Seconda Storia Straniero tra i suoi

Prologo

Si chiamava Maksim.

Un nome non proprio raro, ma nemmeno banale. Dal suono decisamente armonioso. Un bel nome russo, anche se probabilmente le sue radici si perdevano tra i Greci, i Variaghi e gli Sciti.

Era contento del suo aspetto. Non aveva la bellezza melensa degli attori dei serial televisivi, ma nemmeno una faccia qualsiasi, di quelle che si dimenticano subito. Un bell'uomo, tra la gente lo si notava: ben costruito, ma senza esagerazioni, senza vene gonfie e il fanatismo dell'allenamento quotidiano in palestra.

E anche per quanto riguardava la professione — consulente per una grossa ditta straniera — e le entrate, poteva permettersi diversi capricci, ma non tanto da temere di suscitare l'interesse del racket.

Era proprio come il suo angelo custode aveva deciso: «Sarai un po' meglio degli altri.» Un po', ma meglio. E la cosa più importante era che a Maksim andava benissimo così. Arrampicarsi un po' più in alto, rovinandosi la vita per una macchina più accessoriata, un invito a una serata importante o un appartamento con una camera in più… perché? La vita è bella per se stessa, e non per i beni che puoi riuscire ad afferrare. In questo senso è l'esatto opposto dei soldi, che in se stessi non sono nulla.

Naturalmente Maksim non aveva mai formulato questi pensieri in modo così esplicito. Una delle caratteristiche delle persone che nella vita riescono a occupare esattamente il loro posto è quella di prendere le cose come vengono. Tutto va così come deve andare. E se qualcuno non è riuscito ad avere quello che si aspettava… è soltanto colpa sua. Colpa della sua pigrizia, o della sua stupidità. O del fatto che aveva un livello di aspettative troppo elevato.

A Maksim quella frase piaceva molto: "un livello di aspettative troppo elevato". Rimetteva tutto al suo posto. Spiegava, per esempio, come mai la sua bella e intelligente sorella vegetasse a Tambov con un marito alcolista. Cercava qualcosa di meglio e di più promettente… be', l'aveva trovato. O il suo vecchio compagno di scuola, da due mesi in traumatologia. Voleva sviluppare il business? E l'aveva sviluppato. Poteva dirsi fortunato a essere ancora vivo. I suoi concorrenti sul mercato dei metalli non ferrosi si erano dimostrati persone civili…

In un unico caso Maksim applicava l'espressione "un livello di aspettative troppo elevato" a se stesso. Ma era una questione così strana e complessa che non aveva neppure voglia di ripensarci troppo. Era più semplice non pensarci, e rassegnarsi a quella cosa strana che gli capitava talvolta in primavera, qualche volta in autunno e raramente, ma proprio rarissimamente, nel pieno dell'estate, quando la calura esplodeva in modo così insopportabile da spazzargli via dal cervello tutto il buon senso e la prudenza, e anche qualche leggero dubbio sulla sua perfetta integrità psichica… Non che Maksim si fosse mai considerato schizofrenico. Aveva letto diversi libri e consultato qualche medico importante, naturalmente senza entrare troppo nei dettagli.

No, era normale. Evidentemente però esisteva davvero ciò davanti a cui la mente si ritira, e le normali regole dell'esistenza dell'uomo non sono più valide. Aspettative troppo elevate… non era piacevole. Ma lo erano davvero, troppo elevate…

Maksim era seduto in macchina con il motore spento, nella sua Toyota ben tenuta, non il modello più caro e lussuoso, ma sempre molto meglio della maggioranza delle macchine che percorrevano le strade di Mosca. Nella semioscurità del mattino la sagoma dell'uomo al volante non si distingueva neppure a pochi passi dalla macchina. Aveva trascorso così tutta la notte, ascoltando i leggeri fruscii del motore che si raffreddava, morendo di freddo, ma senza permettersi di accendere il riscaldamento. Non aveva voglia di dormire, come succede di solito in questi casi. E nemmeno di fumare. Non aveva voglia di niente, anche così era bello starsene seduti lì, senza muoversi, niente più che un'ombra nella macchina posteggiata sul ciglio della strada, in attesa. L'unico problema era che sua moglie avrebbe di nuovo pensato che aveva trascorso la notte con qualche amante. E come convincerla che non aveva un'amante, per lo meno fissa, e che tutti i suoi peccati si riducevano ai soliti amorazzi estivi, a qualche storiella sul lavoro e raramente a una professionista durante le trasferte… e comunque non pagata con soldi sottratti al bilancio familiare, ma gentilmente offerta dal cliente? Non si poteva rifiutare, si sarebbero offesi. O avrebbero pensato che era omosessuale e la volta dopo gli avrebbero proposto un ragazzo…

Con un baluginio verde le cifre dell'orologio passarono a indicare le cinque. Ecco che si mettevano al lavoro i primi portinai: era un quartiere prestigioso nella parte più antica di Mosca, alla pulizia ci tenevano moltissimo. Per fortuna non pioveva e la neve non c'era più: l'inverno era finito, finalmente, e aveva fatto posto alla primavera, con tutti i suoi problemi e le sue aspettative troppo elevate…

Si sentì sbattere la porta di un ingresso. Sul marciapiede apparve una ragazza, che si fermò ad aggiustarsi la borsa sulla spalla, a una decina di metri da lui. Erano stupide quelle case, tutte senza cortile, non era comodo lavorarci e nemmeno viverci, probabilmente: che senso aveva tutta quell'aria di prestigio se poi appena marciva un tubo i muri spessi si coprivano di muffa e probabilmente appariva anche qualche spettro?

