciugato la vita, tolto le ultime deboli forze, stava modificando il suo corpo e lo trasformava in uno dei suoi abitanti. Che cosa avevo combinato?

— Mettiti al riparo! — La voce di Ol'ga era fredda, severa. — Mettiti al riparo con lui… Guardiano!

Di solito impiegavo più di un minuto a creare la sfera. Ora me la cavai in cinque secondi. Un'esplosione di dolore, come se nella testa mi fosse scoppiata una minuscola carica. La sfera di protezione fuoriuscì dal mio corpo, avvolgendomi in una bolla iridata, che cresceva, si gonfiava, inglobando suo malgrado dentro di sé anche me e il ragazzino.

— Adesso trattienila! Io non posso aiutarti in nessun modo, Anton! Trattieni la sfera!

Ol'ga aveva torto. Coi suoi suggerimenti mi era già stata di aiuto. Con tutta probabilità sarebbe venuto in mente anche a me di creare la sfera, ma avrei perso altri secondi preziosi.

A un tratto tornò la luce. Il Crepuscolo continuava a prosciugare le nostre forze, da me stentatamente, dal ragazzino copiosamente, però ora aveva a disposizione solo qualche metro cubo di spazio. Qui le normali leggi fisiche non esistevano, ma ce n'erano di analoghe. Ora nella sfera si stava stabilendo un equilibrio tra i nostri corpi vivi e il Crepuscolo.

O il Crepuscolo si dissolveva liberando la sua preda, o il ragazzino si sarebbe trasformato in un abitante del mondo crepuscolare. Per sempre. È ciò che succede ai maghi che si concedono incondizionatamente, per imprudenza o per necessità. E capita anche ai neofiti privi delle cognizioni adeguate per difendersi dal Crepuscolo e che gli si sono concessi più del dovuto.

Guardai Egor: il suo viso ingrigiva. Si stava allontanando nelle infinite distese del mondo delle ombre.

Spostando il ragazzino sul braccio destro, col sinistro tolsi dalla tasca il temperino. Estrassi la lama con i denti.

— È pericoloso — mi avvertì Ol'ga.

Non risposi. Mi colpii sui polsi.

Il Crepuscolo sfrigolò, come una padella arroventata, quando sprizzò il sangue. La vista mi si offuscò. Il problema non era tanto la perdita di sangue, quanto la vita che defluiva insieme a esso. Avevo violato il mio sistema di autodifesa nel Crepuscolo.

In compenso il Crepuscolo aveva ricevuto una dose di energie che non sarebbe stato più in grado di assimilare.

Il mondo s'illuminò, la mia ombra crollò sul pavimento e io l'attraversai. L'iridata membrana della sfera di protezione cadde, espellendoci nel mondo ordinario.

Capitolo 5

Un rivolo sottile di sangue era schizzato sulla moquette. Il ragazzo, che mi si era accasciato tra le braccia, era ancora privo di sensi, ma il suo viso cominciava a riprendere colore. Il gatto strillò dall'altra stanza, come se lo stessero scannando.

Deposi Egor sul divano. Gli sedetti accanto. E dissi: — Ol'ga, una benda…

La civetta spiccò il volo dalla mia spalla e sfrecciò in cucina. Evidentemente durante il tragitto doveva essere entrata nel Crepuscolo, perché dopo qualche secondo era già di ritorno con la benda nel becco.

Neanche a farlo apposta Egor aprì gli occhi proprio mentre mi fasciavo la mano. Chiese: — Chi è?

— Una civetta. Non lo vedi?

— Che cosa mi è successo? — La voce non gli tremava quasi più.

— Sei svenuto.

— Perché? — Il suo sguardo percorreva spaventato le tracce di sangue sul pavimento e sui miei vestiti. Egor aveva trovato il modo di non sporcarsi.

— Il sangue è mio — gli spiegai. — Mi sono inavvertitamente tagliato. Egor, nel Crepuscolo si deve entrare con cautela. È una dimensione diversa, anche per noi, che siamo Altri. Quando siamo nel mondo crepuscolare dobbiamo perdere continuamente le forze per alimentarlo con la nostra energia viva. Gradualmente. Ma se non si controlla questo processo, il Crepuscolo ti prosciuga tutta l'energia vitale. Non ci puoi fare niente, è il prezzo da pagare.

— Io ho pagato più di quello che avrei dovuto?

— Più di ciò che possedevi. E hai rischiato di rimanere nel mondo crepuscolare per sempre. Non è come la morte, forse è peggio.

— Aspetti, l'aiuto… — Il ragazzino si mise a sedere e per un istante corrugò la fronte: evidentemente gli girava la testa. Allungai la mano e lui cominciò a bendarmi il polso, con movimenti goffi, ma con impegno. L'aura del ragazzino non era cambiata, era cangiante e neutra come prima. Lui era già stato nel Crepuscolo, ma il Crepuscolo non aveva fatto ancora in tempo a lasciargli il suo marchio.

— Lo credi che ti sono amico? — gli chiesi.

— Non so. Certo non mi è nemico. O forse non può farmi nulla!

Allungai la mano e sfiorai il collo del ragazzino: lui subito si irrigidì. Sganciai la catenina e gliela tolsi.

— Hai capito?

— Significa che non è un vampiro — mormorò.

— Sì. Ma non perché ho potuto accostarmi all'aglio e all'argento. Egor, questi non sono impedimenti per un vampiro.

— Ma in tutti i film…

— In tutti i film i ragazzi buoni vincono i cattivi. Ragazzo, le superstizioni sono pericolose, inducono a coltivare false speranze.

— Ma esistono speranze autentiche?

— No, non è nella loro natura. — Mi alzai, toccai la fasciatura. Niente male, era avvolta strettamente e piuttosto spessa. Tra una mezz'ora avrei potuto fare un incantesimo sulla ferita, ora le forze non mi bastavano.

Il ragazzo mi fissava dal divano. Si era un po' tranquillizzato. Ma non si fidava ancora di me. Era curioso che non rivolgesse la minima attenzione alla civetta bianca che sonnecchiava con aria innocente sul televisore. Pareva che Ol'ga tutto sommato fosse stata assimilata dalla sua coscienza. E ciò era positivo: spiegare chi era quella civetta bianca parlante sarebbe stato a dir poco arduo.

— Hai del cibo? — gli chiesi.

— Che cosa?

— Qualunque cosa. Del tè con lo zucchero. Un pezzo di pane. Ho perso anch'io molte energie.

— Qualcosa troveremo. E come ha fatto a ferirsi?

Non diedi spiegazioni dettagliate, ma neppure gli mentii.

— L'ho fatto apposta. Bisognava fare così per trascinarti fuori dal Crepuscolo.

— Se questa è la verità, grazie.

Certo la sfacciataggine non gli mancava, ma mi piacque.

— Non c'è di che. Se tu ti fossi dileguato nel Crepuscolo, i miei capi mi avrebbero tagliato la testa.

— Hmm… — bofonchiò il ragazzo, e si alzò. Cercava in ogni caso di tenersi a distanza. — E come sono i suoi capi?

— Severi. Be', non mi versi il tè?

— Per una brava persona si fa questo e altro. — Già, continuava a resistere. E dissimulava la paura con una leggera e disinvolta strafottenza.

— Tengo a precisare che non sono una persona. Sono un Altro. E anche tu sei un Altro.

— E qual è la differenza? — Egor gettò su di me un'occhiata a mo' di esemplificazione. — A guardarla non si direbbe!

— Finché non mi darai il tè, starò zitto. Non ti hanno insegnato come trattare gli ospiti?

— Gli ospiti non invitati? Come ha fatto a entrare?

— Dalla porta. Più tardi ti farò vedere.

— Andiamo. — Alla fine, dunque, si era deciso a offrirmi il tè.

Seguii il ragazzo, facendo involontariamente una smorfia. Non mi trattenni oltre e gli dissi: — Egor… lavati prima il collo.

Senza voltarsi, lui scrollò il capo.

— È quanto meno sciocco proteggersi solo il collo. Nel corpo umano sono cinque i punti che un vampiro può mordere.

— Sì, e allora?

— Già, è così, e mi riferisco al corpo maschile.

Persino la sua nuca avvampò.

Misi nel bicchiere cinque cucchiai colmi di zucchero. Dissi ammiccando a Egor: — Mi piace amaro…

— E io quanto devo metterne?

Calcolai a occhio il suo peso.

— Mettine quattro. Farai aumentare la glicemia.

Il collo comunque l'aveva lavato, anche se non si era liberato del tutto dall'odore di aglio. Tracannando avidamente il suo tè, chiese: — Me lo spieghi!

Non era così che avevo pianificato tutto. Non era affatto così: dovevo seguire il ragazzo finché non l'avesse raggiunto il Richiamo, uccidere o catturare la vampira e portare il ragazzo riconoscente dal Capo: che fosse lui a spiegargli bene ogni cosa.

— Nei tempi antichi… — Il tè mi era andato di traverso. — Sembra una fiaba, vero? Solo che non lo è.

— La ascolto.

— Bene, comincerò in un altro modo. Esiste il mondo degli uomini. — Indicai la finestra e il minuscolo cortile e le auto che correvano lungo la strada. — Eccolo, tutt'intorno a noi. E la maggioranza degli uomini non può varcare questi confini. È sempre stato così. Ma di tanto in tanto noi facciamo la nostra apparizione. Noi, gli Altri.

— E i vampiri?

— Anche i vampiri sono Altri. A dire il vero, sono diversi: i loro poteri sono già predeterminati.

— Non capisco. — Egor scosse la testa.

Eh, già, io non sono un tutor. Non sono bravo a spiegare le verità rivelate, non mi piace…

— Due sciamani, che si erano rimpinzati di funghi velenosi, percuotevano i loro tamburelli — dissi. — Accadeva tanto tempo fa, in un'epoca arcaica. Uno degli sciamani non faceva che rompere le scatole ai cacciatori e alla guida. Un altro osservò la sua ombra ondeggiare sul pavimento della grotta alla luce del falò, crescere di volume e sollevarsi in tutta la statura. Fece un passo ed entrò nella sua ombra. Entrò nel Crepuscolo. E da lì ebbe inizio la parte più interessante. Capisci?

Egor taceva.

— Il Crepuscolo aveva mutato colui che vi era penetrato. Era un mondo Altro e fece di lui un Altro. Ed ecco chi potrai diventare. Dipende solo da te. Il Crepuscolo è come un fiume in piena, che corre simultaneamente da tutti i lati. Decidi che cosa vuoi diventare nel mondo crepuscolare. Ma decidilo subito, non hai tanto tempo.

Ora aveva capito. Il ragazzino strinse gli occhi e la sua pelle impallidì appena. Un'interessante reazione da stress: sarebbe stato perfetto come operativo…

— Che cosa potrei diventare?

— Tu… ciò che vuoi. Non ti sei ancora definito. E sai che cosa c'è alla base della scelta? Il Bene e il Male. La Luce e le Tenebre.

— E lei… è buono?

— Prima di tutto sono un Altro. La differenza tra il Bene e il Male risiede nel nostro approccio con gli esseri umani. Se scegli la Luce, non adopererai i tuoi poteri per vantaggi personali. Se scegli le Tenebre, questo diventerà per te naturale. Ma persino un mago nero può curare gli infermi e trovare gli scomparsi. E un mago bianco può rifiutare il suo aiuto agli esseri umani.

— Allora proprio non capisco qual è la differenza.

— La capirai. La capirai quando sceglierai tra l'una e l'altra parte.

— Io non sceglierò nessuna parte!

— È troppo tardi, Egor. Sei stato nel Crepuscolo e stai già cambiando. Tra un giorno o due la tua scelta si sarà compiuta.

— Ma se hai scelto la Luce… — Egor si alzò, si versò altro tè. Notai che per la prima volta mi aveva voltato le spalle senza timore. — Chi è lei, allora? Un mago?

— L'allievo di un mago. Lavoro nell'ufficio della Guardia della Notte. Anche questo è utile.

— E che cosa può fare? Me lo mostri, voglio controllare!

Eh, già. Tutto come da manuale. Era stato nel Crepuscolo, ma questo non l'aveva convinto. Dei banali giochi di prestigio erano molto più suggestivi.

— Guarda.

Allungai la mano verso di lui. Egor restò immobile, cercando di capire che cosa stava accadendo. Poi fissò la tazza.

Dal tè non si levava più fumo. La bevanda si era cristallizzata, trasformandosi in un piccolo cilindro di ghiaccio di un torbido marrone.

— Ahi — disse il ragazzo.

La termodinamica è il livello più semplice di controllo della materia. Io avevo consentito il moto browniano e il ghiaccio era entrato in ebollizione. Egor lanciò un grido, rovesciando la tazza.

— Scusami. — Balzai in piedi e afferrai uno straccio dal lavandino. Mi sedetti, asciugando la pozza d'acqua dal linoleum.

— Dalla magia arrivano solo guai — disse il ragazzo. — Mi dispiace per la tazza.

— Aspetta.

L'ombra mi venne incontro con un balzo e io entrai nel Crepuscolo ed esaminai i frammenti. Erano integri e la tazza non era destinata a rompersi così in fretta.

Trattenendomi nel Crepuscolo, afferrai una manciata di frammenti. Alcuni dei più piccoli, che erano volati sotto la cucina a gas, rotolarono più vicino.

Uscii dal Crepuscolo e posai la tazza bianca sul tavolo.

— Versa solo dell'altro tè.

— Figo! — A quanto pareva, questa magia aveva prodotto sul ragazzo una forte impressione. — E può farlo con tutti gli oggetti?

— Con quasi tutti.

— Anton… e se è qualcosa che si è rotto una settimana fa?

Sorrisi mio malgrado.

— No, è già troppo tardi. Il Crepuscolo ti dà una possibilità, che però va usata rapidamente, molto rapidamente.

Egor si adombrò. Chissà che cosa aveva rotto la settimana prima…

— Ora mi credi?

— Era una magia?

— Sì. Una delle più elementari. Non c'è bisogno di molta preparazione per farla.

Forse avevo fatto male a dirlo. Negli occhi del ragazzo balenò una scintilla. Stava già assaporando le sue prospettive future. I vantaggi.

Luce e Tenebre…

— E un mago esperto può fare anche altre cose?

— Persino io posso.

— Può guidare la volontà degli uomini?

Vantaggi.

Luce e Tenebre…

— Sì — dissi io. — Possiamo.

— E voi lo fate? E perché i terroristi prendono gli ostaggi? Si potrebbe sgattaiolare nel Crepuscolo senza farsi vedere, e ucciderli. Oppure costringerli a uccidersi. E perché gli uomini muoiono per le malattie? I maghi potrebbero curarli, non l'ha detto anche lei?

— Questo sarebbe fare il Bene — dissi io.

— Certo! Ma voi siete i maghi della Luce!

— Se noi compissimo una qualunque azione indiscutibilmente buona, i maghi delle Tenebre avrebbero il diritto di compierne una cattiva.

Egor mi guardò stupito. Le esperienze delle ultime ventiquattro ore erano state troppe. Ancora non riusciva a elaborarle.

— Purtroppo, Egor, il Male è più forte di natura. Il Male è distruttivo. È in grado molto più facilmente di distruggere di quanto il Bene non sia in grado di creare.

— E allora che cosa fate? Con la vostra Guardia della Notte… combattete contro i maghi delle Tenebre?

Non mi era consentito rispondergli. L'avevo compreso con la stessa ineluttabile chiarezza con cui sapevo che non conviene parlare apertamente a un ragazzo. Bisogna incantarlo. Andare nel Crepuscolo. E mai dare spiegazioni!

Non avrei potuto dimostrare nulla!

— Combattete contro di loro?

— Non è proprio così — dissi io. La verità era peggio della menzogna, ma non avevo il diritto di raccontare una menzogna. — Ci sorvegliamo a vicenda.

— Vi preparate a combattere?

Guardavo Egor e pensavo che era un ragazzo nient'affatto stupido. Ma era solo un ragazzo. E se gli avessi detto che si avvicinava l'ora della grande battaglia tra il Bene e il Male e che sarebbe potuto diventare il nuovo Jedi del mondo crepuscolare, sarebbe stato dei nostri.

A dire il vero, non per molto.

— No. Egor. Siamo in pochissimi.

— Le Forze della Luce sono meno delle Forze delle Tenebre?

Ecco, ora sarebbe stato pronto ad abbandonare la sua casa, la madre e il padre, a indossare una corazza sfavillante e ad andare a morire per la causa del Bene…

— Gli Altri, in generale. Egor… la lotta tra il Bene e il Male va avanti da migliaia di anni con fortune alterne. A volte è la Luce a vincere, ma se tu sapessi quanti esseri umani, che neppure sospettavano l'esistenza del mondo crepuscolare, sono morti! Gli Altri sono pochi, ma ogni Altro è in grado di guidare migliaia di persone normali. Egor… se ora cominciasse una battaglia tra il Bene e il Male, perirebbe la metà del genere umano. Ed è per questo che quasi mezzo secolo fa fu sottoscritto un trattato. Il Grande Patto tra il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre.

Egor sgranò gli occhi.

Io sospirai e proseguii: — Si tratta di un testo breve. Ora te lo leggerò. Ormai hai il diritto di sapere.

Socchiusi gli occhi e fissai l'oscurità. Il Crepuscolo resuscitò, prese a turbinare sotto le palpebre. Il rotolo grigio, istoriato di lettere rosse fiammeggianti si svolse.

Non era consentito recitare a memoria il Patto, si poteva solo leggerlo:

Noi siamo Altri, noi serviamo forze diverse, ma nel Crepuscolo non vi è differenza tra assenza di tenebre e assenza di luce.

La nostra lotta può annientare il mondo.

Noi stipuliamo il Grande Patto di tregua.

Ogni parte vivrà secondo le proprie leggi, ogni parte avrà i propri diritti.

Noi limitiamo i nostri diritti e le nostre leggi.

Noi siamo Altri.

Noi costituiamo la Guardia della Notte affinché le Forze della Luce controllino le Forze delle Tenebre.

Noi siamo Altri.

Noi costituiamo la Guardia del Giorno affinché le Forze delle Tenebre controllino le Forze della Luce.

Il tempo sarà arbitro.

Egor aveva gli occhi sgranati.

— La Luce e le Tenebre vivono nel mondo?

— Sì.

— Ma… e i vampiri… — Si ritornava di nuovo sempre allo stesso tema. — Sono agenti delle Tenebre?

— Sì. Sono umani che hanno subito una trasmutazione nel mondo crepuscolare. Hanno ricevuto poteri enormi, ma hanno perso la vita. E possono mantenere la propria esistenza solo attraverso l'energia altrui. Il sangue è la forma più pratica di trasfusione.

— E uccidono gli esseri umani!

— Possono sostentarsi anche col sangue delle donazioni. È un po' come un surrogato, ragazzo; non è gustoso, ma è un alimento. Se i vampiri si autorizzassero da soli a cacciare…

— Però mi hanno aggredito!

Ora pensava solo a se stesso… Male.

— Alcuni vampiri violano le leggi. Per questo c'è bisogno della Guardia della Notte, per controllare che il Patto sia rispettato.

— E allora i vampiri non vanno a caccia di esseri umani?

La mia guancia fu investita da un soffio di ali invisibili. Degli artigli mi si conficcarono nella spalla.

— E adesso che cosa rispondi, Guardiano? — bisbigliò Ol'ga dalle profondità del Crepuscolo. — Ti arrischi a dire la verità?

— No, a caccia ci vanno — dissi io. E ripetei le stesse parole che cinque anni or sono avevano sconvolto anche me. — Con la licenza. Qualche volta… qualche volta hanno bisogno di sangue vivo.

Non lo domandò subito. Avevo letto negli occhi del ragazzo tutto ciò che lui pensava e che avrebbe voluto domandare. E sapevo che avrei dovuto rispondere.

— E voi?

— Noi preveniamo il bracconaggio.

— E così potevano aggredirmi… secondo il vostro Patto? Se avevano la licenza?

— Sì — risposi.

— E bere il mio sangue? E voi sareste passati oltre e avreste guardato da un'altra parte?

La Luce e le Tenebre…

Chiusi gli occhi. Il Patto scintillava nella nebbia grigia. Le righe incise sopra celavano millenni di battaglie e milioni di vite.

— Sì.

— Se ne vada…

Il ragazzino ora era teso come una molla. Al limite dell'isteria, della follia.

— Sono venuto a proteggerti.

— Non occorre!

— La vampira è libera. Cerca di aggredire…

— Se ne vada!

Ol'ga sospirò: — Soddisfatto, Guardiano?

Mi alzai. Egor trasalì, arretrando.

— Devi capire — dissi. — Non abbiamo scelta…

Non credevo neppure io alle mie parole. E discutere adesso sarebbe stato inutile. Imbruniva, e tra poco sarebbe cominciato il tempo della caccia…

Il ragazzo mi seguì, forse per convincersi che lasciavo davvero l'appartamento e che non mi stavo nascondendo dentro l'armadio. Non dissi più una parola. Uscii sul pianerottolo. La porta sbatté alle mie spalle.

Salii una rampa di scale e mi accoccolai davanti alla finestra. Ol'ga taceva e tacevo anch'io.

Non bisognava rivelargli tutta la verità così duramente. Per un essere umano non è facile accettare la realtà stessa della sua esistenza. E rassegnarsi al Patto, poi…

— Non potevamo fare niente — osservò Ol'ga. — Non avevamo valutato fino in fondo il ragazzino, i suoi poteri e la sua paura. Eravamo stati scoperti. Dovevamo rispondere alle domande e rispondere con onestà.

— Farai rapporto? — le chiesi.

— Se sapessi quanti rapporti del genere ho scritto…

Si sentiva puzza di marcio e di spazzatura. Dietro la finestra si udiva il brusio del viale, lentamente calava l'oscurità. Cominciavano a illuminarsi i fanali. Sedevo, rigirando tra le mani il telefonino e consideravo se fosse il caso di chiamare il Capo o di aspettare la sua telefonata. Di sicuro Boris Ignat'evič mi stava controllando.

Di sicuro.

— Non sopravvalutare le possibilità dei capi — disse Ol'ga. — Ora gli è piombato addosso il problema del vortice malefico.

Il telefono nelle mie mani trillò.

— Indovina chi sono! — dissi, sollevando il ricevitore.

— Woody Woodpecker o Whoopi Goldberg.

Non ero in vena di scherzi.

— Sì?

— Dove ti trovi, Anton?

La voce del Capo era stanca, provata. Era irriconoscibile.

— Sul ballatoio di un casermone a molti piani. Vicino alle condotte della spazzatura. Qui fa piuttosto caldo. È quasi confortevole.

— Hai trovato il ragazzino? — chiese il Capo senza interesse.

— Sì, l'ho trovato…

— Va bene. Ti mando Tigrotto e Orso. Qui non hanno nulla da fare. Tu vieni a Perovo. Immediatamente.

Mi ficcai la mano in tasca e il Capo aggiunse senza indugio: — Se non hai soldi… be', anche se li hai… Ferma un'auto della polizia e arriverai in un lampo.

— Dice sul serio? — riuscii solo a chiedere.

— Assolutamente. Puoi partire subito.

Fissai il buio dietro la finestra.

— Boris Ignat'evič, non è il caso di lasciare da solo il ragazzino. Ha davvero un potenziale molto forte…

— Lo so, d'accordo. I ragazzi stanno già partendo. Con loro il ragazzino sarà al sicuro. Aspettali e poi vieni subito qui.

Si udirono solo dei segnali ininterrotti. Deposi il ricevitore e fissai la spalla: — Che cosa ne dici, Ol'ga?

— Strano.

— Perché? Sei stata tu a dire che non se la sarebbero cavata.

— Strano che abbia chiamato te e non me… — Ol'ga si fece pensosa. — Forse… ma no, non lo so.

Scrutai attraverso il Crepuscolo e proprio all'orizzonte individuai due macchioline. Gli operativi si muovevano con una tale rapidità che sarebbero stati sul posto al massimo in quindici minuti.

— Non ha chiesto neppure l'indirizzo — osservai cupo.

— Non voleva sprecare tempo. Ma tu non hai percepito se prendeva le coordinate?

— No.

— Devi allenarti di più, Anton.

— Ma io non lavoro sul campo!

— Ora stai lavorando. Andiamo giù. Sentiremo il Richiamo.

Dopo essermi alzato — quell'angolino sulla scala mi era sembrato davvero accogliente e familiare — mi precipitai giù.

— Ho una paura terribile — disse Egor senza tante cerimonie.

— Va tutto bene. Ti proteggiamo noi.

Si mordicchiò il labbro. Fissava ora me, ora l'oscurità sulla scala. Non aveva voglia di farmi entrare in casa, ma ormai non aveva più la forza di restare da solo.

— Ho l'impressione di essere spiato — disse alla fine. — Siete voi che lo fate?

— No, sarà la vampira.

Il ragazzino non trasalì. Non gli avevo detto niente di nuovo.

— E quando mi aggredirà?

— Non può entrare senza invito. È una particolarità dei vampiri, le fiabe su questo non mentono. Ti verrà il desiderio di uscire. Del resto hai già voglia di uscire.

— Non uscirò.

— Quando adopererà il Richiamo, capirai che cosa sta per succedere, ma uscirai lo stesso.

— Lei… non può darmi qualche consiglio? Qualunque consiglio?

Egor si era arreso. Voleva aiuto, qualunque tipo di aiuto.

— Sì, posso. Devi fidarti di noi.

Esitò ancora per un secondo.

— Entri. — Indietreggiò sulla soglia. — Solo che… adesso la mamma sta per tornare dal lavoro.

— E allora?

— Si nasconderà? Che cosa devo dirle?

— Sciocchezze — feci un gesto con la mano. — Io…

Si aprì la porta dell'appartamento vicino. Spuntò il viso tutto raggrinzito di una vecchietta.

Sfiorai la sua coscienza leggermente, per un istante, con la maggior cautela possibile per non nuocere alla sua mente già precaria…

— Ah, sei tu… — La vecchia si abbandonò a un sorriso. — Tu, tu…

— Anton — le suggerii.

— Ah, pensavo ci fosse un estraneo — dichiarò la nonnina, togliendo la catenella e uscendo sul ballatoio. — Che tempi, è il caos totale, fanno quello che vogliono…

— Non è niente — dissi io. — Andrà tutto bene. Perché non va a guardare la televisione? Adesso danno un nuovo serial…

La vecchia annuì, e lanciandomi ancora uno sguardo amichevole, si rintanò nel suo appartamento.

— Quale serial? — chiese Egor.

Alzai le spalle: — E io che ne so? Uno qualsiasi. Le soap opera non mancano…

— Com'è che conosce la nostra vicina?

— Io? No, non la conosco affatto.

Il ragazzo taceva.

— Il fatto è — spiegai — che noi siamo Altri. Non posso entrare, devo andar via subito.

— Come?

— Ci saranno degli altri agenti a proteggerti, Egor. Non preoccuparti: sono professionisti più in gamba di me.

Scrutai attraverso il Crepuscolo: due luminose macchie arancione avanzavano verso la casa.

— Non voglio… — Il ragazzino fu subito preso dal panico. — Lei è meglio di loro!

— Non posso, ho un'altra missione.

Di sotto il portone sbatté e risuonarono dei passi. I guerrieri snobbarono l'ascensore.

— Ma io non voglio! — Egor si aggrappò alla porta, come se avesse deciso di chiuderla. — Non mi fido di loro!

— O ti fidi della Guardia della Notte al completo o non ti fidi di nessuno — tagliai corto. — Non siamo dei Superman coi mantelli rosso-azzurri. Siamo dei lavoratori salariati. La polizia del mondo crepuscolare. Le mie parole sono quelle della Guardia della Notte.

— Ma loro chi sono? — Il ragazzo si stava arrendendo. — Sono dei maghi?

— Solo iperspecializzati.

Sulla rampa di scale apparve Tigrotto.

— Salve, ragazzi! — esclamò radiosa la ragazza, superando con un balzo i gradini.

Il balzo era inumano. Egor si rattrappì e indietreggiò, fissandola. Io scossi la testa: la ragazza si stabilizzava in vista della trasformazione. Questo le piaceva e ora inoltre aveva i suoi buoni motivi per divertirsi a ruzzolare.

— Come vanno le cose? — le chiesi.

— Oh… allegramente. Sono tutti nel panico. Va', ti stanno aspettando, Anton… Tu sei il mio patrocinato, vero?

Il ragazzino taceva, esaminandola. A dire il vero il Capo aveva l'atto una magnifica scelta, mandando come guardia del corpo proprio Tigrotto. Lei suscitava la simpatia di tutti, dei bambini come dei vecchi. Si diceva che le Forze delle Tenebre l'avessero corrotta qualche volta. Ma non era vero…

— Io non sono un patrocinato — rispose alla fine il ragazzo. — Mi chiamo Egor.

— E io Tigrotto. — Era già entrata nell'appartamento e stringeva affettuosamente le spalle del ragazzino. — Su, dai, mostrami la testa di ponte! Prepariamo la difesa!

Io scesi di sotto, scuotendo il capo. Tra cinque minuti Tigrotto avrebbe dimostrato al ragazzo come mai le era stato assegnato proprio quel nome.

— Salve — bofonchiò Orso, venendomi incontro. — Salve. — Ci scambiammo una breve stretta di mano. Tra tutti gli agenti della Guardia, Orso era quello che suscitava in me le emozioni più strane e contrastanti.

Era poco più alto delia media, robusto e con un volto assolutamente impenetrabile. Non amava parlare troppo. Dove trascorresse il suo tempo libero, dove vivesse non lo sapeva nessuno eccetto, forse, Tigrotto. Si diceva che non fosse nemmeno un mago, bensì un mutantropo. E che all'inizio avesse operato nella Guardia del Giorno per poi, durante una missione, passare dalla nostra parte. Tutto ciò era una totale assurdità: le Forze della Luce non diventavano Forze delle Tenebre e le Forze delle Tenebre non si trasformavano in Forze della Luce. Ma c'era qualcosa in Orso che sconcertava.

— La macchina ti aspetta — disse l'operativo, senza incepparsi. — Il conducente è un asso. Arriverai in un lampo.

Orso tartagliava un po' e per questo costruiva frasi molto brevi. Non aveva fretta, Tigrotto era già al suo posto di guardia. Ma a me non conveniva indugiare.

— Com'è la situazione là, difficile? — chiesi, affrettando il passo.

Da sopra giunse un: — Tutto tranquillo.

Saltando gli scalini, mi precipitai fuori dal portone. La macchina mi stava proprio aspettando, per un attimo sostai a contemplarla. Era un'elegante BMW bordeaux, ultimo modello, con un lampeggiatore attaccato con noncuranza sul tetto. Entrambi gli sportelli dal lato dell'edificio erano aperti e il conducente, che fumava accanitamente e portava una giacca sotto le cui falde s'indovinava una fondina, era mezzo fuori della macchina. Davanti allo sportello posteriore stava un uomo attempato dalla figura monumentale col cappotto sbottonato, che indossava un abito molto costoso, sul risvolto del quale brillava un distintivo da deputato.

— Ma chi crede di essere? Verrò quando mi è possibile! E chi sono, cazzo, quelle puttanelle? Si è bevuto il cervello? Non potete nemmeno fare un passo da soli?

Dopo avermi lanciato un'occhiata, il deputato, senza accomiatarsi, troncò la conversazione al telefono e salì in macchina.

Il conducente aspirò profondamente, gettò la sigaretta e si sistemò al volante. Il motore rombò piano. Non feci in tempo ad accomodarmi sul sedile anteriore che l'auto si mosse. Dallo sportello penetrarono con uno scricchiolio dei rami coperti di ghiaccio.

— Sei diventato cieco? — ruggì il deputato contro l'autista, anche se la colpa dell'accaduto era soltanto mia. Poi il proprietario dell'auto si voltò verso di me e il suo tono cambiò: — Devi andare a Perovo?

Era la prima volta che un rappresentante del potere mi dava un passaggio. E non un ufficiale di polizia o un boss criminale. Capivo che in caso di necessità non faceva differenza per un Guardiano, ma non l'avevo mai sperimentato prima di allora.

— Sì, nello stesso luogo da dove sono venuti i ragazzi. E prima che si può…

— Hai sentito, Volod'ka? — disse il deputato rivolto all'autista. — Accelera!

Volod'ka accelerò tanto che cominciai a non sentirmi bene. Osservavo il tramonto e pensavo: "Chissà se arriveremo davvero…"

Stavamo per arrivare, non solo per l'abilità del conducente e per il nostro coefficiente di fortuna, che nel caso di un Guardiano come me era artificialmente elevato. Sembrava che qualcuno avesse voluto sistemare il campo delle probabilità, eliminando tutti i guasti, gli ingorghi e i vigili troppo zelanti.

Nella nostra sezione cose simili poteva farle soltanto il Capo in persona. Ma perché, mi chiedevo…

— Anch'io non mi sentivo troppo bene… — bisbigliò dalla mia spalla l'invisibile uccello — quando con il conte…

Si zittì, autocensurandosi.

La macchina passò con il rosso a un incrocio, evitando, con una sterzata incredibile, autovetture e furgoni. Qualcuno ci fece un gestaccio con la mano.

— Vuoi un sorso? — chiese amichevolmente il deputato. Mi allungò una bottiglietta di Remy Martin e un piccolo bicchiere di plastica. Era così buffo che io, senza esitare, mi versai una buona dose di cognac. Persino su una strada così dissestata e a quella velocità la macchina rullava dolcemente e non si rovesciava una goccia di liquore.

Restituii la bottiglia, annuii, tolsi dalla tasca la cuffia del walkman, la sistemai sulle orecchie e accesi. Risuonò una vecchissima canzone, Resurrezioni, la mia preferita.

La cittadina era piccola, come un giocattolino

da tempi immemorabili non conosceva

malattie, né invasioni.

Sulla torre della fortezza arrugginiva

in silenzio il cannone,

lontano da ogni itinerario.

Così di anno in anno

tutta la città dormiva

senza giorni feriali, né di festa.

Sognò egli distese di città

deserte e di sterili rocce…

Entrammo in autostrada. La velocità della macchina non faceva che aumentare, non avevo mai girato per Mosca a una velocità simile. E non solo per Mosca… Avevo fifa.

Tra le fredde rocce la musica risuonava

mentre la città dormiva…

Dove ci portava?

Chi cercava?

Nessuno lo sapeva…

Ricordai Romanov, un Altro. Non iniziato. L'avevano individuato troppo tardi… La richiesta era stata fatta, ma lui aveva rifiutato.

Anche questa è una scelta.

Chissà quante volte aveva ascoltato la notte questa musica…

Chi nell'afa notturna la finestra non chiudeva

è svanito.

Sono andati a cercare un paese dove la vita fosse

piena di vita,

sulle tracce delle canzoni…

— Ne vuoi ancora? — Il deputato era la benevolenza personificata. Sarebbe stato interessante capire che cosa gli avevano infuso Orso e Tigrotto. Chi ero io per lui, il suo migliore amico? E lui per me, chi era mai? Il mio eterno debitore? Chi ero dunque io, il figlio illegittimo ma prediletto del Presidente?

Che assurdità! Esistono centinaia di modi di suscitare fiducia negli esseri umani, simpatia e desiderio di aiutare il prossimo. La Luce ha i suoi metodi, peccato che anche le Tenebre non ne abbiano di meno. Che assurdità.

La domanda era un'altra: perché il Capo aveva bisogno di me?

Capitolo 6

Sulla strada mi aspettava Il'ja. Stava lì, con le mani ficcate in tasca e fissava con disgusto il cielo da cui cadeva un lieve nevischio.

— Quanto ci hai messo — si limitò a dire, mentre io, stringendo la mano al deputato per congedarmi, scendevo dall'auto. — Il Capo si è stancato d'aspettare.

— Che cosa sta succedendo?

Il'ja ridacchiò. Ma non c'era l'abituale gioia di vivere nel suo sorriso.

— Ora vedrai… Andiamo.

Percorremmo una stradina, scansando le donne che si trascinavano con le borse del supermercato. Per quanto fosse strano, da noi erano comparsi veri supermercati. L'andatura delle persone però era rimasta quella di sempre, come se avessero appena abbandonato una coda di ore in cambio di violacei cadaveri di pollo…

— È lontano? — chiesi.

— Se fosse lontano, avremmo preso un'auto.

— Ma che cosa ha combinato il nostro campione del sesso? Non ce l'ha fatta?

— Ignat ce l'ha messa tutta — si limitò a rispondere Il'ja. Provai per un momento una sorta di piacere vendicativo, come se il fiasco di Ignat fosse nel mio interesse. Di solito, quando la missione lo richiedeva, tempo due, tre ore si ritrovava nel letto di qualcuna.

— Il Capo si è dichiarato pronto all'evacuazione — disse all'improvviso Il'ja.

— Cosa?

— Del tutto pronto. Se il vortice non si stabilizza, allora gli Altri lasceranno Mosca.

Camminava dinanzi a me e così non potevo guardarlo negli occhi. Ma perché poi Il'ja avrebbe dovuto mentire?

— E il vortice è ancora come prima… — esordii. Ma poi tacqui. L'avevo visto.

Davanti a noi, sopra un desolante casermone di otto piani, sullo sfondo del buio cielo nevoso, mulinava nera e lenta una tromba d'aria.

Non si poteva definire un vortice o un turbine. Proprio una tromba d'aria. Non si allungava da questo palazzo, ma da quello seguente, ancora nascosto. E a giudicare dall'angolatura del cono nero, doveva essersi generata dalla terra stessa.

— Diavolo… — bisbigliai.

— Non fare il menagramo…

— È di una trentina di metri…

— Trentadue. E continua a crescere.

Guardai affannosamente la spalla e scorsi Ol'ga. Era uscita dal Crepuscolo.

Vi è mai capitato di vedere un uccello spaventato? Spaventato proprio come una persona?

La civetta era tutta scompigliata. Possibile che delle penne potessero rizzarsi così? Gli occhi sfavillavano di una luce giallo ambrata.

La spalla della mia povera giacca si era ormai sfilacciata, e gli artigli continuavano a graffiare, come se intendessero raggiungere il corpo.

— Ol'ga!

Il'ja si voltò e annuì: — Guarda guarda… Il Capo dice che a Hiroshima il vortice era più basso.

La civetta sbatté le ali e si librò nell'aria silenziosamente, dolcemente. Alle mie spalle una donna lanciò un grido. Mi voltai e scorsi il suo viso sconvolto, lo sguardo stralunato che seguiva l'uccello.

— La cornacchia vola — disse sottovoce Il'ja, guardando di sottecchi la donna. La sua reazione fu assai più tempestiva della mia. Un istante dopo la fortuita testimone ci superò, borbottando scontenta qualcosa contro le stradine troppo anguste e coloro che amavano ostruirle.

— Cresce rapidamente? — chiesi, indicando la tromba d'aria.

— A sbalzi, ma ora si sta stabilizzando. Il Capo ha avvertito Ignat per tempo.

La civetta, disegnando un ampio cerchio intorno alla tromba d'aria, si abbassò e volò sopra di noi. Ol'ga aveva conservato una certa padronanza di sé, ma dopo la sua imprudente uscita dal Crepuscolo appariva turbata.

— E lui che cosa ha fatto?

— Ma niente… tranne che mostrarsi esageratamente soddisfatto di sé. Si è presentato ed è riuscito a scoprire la dimensione del vortice…

— Non capisco — dissi confuso. — Per raggiungere una simile dimensione dev'essere stato alimentato solo da un mago che voleva scatenare l'inferno…

— È questo che intendevo dire. Qualcuno ha cancellato le tracce di Ignat e l'ha alimentato. Qui…

Entrammo nel portone del palazzo che ci ostruiva la vista del turbine. La civetta all'ultimo momento ci seguì in volo. Guardai perplesso Il'ja, ma non dissi niente. Del resto era divenuto subito chiaro perché ci trovavamo qui.

In uno degli appartamenti al piano terra si era stabilito il nostro quartier generale operativo. La possente porta d'acciaio, sigillata nel mondo degli umani, nel Crepuscolo appariva spalancata. Il'ja, senza fermarsi, s'immerse nel Crepuscolo e lo attraversò, mentre io restai per qualche secondo occupato a sollevare la mia ombra. Poi lo seguii.

Un grande appartamento di quattro stanze, tutte assai confortevoli. Eppure rumoroso, caldo, pieno di fumo.

Qui si trovavano più di venti Altri, tra operativi e noi, topi d'ufficio. Al mio arrivo non badarono nemmeno, si limitarono a dare un'occhiata a Ol'ga. Capii che i vecchi collaboratori della Guardia la conoscevano, ma nessuno accennò a salutare la civetta bianca o a sorriderle. Ma che cosa aveva combinato?

— In camera da letto, il Capo è là — lanciò al mio indirizzo Il'ja, mentre svoltava in cucina dove tintinnavano i bicchieri. Forse stavano bevendo del tè, o forse qualcosa di più forte. Dopo aver guardato di sfuggita, mi convìnsi che avevo ragione. A Ignat versavano del cognac. Il nostro terrorista del sesso aveva l'aria completamente distrutta, a pezzi, non gli capitava da parecchio di fare un fiasco simile.