Maksim sorrideva leggermente uscendo dalla macchina. Il suo corpo gli ubbidiva facilmente, i muscoli non sembravano provati dall'immobilità notturna, anzi si sentiva come attraversato da una nuova forza. E quello era un segnale sicuro.

No, gli interessava comunque: ma gli spettri esistono?

— Galja! — gridò. La ragazza si girò. Anche quello era un altro segnale, altrimenti si sarebbe subito messa a correre. In fondo c'è qualcosa di sospetto e di pericoloso in un uomo che ti aspetta sotto casa alle cinque del mattino…

— Io non la conosco — disse la ragazza. Tranquillamente, con una sfumatura di curiosità.

— Vero — convenne Maksim. — Io però la conosco.

— Chi è lei?

— Io sono Colui che giudica.

Gli piaceva proprio quella forma, arcaica, enfatica, solenne. Colui che giudica! Colui che ha il diritto di giudicare.

— E chi ha intenzione di giudicare?

— Lei, Galja. — Maksim era concentrato e sbrigativo. Lo sguardo cominciava a offuscarsi, e anche quello era un segno.

— Davvero? — Lei gli lanciò un'occhiata rapida e Maksim colse nelle sue pupille un lampo giallo. — E ci riuscirà?

— Ci riuscirò — rispose Maksim, alzando un braccio. Il pugnale l'aveva già nascosto nel palmo della mano, un pugnale di legno stretto, sottile, un tempo chiaro, ma che nel corso degli ultimi tre anni, impregnandosi, si era scurito…

La ragazza non emise suono quando la lama di legno le penetrò nel petto, appena sotto il cuore.

Come sempre Maksim provò un momento di terrore, una breve e bruciante vampata di orrore… E se, nonostante tutto, avesse commesso un errore? Se…?

Con la mano sinistra toccò la crocetta, la semplice crocetta di legno, che portava sempre al collo. E rimase così, con il pugnale di legno in una mano e la crocetta stretta nell'altra, in piedi, finché la ragazza non cominciò a trasformarsi…

Avvenne molto rapidamente. Avveniva sempre rapidamente: la trasformazione in animale e poi di nuovo in essere umano. Per alcuni istanti sul marciapiede ci fu una belva, una pantera nera con gli occhi vitrei, i denti digrignati: un trofeo di caccia, elegante nel suo abbigliamento severo, completo di calze e scarpe… Poi il processo si rimise in moto nel senso inverso, come se il pendolo oscillasse un'ultima volta.

Maksim si stupì non tanto di quella breve e come sempre tardiva trasformazione, quanto del fatto che sul corpo della ragazza non fosse rimasta nessuna ferita. Il breve istante della trasformazione l'aveva guarita, rendendola di nuovo integra. Rimaneva solo il taglio sulla giacca e sulla camicetta.

— Gloria a Te, Signore — mormorò Maksim, guardando il cadavere del mutantropo. — Gloria a Te, Signore.

Non aveva nulla contro il ruolo che gli era stato assegnato in questa vita.

Solo che era un po' troppo impegnativo per uno come lui, che non aveva mai avuto un livello di aspettative troppo elevato.

Capitolo 1

Quella mattina capii che la primavera era davvero arrivata.

Ancora la sera prima il cielo era diverso. Nuvole grigie fluttuavano sulla città, e c'era odore di vento umido e freddo e di neve imminente. Si aveva voglia soltanto di ficcarsi in poltrona il più comodamente possibile, infilare nel videoregistratore la cassetta di un film demenziale e vivace (cioè americano), bere un sorso di cognac e addormentarsi così.

Quella mattina invece il gesto magico di un prestigiatore aveva lanciato sulla città un fazzoletto azzurro, e l'aveva passato su strade e piazze, ripulendole dagli ultimi rimasugli di inverno. E gli ultimi mucchietti di neve sudicia rimasti in qualche avvallamento o in qualche angolo in ombra sembravano, più che una svista della primavera ormai arrivata, un indispensabile elemento decorativo. Un ricordo…

Mentre camminavo per raggiungere la metropolitana, sorridevo.

Certe volte è molto bello essere uomini. Adesso, per esempio, era già una settimana che conducevo questa vita: quando arrivavo al lavoro, non salivo mai oltre il primo piano, trafficavo un po' col server che di colpo aveva preso tutta una serie di brutte abitudini, installavo alle ragazze dell'ufficio contabilità i nuovi programmi Office, la cui utilità non era chiara né a me né a loro. La sera andavo a teatro, allo stadio, in certi baretti e ristorantini da niente. Dovunque ci fosse gente, e rumore. Essere un uomo della folla era ancora più interessante che essere semplicemente un uomo.

Naturalmente nell'ufficio della Guardia della Notte, un vecchio edificio di tre piani che ci aveva affittato la nostra filiale, di uomini non c'era neppure l'ombra. Perfino le tre vecchiette che facevano le pulizie erano Altre. Perfino gli insolenti ragazzotti addetti alla sicurezza, il cui compito era stare all'ingresso e spaventare piccoli delinquenti e commessi viaggiatori, avevano un certo potenziale magico. Perfino il tecnico dell'impianto igienico, il classico tecnico degli impianti igienici moscovita, alcolista incallito, era un mago… e un mago niente male, che sapeva cosa fare dello spirito che ingurgitava.