Passai oltre, bussai alla prima porta e sbirciai dentro.

Era la camera dei bambini. Su un lettino dormiva un bimbo di circa cinque anni e accanto, sul tappeto, i suoi genitori adolescenti. Era tutto chiaro. Avevano immerso i padroni dell'appartamento in un sonno pesante e dolce per non averli tra i piedi. Si sarebbe potuto mettere a soqquadro l'intero quartier generale nello spazio crepuscolare, ma a che sarebbe servito sprecare le energie?

Mi batterono una mano sulla spalla. Mi voltai: era Semën.

— Il Capo è di là — disse. — Dai, coraggio…

Pareva che tutti sapessero e mi stessero aspettando.

Non c'era nulla di più assurdo di un quartier generale operativo ubicato in un appartamento.

Sopra il tavolino del bagno, ingombro di cosmetici e sommerso di bigiotteria, stava appesa una sfera magica di dimensioni medie che trasmetteva l'immagine dall'alto del vortice. Accanto, su un puf sedeva Lena, il nostro operatore migliore, silenziosa e concentrata. Aveva gli occhi chiusi, ma alla mia comparsa alzò una mano in segno di saluto.

Va bene, era la solita storia. L'operatore della sfera vedeva lo spazio nel suo complesso, era impossibile sfuggirgli.

Sul letto stava semidisteso il Capo. Portava una vestaglia variopinta, morbide pantofole orientali e la tjubetejka, il tipico berretto usbeco. Il dolce fumo di un narghilè riempiva il locale. La civetta bianca si era posata davanti a lui. A giudicare da ciò che si vedeva, erano assorti in una conversazione muta.

Anche questo rientrava nella normalità. Nei momenti di particolare tensione il Capo tornava alle abitudini acquisite in Asia centrale. Aveva operato laggiù a cavallo tra il XIX e il XX secolo, dapprima sotto la falsa identità di Mufti, poi di capo dei guerriglieri antibolscevichi, quindi di commissario rosso e infine per dieci anni come segretario del comitato provinciale.

Davanti alla porta c'erano Danila e Farid. Erano sufficienti anche i miei poteri a individuare il purpureo scintillio dei bastoni magici nascosti nelle loro maniche.

Una procedura del tutto ordinaria. In simili momenti non si lasciava mai il quartier generale senza sorveglianza. Danila e Farid non erano tra i guerrieri più forti, ma erano esperti, e questo spesso contava assai di più della forza bruta.

Ma chi era l'Altro dalla fisionomia sconosciuta che si trovava nella stanza?

Sedeva in un angolo, accoccolato, modesto e insignificante. Magro come un chiodo, le guance incavate, i capelli neri tagliati corti come quelli di un militare, gli occhi grandi, tristi. Di età assolutamente indefinibile, di trenta come di trecento anni. Vestiti scuri. L'abito morbido e la camicia grigia erano in perfetta sintonia col suo aspetto. Un umano forse avrebbe scambiato lo sconosciuto per il membro di una setta di minoranza. E in questo avrebbe avuto ragione.

Era un mago nero. E per di più un mago di altissimo livello. Quando mi trapassò con lo sguardo, mi sentii come un guscio che s'incrina e comincia a piegarsi.

Senza volere feci un passo indietro. Ma il mago aveva già abbassato lo sguardo a dimostrazione che mi aveva sondato in modo incidentale, fuggevole.

— Boris Ignat'evič. — Sentii che la mia voce era quasi rauca.

Il Capo annuì seccamente, poi si voltò verso il mago nero. Questi subito fissò lo sguardo su di lui.

— Tira fuori l'amuleto — gli intimò il Capo.

La voce dell'agente delle Tenebre si fece sommessa e triste, come quella di un essere umano su cui si siano abbattute di colpo tutte le disgrazie del mondo. — Non faccio nulla che non sia consentito dal Patto…

— Neppure io. I miei collaboratori devono essere immuni dagli osservatori.

Ecco di che si trattava! Nel nostro quartier generale c'era un osservatore della parte delle Tenebre. Voleva dire che lì accanto era dislocato il quartier generale della Guardia del Giorno e che c'era anche laggiù qualcuno dei nostri.

Il mago nero infilò la mano nella tasca della giacca e tolse una medaglietta di osso appesa a una catenina di rame. Me la tese.

— Lancia — dissi.

Il mago sorrise impercettibilmente e con la stessa aria malinconica e compassionevole fece un gesto con la mano. Afferrai la medaglietta. Il Capo sorrise con approvazione.

— Il tuo nome? — chiesi io.

— Zavulon.

Non avevo mai sentito quel nome. O non era troppo famoso e doveva esistere già agli albori della Guardia del Giorno.

— Zavulon… — ripetei, osservando l'amuleto. — Tu non hai più potere su di me.

La medaglietta si era scaldata a contatto col palmo. L'indossai sopra la camicia, feci un cenno al mago e mi avvicinai al Capo.

— Così vanno le cose, Anton — disse quello quasi farfugliando, senza allontanare le labbra dal bocchino del narghilè. — Così vanno le cose. Vedi?

Guardando fuori della finestra, annuii.

Il vortice nero continuava a spuntare dal palazzo di otto piani e dal nostro. Il vertice sottile e flessibile del turbine finiva in un punto a livello del pianterreno e se mi sporgevo, attraverso il Crepuscolo, potevo localizzare esattamente l'appartamento.

— Com'è potuto accadere? — chiesi. — Boris Ignat'evič, qui non si tratta del classico mattone sulla testa o di una fuga di gas in una abitazione…

— Facciamo tutto il possibile — disse il Capo, quasi si sentisse in dovere di giustificarsi. — Tutte le basi missilistiche sono sotto controllo, anche in America e in Francia; in Cina stiamo ultimando il lavoro. Con le armi nucleari strategiche diventa sempre più difficile. Non possiamo ancora individuare tutti i satelliti laser funzionanti. Di immondizia batteriologica la città è piena… un'ora fa per poco non si è prodotta una fuga di virus dal Centro di Ricerca Nazionale.

— Non puoi far niente contro il destino — dissi io prudente.

— Proprio così. Noi tappiamo le falle sul fondo della nave. E la nave sta già colando a picco.

A un tratto notai che tutti — il mago delle Tenebre, Ol'ga, Lena e i guerrieri — mi fissavano. Mi sentii a disagio.

— Boris Ignat'evič?

— Tu sei legato a lei.

— Cosa?

Il Capo sospirò, depose la pipa, e il freddo, sottile fumo dell'oppio fluì verso il pavimento.

— Tu, Anton Gorodeckij, programmatore, scapolo, con poteri medi, sei legato alla ragazza su cui aleggia questa schifezza malefica.

Il mago delle Tenebre nell'angolo sospirò quasi impercettibilmente. Non trovai nient'altro di meglio che chiedere: — Perché?

— Non lo so. Abbiamo mandato da lei Ignat. Lui ha lavorato bene. Tu sai che può sedurre chiunque voglia.

— E con lei non c'è riuscito?

— C'è riuscito. Solo che il vortice ha cominciato a crescere. Sono stati insieme una mezz'ora e il vortice da cinquanta centimetri è cresciuto fino a venticinque metri. Abbiamo dovuto richiamarlo… in tutta fretta.

Lanciai un'occhiata al mago delle Tenebre. Zavulon, che pareva concentrato sul pavimento, subito alzò il capo. Questa volta la difesa non reagì: l'amuleto mi aveva coperto.

— A noi non serve — disse sottovoce. — Solo un selvaggio ammazzerebbe un elefante per poter avere della carne a colazione.

Il paragone mi disgustò. Ma sembrava non mentire.

— Un disastro di simili proporzioni non è che ci serva tanto di frequente — aggiunse il mago delle Tenebre. — Al momento non abbiamo nessun progetto che richieda un investimento di energie di tale portata.

— Lo spero vivamente… — disse il Capo con una voce stridula, irriconoscibile. — Zavulon, devi capire che se ci sarà una catastrofe, noi pure ne ricaveremo il massimo.

Sul volto del mago apparve l'ombra di un sorriso.

— Una quantità di uomini resterà inorridita dall'accaduto, piangerà a calde lacrime e commisererà il dolore. Sarà sublime. Ma molti di più saranno coloro che si attaccheranno avidamente al teleschermo e che godranno della disgrazia altrui, e si rallegreranno che abbia risparmiato le loro città, ironizzando sulla Terza Roma che ha ottenuto il castigo… il castigo dall'alto dei cieli. Tu lo sai bene, nemico mio.

Non esternava una gioia maligna, le Forze delle Tenebre di rango superiore hanno di queste reazioni così elementari. Si limitava a informare.

— Tuttavia noi siamo pronti — disse Boris Ignat'evič. — Lo sai bene.

— Lo sai bene… Noi siamo in una situazione più vantaggiosa. Sempre che tu non nasconda un paio di assi nella manica, Boris.

Il Capo si voltò verso di me, quasi avesse perso ogni interesse per il mago delle Tenebre.

— Anton, non è la Guardia del Giorno ad alimentare il vortice. È il risultato dell'azione di un solo autore. Un mago delle Tenebre di potenza sconvolgente. Ha percepito Ignat e ha cominciato a forzare gli eventi. Ora tutte le speranze sono riposte in te.

— Perché?

— Te l'ho già detto: siete legati.

Il Capo alzò la mano e nell'aria si materializzò la superficie bianca di uno specchio. Zavulon aggrottò la fronte. Forse quel dispendio di energie l'aveva leggermente irritato.

— La prima linea di sviluppo degli avvenimenti — disse il Capo. Sul telone bianco, che stava appeso senza sostegni, passò una striscia nera. Si diffuse una macchia informe che straripava dai bordi dello schermo.

— Lo scenario più probabile. Il vortice raggiunge la portata massima e scoppia con una deflagrazione infernale. Milioni di vittime. Un cataclisma di portata universale: nucleare, biologico, con caduta di asteroidi, terremoti di dodicesimo grado. Tutto il possibile.

— E una catastrofe infernale? — chiesi con cautela. Guardai di sottecchi il mago delle Tenebre: il suo viso era rimasto impassibile, indifferente.

— No. È assai improbabile. La soglia è ancora lontana. — Il Capo scosse la testa. — Altrimenti, credo che i Guardiani del Giorno e i Guardiani della Notte si sarebbero già annientati a vicenda. Il secondo decorso…

Una sottile linea, in fuga dalla striscia nera. Una linea spezzata.

— Secondo scenario: si annulla lo scopo. Il turbine si riduce, se lo scopo fallisce… autonomamente.

Zavulon si mosse. E disse in tono cortese: — Sono pronto ad aiutarvi in questa piccola azione. La Guardia della Notte non può sopravvivere autonomamente, non è così? Siamo al vostro servizio.

Calò il silenzio. Poi il Capo scoppiò a ridere.

— Come volete. — Zavulon si strinse nelle spalle. — Ripeto, per il momento vi offriamo i nostri servigi. A noi non serve una catastrofe universale che può uccidere a ogni istante milioni di esseri umani. Per ora non ci serve.

— Il terzo scenario — disse il Capo, fissandomi. — Guardala attentamente.

Un'altra linea si sviluppava dalla radice comune. E si assottigliava per annullarsi.

— Questo se entri in gioco tu, Anton.

— Che cosa devo fare? — domandai.

— Non saprei. Un pronostico attendibile non ha mai fornito indicazioni precise. Solo una cosa è certa: tu puoi eliminare il vortice.

Nella mia testa passò l'assurdo pensiero che ero ancora sotto controllo. Una prova sul campo… Avevo ucciso il vampiro e ora… Ma no, non poteva essere. Non con una simile posta!

— Non ho mai debellato vortici malefici. — La mia voce sembrava irriconoscibile: non era tanto spaventata quanto stupita. Il mago delle Tenebre Zavulon fece una risatina disgustosa, da donnetta.

Il Capo annuì: — Lo so, Anton.

Si alzò, si aggiustò la vestaglia e si avvicinò. Appariva assurdo, in un appartamento moscovita, quel suo travestimento asiatico, sembrava una parodia malriuscita.

— Nessuno finora è mai stato in grado di eliminare vortici come questo. Tu saresti il primo a provarci.

Tacevo.

— E cerca di ricordare, Anton, che se farai un danno… anche minimo, sarai il primo a rimetterci. Non riuscirai nemmeno ad allontanarti nel Crepuscolo. Sai che succede agli agenti della Luce quando finiscono in una catastrofe infernale?

Mi sentivo la gola prosciugata. Annuii.

— Mi perdoni, nemico caro — disse Zavulon in tono beffardo. — Ma lei non dà ai suoi collaboratori il diritto di scegliere? Persino in guerra in casi come questo veniva scelto… chi lo desiderava.

— Chiamavano dei volontari — disse il Capo, senza voltarsi. — Siamo tutti volontari, da tempi immemorabili. E non abbiamo alcun diritto di scegliere.

— Noi invece l'abbiamo. Sempre. — Il mago delle Tenebre fece un'altra risatina.

— Dal momento in cui attribuiamo il diritto di scelta agli esseri umani, lo aboliamo per noi stessi. Zavulon — Boris Ignat'evič lanciò un'occhiata al mago delle Tenebre — non ti stai esibendo davanti al tuo pubblico. Non disturbare.

— Taccio. — Zavulon reclinò il capo e piegò le spalle.

— Cerca di cavartela da solo, Anton — disse il Capo. — Non posso darti consigli. Cerca di farcela, ti prego. E… scorda tutto quello che ti è stato insegnato. Non credere a ciò che ti ho detto io, non credere a ciò che hai scritto nei tuoi appunti, non credere ai tuoi occhi, non credere alle parole altrui.

— A cosa devo credere allora, Boris Ignat'evič?

— Se lo sapessi, Anton, allora lascerei il quartier generale… ed entrerei io stesso in quell'edificio.

Guardammo simultaneamente dalla finestra. Il turbine nero mulinava, ondeggiando ora qua ora là. Un passante, che camminava sul marciapiede, a un tratto svoltò nella neve e prese ad aggirare il vertice del turbine con un giro largo. Notai che sul ciglio avevano già aperto un varco: gli umani non potevano vedere il Male che infuriava sulla terra, ma ne avvertivano la vicinanza.

— Ti proteggerò, Anton — disse a un tratto Ol'ga. — Ti proteggerò e manterrò i contatti.

— Da fuori — disse il Capo, approvando. — Solo da fuori… Va'. Cercheremo di proteggerti al massimo da qualunque sorveglianza.

La civetta bianca volò via dal letto e venne a posarsi sulla mia spalla.

Lanciai un'occhiata agli amici e al mago delle Tenebre, che sembrava caduto in letargo, e uscii dalla stanza.

Mi accompagnarono in silenzio, senza parole superflue, né consigli o incoraggiamenti. Del resto non è che facessi niente di speciale. Andavo solo a morire.

Regnava il silenzio.

Un silenzio sospetto anche in un quartiere dormitorio come quello, a quell'ora della sera. Come se si fossero rintanati tutti in casa, avessero spento la luce e ficcato la testa sotto le coperte e tacessero. Tacessero senza nemmeno dormire. Solo ombre purpuree e azzurrine balenavano sulle finestre: dovunque erano accesi i televisori. Era ormai un'abitudine inveterata, terribile e penosa, accendere il televisore e guardare tutto quel che capitava, dalle televendite alle notizie. Gli uomini non vedevano il mondo del Crepuscolo, ma erano in grado di avvertire la sua presenza.

— Ol'ga, che ne pensi di questo vortice? — chiesi.

— È invincibile — disse.

Stavo lì a guardare il vertice flessibile del turbine simile alla proboscide di un elefante.

— Quanto… a che altezza potresti intervenire per estinguerlo?

Ol'ga ci pensò su: — Circa cinque metri. C'è ancora una possibilità. A tre metri di sicuro.

— E in questo modo la ragazza si salverebbe?

— È probabile.

C'era qualcosa che mi inquietava. In questo silenzio anormale, ora che persino le auto cercavano di aggirare il quartiere condannato, si udivano comunque dei suoni…

Poi capii. Erano i cani che guaivano. In tutti gli appartamenti delle case circostanti dei poveri cani indifesi si lamentavano penosamente con i loro padroni. Vedevano approssimarsi l'inferno.

— Ol'ga. Forniscimi tutti i dati sulla ragazza.

— Svetlana Nazarova. Venticinque anni. Medico, lavora al Policlinico 17. Fuori del controllo della Guardia della Notte. Fuori del controllo della Guardia del Giorno. Non ha rivelato poteri magici. I genitori e il fratello minore vivono a Brateevo; con loro ha contatti sporadici, soprattutto telefonici. Quattro amici sorvegliano che sia tutto "pulito". Rapporti con le persone sereni, non è stato rilevato nessun forte conflitto.

— Fa il medico — dissi io, assorto. — Forse questo è un indizio, Ol'ga. Magari un vecchio o una vecchia… insoddisfatti della cura. Negli ultimi anni di vita a volte possono verificarsi esplosioni di poteri magici latenti…

— Occorre controllare… — replicò Ol'ga. — Per ora non abbiamo dati in tal senso.

Eh, già. Era sciocco buttarsi a indovinare. Per mezza giornata sulla ragazza avevano operato persone decisamente più intelligenti di me.

— Cosa abbiamo ancora?

— Gruppo sanguigno: 0. Non risultano patologie gravi, sporadici e lievi dolori cardiaci. Il suo primo rapporto sessuale l'ha avuto a diciassette anni con un coetaneo, per curiosità. È stata sposata per quattro mesi ed è divorziata da due anni, con l'ex marito è in rapporti amichevoli. Niente figli.

— Poteri del marito?

— Zero. Ha una nuova moglie, anche lei zero poteri. Immediatamente eseguiti i controlli.

— Nemici?

— Due colleghe maligne al lavoro. Due spasimanti respinti, sempre sul luogo di lavoro. Un compagno di scuola che sei mesi fa ha cercato di ottenere un certificato ospedaliero falso.

— E…

— Lei si è rifiutata.

— Però! E come sono messi a poteri magici?

— Praticamente zero. Il livello di malvagità è quello ordinario. Tutti quanti hanno poteri magici deboli. Non sarebbero mai capaci di scatenare un turbine come questo.

— Si sono verificate morti di pazienti negli ultimi tempi?

— No.

— E allora da dove viene la maledizione? — dissi, facendo una domanda retorica. Ora era chiaro come mai i Guardiani si fossero arenati. Svetlana era proprio una brava bambina. Cinque nemici in venticinque anni, c'era da esserne fieri.

Ol'ga tacque.

— Dobbiamo andare — dissi. Mi voltai verso la finestra dove si scorgevano i profili dei ragazzi. Uno della sorveglianza mi fece un cenno di saluto. — Ol'ga, come ha lavorato Ignat?

— Mediamente bene. Incontro per strada, secondo la variante "intellettuale imbranato". Un caffè al bar. Conversazione. Il livello di attrazione nell'oggetto si è subito accresciuto, Ignat ha optato per un atteggiamento di maggiore intimità. Ha comprato una bottiglia di spumante e una di liquore e sono venuti qui.

— E poi?

— Il turbine ha cominciato ad aumentare.

— Motivo?

— Nessuno. Ignat le era piaciuto, anzi, lei cominciava a sentire una forte infatuazione per lui. Ma in quel momento la dimensione del vortice è aumentata in modo catastroficamente rapido. Ignat ha sperimentato tre stili di comportamento, giungendo persino all'inequivocabile richiesta di fermarsi la notte e il vortice è arrivato a uno stadio esplosivo. È stato richiamato e il vortice si è stabilizzato.

— E come hanno fatto a richiamarlo?

Ero già congelato e avvertivo uno sgradevole senso di bagnato negli scarponi. Non ero ancora pronto a intervenire.

— «La mamma sta male.» Telefonata al cellulare, la conversazione, le scuse, la promessa di richiamare l'indomani. Tutto "pulito", l'oggetto era al di sopra di ogni sospetto.

— E il vortice si è stabilizzato?

Ol'ga tacque. Evidentemente doveva essersi messa in contatto con gli analisti.

Eppure c'era qualcosa che non andava. Solo che non potevo formulare in nessun modo i miei vaghi sospetti.

— Dov'è il suo ambulatorio, Ol'ga?

— Qui, da queste parti. Nella casa. Da lei vanno abbastanza spesso dei pazienti… Dicono che si è persino ridotto di tre centimetri. Ma potrebbe essere un normale assestamento dopo l'aumento di dimensioni.

— Magnifico. Allora andrò da lei in veste di paziente.

— Hai bisogno di essere dotato di una finta memoria?

— Me la caverò.

— Il Capo approva — rispose Ol'ga dopo una pausa. — Agisci. Il tuo travestimento è quello di Anton Gorodeckij, programmatore, scapolo, in cura da tre anni per ulcera gastrica, vive nello stesso stabile; in caso di necessità forniremo servizi logistici.

— Tre anni sono troppi — dichiarai io. — Facciamo uno. Massimo uno.

— Va bene.

Fissai Ol'ga e lei fissò me, col suo sguardo immobile da uccello da cui però ancora s'intuiva una traccia della donna aristocratica e coperta di sudiciume che aveva bevuto il cognac in cucina da me.

— Buona fortuna! — mi augurò. — Cerca di ridurre il vortice. Almeno di una decina di metri… poi sarò io a rischiare.

L'uccello volò via e sparì nel Crepuscolo, chissà dove, nei suoi strati più profondi.

Sospirando, raggiunsi l'edificio. La proboscide del turbine ondeggiava, cercando di sfiorarmi. Io tesi le palme, incrociandole, in segno di allontanamento.

Il turbine sussultò e rotolò via. Senza timore, piuttosto accettando le regole del gioco. Con simili dimensioni e pronto a esplodere in modo infernale, doveva comportarsi con raziocinio e non diventare un missile telecomandato, ma un feroce ed esperto kamikaze. Suonava buffo: "un esperto kamikaze", anche se, riferita alle Tenebre, questa definizione era appropriata. Irrompendo nel mondo degli uomini, il turbine infernale era destinato a perire, ma non era molto di più che la morte di una vespa in un immenso sciame.

— La tua ora non è ancora venuta — dissi. Il turbine infernale non poteva rispondere, ma io avevo comunque voglia di dirlo.

Passai accanto al vertice che sembrava fatto di vetro nero che avesse acquisito l'elasticità della gomma. La sua superficie esterna era quasi immobile, ma in profondità, dove il blu scuro era buio insondabile, s'intuiva un mulinare furioso.

Forse avevo torto. O forse l'ora era venuta…

Nella casa non c'era neppure un codice per entrare. C'era una serratura, ma era stata rotta, scardinata. Era normale. Un piccolo benvenuto dalle Forze delle Tenebre. Mi ero già disabituato a prestare attenzione ai loro impercettibili aloni, alle scritte e alle tracce delle loro suole sudicie sui muri, alle lampadine fulminate e agli ascensori fuori uso. Ma ora ero su di giri.

Non mi occorreva nemmeno conoscere il suo indirizzo. Sentivo la ragazza — non era il caso di non chiamarla ragazza solo per via del matrimonio, era più che altro la categoria dell'età a contare — sapevo dove andare, avevo già visto il suo appartamento, o meglio, non è che l'avessi visto, l'avevo percepito nella sua interezza.

L'unica cosa che non capivo era come togliere di mezzo quel maledetto vortice…

Mi fermai davanti alla porta, una porta normale, non blindata, il che era assai strano a pianterreno, per di più con la serratura del portone rotta. Sospirai profondamente e suonai. Erano le undici. Un po' tardi, certo.

Si udirono dei passi. Nessuna sensazione di isolamento acustico…

Capitolo 7

Aprì subito la porta.

Senza fare una domanda, senza guardare dallo spioncino, senza mettere la catenella. Eppure abitava a Mosca! Era notte! Si trovava da sola nell'appartamento! Il turbine aveva fagocitato anche gli ultimi residui di prudenza, la stessa che consente a una ragazza di resistere anche per parecchi giorni. Ecco com'è che muoiono di solito le persone sulle quali è caduta una maledizione…

Ma esteriormente Svetlana per il momento restava normale. Eccezion fatta per le borse sotto gli occhi… ma chi poteva mai dire come aveva trascorso la notte? Ed era vestita… aveva una gonna, una blusa elegante e le scarpe ai piedi, come se aspettasse qualcuno o si preparasse a uscire.

— Buonasera, Svetlana — dissi, già vedendo dal suo sguardo che dava segno di riconoscermi. Certo doveva conservare un assai vago ricordo di me dal giorno prima. E quell'istante in cui lei aveva capito che ci conoscevamo, senza ricordare come, andava sfruttato.

Mi allungai attraverso il Crepuscolo. Con cautela, perché il turbine era quasi incollato sopra la testa di lei e poteva scatenarsi una reazione in qualsiasi istante. Con cautela, perché non avevo voglia di ingannarla.

Anzi, desideravo solo il suo bene.

Può essere interessante e divertente solo la prima volta. Ma se continui a trovarlo interessante anche dopo, non c'è posto per te nella Guardia della Notte. Un conto è modificare le categorie morali, e sempre dalla parte del Bene. Un altro è interferire nella memoria. È inevitabile, bisogna farlo, è previsto dal Patto e il processo di entrata e uscita dal Crepuscolo provoca in chi sta intorno un'amnesia momentanea.

Ma se anche solo una volta provi piacere a giocare con la memoria altrui, è venuta per te l'ora di andartene.

— Buonasera, Anton. — La sua voce diventò fluida quando la costrinsi a ricordare ciò che non era mai avvenuto. — Le è successo qualcosa?

Sorrisi con malignità, battendomi lo stomaco. Nella memoria di Svetlana era in corso un uragano. Non ero così in gamba da poterla dotare di una memoria prefabbricata e falsa. Per fortuna bastava darle due o tre input e poi si sarebbe ingannata da sola. Aveva assemblato la mia immagine da quella di un suo remoto conoscente che mi somigliava fisicamente e da un altro ancora più remoto e fortuito, ma che le era simpatico, da una ventina di pazienti della mia stessa età e da qualche vicino di casa. Io avevo appena interferito nel processo, stimolando Svetlana a elaborare l'intera immagine. Una brava persona… un nevrotico… per questo è spesso malato… flirta un po', ma solo un po'… è molto insicuro… vive nella scala accanto.

— Ha dolore? — disse, concentrandosi. Era davvero un bravo medico. Un medico per vocazione.

— Un po'. Ieri sera ho bevuto. — Tutto il mio aspetto esprimeva pentimento.

— Anton, l'avevo avvertita… Entri…

Entrai e chiusi la porta, lei non si preoccupò nemmeno di questo. Quando mi fui spogliato, mi guardai intorno nel mondo ordinario e in quello del Crepuscolo.

Una tappezzeria a buon mercato, un tappetino logoro sotto i piedi, vecchi stivali, il lampadario che pende dal soffitto con una semplice lampadina di vetro, il radiotelefono sul muro, con un pessimo ricevitore cinese. Un ambiente povero, pulito, dozzinale. E non solo perché fare il medico d'ambulatorio non rende molto. Piuttosto è lei a non avere ambizioni di benessere e comfort. Male… molto male.

Nel mondo crepuscolare l'appartamento faceva un'impressione quasi migliore. Nessun vegetale ripugnante, nessuna traccia delle Forze delle Tenebre. Se si esclude il vortice malefico, certo. Che imperava… Lo vedevo tutto intero, dal vertice che si avvitava sopra la testa della ragazza fino all'infiorescenza che si dilatava per un'altezza di trenta metri.

Seguendo Svetlana, entrai nell'unica stanza. Qui era più accogliente. Il divano brillava di un caldo color arancione e nell'angolo c'era una vecchia lampada a stelo. Due pareti erano coperte da scaffali stipati di libri: sette, posti l'uno sopra l'altro in altezza… Era tutto chiaro.

Cominciavo a capirla. Non come oggetto di lavoro, né come ipotetica vittima di un mago delle Tenebre che aveva agito di sua iniziativa, e nemmeno come causa involontaria di disastro, ma come persona. Una ragazzina che viveva solo di libri, introversa e piena di complessi, con in testa un mucchio di ridicoli ideali e il sogno infantile del principe azzurro che era in cerca di lei e che un giorno l'avrebbe senz'altro trovata. La professione di medico, qualche amica, qualche amico e molta, moltissima solitudine. Lavoro coscienzioso, come nel codice del costruttore del comunismo, rare uscite al caffè e rari innamoramenti. E le sere, tutte identiche l'una all'altra, sul divano con un libro, il telefono accanto e il ronzio rassicurante e narcotizzante del televisore in sottofondo.

Non è possibile.

Ogni azione del Bene è accettazione dell'esistenza dell'attività del Male. Il Patto! La Guardia! L'equilibrio del mondo!

Sopporta o impazzisci, viola la legge o vai tra la folla, distribuisci alla gente regali non richiesti, contravvenendo al destino e aspettandoti a ogni svolta di imbatterti in ex amici o eterni amici pronti a spedirti nel Crepuscolo. Per sempre…

— Anton, come sta sua madre?

Ah, già. Io, il paziente Anton Gorodeckij, ho una vecchia madre che soffre di osteoporosi e di tutte le malattie tipiche degli anziani. Anche lei è una paziente di Svetlana.

— Bene, bene. Sono io che…

— Si sdrai.

Mi tolsi il maglione e la camicia, e mi sdraiai sul divano. Svetlana mi sedette accanto. Passava le sue calde dita sul mio stomaco, palpando per qualche ragione il fegato.

— Le fa male?

— No… ora no.

— Quanto ha bevuto?

Rispondevo alle domande, scovando le risposte nella memoria della ragazza. Non conveniva affatto far la parte di quello che stava per morire. Sì… dolori sordi, non forti… Dopo mangiato… Ecco, adesso si fa un pochino sentire…

— Per ora è solo una gastrite, Anton… — Svetlana aveva finito di visitarmi. — Non c'è da essere contenti, lo capisce anche lei. Adesso le scrivo la ricetta…

Si alzò, andò verso la porta, tolse dall'attaccapanni la borsetta. Per tutto il tempo io avevo controllato il vortice: non era accaduto niente, il mio arrivo non aveva provocato nessuna intensificazione infernale, ma non ero riuscito neppure a indebolirlo…

Anton… - Dal Crepuscolo trapelò una voce, e io riconobbi Ol'ga. — Anton, il vortice si è ridotto di tre centimetri. Forse hai fatto la mossa giusta. Pensaci, Anton.

La mossa giusta? Quando? Eppure non avevo fatto nulla, avevo solo trovato il pretesto per la visita!

— Anton, ha ancora del Maalox in casa? — Svetlana mi guardò. Mi aggiustai la camicia e risposi: — Sì, ne ho ancora qualche compressa.

— Quando arriva a casa, ne prenda una. E domani ne comprerà dell'altro. Lo prenda per due settimane, la sera prima di andare a dormire.

Svetlana era evidentemente uno di quei dottori che credevano nelle medicine. Non mi turbava, anch'io ci credevo. Noi, gli Altri, proviamo di solito un entusiasmo irrazionale per la medicina, e persino nei casi in cui sono sufficienti degli elementari rimedi magici propendiamo per la Tachipirina e gli antibiotici.

— Svetlana… mi perdoni se glielo chiedo — dissi, distogliendo lo sguardo in modo colpevole. — Ma ha qualche problema?

— Come le viene in mente, Anton? — Non smise di scrivere e neppure alzò gli occhi. Ma s'irrigidì.

— Mi era sembrato. L'ho offesa in qualche modo?

La ragazza depose la penna e mi guardò con curiosità e una certa simpatia.

— Ma no, Anton, cosa dice? Forse è solo l'inverno. L'inverno troppo lungo.

Sorrise tesa e il vortice infernale ondeggiò sopra di lei, muovendo rapacemente il vertice…

— Il cielo è tutto grigio, il mondo è tutto grigio. E non si ha voglia di far niente. Sono stanca, Anton. Verrà la primavera e passerà.

— Lei è depressa, Svetlana — azzardai, prima di rendermi conto di aver ricavato questa diagnosi proprio dalla sua memoria. Ma la ragazza non vi fece caso.

— Sì, forse. Non fa niente, adesso comparirà il sole… Grazie per la sua premura, Anton.

Questa volta il sorriso era più sincero, anche se forzato.

Dal Crepuscolo giunse il sussurro di Ol'ga: — Anton, dieci centimetri in meno! Il vortice si affloscia. Gli analisti sono al lavoro, Anton, continua a dialogare!

Che cosa sto facendo di giusto?

Questa domanda era anche più terribile di "che cosa sto facendo di sbagliato?" Se sbagli, puoi cambiare abbastanza bruscamente la tua linea di condotta. Ma se hai centrato lo scopo, senza nemmeno saperlo, allora ti conviene gridare aiuto. È faticoso essere un pessimo arciere che ha colpito per sbaglio una mela e che si sforza di ricostruire il movimento delle braccia e la direzione dello sguardo, la tensione del dito che ha tirato… senza rendersi conto che ha colpito il bersaglio per merito di una folata impetuosa di vento.

Io ero conscio del fatto che me ne stavo lì a guardare Svetlana. E che lei a sua volta mi fissava, seria, in silenzio.

— Mi perdoni — le dissi. — Svetlana, mi perdoni, per amor del cielo. Sono piombato qui di sera e m'immischio in affari che non mi riguardano…

— Non fa niente. Anzi, mi fa piacere, Anton. Lo vuole un tè?

Venti centimetri in meno, Anton! Accetta!

Persino questi centimetri di riduzione del vortice che s'era scatenato come l'inferno erano un dono del destino. Erano vite umane. Decine o addirittura centinaia di vite umane strappate a una catastrofe ineluttabile. Non sapevo come mai accadesse, ma aumentavo le difese di Svetlana contro l'inferno. E il vortice cominciava a dissolversi.

— Grazie, Svetlana, volentieri.

La ragazza si alzò e andò in cucina. E io la seguii. Ma che cosa accadeva?

Anton, l'esame preliminare è pronto…

Mi sembrò che alla finestra, tra i tendoni scostati, balenasse la bianca figura di un uccello e che sfrecciasse lungo la parete, sulle tracce di Svetlana.

Ignat ha agito secondo la procedura: complimenti, curiosità, seduzione, innamoramento. A lei piaceva, ma questo ha provocato l'estendersi del vortice. Anton, tu segui un altro percorso, quello della partecipazione. E per di più della partecipazione disinteressata, passiva.

Di raccomandazioni non ne erano arrivate, significava che non erano giunti ancora a nessuna conclusione analitica. Ma almeno sapevo come mi sarei dovuto comportare. Guardare con tristezza, sorridere con partecipazione, bere il tè e dire: "Hai gli occhi stanchi, Sveta…"

Perché di certo saremmo passati al "tu". Era inevitabile. Non avevo dubbi.

— Anton?

L'avevo fissata troppo a lungo. Svetlana era rimasta immobile davanti alla cucina a gas con la pesante teiera resa opaca dal vapore. Non è che si fosse spaventata, questo sentimento ormai le era inaccessibile, completamente assorbito dal vortice malefico. Più che altro sembrava contrariata.

— Qualcosa non va?

— Sì, mi sento in imbarazzo, Svetlana. Sono arrivato nel cuore della notte, mi sono lamentato dei miei problemi e ora mi sono anche fermato per un tè…

— Anton, la prego di restare. Sa, oggi ho avuto una giornata tanto strana che rimanere qui da sola… Facciamo così, questo sarà il mio onorario per la visita… Lei si siederà qui e converserà un po' con me — si affrettò ad aggiungere.

Annuii. Qualunque parola rischiava di essere sbagliata.

Il vortice è diminuito ancora di quindici centimetri. Anton, hai scelto la tattica giusta!

Io non avevo scelto proprio nulla! Come facevano a non capirlo, analisti dei miei stivali? Avevo adoperato i miei poteri di Altro per entrare nella casa di un'estranea, penetrare nella sua memoria e prolungare così la mia permanenza là… e ora seguivo semplicemente la corrente.

E speravo che il fiume mi avrebbe condotto dove bisognava.

— Vuole marmellata?

— Sì…

Che follia questo tè! Altro che Carroll! I tè più folli non sono quelli nella tana del coniglio, al tavolo del cappellaio matto, della lepre marzolina e del ghiro! Una minuscola cucina di un minuscolo appartamento, l'infuso di tè del mattino a cui è stata aggiunta dell'acqua bollente, la marmellata di lamponi dal barattolo da tre litri, ecco dove attori incompresi recitavano la vera, folle scena del tè. Qui, e solo qui, avrebbero detto parole che mai avrebbero pronunciato altrimenti nella vita. Qui con un gesto da prestigiatore avrebbero estratto dal buio i loro piccoli ripugnanti segreti, dall'armadio i loro scheletri di famiglia, e rinvenuto nella zuccheriera cianuro di potassio. E nessuno avrebbe trovato un pretesto per alzarsi e andarsene perché nel frattempo avrebbero servito il tè, offerto la marmellata e avvicinato la zuccheriera aperta…

— Anton, è ormai da un anno che la conosco…

Un'ombra, una fuggevole ombra di smarrimento nello sguardo della ragazza. La memoria riempie diligentemente le lacune, suggerisce spiegazioni del perché io, un ragazzo così buono e simpatico, devo restare per lei solo un paziente.

— Di solito parliamo solo di lavoro, ma adesso… per qualche motivo, ho voglia di parlare con lei come a un vicino di casa. Come a un amico. Va bene?

— Certo, Sveta.

Un sorriso di gratitudine. Al mio nome è difficile trovare un diminutivo appropriato. Antoska suona un po' azzardato, troppo confidenziale.

— Grazie, Anton. Sai… davvero non sono più la stessa, ormai da tre giorni.

Certo. È difficile restare se stessi quando su di te pende la spada di Nemesi. Della cieca, furiosa Nemesi, scaturita dal regno dei morti…

— Be', ecco, oggi… mah, lasciamo perdere…

Voleva raccontarmi di Ignat. Non capiva che cosa le fosse accaduto, perché con quel conoscente occasionale per poco non era finita a letto. Le sembrava di essere sul punto di impazzire. A tutti gli esseri umani che sono entrati in contatto con gli Altri viene un pensiero del genere.

— Svetlana… hai litigato forse con qualcuno?

Era una mossa rozza. Ma avevo fretta, senza sapere neppure io il perché. Il vortice era stabile, anzi, tendeva a diminuire, eppure avevo fretta.

— Come mai ti è venuto in mente?

Svetlana non era stupita e non considerava questa una domanda troppo personale. Mi strinsi nelle spalle e cercai di spiegare: — A me succede spesso.

— No, Anton. Non ho litigato con nessuno. Per nessun motivo, con nessuno. È dentro di me che…

Hai torto, ragazza. Tu non l'immagini nemmeno quanto hai torto. Sopra di te c'è un vortice malefico di dimensioni tali che solo una volta ogni cent'anni ne compare uno simile. E ciò significa che qualcuno ti sta odiando con una forza raramente consentita a un essere umano… o a un Altro.

— Forse bisognerebbe prendersi una vacanza — proposi. — Andarsene da qualche parte, lontano…

Lo dissi, e all'improvviso pensai che una soluzione del problema c'era. Fosse pure non definitiva e rischiosa per la vita di Svetlana. Lontano. Nella taiga, nella tundra, al Polo Nord. E lì ci sarebbe stata l'eruzione di un vulcano, o sarebbe caduto un asteroide o un missile con testate nucleari. Si sarebbe scatenato l'inferno, ma ne avrebbe sofferto solo Svetlana.

Che fortuna che simili decisioni siano impossibili per noi quanto l'assassinio richiesto da un mago delle Tenebre.

— A cosa pensi, Anton?

— Sveta, che ti è successo?

Anton, troppo brutale! Continua a conversare, Anton!

— Possibile che si noti tanto?

— Sì.

Svetlana abbassò gli occhi. Mi aspettavo di sentir gridare Ol'ga che il vortice malefico aveva cominciato a estendersi catastroficamente, ineluttabilmente, che avevo rovinato, distrutto tutto e che d'ora in poi avrei avuto sulla mia coscienza migliaia di vite umane… Ol'ga taceva.

— Ho tradito…

— Cosa?

— Ho tradito mia madre.

Mi fissava seria, senza l'odiosa posa di chi ha compiuto una bassezza e gigioneggia per questo.

— Non capisco, Sveta.

— Mia madre è malata, Anton. Ai reni. Ha bisogno di emodialisi… che però è solo un palliativo. Insomma… mi hanno proposto… un trapianto.

— Perché a te? — Ancora non capivo.

— Mi hanno proposto di donare un rene. A mia madre. È quasi certo che vivrebbe e ho superato anche tutti i test… Poi ho rifiutato. Ho… ho paura.

Tacevo. Ormai era tutto chiaro. Qualcosa aveva funzionato, qualcosa aveva agito in me, inducendo Svetlana a confidarsi apertamente. Sua madre.

Sua madre!

Anton, sei in gamba! I ragazzi sono partiti. - La voce di Ol'ga era esultante. E così avevamo trovato il mago delle Tenebre! — Però… e dire che al primo contatto nessuno l'aveva percepito, solo una bolla di sapone… Bravo! Rassicurala, Anton, parlale, consolala…

Nel Crepuscolo non devi turarti le orecchie. Devi ascoltare quel che ti dicono.