Comunque i primi due piani avevano sempre avuto un'aria assolutamente normale. Qui si permetteva di entrare anche agli agenti della finanza, ai partner in affari appartenenti alla razza umana, ai banditi del nostro clan… Che il clan lo controllasse pure personalmente il Capo, ma perché farlo sapere ai quattro venti?

E anche i discorsi che si facevano erano dei più banali. Si parlava di politica, di tasse, di acquisti, del tempo, dei flirt degli altri e delle proprie avventure amorose. Le fanciulle tagliavano i panni addosso ai maschietti, e anche noi facevamo la nostra parte. Si intrecciavano amori, si tessevano trame ai danni dei diretti superiori, si valutavano le possibilità di ricevere qualche incentivo.

Mezz'ora dopo arrivai a Sokol e risalii in superficie. C'era molto rumore e l'aria sapeva di gas di scarico. Comunque la primavera era arrivata.

La via dove si trova il nostro ufficio non è nel peggiore dei quartieri moscoviti. Tutt'altro, anzi, se lo si confronta con la sede della Guardia del Giorno. Ma il Cremlino in ogni caso non fa per noi: il passato ha lasciato tracce troppo profonde sulla Piazza Rossa e sulle antiche mura di mattoni. Forse un giorno svaniranno. Per ora però sono ancora molto forti… anche troppo, ahimè.

Dalla fermata del metrò proseguii a piedi: era molto vicino. Le facce intorno a me erano buone, riscaldate dal sole. Per questo amo la primavera: attenua la sensazione di penosa impotenza. E diminuisce le occasioni di intervento…

Uno dei ragazzotti della sicurezza fumava davanti all'ingresso. Mi fece un cenno amichevole, i suoi compiti non prevedevano un controllo particolarmente accurato. E inoltre dipendeva direttamente da me la possibilità di trovare sul computer della loro stanza l'accesso a Internet e un paio di giochini nuovi, o soltanto le informazioni di servizio e i dossier dei collaboratori.

— Sei in ritardo, Anton — buttò là. Guardai l'orologio stupito.

— Il Capo ha radunato tutti nella sala conferenze, sono già venuti a cercarti.

Ecco una cosa strana: di solito non mi convocavano alle riunioni mattutine. C'era stato qualche problema con il sistema informatico? Era improbabile. In quel caso non avrebbero esitato a tirarmi giù dal letto, magari nel bel mezzo della notte. Era già successo…

Annuii e allungai il passo.

L'ascensore nel palazzo c'è, ma è ultravecchio, e preferii salire fino al terzo piano di corsa. Sul pianerottolo del secondo piano c'era un altro posto di guardia, già più serio. Quella mattina era di turno Garik. Mentre mi avvicinavo socchiuse gli occhi, guardò attraverso la tenebra, scannerizzando l'aura e tutti i segni distintivi che noi agenti della Guardia abbiamo addosso. Solo dopo mi sorrise gentilmente.

— Forza, sbrigati.

La porta della sala conferenze era socchiusa. Prima di entrare, sbirciai da quella fessura: c'erano una trentina di persone, soprattutto operativi e analisti. Il Capo camminava su e giù davanti a una cartina di Mosca, mentre Vitalij Markovič, il suo vice per la parte commerciale, molto debole come mago ma in compenso un businessman nato, diceva: — E in questo modo abbiamo completamente bloccato le spese correnti, e non abbiamo nessuna necessità di ricorrere a… ehm… modalità particolari di finanziamento. Se l'assemblea sosterrà le mie proposte, possiamo aumentare un po' la soddisfazione dei nostri collaboratori, in primo luogo i lavoratori operativi, naturalmente. Le indennità di temporanea inabilità al lavoro e le pensioni alle famiglie dei caduti necessitano anch'esse di… ehm… qualche aumento. E possiamo permettercelo…

È ridicolo che maghi capaci di tramutare il piombo in oro, il carbone in diamanti e ritagli di carta in fruscianti banconote si dedichino al commercio. Ma in effetti questo è comodo per due motivi. In primo luogo fornisce un'occupazione a quelli, tra gli Altri, le cui doti sono troppo modeste per garantire entrate costanti, e in secondo luogo diminuisce il rischio di spezzare l'equilibrio.

Quando entrai nella sala, Boris Ignat'evič fece un cenno e disse: — Grazie, Vitalij. Penso che la situazione sia chiara, non dobbiamo fare nessun appunto alla sua attività. Votiamo? Grazie. Adesso che tutti sono presenti…

Sotto io sguardo attento del Capo mi feci strada fino a una poltrona libera e mi sedetti.

— … possiamo passare alla questione principale.

Semën, che notai seduto di fianco a me, piegò la testa e mi sussurrò: — La questione principale è il versamento delle quote associative del mese di marzo…

Non riuscii a trattenere un sorriso. A tratti in Boris Ignat'evič si risvegliava molto chiaramente il vecchio funzionario di partito.

— La questione principale è la nota di protesta della Guardia del Giorno, che ho ricevuto due ore fa — disse il Capo.

Non ci arrivai subito. La Guardia del Giorno e la Guardia della Notte si tagliano continuamente la strada a vicenda. Le proteste sono un evento quotidiano, talvolta vengono liquidate a livello di dipartimento regionale, talvolta si ricorre al Tribunale di Berna…

Poi mi resi conto che la protesta per cui era stata convocata l'assemblea allargata della Guardia non poteva essere un avviso di routine.