— Svetlana, nessuno ha il diritto di pretendere questo…

— Sì, io l'ho detto alla mamma… e lei mi ha risposto di scordarmene. Ha detto che l'avrebbe fatta finita, se avessi preso questa decisione. Tanto, che importava… doveva morire comunque. A me non costava restare menomata. Era fuori discussione. Dovevo donare il rene. Magari l'avrebbe saputo dopo l'operazione! Si può persino partorire con un rene solo… ci sono dei precedenti.

I reni. Che sciocchezza. Che inezia. Un'ora di lavoro per un mago bianco. Ma a noi non è consentito guarire, ogni vera guarigione è la concessione a un mago delle Tenebre di una nuova maledizione, di una nuova iettatura. E così una madre… una madre naturale, senza che se ne renda conto lei stessa, in un accesso momentaneo di emozioni, pur dicendo a parole una cosa e proibendo alla figlia anche di pensare all'operazione, la maledice. E scoppia quel mostruoso vortice nero.

— Ora non so cosa fare, Anton. Mi comporto da sciocca. Oggi per poco non saltavo nel letto di uno sconosciuto. — Svetlana alla fine si era decisa a dirlo, anche se non richiedeva meno coraggio del racconto su sua madre.

— Sveta, si può trovare una soluzione — presi a dire. — Capisci, l'essenziale è non arrendersi, non colpevolizzarsi per niente…

— Ma io gliel'ho detto apposta, Anton! Lo sapevo che avrebbe risposto così! Io volevo che me lo proibisse! Avrebbe dovuto maledirmi, idiota che non sono altro!

Svetlana, tu non sai quanto hai ragione… Nessuno sa quali meccanismi agiscano, che cosa succeda nel Crepuscolo e quale differenza esista tra la maledizione di uno sconosciuto e la maledizione di un essere amato, la maledizione di un figlio o di una madre. Solo che la maledizione di una madre è la più terribile di tutte.

Anton, calma.

La voce di Ol'ga mi fece rinsavire all'istante.

È troppo semplice, Anton. Hai mai avuto a che fare con maledizioni materne?

— No — dissi io. Lo dissi a voce alta, rispondendo a Svetlana e a Ol'ga insieme.

— Sono colpevole — disse Svetlana. scuotendo il capo. — Grazie, Anton, ma sono davvero colpevole.

Io ci ho avuto a che fare - intervenne una voce dal Crepuscolo. — Anton, caro, non appare così! L'ira materna assume la forma di un lampo nero luminoso e di un grande vortice. Ma si dissolve in un istante. Quasi sempre.

Forse. Non intendevo discutere. Ol'ga era una specialista di maledizioni. Ne aveva viste di ogni genere. Sì, certo, al proprio figlio non si augura il male… o meglio, non lo si augura troppo e a lungo. Ma esistono delle eccezioni.

Le eccezioni sono possibili - concordò Ol'ga. — Ora sua madre verrà subito sottoposta a tutti i controlli. Ma non confiderei in un successo troppo rapido.

— Svetlana, non esiste un'altra via d'uscita? Non c'è un altro modo per aiutare tua madre? Oltre al trapianto, voglio dire?

— No, io sono medico, lo so. La medicina non è onnipotente.

— E se ci fosse, al di fuori della medicina?

Svetlana indugiò. — Di cosa stai parlando, Anton?

— Della medicina non ufficiale — dissi. — Di quella popolare.

— Anton…

— Lo capisco, Svetlana, è difficile crederci — mi affrettai a dire. — C'è una quantità di ciarlatani, affaristi, psicopatici. Ma non saranno solo menzogne…

— Anton, mostrami uno che abbia davvero guarito una grave malattia. — Svetlana mi guardò con ironia. — Non raccontarmelo, mostramelo. Mostrami questa persona e i suoi pazienti, preferibilmente prima e dopo la cura. E allora ci crederò, crederò a tutto. Ai sensitivi, ai chiropratici, ai maestri di magia bianca e nera…

Senza volere si ripiegò su se stessa. Su quella ragazza incombeva la più esorbitante prova dell'esistenza della magia nera, una prova da manuale.

— Posso dimostrarlo — dissi. E mi rammentai di quando avevano portato Danila in ufficio. Si trattava di un normale scontro… non proprio il più banale, ma neppure così grave. Semplicemente gli era andata male. Avevano preso una famiglia di mutantropi per qualche lieve violazione del Patto. I mutantropi avrebbero potuto arrendersi e tutto si sarebbe concluso con una breve indagine tra i Guardiani.

Ma i mutantropi preferirono resistere. Forse avevano lasciato una traccia… una traccia di sangue di cui i Guardiani della Notte non erano al corrente e di cui non avrebbero scoperto mai niente. Danila avanzò per primo e lo massacrarono ben bene. Il polmone sinistro, il cuore, una profonda ferita al fegato e un rene strappato di netto.

A sistemare Danila fu il Capo, assistito da quasi tutto il personale della Guardia, da coloro che in quel momento avevano i poteri. Io stavo nel terzo cerchio: il nostro compito non era tanto quello di alimentare l'energia del Capo, quanto quello di riflettere l'influenza esterna. Tuttavia di tanto in tanto osservavo Danila. Affondava nel Crepuscolo, ora da solo ora con il Capo. A ogni suo ritorno nella realtà le ferite diminuivano. Più che essere complicato, risultava suggestivo, tanto più che tutte le ferite erano fresche e non predeterminate dal destino. Non avevo dubbi che il Capo fosse in grado di guarire anche la madre di Svetlana. Se anche il suo destino fosse precipitato nell'immediato futuro, se anche fosse destinata alla morte, era possibile guarirla. La morte sarebbe sopravvenuta per altre ragioni…

— Anton, non hai paura di affrontare simili argomenti?

Mi strinsi nelle spalle. Svetlana sospirò: — Regalare una speranza è una bella responsabilità. Anton, io non credo nei miracoli. Ma ora sono pronta a farlo. Tu non hai paura?

La guardai negli occhi.

— No, Svetlana. Ho paura di tante cose. Ma diverse.

Anton, il vortice si è ridotto di venti centimetri. Anton, il Capo mi ha pregato di riferirti che sei in gamba.

Qualcosa non mi piacque nel suo tono. Il dialogo attraverso il Crepuscolo non è come un dialogo qualunque, e tuttavia le emozioni si avvertono.

Che è successo? - chiesi attraverso la grigia, morta pellicola.

Lavora, Anton.

Che è successo?

— Potessi avere io una tale sicurezza — fece Svetlana. Guardò dalla finestra: — Non hai sentito un fruscio?

— È il vento — congetturai io. — Oppure è passato qualcuno.

Ol'ga, parla!

Anton, col vortice va tutto bene. Si riduce lentamente. In qualche modo riesci a elevare la sue difese interiori. In base ai nostri calcoli, verso mattina il vortice dovrebbe ridursi a una dimensione di accettabile pericolosità.

Allora che problemi ci sono? Ol'ga, ci sono dei problemi, lo sento!

Ol'ga taceva.

Ol'ga, non siamo soci?

Questo avrebbe dovuto funzionare. Non potevo vedere la civetta bianca, ma sapevo che le brillavano gli occhi e che aveva guardato per un istante la finestra del quartier generale operativo. E il volto del Capo e dell'osservatore delle Tenebre.

Anton, ci sono dei problemi con il ragazzo.

Con Egor?

— Anton, a cosa stai pensando? — chiese Svetlana. Era faticoso comunicare simultaneamente con la realtà ordinaria e col mondo del Crepuscolo.

— Che sarebbe bello potersi sdoppiare.

Anton, tu hai una missione di gran lunga più importante.

Ol'ga, parla.

— Non ti capisco, Anton. — Era di nuovo Svetlana.

— Sai, ho capito che un mio conoscente ha dei problemi. Problemi seri. — La guardai negli occhi.

La vampira ha preso il ragazzino.

Non provai niente… né commozione, né pena, né ira o tristezza. Solo una sensazione di freddo e di vuoto dentro di me.

Forse era proprio perché me l'aspettavo. Non so perché, ma me l'aspettavo.

Ma ci sono Orso e Tigrotto con lui!

È andata così.

Che gli è successo?

Che almeno non fosse stato iniziato! Meglio la morte, una semplice morte. La morte eterna è terribile.

È vivo. Lei l'ha preso in ostaggio.

Cosa?

Non poteva essere. Non era mai accaduto prima. Quello di prendere ostaggi è un divertimento da esseri umani.

La vampira chiede di trattare. Vuole andare in giudizio… spera di cavarsela.

Diedi mentalmente alla vampira un dieci e lode per il suo acume. Non aveva alcuna possibilità di farla franca. Ma poteva sempre attribuire tutta la responsabilità al compagno ucciso che l'aveva iniziata… Non so niente, non ho visto niente. Sono stata morsa. E sono diventata così come mi vedete. Non conoscevo le regole. Non ho mai letto il Patto. Sarò una vampira normale, rispettosa delle leggi…

Poteva anche andarle bene! Soprattutto se i Guardiani della Notte avessero accettato di scendere a un compromesso. E saremmo scesi… non c'era via d'uscita per noi: ogni vita umana deve essere difesa.

Mi sentii sollevato. Dopotutto, chi era questo ragazzino per me? Se gli fosse toccato in sorte, avrebbe dovuto trasformarsi in una preda legale di vampiri e mutantropi. Così è la vita. E io sarei passato oltre. E se anche non gli fosse toccato, quante volte i Guardiani della Notte non avevano fatto in tempo, quanti esseri umani erano periti a causa delle Tenebre… Ma era strano: io per lui avevo già affrontato uno scontro, ero entrato nel Crepuscolo, avevo versato sangue. Non mi era proprio indifferente…

I tempi della comunicazione nel Crepuscolo sono assai più rapidi di quelli di una conversazione nel mondo degli uomini. E tuttavia ero costretto a dividermi tra Ol'ga e Svetlana.

— Anton, non arrovellarti sui miei problemi.

Malgrado tutto, avevo voglia di scoppiare in una risata. Sui suoi problemi si stavano arrovellando centinaia di teste, e Svetlana neppure ci pensava o se ne accorgeva. Ma era valsa la pena ricordare che esistevano anche i problemi altrui, inezie se paragonati al vortice infernale, poiché la ragazza li aveva fatti per un momento propri.

— Sai, esiste una legge — esordii. — La legge della dualità. È vero, tu hai delle difficoltà, ma anche un'altra persona può avere seri problemi. Sono solo suoi problemi personali, ma ciò non lo fa certo sentire meglio.

Aveva compreso, e ciò che mi piacque fu che non si adombrò. Si limitò a precisare: — Anche i miei sono problemi personali.

— Non del tutto — replicai. — Così almeno mi pare.

— E quella persona tu puoi aiutarla?

— L'aiuteranno senza di me — dissi.

— Ne sei sicuro? Grazie per avermi ascoltato, ma adesso così su due piedi non è possibile aiutarmi. È il destino che è davvero idiota.

Mi sta mandando via? - chiesi attraverso il Crepuscolo. Non avrei voluto toccare la sua coscienza ora.

No - replicò Ol'ga. — No… Anton, lei sente.

Possibile che avesse dei poteri come gli Altri? O si trattava di un flash provocato dalla catastrofe infernale che incombeva?

Che cosa sente?

Che là hanno bisogno di te.

Perché di me?

Quella carogna succhiasangue… chiede di trattare solo con te. Con te che gli hai ucciso il partner.

E a questo punto mi sentii davvero male. Da noi esisteva un corso facoltativo sulle misure antiterrorismo, per non dover ricorrere ai poteri magici se si restava invischiati in qualche regolamento di conti tra umani, più che per reali esigenze operative. Avevamo studiato la psicologia del terrorista e la vampira aveva agito in modo del tutto conseguente a quella logica. Io ero stato il primo agente della Guardia a finire sulla sua pista. Avevo ucciso il suo maestro e ferito anche lei. Avevo tutte le caratteristiche di un avversario.

È da molto che lo chiede?

Da una decina di minuti.

Guardai gli occhi di Svetlana, asciutti, calmi, senza neppure una lacrima. È più difficile quando dietro un volto tranquillo si cela il dolore.

— Sveta, e se ora me ne andassi?

Lei si strinse nelle spalle.

— E tutto così stupido… — le dissi. — Ho l'impressione che ora tu abbia bisogno di aiuto. O almeno di qualcuno che sappia ascoltarti. Che accetti di sedersi qui e beva il tè ormai freddo.

Un debole sorriso e un sì appena accennato del capo.

— Ma hai ragione… C'è un'altra persona che ha bisogno del mio aiuto.

— Anton, sei strano.

Scossi la testa. — Non sono strano. Sono molto strano.

— Ho la sensazione di conoscerti da un pezzo, ma mi sembra di vederti per la prima volta. E poi è come se tu parlassi con me e contemporaneamente con qualcun altro.

— Sì — le dissi. — È così.

— Sto forse impazzendo?

— No.

— Anton… tu non sei venuto da me per caso.

Non risposi. Ol'ga mormorò qualcosa e poi tacque. Sulla testa di Svetlana turbinava lentamente un gigantesco vortice.

— No, non per caso — le dissi. — Per aiutarti.

Il mago delle Tenebre, che aveva lanciato la maledizione, poteva sempre controllarci. Esisteva l'eventualità che non si trattasse di una incidentale "maledizione materna", ma del colpo messo a segno da un professionista…

Bastava instillare anche solo una goccia di odio in quella nube delle Tenebre, indebolire appena la volontà di vivere di Svetlana e sarebbe scoppiata la catastrofe. Nel centro di Mosca si sarebbe risvegliato un vulcano, il cervello elettronico di un missile nucleare sarebbe impazzito, un virus influenzale mutante…

Ci guardammo in silenzio.

Forse ero sul punto di capire ciò che stava avvenendo. La soluzione era lì a portata di mano, e tutte le nostre interpretazioni non erano che fesserie inutili, sciocchezze, rispetto di vecchie regole e di procedure che il Capo aveva chiesto di abbandonare. Ma per questo occorreva riflettere, astrarsi almeno per un secondo dagli avvenimenti, fissare una parete nuda o un teleschermo vuoto e non dilaniarsi tra il desiderio di aiutare un piccolo essere umano piuttosto che centinaia di migliaia di uomini.

— Sveta, devo andare — dissi.

Anton! - Non era Ol'ga, ma il Capo. — Anton…

S'impappinò: non poteva ordinarmi nulla, la situazione era, sul piano etico, in un vicolo cieco. Evidentemente la vampira insisteva sulle proprie decisioni e non intendeva trattare con nessun altro. Ordinandomi di restare, il Capo uccideva il ragazzino ostaggio… e perciò non poteva ordinarmelo. E neppure chiedermelo.

Stiamo organizzando il tuo allontanamento…

Farebbe meglio a comunicare alla vampira che sto arrivando.

Svetlana tese la mano, sfiorando il mio palmo. — Te ne vai per sempre?

— Fino al mattino — risposi.

— Non voglio — disse semplicemente lei.

— Lo so.

— Chi sei tu?

Iniziazione immediata ai segreti dell'universo?

— Te lo dirò domattina. Va bene?

Sei impazzito - risuonò la voce del Capo.

— Davvero devi andar via?

Almeno non questo, non dirle questo! - gridò Ol'ga. Aveva percepito i miei pensieri.

Ma io dissi: — Sveta, quando hai chiesto di restare menomata pur di prolungare la vita di tua madre e poi ti sei rifiutata… Era giusto e sensato, non credi? Ma ora stai male. Così male che sarebbe stato meglio agire in modo insensato.

— Se ora tu non te ne vai, starai male?

— Sì.

— Allora vai. Ma ritorna, Anton.

Mi alzai da tavola, lasciando il tè che si era raffreddato. Il vortice infernale ondeggiava sopra di noi.

— Tornerò senz'altro — le promisi. — E… credimi, non è ancora tutto perduto.

Non dicemmo più una parola. Uscii e cominciai a scendere gli scalini. Svetlana chiuse la porta. Che silenzio… che silenzio di morte, persino i cani si erano stancati di guaire quella notte.

Era irragionevole. Mi stavo comportando in modo insensato. "Quando non esiste una soluzione legittima sul piano etico, comportati in modo insensato." Chi me l'aveva detto? Era una frase dei miei vecchi appunti o di qualche lezione? O stavo cercando delle giustificazioni?

Il vortice… - bisbigliò Ol'ga. La sua voce era quasi irriconoscibile, spenta. Veniva voglia di nascondere la testa tra le spalle.

Spinsi il portone d'ingresso e mi fiondai sul marciapiede gelato. La civetta bianca vorticava, come un batuffolo di piume, sopra la mia testa.

Il turbine infernale si era ridotto, sgonfiato. Non in misura eccessiva in rapporto all'altezza, ma già lo si notava a occhio nudo, un metro e mezzo o due.

Tu sai che cosa succederà? - chiese il Capo.

Scuotendo la testa, gettai un'occhiata al turbine. Ma perché mai? Perché alla comparsa di Ignat, uno specialista nel suscitare sensazioni piacevoli negli esseri umani, il vortice infernale aveva reagito con violenza e perché invece i miei confusi discorsi e il mio improvviso allontanamento l'avevano ridotto?

È venuto il momento di cacciare il gruppo di analisti - disse Boris Ignat'evič. Capii che quelle parole non erano riferite solo a me. — Quando potremo avere una versione di ciò che è avvenuto?

Un'auto sbucò dal Zelënyj Prospekt, sgommò, m'investi con la luce dei fari, svoltò maldestramente tra le buche dell'asfalto dissestato e si arrestò davanti alla casa. La bassa cabriolet con il suo caldo colore arancio strideva tra quei desolanti casermoni dove il mezzo di trasporto più agevole continuava a restare la jeep.

Semën si sporse dal posto di guida e accennò un saluto. — Sali. Abbiamo l'ordine di portarti via a tutta velocità.

Mi voltai nella direzione di Ol'ga e lei sentì il mio sguardo.

— Il mio lavoro è qui. Parti.

Feci il giro della macchina e mi sistemai sul sedile anteriore. Dietro apparve all'improvviso Il'ja. Evidentemente il Capo aveva ritenuto necessario inviare dei rinforzi alla coppia Tigrotto-Orso.

Anton - mi giunse dal Crepuscolo la voce di Ol'ga. — Ricorda… oggi hai contratto un debito. Cerca di rammentarlo, in ogni istante…

Non compresi subito a cosa alludeva. Una giovane strega della Guardia del Giorno? Ma lei che c'entrava?

La macchina partì a razzo, sfiorando con le sospensioni gli sbarramenti anticarro gelati. Semën imprecava in modo colorito, girando il volante, e con un ruggito scontento del guidatore la macchina si mosse verso il viale.

— Da quale ragazzetta avete avuto questo trabiccolo? — chiesi. — Con un tempo simile una macchina così…

Il'ja ridacchiò: — Tsss! Boris Ignat'evič ti ha prestato la sua automobile.

— Davvero? — mi limitai a chiedere, voltandomi. Al lavoro il Capo veniva con la BMW di servizio. Non avevo mai notato in lui una propensione al lusso senza praticità…

— Davvero, Anton, come hai fatto a sistemarlo? — Il'ja indicò il turbine che incombeva sulle case. — Non avevo notato che avessi certi poteri!

— Non l'ho toccato. Mi sono limitato a parlare con la ragazza.

— A parlare? E scopare no? Non l'hai scopata?

Quello era il modo di fare di Il'ja quand'era teso per qualche motivo. E ora le ragioni per essere preoccupati non mancavano. Forse colsi una certa intenzionalità nelle sue parole… o forse mi urtò semplicemente.

— No, Il'ja, lascia stare.

— Scusa — mi disse. — Allora, che cosa hai fatto?

— Mi sono limitato a parlare.

La macchina finalmente sbucò nel viale.

— Tenetevi forte — ordinò Semën. Sprofondai nel sedile. Dietro di me Il'ja trafficava, trovò una sigaretta e l'accese.

Dopo venti secondi capii che il viaggio precedente non era stato che un'allegra e tranquilla scampagnata.

— Semën, la possibilità di un incidente la escludi a priori? — gridai. La macchina sfrecciava nella notte, come se volesse superare la luce dei suoi stessi fari.

— Sono settant'anni che sto al volante — disse Semën sprezzante. — A Leningrado durante l'assedio guidavo i camion sulla "strada della vita"!