— Il punto essenziale della protesta… — il Capo si sfregò la radice del naso — … il punto essenziale della protesta è questo… Stamattina nella zona dello Stolesnikov è stata uccisa un'agente delle Tenebre. Ecco una rapida descrizione dei fatti.

Sulle mie ginocchia frusciarono due paginette uscite da una stampante. Tutti gli altri ricevettero lo stesso omaggio. Scorsi velocemente il testo: "Galina Rogova, ventiquattro anni… Iniziata all'età di sette anni. La famiglia non appartiene agli Altri. Educata sotto il patronato delle Tenebre… istruttrice Anna Černogorova, mago di quarto livello… A otto anni Galina Rogova è stata inquadrata come mutantropo-pantera. Poteri medi…"

Continuai a leggere, corrugando un po' la fronte. Anche se apparentemente non ce n'era motivo. La Rogova faceva parte delle Forze delle Tenebre, ma non lavorava nella Guardia del Giorno. E rispettava le disposizioni. Non attaccava gli umani. Mai, assolutamente. Perfino i due permessi che aveva a disposizione, per la maggiore età e per il matrimonio, non li aveva usati. Con l'aiuto della magia aveva raggiunto un'ottima posizione all'interno dell'azienda immobiliare Dolce Casa, e aveva sposato il vicedirettore. Un figlio, un maschietto… Non erano stati rivelati poteri particolari. Raramente aveva usato i suoi poteri di Altra per autodifesa, una volta aveva ucciso un aggressore. Ma neppure allora si era lasciata andare ad atti di cannibalismo…

— Ce ne vorrebbero di più di mutanti così, vero? — mi chiese Semën. Girò un foglio e sobbalzò leggermente. Sorpreso, andai velocemente anch'io alla fine del documento.

Sì. L'ispezione di protocollo. Un taglio sulla camicetta e uno sulla giacca… verosimilmente provocati da un sottile pugnale. Magico, naturalmente: con un metallo qualsiasi non uccidi un mutantropo… Cosa aveva notato Semën di tanto strano?

Ecco che cosa!

Sul corpo non erano state rilevate tracce evidenti di lesioni. Di nessun tipo. La causa della morte era stata la perdita completa dell'energia vitale.

— Brutta cosa — disse Semën. — Mi ricordo che ai tempi della guerra civile mi spedirono a catturare un mutantropo-tigre. E quella canaglia lavorava nella Čeka, e non era nemmeno l'unico…

— Avete letto tutti i dati? — chiese il Capo.

— Posso fare una domanda? — Dal fondo della sala si alzò una mano esile. Quasi tutti sorrisero.

— Prego, Julja — rispose il Capo.

La più giovane collaboratrice della Guardia si alzò, ravviandosi i capelli con aria incerta. Era una ragazza carina, anche se effettivamente un po' infantile. Ma non era stata assunta nella sezione analitica senza motivi.

— Boris Ignat'evič, se capisco bene è stata adottata un'azione magica di secondo grado. O di primo?

— Sì. è possibile che si sia trattato anche di un secondo grado — confermò il Capo.

— Vuol dire che può averlo fatto solo lei… — Julja tacque per un istante, confusa. — O Semën… o Il'ja… o Garik. Giusto?

— Garik no — disse il Capo. — Il'ja e Semën sì.

Semën borbottò qualcosa, come se l'osservazione non gli fosse piaciuta.

— È anche possibile che l'omicidio sia stato compiuto da qualcuno dei nostri che era a Mosca solo di passaggio — rifletté ad alta voce Julja. — Ma un mago di questa potenza non arriva in città senza che nessuno se ne accorga, sono tutti schedati dalla Guardia del Giorno. In conclusione dobbiamo controllare tre persone. E se tutte e tre hanno un alibi, non possono più pretendere niente da noi…

— Julja — il Capo scosse la testa — nessuno pensa di pretendere qualcosa da noi. Il fatto è che a Mosca è presente un mago della Luce non registrato e non riconosciuto nel Patto.

E questa è una faccenda seria…

— Allora… accidenti — disse Julja. — Mi scusi, Boris Ignat'evič.

— Va tutto bene. — Il Capo annuì. — Così siamo arrivati al cuore della questione. Ragazzi, ci siamo lasciati sfuggire qualcosa di importante. Sembra proprio che non ci siamo accorti di niente. A Mosca si aggira un mago di grande potenza. Non capisce niente e ogni tanto ammazza qualcuno delle Forze delle Tenebre.

— Ogni tanto ne ammazza qualcuno? — chiese una voce.

— Sì. Ho consultato l'archivio. Episodi simili sono avvenuti tre anni fa — uno in primavera e uno in autunno — e due anni fa, in autunno. Tutte le volte mancava qualsiasi traccia di lesione fisica, ma c'erano delle lacerazioni sui vestiti. I Guardiani del Giorno hanno fatto indagini, ma non sono riusciti a scoprire niente. A quanto pare hanno attribuito quelle morti a fattori accidentali… Adesso qualcuno dovrà pagare.

— Qualcuno anche delle Forze della Luce?

— Anche.