Non c'era motivo di dubitare delle sue parole, eppure io pensai che quei viaggi dovevano essere meno pericolosi. La velocità era diversa e prevedere la caduta di una bomba per un Altro è una cosa da niente. Ora, anche se di rado, s'incrociavano delle automobili, la strada era, a dirla con un eufemismo, pessima, e la nostra auto sportiva non era assolutamente adeguata a quelle condizioni…

— Il'ja, che è successo laggiù? — chiesi, cercando di distogliere lo sguardo da un camion che ci aveva evitato. — Sei al corrente?

— Intendi con la vampira e il ragazzino?

— Sì.

— Tutta colpa della nostra idiozia. — Il'ja imprecò. — Anche se è un'idiozia relativa. Tutto è stato fatto secondo la procedura. Andava tutto bene. Mangiate, bevute, assaggi di specialità… del supermercato vicino…

Rammentai la borsa pesante di Orso.

— Insomma, si stavano divertendo. — Nella voce di Il'ja non c'era odio, ma piuttosto la benevolenza del collega. — Luce, calore, le mosche che non ti mordono… Il ragazzino stava un po' con loro e un po' nella sua stanza… Chi poteva saperlo che era già capace di entrare nel Crepuscolo?

Rabbrividii.

Sì, davvero: come si poteva sapere?

Io non l'avevo detto. Né a loro, né al Capo. A nessuno. Ero tutto compiaciuto di aver trascinato fuori il ragazzino dal Crepuscolo, a prezzo di qualche goccia del mio sangue. Un eroe. Solo sul campo di battaglia.

Il'ja proseguì, senza sospettare nulla: — La vampira l'ha agganciato col suo Richiamo. Perfettamente mirato — i nostri ragazzi non avevano sentito nulla — e forte… Il ragazzino non ha neppure aperto bocca. È entrato nel Crepuscolo e si è diretto sul tetto.

— Come?

— Dai balconi al tetto ci sono solo tre piani. La vampira era già là ad aspettarlo. Per di più sapeva che il ragazzo stava in casa con la scorta, l'aveva subodorato e subito scoperto. Ora i genitori dormono pesantemente, la vampira sta abbracciata al ragazzino. Tigrotto e Orso sono lì accanto e impazziscono.

Tacevo. Non c'era niente da dire.

— È colpa della nostra idiozia — concluse Il'ja. — E del tragico evolversi delle circostanze. Il ragazzino non era neppure stato iniziato… Chi poteva sapere che sarebbe entrato nel Crepuscolo?

— Io lo sapevo.

Forse per i ricordi. Forse per la paura dopo la folle corsa in automobile sull'autostrada. Ma io guardai nel Crepuscolo.

Come sono fortunati gli umani che non possono vederlo! Come starebbero male… Non devono vederlo!

Un cupo cielo grigio dove non ci sono, né ci saranno mai, le stelle, un cielo vischioso come gelatina, illuminato da una luce fioca, sepolcrale. Tutti i profili si attenuano, dissolvendosi, e le case, i muri sono invasi da un muschio di colore blu. E poi gli alberi, i cui rami stormiscono, ma non per il vento; i fanali delle vie, sopra cui vorticano uccelli notturni, muovendo appena le corte ali. Le auto ci vengono incontro piano, piano, gli umani passano, battendo appena i piedi. Come attraverso un filtro grigio. E i suoni sono ovattati. Come il cinema in bianco e nero, l'effetto voluto da un annoiato regista. Il mondo da cui noi attingiamo la nostra forza. Il mondo che prosciuga la nostra vita. Il Crepuscolo. Come entri, così esci. Una grigia nebbia dissolve quella membrana che si è sviluppata su di te nel corso di una vita, strappa quel nucleo che gli uomini chiamano "anima" per testarlo. E quando ti sentirai frusciare tra le fauci del Crepuscolo e avvertirai un vento gelido pungente, velenoso come la saliva di un serpente… allora diventerai un Altro.

E sceglierai da che parte stare.

— Il ragazzo è ancora nel Crepuscolo?

— Sono tutti nel Crepuscolo… Anton, ma perché non l'hai detto? — mi chiese Il'ja.

— Non ci ho pensato. Non gli attribuivo nessun significato. Io non sono un operativo, Il'ja.

Lui scosse la testa.

Non riusciamo, proprio non riusciamo a biasimarci l'un l'altro. Soprattutto quando qualcuno ha davvero delle colpe. Non ce n'è bisogno, il nostro castigo è sempre intorno a noi. Il Crepuscolo ci dà una forza, inaccessibile agli umani, ci dà una vita, secondo la concezione degli uomini, quasi eterna. Ma poi ci toglie tutto, quando giunge l'ora.

In un certo senso siamo tutti indipendenti gli uni dagli altri. Non soltanto i vampiri e i mutantropi, che siamo costretti a uccidere per continuare la nostra strana esistenza. Le Forze delle Tenebre non possono permettersi il Bene. Noi, il contrario.

— Se non dovessi cavarmela… — Non terminai la frase. Anche così era tutto chiaro.

Capitolo 8

Attraverso il Crepuscolo sembrava addirittura bello. Sul tetto, il tetto piatto di quell'assurdo "casermone con le zampe", guizzavano luci variopinte. L'unica cosa a possedere qui un colore erano le nostre emozioni. Ora più che in eccesso.

A scintillare maggiormente era una colonna fiammeggiante e purpurea che perforava il cielo: la paura e la rabbia della vampira.

— È forte — disse Semën, guardando il tetto e chiudendo con un calcio lo sportello dell'auto. Sospirò e cominciò a spogliarsi.

— Cosa fai? — gli chiesi.

— Mi arrampico sul muro… lungo i balconi. E ti consiglio, Il'ja, di entrare solo tu nel Crepuscolo. È meglio.

— Tu, invece, che cosa intendi fare?

— Quello che faccio di solito. Ci sono meno probabilità di essere notati. Non preoccupatevi… pratico l'alpinismo da sessant'anni. Sono stato io a togliere la bandiera nazista sull'Elbrus.

Semën si spogliò e restò in camicia, gettando i vestiti sulla capote. Fece un veloce sortilegio protettivo, che colpì sia i vestiti sia il trabiccolo da esibizionista.

— Sei sicuro? — m'informai.

Semën sogghignò, fece qualche flessione, roteò le braccia come un atleta durante gli esercizi di riscaldamento. E saltellando corse verso l'edificio. Un nevischio sottile gli cadeva sulle spalle.

— Ce la farà ad arrampicarsi? — chiesi a Il'ja. Sapevo come ci si arrampica sul muro di un edificio nel Crepuscolo. Almeno in teoria. Ma un'ascensione nel mondo ordinario, per di più senza alcun equipaggiamento…

— Deve — affermò Il'ja senza troppa convinzione. — Quando ha nuotato sott'acqua per dieci minuti nel fiume Jauza… pensavo anch'io che non ce l'avrebbe fatta.

— Trent'anni di lezioni di nuoto subacqueo — dissi io tetro.

— Quaranta… Io vado, Anton. Prendi l'ascensore?

— Sì.

— Allora, forza. Non indugiare.

Attraversò il Crepuscolo, inseguendo di corsa Semën. Probabilmente si sarebbero arrampicati lungo pareti diverse, ma non volevo sapere quali. Avevo anch'io la mia missione da compiere e non doveva essere delle più facili.

— Perché il Capo mi sarà venuto incontro? — bisbigliai, correndo verso l'edificio. La neve scricchiolava sotto i miei piedi e il sangue mi pulsava nelle orecchie. Mentre correvo presi dalla fondina la pistola e tolsi la sicura. C'erano otto proiettili d'argento deflagranti. Sarebbero dovuti bastare. Se solo fossi riuscito a colpirla! Se solo avessi trovato il momento giusto per mirare alla vampira senza ferire il ragazzo!

Prima o poi ti avremmo incontrato, Anton. Se non noi, i Guardiani del Giorno. E anche loro avevano tutte le probabilità di beccarti.

Non mi stupii che mi stesse seguendo. Innanzi tutto la questione era seria. E secondariamente lui era stato il mio maestro.

Boris Ignat'evič, a proposito… - Mi sbottonai la giacca e mi ficcai la pistola dietro la schiena, infilando la canna nella cintura. — …Di Svetlana…

Sulla madre sono stati effettuati tutti i controlli, Anton. Niente. Non è in grado di scagliare una maledizione. Non ha nessun potere.

No, mi riferivo ad altro. Boris Ignat'evič… ecco che cosa ho pensato. Io non ho avuto compassione di lei.

Che cosa vuoi dire con questo?

Non lo so. Ma non ho avuto compassione di lei. Non le ho fatto complimenti. Non l'ho giustificata.

Ho capito.

E ora… sparisca, per favore. È la mia missione.

Va bene. Perdonami se ti ho mandato sul campo. Buona fortuna, Anton!

Da quel che ricordavo, il Capo non s'era mai scusato con nessuno. Ma non era il momento di stupirsi… l'ascensore era arrivato.

Pigiai il pulsante dell'ultimo piano e meccanicamente afferrai la cuffia. Era strano che suonasse. Quando avevo acceso il walkman?

E cosa mi riserva il caso?

Tutto si deciderà poi, per qualcuno lui è nessuno.

Per me è il signore,

me ne starò nel buio, per qualcuno io sono un'ombra

per altri sono invisibile.

Adoro i Piknik. Curioso: avevano mai controllato se Skljarskij non fosse per caso un Altro? Sarebbe valsa la pena… O forse no. Era meglio che continuasse a fare il cantante.

Ballo fuori tempo, ogni cosa faccio fuori tempo,

e non me ne preoccupo.

Oggi sono come la pioggia che non cessa mai,

come un fiore che non sboccia mai,

io, io, io sono invisibile.

lo, io, io sono invisibile.

I nostri volti sono come fumo, fumo

e nessuno sa come vinceremo…

Poteva essere di buon auspicio quest'ultima frase?

L'ascensore si fermò.

Sbucai sul pianerottolo dell'ultimo piano, guardai la botola nel soffitto. La serratura era stata scardinata, proprio scardinata, la stanghetta divelta. Alla vampira questo non serviva, con ogni probabilità lei era volata sul tetto. Il ragazzino si era arrampicato lungo i balconi.

Allora Tigrotto e Orso. Più facilmente Orso. Tigrotto avrebbe sfondato la botola.

Mi tolsi la giacca e la gettai per terra insieme alle mie cuffie ronzanti. Toccai la pistola dietro la schiena: era messa bene. I dispositivi tecnici sono tutti quanti una cavoiata? Vedremo, Ol'ga, vedremo.

Lanciai la mia ombra in alto, proiettandola nell'aria. Sollevai le braccia e vi entrai di slancio. Dopo essere penetrato nel Crepuscolo, salii sulla scaletta. Il muschio blu. saldamente attaccato alle sbarre di metallo, balzava via come una molla da sotto le dita.

— Anton!

Sbucai sul tetto e quasi il vento mi piegò tanta era la sua forza. Raffiche violente, gelide. Forse un riflesso del vento del mondo ordinario, o forse una bizzarria del Crepuscolo. Per ora a proteggermi era la scatola di cemento del pozzo dell'ascensore che finiva sopra il tetto, ma bastava muoversi di un passo e il vento ti penetrava fin nelle ossa.

— Anton, siamo qui!

Tigrotto era a una decina di metri. La guardai, invidiandola per un attimo: lei non doveva proprio sentirlo il freddo!

Non so da dove i mutantropi e i maghi prendano la loro massa corporea per trasformarsi. Probabilmente non dal Crepuscolo, ma neppure dal mondo degli uomini. Nel suo sembiante umano, la ragazza poteva pesare cinquanta chili o poco più. E ora, sul tetto coperto di ghiaccio, nella sua forma attuale di giovane tigre in posizione da combattimento, pesava un quintale e mezzo. La sua aura era di uno sfavillante arancione, il pelo mandava piccole intense scintille. La coda si muoveva ritmicamente, a destra e a sinistra, e una zampa anteriore graffiava il bitume. In quel punto il tetto era dissestato, qualche appartamento con l'arrivo della primavera sarebbe rimasto allagato…

— Vieni più vicino, Anton — ruggì la tigre, senza voltarsi. — Eccola!

Orso si teneva più vicino alla vampira che non Tigrotto. E sembrava anche più minaccioso. Questa volta per trasformarsi aveva scelto il sembiante di un orso bianco, e per di più, a differenza degli abitanti dell'Antartide, appariva candido come la neve nelle illustrazioni dei libri per bambini. No, forse tutto sommato doveva essere un mago e non un mutantropo rieducato. I mutantropi si limitano a uno, massimo due sembianti, mentre io l'avevo visto trasformarsi in un goffo orso bruno al carnevale che avevamo organizzato per la delegazione americana della Guardia e anche in un grizzly durante le lezioni dimostrative sulla reincarnazione.

La vampira stava proprio sul bordo del tetto.

Si era visibilmente indebolita dopo il nostro incontro. Il suo viso era più scavato e le guance si erano afflosciate. Nella fase iniziale di ritrasformazione dell'organismo i vampiri hanno bisogno di sangue fresco. Comunque non bisognava lasciarsi ingannare dall'aspetto: la consunzione era solo esteriore, le cagionava sofferenza, ma non le toglieva le forze. L'ustione sul suo viso era quasi scomparsa, ne rimaneva solo una debole traccia.

— Tu! — La voce della vampira era esultante. Sorprendentemente esultante, come se non mi avesse chiamato a una trattativa, ma al macello.

— Io.

Egor stava davanti alla vampira che si faceva scudo di lui per proteggersi dagli operativi. Il ragazzo era nel Crepuscolo prodotto dalla vampira e perciò non aveva perso conoscenza. Stava in silenzio, immobile, e fissava ora me ora Tigrotto. Era evidente che riponeva la sua fiducia soprattutto in noi due. La vampira teneva una mano di traverso sul petto del ragazzino e con l'altra lo stringeva alla gola con i suoi artigli. La situazione non era difficile da valutare. Un'impasse. E per di più reciproca.

Se Tigrotto e Orso avessero cercato di aggredirla, lei avrebbe staccato di netto la testa al ragazzo. E di questo non si guarisce… neppure con i nostri mezzi. D'altro canto se avesse ritenuto conveniente uccidere il ragazzo, nulla ci avrebbe fermato.

Non si possono evitare i nemici. Soprattutto se vai in giro a uccidere.

— Volevi che venissi. Sono venuto. — Alzai le mani per dimostrare che non avevo nulla. Avanzai.

Quando fui tra Tigrotto e Orso, la vampira digrignò i canini: — Fermo!

— Non ho né paletti, né amuleti da combattimento. Non sono un mago. E non posso farti niente.

— L'amuleto. Sul tuo collo c'è un amuleto! Ecco cos'era…

— Non c'entra con te. Serve contro chi è incommensurabilmente più forte di te.

— Toglilo!

Ahi, ahi, andava proprio male… Sganciai la catenina, tolsi l'amuleto e lo gettai a terra. Ora, se l'avesse desiderato, Zavulon avrebbe potuto agire contro di me.

— L'ho tolto. Parla. Che cosa vuoi?

La vampira ruotò la testa, il suo collo compì senza fatica una rotazione di 360 gradi. Però! Non avevo mai sentito parlare di niente del genere… e forse neanche i nostri guerrieri. Tigrotto cominciò a ruggire.

— Qualcuno cerca di intrufolarsi! — La voce della vampira restava umana, era la voce stridula e isterica di una ragazzetta che aveva acquisito casualmente forza e potere. — Chi? Chi?

Conficcò la mano sinistra, da cui aveva sguainato gli artigli, nel collo del ragazzo. Io trasalii, pensando a quel che sarebbe accaduto se fosse sgorgata anche una sola goccia di sangue. Ma la vampira stava perdendo il controllo. Con l'altra mano, con un gesto goffo che ricordava quello del Lenin raffigurato sull'autoblindo, indicò il bordo del tetto.

— Che esca!

Io, sospirando, gridai: — Il'ja, esci…

Delle dita si agganciarono al bordo del tetto. Dopo un istante Il'ja scavalcò la bassa recinzione e si mise accanto a Tigrotto. Dove si era nascosto? Sulla tettoia del balcone? O era rimasto appeso, aggrappandosi all'infiorescenza di muschi blu?

— Lo sapevo! — disse esultante la vampira. — Un imbroglio!

La presenza di Semën non doveva averla percepita. Forse il nostro flemmatico amico da un centinaio d'anni praticava anche il Ninjutsu, l'antica arte dei Ninja…

— Proprio tu parli di imbrogli.

— Sì, proprio io! — Per un istante negli occhi della vampira balenò un'espressione umana. — Io so come imbrogliare! Voi no!

"Bene, bene. Tu lo sai e noi no. Credilo pure, speralo. Se ritieni che il motto «la menzogna per la salvezza» si adatti solo ai predicatori, credilo pure. Se ritieni che il verso «il bene deve mostrare i pugni» sia solo quello superato di un poeta alla berlina, speralo pure."'

— Cosa vuoi?

Lei tacque per un istante, come se finora non ci avesse mai pensato.

— Vivere!

— Per questo è tardi. Sei già morta.

La vampira digrignò i denti.

— Davvero? E i morti possono staccare le teste?

— Sì, possono fare solo questo.

Ci guardammo. Era tutto così strano, così eccessivo e teatrale, e il nostro dialogo tanto assurdo che non c'era possibilità d'intesa. Lei era morta. La sua vita dipendeva dalla morte di altri. Io ero vivo. Ma dal suo punto di vista era esattamente l'opposto.

— Non è colpa mia. — La sua voce si fece più calma, più morbida. E allentò un poco la mano sul collo di Egor. — Voi, voi che vi definite Guardiani della Notte… siete coloro che la notte non dormono, coloro che hanno deciso di arrogarsi il diritto di proteggere il mondo dalle Tenebre… Dov'eravate voi quando hanno succhiato il mio sangue?

Orso fece solo un passetto avanti. Un minuscolo passo, come se non avesse spostato le sue possenti zampe, ma fosse stato mosso dalla furia del vento. Pensai che avrebbe potuto muoversi così ancora per decine di minuti, forse per un'ora intera, finché fosse continuato il diverbio. Finché non avesse ritenuto di avere sufficienti possibilità. Allora avrebbe fatto un balzo e… Se gli fosse andata bene avrebbe strappato dalle mani della vampira il ragazzino, che se la sarebbe cavata con un paio di costole rotte.

— Non possiamo tenere d'occhio tutti — dissi io. — Non ce la facciamo.

Era strano, ma cominciavo ad avere compassione di lei. Non del ragazzino, incappato per caso nel gioco tra le Tenebre e la Luce, non di Svetlana, la ragazza su cui incombeva una maledizione, né della città che non aveva colpe e che sarebbe stata distrutta da quella maledizione… Avevo compassione della vampira. Perché, davvero, dov'eravamo noi? Noi che ci definivamo i Guardiani della Notte…

— A ogni modo tu avevi una scelta — dissi. — E non dire che non è così. L'iniziazione avviene solo se c'è un consenso reciproco. Tu potevi morire. Morire onestamente. Come un essere umano.

— Onestamente? — La vampira scosse la testa, spargendo i capelli sulle spalle. Ma dov'era Semën… possibile che fosse tanto difficile arrampicarsi sul tetto di un palazzo di diciannove piani? — Avrei voluto… morire onestamente. Ma chi ha firmato la licenza… colui che mi ha predestinato come preda ha agito forse onestamente?

Le Tenebre e la Luce…

Lei non era solo la vittima di un vampiro indemoniato. Era anche la preda designata, prescelta da un cieco destino. E non le era stata assegnata altra sorte che concedere la propria vita per prolungare la morte altrui. Solo che quel ragazzo che era stramazzato ai miei piedi come cenere, arso dal marchio, lui l'amava. L'amava davvero… e non aveva succhiato solo la vita di un'altra, di un'estranea, ma aveva trasformato la ragazza in una sua pari.

I morti non solo possono staccare le teste, ma anche amare. Il guaio è che persino il loro amore esige sangue.

Era stato costretto a nasconderla e quindi aveva trasformato la ragazza in una vampira clandestina. Doveva nutrirla e occorreva sangue vivo, non provette offerte da ingenui donatori.

E così era cominciato il bracconaggio per le vie di Mosca e noi, custodi della Luce, noi della valorosa Guardia della Notte, che davamo in pasto le persone alle Tenebre, avevamo sussultato.

La cosa più terribile in guerra è comprendere il nemico. Comprendere significa perdonare. E noi non ne abbiamo il diritto… non lo abbiamo da dopo la creazione del mondo.

— Eppure avevi una scelta — dissi. — L'avevi. Il tradimento altrui non giustifica il nostro.

Scoppiò a ridere piano.