Semën tossicchiò e disse a mezza voce: — È un po' strana la periodicità, Boris…

— Suppongo che ci siano altre circostanze di cui non siamo al corrente, ragazzi. Chiunque sia questo mago, ha sempre ucciso Altri di livello non molto elevato… che evidentemente avevano commesso qualche errore nel mascheramento. È molto probabile che accanto alle vittime ci fossero degli Altri non iniziati o sconosciuti alle Forze delle Tenebre. Per questo propongo…

Il Capo percorse con lo sguardo tutta la sala: — Sezione analitica… raccolta delle informazioni criminali, ricerca di casi analoghi. Tenete presente che possono anche essere catalogati non come omicidi, ma come morti in circostanze non chiarite. Controllate i risultati dell'autopsia, interrogate gli addetti dell'obitorio… pensate voi dove reperire altre informazioni. Gruppo scientifico… mandate due o tre dei vostri alla Guardia del Giorno, esaminate il cadavere. Dovete capire in che modo uccide le Forze delle Tenebre. Be', a proposito, chiamiamolo il Selvaggio. Gruppo operativo… pattugliamento rinforzato delle strade. Trovatelo, ragazzi.

— Ma noi siamo continuamente alla ricerca di qualcuno — borbottò Igor' insoddisfatto. — Boris Ignat'evič, non avremmo potuto non notare un mago di questa forza! Assolutamente!

— Magari è un non iniziato — lo interruppe il Capo. — Le sue doti si manifestano solo periodicamente…

— In primavera e in autunno, come succede a tutti gli psicotici…

— Sì, Igor', hai perfettamente ragione. In primavera e in autunno. E adesso, subito dopo avere compiuto l'omicidio, deve avere ancora addosso qualche traccia di magia. Abbiamo una chance, piccola, ma ce l'abbiamo. Al lavoro.

— Boris, qual è lo scopo? — chiese Semën incuriosito.

Qualcuno aveva già cominciato ad alzarsi, ma adesso si fermarono tutti.

— Lo scopo è trovare il Selvaggio prima delle Forze delle Tenebre. Proteggerlo, istruirlo, portarlo dalla nostra parte. Come sempre.

— Capito. — Semën si alzò.

— Anton e Ol'ga, vi chiedo di fermarvi — disse il Capo inaspettatamente, e si avvicinò alla finestra.

Gli altri, che già si avviavano all'uscita, mi guardarono con curiosità. Anche con una certa invidia. Una missione particolare è sempre qualcosa di interessante. Percorsi la sala con lo sguardo, vidi Ol'ga, le sorrisi solo con le labbra. Lei ricambiò il sorriso.

Adesso non aveva più nulla della fanciulla nuda e sporca che nel cuore dell'inverno avevo rifocillato con una bottiglia di cognac nella mia cucina. L'eleganza della pettinatura, il colorito sano della pelle, la sicurezza dello sguardo… Quella veramente c'era anche prima. Adesso però c'era una sfumatura in più, di frivolezza, e di orgoglio.

Le avevano tolto la punizione, anche se solo parzialmente.

— Anton, non mi piace quello che sta succedendo — disse il Capo senza girarsi.

Ol'ga si strinse nelle spalle e mi fece cenno un po' ironicamente di rispondere.

— Come. Boris Ignat'evič?

— Non mi piace la protesta che ci hanno indirizzato i Guardiani del Giorno.

— Nemmeno a me.

— Non hai capito. Ho paura che anche gli altri… Ol'ga, tu intuisci almeno qual è il problema?

— È molto strano che i Guardiani del Giorno nel corso di questi anni non siano stati in grado di rintracciare l'assassino.

— Sì. Ti ricordi Krakov?

— Purtroppo. Pensi che vogliano incastrarci?

— Non lo escluderei… — Boris Ignat'evič si allontanò dalla finestra. — Anton, ti sembra ammissibile questa interpretazione dei fatti?

— Veramente mi sfugge qualcosa — mormorai io.

— Anton, supponiamo pure che in città si aggiri davvero questo Selvaggio, un assassino solitario. È un non iniziato. Periodicamente viene sopraffatto da un'esplosione di poteri… scopre qualcuno delle Tenebre e lo distrugge. Sono in grado di scoprirlo, i Guardiani del Giorno? Ahimè, sì, credetemi. A questo punto sorge la domanda: perché non l'hanno scoperto e identificato? In fondo ammazza gli agenti delle Tenebre!

— Solo figure di scarsa importanza — tentai io.

— Giusto. Sacrificare le pedine è una tradizione… — Il Capo si interruppe incrociando il mio sguardo. — Una tradizione della Guardia del Giorno.

— Di entrambe le Guardie — specificai vendicativo.

— Di entrambe le Guardie — ripeté il Capo in tono stanco. — Me l'hai ricordato… Proviamo a pensare a che cosa può portare questa combinazione. Una generica accusa di trascuratezza contro di noi? Sciocchezze. Dobbiamo controllare il comportamento degli agenti delle Tenebre e il rispetto del Patto da parte di tutte le Forze della Luce, e non cercare misteriosi maniaci… Qui c'è di mezzo la Guardia del Giorno…

— Vuoi dire che la vittima della macchinazione è un individuo in particolare?

— Bravo, Anton. Ti ricordi cosa ha detto Julja? Tra di noi sono pochi coloro che possono compiere azioni di questo tipo. È dimostrato. Poniamo che i Guardiani del Giorno vogliano accusare qualcuno di avere infranto il Patto. Cioè vogliano accusare un agente, perfettamente al corrente del Patto, di farsi da solo giudice e giustiziere.

— Ma è facile smentirli. Basta trovare il Selvaggio…

— E se le Forze delle Tenebre lo trovano prima? Non credo che daranno molta pubblicità alla cosa…

— Gli alibi?

— E se gli omicidi fossero avvenuti in momenti in cui i nostri sono privi di alibi?

— Finirebbero in Tribunale, con tanto di interrogatorio completo — dissi cupo. Naturalmente non c'è niente di bello nel rovesciamento della coscienza…

— Un mago potente, perché questi omicidi li ha commessi un mago potente, può nascondersi anche dal Tribunale. Non ingannarlo, ma nascondersi. Senza contare, Anton, che se si tratta di un tribunale di cui fanno parte le Forze delle Tenebre, nascondersi sarà necessario. Altrimenti i nostri nemici entreranno in possesso di troppe informazioni. Ma se un mago si sottrae all'istruttoria, automaticamente si riconosce colpevole. Con tutte le conseguenze del caso, sia per lui sia per la Guardia.

— Un brutto quadro, Boris Ignat'evič — ammisi. — Molto brutto. Quasi come quello che mi ha descritto quest'inverno, in sogno. Un ragazzino-Altro di forza straordinaria, una voragine infernale che riempie di polvere tutta la città…

— Capisco. Ma non ti sto mentendo, Anton.

— Che cosa dovrei fare io? — gli chiesi direttamente. — Non è il mio profilo. Aiutare gli analisti? Faremo comunque tutto quello che può essere di qualche utilità.

— Anton, voglio che tu scopra chi dei nostri è il loro obiettivo. Chi ha un alibi per i casi di cui siamo a conoscenza e chi non lo ha.

Il Capo ficcò una mano in tasca e ne estrasse un DVD: — Tieni… è un dossier completo sugli ultimi tre anni. Su tutti e quattro, me compreso.

Inghiottii a vuoto, prendendo il dischetto.

— Ho tolto la password. Ma capisci da solo che nessuno lo deve vedere. Non sei autorizzato a copiare le informazioni. I calcoli e gli schemi cifrati…

— Mi servirebbe un aiutante — chiesi, non troppo sicuro. Gettai un'occhiata a Ol'ga. Del resto non sarebbe stata un grande aiutante: la sua conoscenza del computer si limitava alle battaglie di Heretic, Hexen eccetera.

— I dati che riguardano me controllali personalmente — disse il Capo dopo un attimo di riflessione. — Per gli altri puoi farti aiutare da Tolja. Va bene?

— E allora io cosa devo fare? — chiese Ol'ga.

— Tu farai la stessa cosa, ma attraverso domande personali. Interrogatori, se vogliamo essere proprio onesti. E comincerai da me. Poi passerai agli altri tre.

— Va bene, Boris.

— Mettiti al lavoro, Anton. — Il Capo mi fece un cenno di incoraggiamento. — Comincia subito. Per tutte le altre cose, lascia fare alle tue ragazze. Se la caveranno.

— Possiamo intervenire sui dati? — chiesi. — Per esempio, se qualcuno non ha un alibi, trovarglielo?

Il Capo scosse la testa: — No. Non hai capito. Non voglio organizzare dei falsi. Voglio essere sicuro che nessuno dei nostri sia implicato in questi omicidi.

— Possibile?

— Sì. Perché a questo mondo non c'è nulla di impossibile. Anton, il bello del nostro lavoro sta proprio nel fatto che posso darti un ordine di questo tipo. E tu lo eseguirai. Senza guardare in faccia nessuno.

C'era qualcosa che mi turbava, ma annuii e mi avviai verso la porta, stringendo il prezioso dischetto. Soltanto all'ultimo momento la domanda si chiarì nella mia testa e, girandomi, chiesi: — Boris Ignafevic…

Il Capo e Ol'ga si separarono istantaneamente.

— Boris Ignafevic, qui ci sono i dati di quattro persone?

— Sì.

— I suoi, quelli di Il'ja, quelli di Semën…

— E i tuoi, Anton.

— Perché? — chiesi scioccamente.

— Durante la contrapposizione sul tetto sei passato nel secondo strato del Crepuscolo per tre minuti. Anton… si tratta del terzo livello di forza.

— Non è possibile — fu l'unica cosa che riuscii a dire.

— È quello che è successo.

— Boris Ignafevic, ma lei ha sempre detto che sono un mago di livello medio!

— Supponiamo che mi sia molto più utile un ottimo programmatore che un bravo operativo.

In un altro momento mi sarei sentito orgoglioso. Anche un po' offeso, ma tutto sommato orgoglioso. Avevo sempre pensato che il quarto livello di magia fosse il massimo a cui potevo aspirare e che non l'avrei comunque raggiunto tanto presto. Adesso però tutto era inghiottito da una sensazione di terrore, una sgradevole, tenace, disgustosa sensazione di terrore. Cinque anni di lavoro da impiegato, in una postazione tranquilla all'interno del quartier generale, mi avevano disabituato ad avere paura di tutto: delle autorità, dei banditi, delle malattie…

— È stata un'interferenza di secondo livello…

— In questo caso il confine è troppo sottile, Anton. È possibile che tu sia capace anche di cose più grandi.

— Ma di maghi di terzo livello tra noi ce ne sono almeno una decina. Perché io sono tra i sospettati?