— Già, già… Un bravo servitore della Luce… Certo. Hai ragione. E puoi anche ripetere migliaia di volte che sono morta. Che la mia anima è bruciata, che si è dissolta nel Crepuscolo. Spiegami qual è la differenza tra noi, cioè chi è più malvagio e più vile. Ma fai in modo di essere persuasivo.

La vampira chinò la testa e guardò in viso Egor. Gli disse in tono confidenziale, quasi amichevole: — E tu… ragazzo… tu mi capisci? Rispondi. Rispondi onestamente, non badare agli artigli… Non mi offenderò.

Orso scivolò di un altro passo avanti. Ancora un poco. E io sentii come si tendevano i suoi muscoli, com'era a pronto a scattare.

E alle spalle della vampira, senza far rumore, leggero e rapido — come riusciva a muoversi così precipitosamente nel mondo degli uomini? — comparve Semën.

— Piccolo, sveglia! — disse allegra la vampira. — Rispondi! Però onestamente! Se pensi che lui ha ragione, allora sono io ad avere torto… se lo credi davvero… ti lascerò andare.

Intercettai lo sguardo di Egor. Capii che cosa avrebbe risposto.

— Anche tu… hai ragione.

Un senso di gelo. Di vuoto. Neppure la forza di provare emozioni. Che spariscano, che brucino invisibili agli uomini.

— Cosa vuoi? — le chiesi. — Esistere? Va bene… Arrenditi. Ci sarà un processo, un processo congiunto delle due Guardie…

La vampira mi guardò e scosse la testa. — No, non credo nel vostro Tribunale. Nel Tribunale dei Guardiani della Notte… né in quello dei Guardiani del Giorno.

— E allora perché mi hai convocato? — chiesi. Semën avanzava verso la vampira, era sempre più vicino…

— Per vendicarmi — rispose semplicemente. — Tu hai ucciso il mio amico. Io ucciderò il tuo… sotto i tuoi occhi. Poi… cercherò… di uccidere anche te. Ma anche se non dovessi riuscire… — sorrise — ti basterà la consapevolezza di non aver potuto salvare il ragazzo. Non è vero? Voi firmate le licenze senza guardare in faccia le persone. Ma varrebbe la pena guardarle… è così che salta fuori tutta la vostra morale… tutta la vostra finta, dozzinale, vile morale…

Semën scattò. E, insieme a lui, anche Orso.

Fu più bello e più rapido di qualunque proiettile, di qualunque maledizione, perché alla fin fine si trattava pur sempre di corpi che menavano colpi e di sapienza acquisita in venti, quaranta, cent'anni…

E tuttavia sfilai da dietro la schiena la pistola e feci scattare il grilletto, sapendo che il proiettile sarebbe partito lento e pigro, come in un vecchio film d'azione, lasciando alla vampira la possibilità di schivarlo e di uccidere.

Semën si appiattì nell'aria, come se avesse cozzato contro una parete di vetro, scivolò lungo una barriera invisibile ed entrò nel Crepuscolo. Scalzò Orso che era di gran lunga più massiccio. Il proiettile, con la grazia di una libellula, guizzò verso la vampira e, divampando con una lingua di fiamma, sparì.

Se non fosse stato per gli occhi, che si dilatavano sconcertati, avrei pensato che fosse stata lei a scagliare il cappello di difesa a cono… Anche se questo resta privilegio solo dei maghi di rango superiore…

— Sono sotto la mia protezione… — risuonò una voce alle mie spalle.

Mi voltai e incontrai lo sguardo di Zavulon.

Era sorprendente che la vampira non fosse caduta in preda al panico. E che non avesse ucciso Egor. L'attacco fallimentare e l'apparizione del mago delle Tenebre furono una sorpresa stupefacente più per lei che per noi, dato che io me l'aspettavo. Mi aspettavo… qualcosa del genere, dopo essermi tolto l'amuleto.

Non mi stupiva che fosse arrivato così in fretta. Le Forze delle Tenebre hanno le loro strade. Ma perché Zavulon aveva preferito questo insignificante regolamento di conti alla sua permanenza nel nostro quartier generale? Aveva perso ogni interesse per Svetlana e per il vortice che incombeva sopra di lei? Sebbene talvolta capiamo qualcosa, quante sono le cose che restano per noi imperscrutabili per sempre!

La solita maledetta abitudine di fare previsioni! Gli operativi ne sono privi per la natura stessa del loro lavoro. Il loro elemento è la reazione immediata al pericolo: combattimento, vittoria o sconfitta.

Il'ja aveva già estratto il bastone magico. Era troppo fosforescente per un mago di terzo grado, e la sua luce troppo diffusa per credere a un'improvvisa esplosione di forze. Era assai probabile che fosse stato il Capo a caricare il bastone.

Significava forse che l'aveva previsto?

Significava forse che si aspettava l'apparizione di qualcuno di forza pari alla sua?

Né Tigrotto né Orso cambiarono aspetto. La loro magia non necessitava di dispositivi particolari, né tanto meno di trasformazioni in corpi umani. Orso continuava a fissare la vampira, ignorando del tutto Zavulon. Tigrotto era accanto a me. Semën si strofinò le reni e fece un lento giro dimostrativo intorno alla vampira.

— Loro? — ruggì Tigrotto.

Non capii subito che cosa era stato a contrariarla.

— Sono sotto la mia protezione — ripeté Zavulon. Si avviluppò nell'informe cappotto nero e si coprì la testa con un nero berretto di pelliccia. Il mago nascose le mani in tasca, ma io ero certo che non avesse nulla, né amuleti, né pistole.

— Tu chi sei? — gridò la vampira. — Chi sei?

— Il tuo difensore e protettore. — Zavulon mi guardò, ma incidentalmente, di sfuggita. — Il tuo padrone.

Era forse impazzito? La vampira non capiva nulla della composizione delle forze. Era come ubriaca. Era pronta a morire… a porre fine alla propria esistenza. E ora era comparsa la possibilità di sopravvivere, ma quel tono…

— Io non ho padroni! — La ragazza, la cui vita provocava la morte altrui, scoppiò in una risata. — Chiunque tu sia, della Luce o delle Tenebre, rammentalo! Io non ho e non avrò mai padroni!

Cominciò ad arretrare verso il bordo del tetto, trascinando con sé Egor. Con una mano continuava a tenerlo, con l'altra a stringergli la gola. Un ostaggio… una bella mossa contro le Forze della Luce.

O forse anche contro le Forze delle Tenebre?

— Zavulon, siamo d'accordo — dissi. Abbassai la mano sulla schiena tesa di Tigrotto. — Lei è tua. Portala via fino al processo. Noi rispettiamo il Patto.

— Li porto via… — Zavulon guardò il vuoto dinanzi a sé. Il vento gli sferzava il volto, ma gli occhi immobili del mago erano dilatati, quasi vitrei. — La donna e il ragazzo sono nostri.

— No, solo la vampira.

Finalmente mi degnò di uno sguardo. — Adepto della Luce, io prendo solo ciò che è mio. Nel rispetto del Grande Patto. La donna e il ragazzo sono nostri.

— Tu sei più forte di ognuno di noi — replicai — ma sei solo, Zavulon.

Il mago delle Tenebre scrollò il capo e sorrise con tristezza e compassione.

— No, Anton Gorodeckij.

Dal pozzo dell'ascensore uscirono un giovane e una ragazza. Che conoscevo. Che, ahimè, conoscevo bene.

Alisa e Pet'ka. Una strega e uno stregone della Guardia del Giorno.

— Egor! — chiamò piano Zavulon. — Tu hai capito la differenza tra noi? Qual è la parte che ti sembra preferibile?

Il ragazzo taceva. Ma, forse, solo perché gli artigli della vampira gli stringevano la gola.

— Abbiamo un problema? — chiese Tigrotto, facendo le fusa.

— Già — confermai.

— La vostra decisione? — domandò Zavulon. I suoi Guardiani per il momento tacevano, senza interferire in ciò che stava accadendo.

— Non mi piace — disse Tigrotto, sporgendosi verso Zavulon, e la sua coda mi frustò senza pietà il ginocchio. — Non mi piace affatto il punto di vista dei Guardiani del Giorno… sull'attuale situazione…

Era evidente che si trattava di un'opinione condivisa anche da Orso: quando lavoravano in coppia a esprimersi era sempre solo uno di loro. Guardai Il'ja: faceva roteare il bastone e sorrideva in modo poco raccomandabile, trasognato. Come un bambino che, anziché portare con sé un mitra di plastica, si fosse portato un UZI carico. Per Semën era lo stesso. Lui se ne fregava di quelle inezie. Correva sui tetti da settant'anni.

— Zavulon, tu parli a nome dei Guardiani del Giorno? — gli chiesi.

Un lampo di esitazione balenò negli occhi del mago delle Tenebre.

Stava succedendo qualcosa… Perché Zavulon aveva abbandonato il nostro quartier generale, rinunciando alla possibilità di rintracciare un mago sconosciuto dalla forza mostruosa e di farlo aderire alla Guardia del Giorno? A una simile possibilità non si rinuncia nemmeno per una vampira e un ragazzino potenzialmente molto dotato. Perché Zavulon voleva il conflitto?

E perché, perché lui non voleva — era evidente, non c'era dubbio! — agire a nome dei Guardiani del Giorno?

— Parlo a titolo personale — disse Zavulon.

— Allora tra noi c'è una piccola discordanza di opinioni — replicai.

Non voleva coinvolgere le Guardie. Ora eravamo semplicemente Altri, anche se in servizio e impegnati in una missione. Ma Zavulon preferiva non portare il conflitto a uno scontro ufficiale. Perché? Aveva una così grande fiducia nelle sue forze o aveva una così grande paura del Capo?

Non ci capivo nulla.

E, soprattutto, perché aveva abbandonato il quartier generale e la caccia? Per il mago che aveva scagliato la maledizione contro Svetlana? Le Forze delle Tenebre si erano battute perché il mago fosse consegnato a loro. E adesso rinunciavano così facilmente?

Che cosa sapeva Zavulon che noi non sapevamo?

— I vostri penosi… — cominciò il mago delle Tenebre. Non riuscì a concludere: la vittima aveva fatto la sua mossa.

Udii il ruggito di Tigrotto, un ruggito perplesso, sbigottito. Mi voltai.

Egor, che già da mezz'ora rivestiva il ruolo di ostaggio abbracciato alla vampira, era svaporato, svanito.

Il ragazzino era finito nelle profondità del Crepuscolo.

La vampira non stringeva più le braccia per trattenerlo o per ucciderlo. Agitava convulsamente le zampe artigliate, ma ormai non afferrava più nessuna carne viva. Menava colpi a se stessa, a sinistra sul petto, sul cuore.

Che peccato che fosse un morto vivente!

Orso scattò. Come una montagna appena risvegliatasi, sfrecciò nel vuoto dove prima stava Egor e si avventò contro la vampira. Il corpo che si dibatteva fu sommerso dalla sua mole. Spuntava solo una mano con gli artigli che martellava di pugni il fianco irsuto.

In quello stesso istante Il'ja sfilò il bastone. La luce violetta si affievolì appena prima che il bastone esplodesse in una colonna bianca fiammeggiante. Pareva che tra le mani dell'operativo vi fosse il raggio accecante e quasi palpabile di un faro. Con un evidente sforzo Il'ja mosse le mani, abbagliando il cielo grigio con un raggio quale non si era più visto a Mosca dai tempi della guerra, e scagliò il gigantesco bastone su Zavulon.

Il mago delle Tenebre gridò.

Il bastone luminoso si abbatté su di lui, lo schiacciò contro il tetto, ma poi balzò via dalle mani di Il'ja e acquisì autonomia di movimento. Ora non era più un raggio di luce, né una colonna fiammeggiante, bensì un serpente bianco, che si avvitava su se stesso e si ricopriva di scaglie argentee. L'estremità del suo corpo gigantesco si appiattì, trasformandosi in un cappuccio da cui spuntò un muso con occhi immobili della dimensione di una ruota di camion. La lingua guizzò, sottile, biforcuta, fiammeggiante.

Feci un balzo indietro, per poco non mi sfiorava con la coda. Il cobra di fuoco si acciambellò, avventandosi contro Zavulon, infilando a scatti la testa tra le spire del corpo. E tra anelli fiammeggianti tre ombre si percuotevano l'un l'altra, cosparse di torbide strisce. Il balzo di Tigrotto contro la strega e lo stregone della Guardia del Giorno mi era semplicemente sfuggito.

Il'ja scoppiò a ridere piano, sfilando da sotto la cintura un altro bastone. Questa volta meno luminoso e forse caricato da lui.

E così aveva con sé armi specifiche contro Zavulon… Possibile che il Capo già sapesse con chi gli sarebbe toccato battersi?

Esaminai il tetto. A una prima occhiata sembrava tutto sotto controllo. Orso, che soffocava la vampira, si accaniva a pestarla con le zampe e di tanto in tanto da sotto la sua mole giungevano suoni indistinti. Tigrotto si occupava delle guardie e pareva non aver bisogno d'aiuto. Il cobra bianco soffocava Zavulon.

Non avevamo più niente da fare lì. Il'ja, imbracciando il bastone, osservava quei corpo a corpo, incerto in quale gettarsi a capofitto. Semën, che aveva perduto ogni interesse per la vampira e aveva conservato un atteggiamento indifferente nei confronti di Zavulon e delle guardie, vagava lungo il bordo del tetto, fissando verso il basso. Che temesse nuovi rinforzi da parte delle Tenebre?

E io invece stavo lì come un idiota, con un'inutile pistola tra le mani…

L'ombra giaceva ancora ai miei piedi. Vi entrai, sentendomi trafiggere dal gelo. Non dal gelo noto agli uomini, né da quello che conoscono bene gli Altri, ma dal gelo delle profondità del Crepuscolo. Qui non c'era più vento, il ghiaccio e la neve si erano dissolti. Era sparito anche il muschio blu. Tutto era coperto da una nebbia fitta, vischiosa, grumosa. Amici e nemici si erano trasformati in confuse ombre fruscianti. Solo il cobra fiammeggiante, che lottava con Zavulon, restava allo stesso modo impetuoso e sfavillante. Questo combattimento penetrava in ogni strato del Crepuscolo. Cercai di immaginare quante energie fossero concentrate in quel bastone magico e mi sentii mancare.

Perché le Tenebre, perché la Luce? Né una vampira, né un ragazzino-Altro valevano sforzi simili!

— Egor! — gridai.

Cominciavo già a congelare. Nel secondo livello del Crepuscolo ero entrato solo due volte: la prima durante le lezioni, assistito dall'istruttore, e la seconda la sera precedente per penetrare attraverso la porta chiusa. Qui non avevo difese e perdevo a ogni istante le forze.

— Egor! — Attraversai il Crepuscolo. Alle mie spalle echeggiavano colpi sordi: il serpente sbatteva qualcuno contro il tetto, stringendone il corpo tra le fauci… Sapevo a chi apparteneva quel corpo…

Il tempo qui scorreva più lento e c'era una piccolissima probabilità che il ragazzino non avesse perso conoscenza. Mi avvicinai al punto dove s'era immerso, nel secondo strato del Crepuscolo, cercando di distinguere qualcosa e non notai nessun corpo a terra. Inciampai, caddi, mi risollevai, mi accoccolai e mi ritrovai faccia a faccia con Egor.

— Tutto a posto? — gli chiesi assurdamente. Assurdamente, perché aveva gli occhi aperti e mi fissava.

— Sì.

Le nostre voci echeggiavano sorde e rimbombavano. Due ombre ondeggiavano proprio accanto a noi: Orso continuava a strapazzare la vampira. Quanto resisteva!

E quanto resisteva anche il ragazzo!

— Andiamo — dissi, allungando una mano e sfiorandogli la spalla. — Qui… è opprimente. Rischiamo di rimanerci per sempre.

— E sia.

— Non capisci, Egor! È una sofferenza! Una sofferenza eterna dissolversi nel Crepuscolo. Non puoi neanche immaginarlo, Egor! Andiamocene!

— Perché?

— Per vivere.

— Perché?

Le dita mi si erano curvate. La pistola era diventata pesante, sembrava fusa nel ghiaccio. Avrei resistito ancora un minuto o due…

Guardai Egor negli occhi. — Ognuno deve decidere per sé. Io me ne vado. Ho ancora una ragione per vivere.

— Perché vuoi salvarmi? — chiese il ragazzo con curiosità. — La vostra Guardia ha bisogno di me?

— Non credo che entrerai mai nella nostra Guardia… — dissi, sorprendendomi di me stesso.

Sorrise. Un'ombra passò tra di noi: Semën. Aveva notato qualcosa? C'erano problemi?

Me ne stavo lì a perdere le mie ultime forze, cercando di distogliere da un raffinato tentativo di suicidio un piccolo Altro comunque condannato.

— Me ne vado — dissi. — Perdonami.

L'ombra si era attaccata a me, mi si era congelata sulle dita e si era saldata al mio viso. Mi strappai da lei a strattoni. Il Crepuscolo sibilò, deluso da una simile condotta.

— Aiutami! — disse Egor. Sentivo appena la sua voce, ero quasi uscito. Lo disse all'ultimo secondo.

Tesi la mano, afferrando la sua. Ormai l'ombra cadeva, mi si staccava di dosso, la nebbia intorno si diradava. E tutto il mio aiuto al ragazzo non poteva essere che simbolico: doveva farcela da solo.

Ce la fece.

Precipitammo nello strato superiore del Crepuscolo. Il vento freddo mi sferzò il viso, ma ora era persino piacevole. Le deboli scosse erano ormai scontri violenti. I torbidi grigi diventarono brillanti.

Qualcosa era cambiato in quei secondi in cui avevamo parlato. La vampira seguitava a dibattersi sotto l'Orso… Ma c'era dell'altro. Il ragazzo stregone era riverso sul tetto forse morto, forse privo di conoscenza. Accanto a lui si azzuffavano ancora Tigrotto e la strega… Ma c'era dell'altro.

Il serpente!

Il serpente bianco si gonfiava, s'ingrossava, aveva già occupato un quarto del tetto. Come se l'aria lo facesse ondeggiare sollevandolo in alto, o come se fosse decollato da solo. Semën stava dinanzi alle spire avvitate del suo corpo infuocato, dopo essersi accovacciato in una delle vecchie posizioni da combattimento e le sue palme percuotevano quel groviglio bianco fiammeggiante. Non mirava al cobra, ma a qualcuno che stava sotto di lui e che avrebbe dovuto essere morto da un pezzo, e che invece continuava ancora a lottare…

Un'esplosione!

Un turbine di Luce, brandelli di Tenebre. Qualcosa mi urtò la schiena e cadendo precipitai su Egor, travolgendolo, ma in compenso riuscii ad afferrargli la mano. Tigrotto e la strega, avvinte nella lotta, volarono verso il bordo del tetto e si arrestarono sulla recinzione. Orso si strappò dalla vampira, distrutto, coperto di ferite, ma ancora vivo. Semën barcollò, ma rimase in piedi: era protetto da una torbida lente riflettente di difesa. L'unico a precipitare giù fu lo stregone che aveva perso conoscenza: nella caduta sfondò le sbarre arrugginite di un cancello e si accasciò come un sacco vuoto.

Solo Il'ja era rimasto lì impalato. Non avevo notato nessuna protezione intorno a lui, che continuava a contemplare come prima quanto stava avvenendo, stringendo il suo bastone.

E i resti del cobra infuocato si librarono nell'aria, si dispersero in guizzanti nuvolette, in scintille, mandando piccoli bagliori. Da sotto questi fuochi d'artificio si levò lentamente Zavulon, allargando le braccia in un gesto magico. Nel combattimento aveva perso i vestiti e ora era completamente nudo. Il suo corpo si era modificato e aveva assunto i tipici connotati demoniaci: fosche squame avevano preso il posto della pelle, il cranio aveva una forma irregolare, peli arruffati gli erano cresciuti al posto dei capelli, gli occhi erano sottili con le pupille verticali. Dal coccige pendeva una corta coda biforcuta.

— Via! — gridò Zavulon. — Via!

Chissà che accadeva ora nel mondo degli uomini… Esplosioni di letale nostalgia e di cieca, ingiustificata gioia, attacchi di cuore, azioni assurde, litigi tra amici cari, tradimenti di amanti fedeli… Gli uomini non vedevano ciò che era in corso, ma la loro anima ne era sfiorata.

Perché?

Perché tutto questo per i Guardiani del Giorno?

In quel momento fui invaso da un senso di serenità. Una fredda, razionale, quasi dimenticata serenità.