— Perché tu personalmente hai ferito Zavulon. Hai schiacciato la coda al capo dei Guardiani del Giorno della città di Mosca. E lui è assolutamente capace di organizzare una trappola speciale per Anton Gorodeckij. O meglio, di adattargli una vecchia trappola che tenevano di riserva.

Inghiottii e uscii senza chiedere altro.

Anche il nostro laboratorio è al terzo piano, ma in un'ala diversa. Percorsi in fretta il corridoio, salutando i conoscenti con un cenno, senza fermarmi.

Il Capo aveva detto la verità?

Poteva essere un colpo destinato a me?

Probabilmente aveva detto la verità. Avevo posto una domanda diretta e avevo ricevuto una risposta diretta. Naturalmente con il passare del tempo anche i maghi della Luce sviluppano una certa dose di cinismo e imparano a usare vari equilibrismi verbali. Ma le conseguenze di una menzogna diretta sarebbero state troppo pesanti anche per Boris Ignat'evič.

L'antiporta con il sistema di controllo elettronico. Sapevo che tutti i maghi considerano la tecnica con una certa ironia, e Semën una volta mi aveva dimostrato quanto era facile ingannare l'analizzatore vocale e lo scanner della retina. Però ero riuscito ugualmente a ottenere l'acquisto di quei costosi giocattolini. Forse non sarebbero riusciti a difenderci da un Altro. Ma io sono assolutamente convinto che prima o poi i ragazzi dei servizi o quelli della mafia si decideranno a farci una visita.

— Uno, due, tre, quattro, cinque… — borbottai nel microfono, fissando l'obiettivo della telecamera. Per qualche secondo l'elettronica mi valutò, poi sopra la porta si accese la lucina verde di via libera.

Nella prima stanza non trovai nessuno. Ronzavano i ventilatori del server, sbuffavano i condizionatori inseriti a muro, ma faceva lo stesso molto caldo. E la primavera era appena cominciata…

Non andai nel laboratorio dei sistemisti, ma raggiunsi subito il mio ufficio. Be', non solo mio. Anche Tolja, il mio vice, risiedeva là. E nel senso più letterale della parola, visto che spesso si fermava a dormire sul vecchio divano di pelle.

Era seduto al tavolo ed esaminava con aria meditabonda una vecchia scheda madre.

— Ciao — dissi, sedendomi sul divano. Il dischetto mi bruciava tra le dita.

— È morta — disse Tolja cupo.

— E buttala, allora.

— Adesso, provo solo… — Tolja si distingueva per l'estrema parsimoniosità, sviluppata in lunghi anni di lavoro negli istituti finanziari. Noi non avevamo problemi di finanziamenti, ma lui conservava accuratamente tutti i vecchi aggeggi ormai inutili. — Senti, ci sono stato mezz'ora, e lo stesso non ne vuole sapere…

— Ma è vecchia, perché continui a insistere? In ragioneria hanno macchine più nuove.

— La potevo dare a qualcuno. Magari ci ricavavo qualcosa…

— Tolja, abbiamo un lavoro urgente — gli dissi.

— Sì?

— Sì. Eccolo… — sollevai il dischetto. — Qui c'è un dossier… un dossier completo su quattro membri della Guardia. Compreso il Capo.

Tolja aprì il cassetto del suo tavolo, ci buttò la scheda madre e guardò il disco.

— Proprio così. Io ne controllerò tre. E tu il quarto… che sono io.

— E che cosa bisogna controllare?

— Ecco. — Presi i fogli che ci avevano consegnato alla riunione. — È possibile che qualcuno dei sospettati abbia ucciso alcuni maghi delle Tenebre. Senza essere stato punito. Qui sono indicati tutti i casi di cui siamo al corrente. Dobbiamo escludere questa possibilità, o…

— Li uccidi davvero? — mi interruppe Tolja. — Scusa la malignità…

— No. Però tu non credermi. Mettiamoci al lavoro.

Le informazioni che mi riguardavano non provai nemmeno a guardarle. Trasferii tutti gli ottocento megabyte sul computer di Tolja e presi il disco.

— Se mi capita sotto gli occhi qualcosa di interessante te lo devo raccontare? — mi chiese Tolja.

Gli lanciai un'occhiata di sbieco, mentre lui dava una prima scorsa ai file di testo, tormentandosi l'orecchio sinistro e cliccando ritmicamente con il mouse.

— Come vuoi.

— D'accordo.

Cominciai dal dossier con il materiale sul Capo. All'inizio c'era un cappello di informazioni generali. A mano a mano che leggevo mi immergevo sempre più profondamente in un bagno di sudore.

Il vero nome e l'origine del Capo, naturalmente, non erano indicati nemmeno in quel fascicolo: per Altri di quel livello in genere non si documentano queste informazioni. Ma facevo lo stesso una scoperta a ogni secondo. A cominciare dal fatto che il Capo era più vecchio di quanto supponessi. Come minimo di centocinquant'anni. E questo significava che aveva preso parte personalmente alla stesura del Patto tra la Luce e le Tenebre. Era una cosa un po' strana, perché tutti i maghi superstiti di quell'epoca adesso occupavano cariche importanti alla direzione centrale, e non si stancavano in posti noiosi e pesanti come quello di direttore regionale.

Inoltre scoprii alcuni dei nomi con cui il Capo aveva partecipato alle varie fasi della storia delle Guardie, e dove era nato. Di questo qualche volta avevamo discusso, arrivando anche alle scommesse, e ciascuno di noi aveva trovato prove "inconfutabili". Ma chissà perché nessuno aveva mai immaginato che Boris Ignat'evič venisse dal Tibet.