Una strategia dalle molte mosse. Si potrebbe ipotizzare che tutti gli eventi si siano determinati secondo un preciso piano della Guardia del Giorno. Partiamo da qui. E poi unifichiamo tutte le casualità, a cominciare dalla mia caccia nella metropolitana, no, a cominciare dall'istante in cui a un ragazzo vampiro fu destinata in pasto una ragazza di cui non poté fare a meno di innamorarsi.

I pensieri fluivano impetuosi, come se avessi indotto una tempesta cerebrale e mi fossi messo in contatto con la coscienza di altri uomini, come fanno talvolta i nostri analisti. No, questo naturalmente non era accaduto… Semplicemente le tessere del puzzle, prima sparpagliate sul tavolo, si erano animate e si combinavano sotto i miei occhi.

I Guardiani del Giorno se ne infischiavano della vampira…

I Guardiani del Giorno non avrebbero scatenato un conflitto per un ragazzino potenzialmente molto dotato.

I Guardiani del Giorno avevano un'unica ragione per combinare tutto questo.

Un mago delle Tenebre dal potenziale mostruoso.

Un mago delle Tenebre in grado di rafforzare le loro posizioni… non solo a Mosca, ma in tutto il continente…

E così avrebbero raggiunto il loro scopo. Noi avevamo promesso di consegnare il mago…

Era un mago sconosciuto, l'unica X, l'unica incognita della missione. Si poteva assegnare una Y anche a Egor: le sue capacità erano troppo grandi anche per un Altro alle prime armi. E tuttavia quello del ragazzo era un potenziale già noto, anche se con un fattore sconosciuto…

Era stato inserito ad arte nella missione. Per complicarla.

— Zavulon! — gridai. Oltre le mie spalle Egor ruzzolava, tentando di rimettersi in piedi, ma continuando a scivolare sul ghiaccio. Semën si era allontanato dal mago ed era sulla difensiva. Il'ja contemplava indifferente ciò che stava avvenendo. Orso si era avventato contro la vampira che si dibatteva, cercando di rialzarsi. Tigrotto e la strega Alisa si stavano avvicinando di nuovo. — Zavulon!

Il demone mi guardò.

— Lo so per chi lottate!

No, non lo sapevo ancora. Cominciavo solo ora a comprenderlo perché il puzzle si era ricomposto, mostrando un volto ben noto…

Il demone aprì la bocca: le mascelle si erano scisse in destra e sinistra come se fosse un coleottero. Somigliava sempre più a un gigantesco insetto, le squame si erano compattate in un'unica corazza, i genitali e la coda si erano ritratti, dai fianchi erano spuntati nuovi arti.

— Allora tu… sei un cadavere.

La voce era rimasta immutata, acquisendo persino un tono riflessivo e intellettuale. Zavulon mi tese una mano, che si allungava a scatti, con sempre nuove falangi.

— Vieni da me… — bisbigliò.

Tutti annichilirono. Tranne io, che mi mossi verso il mago delle Tenebre. Le tecniche di difesa mentale che avevo coltivato per molti anni non avevano lasciato traccia. Non potevo, non potevo in alcun modo opporre un rifiuto a Zavulon.

— Fermo! — ruggì Tigrotto, distogliendosi dalla strega malconcia, che ancora digrignava i denti. — Fermo!

Mi sarebbe piaciuto esaudire la sua richiesta, ma non potevo.

— Anton… — una voce risuonò alle mie spalle. — Voltati…

Ecco, questo potevo esaudirlo. Voltai la testa, distogliendo lo sguardo dagli occhi color ambra dalle pupille verticali.

Egor stava accoccolato, non aveva la forza di alzarsi. Era stupefacente che fosse ancora cosciente… La riserva delle sue energie doveva essere finita da un pezzo. La stessa riserva che aveva suscitato l'interesse del Capo, fin dall'inizio. Il fattore Y. Introdotto per complicare la situazione. Dal palmo di Egor pendeva un piccolo amuleto d'osso su una catenina di rame.

— Prendilo! — gridò il ragazzino.

— Non toccarlo! — intimò Zavulon. Ma era troppo tardi, mi ero già chinato per prendere l'amuleto, volato ai miei piedi. Al tatto la medaglietta bruciava, come se fosse carbone ardente.

Guardai il demone e scossi la testa. — Zavulon… tu non hai più alcun potere su di me.

Il demone ululò, avventandosi contro di me. Non aveva più potere, ma di forze ne aveva ancora in eccesso.

— Ma… ma… — disse Il'ja in tono edificante.

Una fiammeggiante parete bianca tagliò lo spazio tra noi due. Zavulon ululò e scostò la parete di luce bianca. Sussultò in modo ridicolo per le zampe ustionate, non più temibile, piuttosto assurdo.

Sul tetto tutto tacque. Tigrotto e la strega Alisa erano vicini, senza aggredirsi. Semën guardava ora me ora Il'ja e non era chiaro chi dei due lo stupisse di più. La vampira piangeva sommessamente, cercando di rialzarsi. Lei stava peggio di tutti: aveva investito tutte le forze nel combattimento con Orso per sopravvivere e ora cercava a fatica di rigenerarle. Con uno sforzo incommensurabile si precipitò fuori dal Crepuscolo e si trasformò in una smunta silhouette.

Persino il vento sembrava essere cessato…

— Come si fa a trasformare una persona da sempre retta in un mago delle Tenebre? — chiesi. — Come si fa a far passare dalla parte delle Tenebre una persona incapace di odiare? La si può colpire con disgrazie di ogni genere… un po' per volta, piano piano, sperando che si esasperi, ma non servirà se è una persona retta, anzi se… è una ragazza retta.

Il'ja scoppiò a ridere piano, approvando.

— L'unica che potrà odiare — guardai Zavulon negli occhi nel punto in cui ora era rimasto solo livore impotente — sarà se stessa. Ed ecco una mossa insospettata. Insolita. Facciamole ammalare la madre. Lasciamo che la ragazza si roda l'anima, si disprezzi per la propria impotenza e la propria incapacità di aiutarla. Releghiamola in un angolo dove potrà solo odiare, sia pure se stessa, ma soltanto odiare. Ci sarebbe, a dire il vero, una piccola chance: un agente della Guardia della Notte; lui solo, attraverso il suo lavoro operativo, potrebbe spiegare…

Le gambe mi cedevano: non ero abituato a stare così a lungo nel Crepuscolo. Rischiavo di cadere in ginocchio davanti a Zavulon, cosa che non volevo assolutamente.

Semën strisciò attraverso il Crepuscolo e mi resse per le spalle. Forse lo faceva da centocinquant'anni.

— Uno sconosciuto con una missione sul campo… — ripetei. — Uno sconosciuto che venga meno alla procedura. Che non provi compassione per la ragazza, che non cerchi di consolarla, perché la compassione le sarebbe fatale. In questo caso bisogna distoglierlo. Creare un diversivo che lo tenga occupato. Dirottarlo su un incarico secondario, che lo faccia sentire personalmente responsabile e che gli risulti simpatico, dirottarlo su qualcosa che è già a portata di mano. A questo scopo anche una vampira come tante può essere sacrificata. Non è così?

Zavulon ricominciò a trasformarsi. Riprese in tutta fretta le sue sembianze da intellettuale afflitto.

Era ridicolo. Perché mai? Io l'avevo veduto com'era nel Crepuscolo, com'era stato una volta e come sarebbe sempre stato.

— Una strategia dalle molte mosse — continuai. — Vi garantisco che la madre di Svetlana non deve necessariamente morire di un male incurabile. Da parte vostra c'è stata un'interferenza magica, nei limiti della legalità… Ma anche noi allora abbiamo dei diritti.

— Lei è nostra! — disse Zavulon.

— No. — Scrollai il capo. — Non ci sarà nessuna catastrofe infernale. Sua madre guarirà. Ora io vado da Svetlana… a dirle tutto. La ragazza verrà dai Guardiani della Notte. Zavulon, lei ha perso. Ha perso comunque.

I brandelli di vestiti disseminati sul tetto scivolarono fino al mago delle Tenebre, si ricongiunsero e lo ricoprirono del suo sembiante triste, affascinante, partecipe della tristezza di tutto il mondo.

— Nessuno di noi lascerà questo luogo — disse Zavulon. Alle sue spalle prese a turbinare la Tenebra, con due immense ali nere dispiegate.

Il'ja scoppiò di nuovo a ridere.

— Io sono più forte di tutti voi. — Zavulon guardò in tralice Il'ja. — Le tue forze non sono illimitate. Voi resterete qui per sempre, nel Crepuscolo, nei suoi strati più profondi in cui avevate avuto timore di guardare…

Semën sbuffò e disse: — Anton, sembra che non l'abbia ancora capita.

Mi voltai e chiesi: — Boris Ignat'evič, ma c'è ancora bisogno di questa mascherata?

Il giovane operativo un po' impudente si strinse nelle spalle: — Certo, Anton. Mi capita così di rado di poter osservare il capo dei Guardiani del Giorno in azione… perdona questo vecchio. Spero che sia stato altrettanto interessante per Il'ja prendere il mio posto…

Boris Ignat'evič riprese il suo aspetto di sempre. Di colpo, senza metamorfosi teatrali ed effetti di luci. Era in vestaglia e con in testa la tjubetejka, il berretto usbeco, solo che ai piedi aveva dei morbidi ičigi, e sopra questi stivali un paio di calosce.

Era piacevole guardare il volto di Zavulon.

Le oscure ali non erano scomparse, ma avevano cessato di crescere. Ora battevano incerte come se il mago avesse intenzione di volare via, ma esitasse.

— Chiudi l'operazione, Zavulon — disse il Capo. — Se ve ne andate all'istante da qui e dalla casa di Svetlana, non invieremo formale protesta.

Il mago delle Tenebre non esitò. — Ce ne andiamo.

Il Capo annuì, come se non si aspettasse nessun'altra risposta. Ma non abbandonò il bastone, e la barriera tra me e Zavulon svanì.

— Mi rammenterò del ruolo che hai avuto… — bisbigliò senza indugio il mago delle Tenebre. — Per sempre.

— Rammentalo — concordai io. — È utile.

Zavulon allargò le braccia, le possenti ali batterono all'unisono e lui scomparve. Ma prima lanciò un'occhiata alla strega e lei sputò.

Come fu spiacevole! Uno sputo non è un segno fatale, ma pur sempre sgradevole.

Con una lieve e pretenziosa andatura, che non si addiceva assolutamente al volto insanguinato e ammaccato e con la mano sinistra che penzolava, Alisa si avvicinò a me.

— Anche tu devi andartene — disse il Capo.

— Certo, con sommo piacere! — replicò la strega. — Ma prima avrei un piccolo… piccolissimo diritto. Non è vero, Anton?

— Sì — mormorai io. — Un intervento di settimo grado.

Contro chi era diretto il colpo? Contro il Capo? Ridicolo. Contro Tigrotto, Orso, Semën…? Sciocchezze. Contro Egor? Ma che cosa si poteva suscitare in lui a un livello così basso d'interferenza?

— Confidati — disse la strega. — Confidati con me, Anton. Si tratta di un'interferenza del settimo grado. Il Capo dei Guardiani della Notte è testimone: non oltrepasserò i limiti.

Semën gemette, stringendomi la spalla fino a farmi male.

— Ne ha diritto — dissi. — Boris Ignat'evič…

— Agisci come devi — rispose piano il Capo. — Io starò a guardare.

Sospirai, rivelandomi davanti alla strega. "Ma non potrà fare nulla! Nulla! Un'interferenza del settimo grado! Non riuscirà a dirottarmi dalle Tenebre! È semplicemente ridicolo!"

— Anton — disse la strega in tono soave. — Di' al Capo ciò che volevi dire. Di' la verità. Agisci in modo onesto e retto. Così come devi agire.

— Un intervento minimo… — confermò il Capo. Se nella sua voce c'era dolore, doveva essere così nel profondo che a me non era dato coglierlo.

— Una strategia dalle molte mosse — dissi io, guardando Boris Ignat'evič. — L'ambigua Guardia del Giorno sacrifica le sue pedine. La Guardia della Notte le proprie. Per un grande obiettivo. Per attirare dalla propria parte una straordinaria inaudita forza magica. Può anche perire un giovane vampiro che ha tanta voglia di amare. Può perire, svanendo nel Crepuscolo, anche un ragazzino dotato dei deboli poteri di Altro. Possono soffrire allo stesso modo i suoi collaboratori. Ma il fine giustifica i mezzi. Due grandi maghi, che si combattono da centinaia d'anni, tramano l'ennesimo piccolo scontro. Per il mago della Luce è più difficile… punta tutto su una carta sola. E la sconfitta per lui non sarebbe solo amara, equivarrebbe a un passo nel Crepuscolo, un passo definitivo. Eppure mette in gioco tutti su questa carta. I suoi e gli altri. Non è così, Boris Ignat'evič?

— Sì, è così — rispose il Capo.

Alisa rise piano e si diresse verso la botola. Adesso non se la sentiva proprio di volare. Tigrotto l'aveva strapazzata per bene. Eppure la strega continuava a essere di buon umore.

Fissai Semën. Lui distolse lo sguardo. Tigrotto si stava ritrasformando lentamente in una ragazza… ma anche lei evitava di guardarmi in faccia. Orso mandò un ruggito e, senza cambiare aspetto, pestò le zampe contro la botola. Per lui era più difficile che per tutti gli altri. Era troppo poco agile. Orso era uno splendido guerriero, nemico di ogni compromesso…

— Siete tutti vigliacchi — disse Egor. Si alzava a scatti, non solo per la stanchezza. Ora il Capo lo alimentava con la propria energia, scorgevo un filo sottile di forza fluire nell'aria… All'inizio è sempre difficile liberarsi dalla propria ombra.

Uscii dopo di lui. Non fu difficile: nell'ultimo quarto d'ora nel Crepuscolo si era concentrata una tale quantità di energie che l'ombra aveva perso la consueta aggressiva vischiosità.

Quasi immediatamente udii un soffice disgustoso tonfo: lo stregone, precipitato dal tetto, aveva raggiunto l'asfalto.

Uno dopo l'altro cominciarono ad apparire tutti gli altri. La simpatica ragazza dai capelli neri con un'ecchimosi sotto l'occhio sinistro e lo zigomo rotto, l'imperturbabile giovanotto tarchiato, l'autorevole businessman in vestaglia orientale… Orso era già andato via. Sapevo che cosa avrebbe fatto nel suo appartamento, nella sua "tana". Avrebbe bevuto alcol etilico e letto poesie. Forse a voce alta. Guardando il televisore che ronzava allegramente.

Anche la vampira si trovava lì. Stava malissimo, borbottava qualcosa, scuotendo la testa, e si leccava la mano penzolante, che cercava stancamente di saldarsi. Era tutta schizzata del sangue della sua ultima vittima…

— Vattene — le dissi, sollevando la pesante pistola. La mano mi tradì e tremò.

Il proiettile deflagrò, trapassando la carne morta, e nel fianco della ragazza comparve una ferita. La vampira gemette, si premette sulla ferita la mano sana. L'altra penzolava sui legamenti dei tendini.

— Non farlo — disse Semën con dolcezza. — Non farlo, Anton…

Io però mi avventai sulla sua testa. In quell'istante scese in picchiata dal cielo un'enorme ombra nera, un pipistrello delle dimensioni di un condor. Dispiegò le ali per proteggere la vampira, torcendosi nello spasmo della trasformazione.

— Lei ha diritto di essere giudicata!

Non potevo sparare a Kostja. Rimasi lì a guardare il vampiro, il mio vicino di casa. Lui non distoglieva gli occhi, risoluti e inflessibili. "Da quanto tempo mi pedinavi, amico mio, mio avversario? E perché vuoi salvare la tua consimile e compiere un passo che mi trasformerebbe in un tuo irriducibile nemico?"

Mi strinsi nelle spalle e infilai la pistola dietro la cintura. "Avevi ragione, Ol'ga. La tecnica è solo una sciocchezza."

— Sì, ne ha il diritto — confermò il Capo. — Semën, Tigrotto, Orso, scortateli.

— Va bene — disse Tigrotto. Mi fissò, non solo con uno sguardo pieno di solidarietà, ma di comprensione. Con passo flessuoso si diresse verso i vampiri.

— Comunque sarà sottoposta a una procedura speciale — mormorò Semën, e li seguì.

E così abbandonarono il tetto. Kostja portava tra le braccia la vampira dolorante, semincosciente. Semën e Tigrotto li seguivano in silenzio.

Restammo in tre.

— Ragazzo, tu hai davvero dei poteri — disse dolcemente il Capo. — Non grandi, ma la maggior parte della gente ne è priva. Sarei felice che tu accettassi di essere mio allievo…

— Ma vada un po'… — attaccò a dire Egor. L'ultima parte della frase era totalmente priva di intonazioni cortesi. Il ragazzo piangeva in silenzio. Faceva delle smorfie per trattenere le lacrime, ma non ci riusciva.

Un piccolo intervento di settimo grado e si sarebbe sentito meglio. Avrebbe capito che la Luce non poteva combattere contro le Tenebre senza servirsi di qualunque arma a sua disposizione…

Alzai la testa verso il cielo del Crepuscolo, aprii la bocca, afferrando i freddi fiocchi di nevi. Congelare. Congelare in eterno. Ma non qui, nel Crepuscolo. Diventare ghiaccio e non nebbia, neve o fanghiglia; diventare di pietra, ma senza sperdersi…

— Egor, andiamo, ti accompagno — proposi.

— Non… vado lontano… — disse il ragazzino.

Rimasi ancora lì a lungo a inghiottire neve mischiata a vento e non notai che se n'era andato. Sentii la voce del Capo dire: — Egor, sei capace di svegliare da solo i tuoi genitori? — ma non udii la risposta.

— Anton, se questo può consolarti… l'aura del ragazzo è rimasta la stessa — disse Boris Ignat'evič. — Nessuna… — Mi cinse le spalle, piccolo e triste. Non era più l'accurato imprenditore o il mago di primo grado. Solo un vecchio dall'aspetto giovanile che aveva vinto l'ennesima partita in una guerra senza fine.

— Ottimo.

L'avrei voluto anch'io. Nessuna aura. Nessun destino speciale.

— Anton, abbiamo ancora da fare.

— Lo so, Boris Ignat'evič…

— Puoi spiegare tutto a Svetlana?

— Sì, credo di sì… Ora posso.

— Perdonami, ma ho adoperato ciò che avevo a disposizione… quelli che avevo a disposizione. Voi siete legati. Un semplice legame mistico, inspiegabile. Non ho nessuno con cui sostituirti.

— Capisco.

La neve si attaccava al mio viso, ghiacciando sulle ciglia e sciogliendosi in rivoli sulle guance. Avevo la sensazione di aver quasi imparato a congelare, ma non ne avevo il diritto.

— Rammenti ciò che ti avevo detto? Appartenere alle Forze della Luce è molto più impegnativo che appartenere alle Forze delle Tenebre…

— Lo rammento…

— E ora sarà anche più gravoso, Anton. Tu ti innamorerai di lei. Vivrai con lei… per un po'. Poi Svetlana se ne andrà. E tu la vedrai allontanarsi da te, e intanto la cerchia si allargherà. Soffrirai. Ma non potrai farci nulla. Questo sarà il tuo ruolo all'inizio. È ciò che succede a ogni Grande Mago e a ogni Grande Maga. Devono passare sul corpo degli amici e degli esseri amati. Non può essere altrimenti.

— Già capisco… capisco tutto.

— Andiamo, Anton? Tacevo.

— Andiamo?

— Non siamo in ritardo?

— Per ora no. Sveta ha i suoi percorsi. Ti guiderò per la via più breve e in seguito sarai tu a scegliere la tua strada.

— Allora resterò ancora un po' — dissi. Chiusi gli occhi per sentire i fiocchi che si attaccavano alle mie palpebre, teneramente, dolcemente.

— Se sapessi quante volte sono rimasto anch'io così — mi disse il Capo — a guardare il cielo e a domandare… una benedizione o una maledizione.

Non risposi, sapevo di non dover aspettare.

— Anton, mi sono congelato — disse il Capo. — Ho freddo. Ho freddo, come un essere umano. Voglio bere un po' di vodka e mettermi a letto sotto le coperte. E starmene lì disteso finché non avrai aiutato Svetlana… e Ol'ga avrà sistemato il vortice, E poi prendermi delle ferie. Lasciare al mio posto Il'ja… dopotutto è già entrato nella mia pelle… e andarmene a Samarcanda. Sei mai stato a Samarcanda?

— No.

— Niente di bello, a dire il vero. Soprattutto ora. Non c"è niente di bello laggiù se non i ricordi… ma riguardano soltanto me… Tu come stai?

— Andiamo, Boris Ignat'evič. Mi sfregai via la neve dal viso. Mi stavano aspettando.

Era l'unico motivo che ci impediva di congelare.

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