Immaginare poi di chi era stato istruttore sarebbe stata un'impresa superiore alle nostre più audaci fantasie!

Il Capo lavorava in Europa già dal XV secolo. Da segnali indiretti capii che la causa di quel brusco cambio di residenza era stata una donna. E intuii anche quale.

Mentre chiudevo la finestra delle informazioni generali, diedi un'occhiata a Tolja. Guardava un video-frammento, la mia biografia, che ovviamente non doveva risultare avvincente come quella del Capo. Osservai più attentamente la scenetta… e arrossii.

— Per il primo episodio hai un alibi di ferro — disse Tolja senza voltarsi.

— Senti un po'…

— Va bene. Non importa. Adesso lo faccio passare più veloce, così lo controllo tutto questa notte…

Mi immaginai come doveva risultare il film a velocità doppia, e mi girai. No, certo, avevo idea che la direzione controllasse i suoi collaboratori, soprattutto i più giovani, ma non così cinicamente!

— Non ce l'ho l'alibi di ferro — dissi. — Adesso mi vesto e me ne vado.

— Vedo — confermò Tolja.

— E non ci sono più per quasi mezz'ora. Quella volta… cercavo dello champagne… e intanto, all'aria aperta, mi sono un po' ripreso. E mi sono chiesto se valesse la pena tornare.

— Non ci pensare più — disse Tolja. — Meglio che ti dedichi alla vita intima del Capo.

Dopo una mezz'ora di lavoro mi resi conto che Tolja aveva ragione. Forse avevo davvero qualche motivo per offendermi per l'invadenza dei miei controllori. Ma certamente Boris Ignat'evič non era stato trattato meglio di me.

— Il Capo ha un alibi — dissi. — Inattaccabile. Per due casi ci sono quattro testimoni. E per l'altro praticamente tutta la Guardia.

— La volta della caccia all'agente delle Tenebre impazzito?

— Sì.

— Tu non hai un alibi nemmeno per quella volta. Ti hanno chiamato solo verso mattina, e il cronometraggio è molto approssimativo. C'è una foto di quando entri in ufficio e basta.

— Perciò…

— Teoricamente potevi ammazzare chiunque. Senza problemi. E per di più, scusami, Anton, ma ogni omicidio coincide con un aumento del tuo livello di eccitazione. Come se non ti controllassi perfettamente.

— Non sono stato io.

— Ci credo. Cosa devo fare con questo file?

— Eliminalo.

Tolja ci pensò su per un po'.

— Non ho niente di prezioso qui. Farò una formattazione veloce. È da un bel po' che devo ripulire l'hard disk.

— Grazie. — Chiusi il dossier sul Capo. — Basta, con gli altri me la vedo da solo.

— Capito. — Tolja superò la comprensibile indignazione del computer, e quello cominciò ad autodigerirsi.

— Vai a dare un'occhiata alle bambine — gli suggerii. — Fai la faccia severa. Avranno già tirato fuori le carte, ci scommetto.

— Tanto per cambiare — convenne subito Tolja. — Quando ti liberi?

— Tra due ore.

— Allora passo.

Se ne andò a controllare le nostre "bambine", due giovani programmatrici che in generale seguivano l'attività ufficiale di base dei Guardiani. Io continuai il mio lavoro. Adesso era il turno di Semën.

Due ore e mezzo dopo mi allontanai dal computer, massaggiandomi la nuca con le mani aperte — mi si intorpidisce sempre, quando me ne sto lì inchiodato allo schermo — e accesi la macchina del caffè.

Né il Capo, né ll'ja o Semën potevano occupare il ruolo del killer degli agenti delle Tenebre. Avevano tutti un alibi, e spesso assolutamente inattaccabile. Semën. per esempio. aveva avuto la buona idea di trascorrere tutta la notte di uno degli omicidi in trattative con la direzione della Guardia del Giorno. Il'ja era in missione a Sachalin: da quelle parti era scoppiato un tale casino da richiedere un intervento della direzione centrale…

Ero io l'unico sospettabile.

Non che non mi fidassi di Tolja. Ma controllai lo stesso una seconda volta i dati che mi riguardavano. Tutto giusto: non avevo alibi.

Il caffè era cattivo, acido, evidentemente non cambiavano il filtro da un bei po'. Inghiottii quella brodaglia bollente controllando lo schermo, poi presi il cellulare e feci il numero del Capo.

— Dimmi, Anton.

Sapeva sempre chi lo chiamava.

— Boris Ignat'evič, soltanto uno è senza alibi.

— E chi precisamente?

La sua voce era secca, ufficiale. Ma avevo lo stesso l'impressione che fosse seduto seminudo sul suo divano, con una coppa di champagne in una mano e la mano di Ol'ga nell'altra, e che tenesse la cornetta con la spalla, o che magari il telefono levitasse a mezz'aria…

— Ehi, ehi… — mi richiamò all'ordine lui. — Veggente o guardone? Chi è il sospettato?

— Io.

— Chiaro.

— Lei lo sapeva già — dissi.

— Perché lo pensi?

— Non c'era nessun bisogno di coinvolgermi nel lavoro sui dossier. Se la sarebbe potuta benissimo cavare da solo. Voleva che mi rendessi conto del pericolo personalmente.

— Ammettiamolo pure. — Il Capo sospirò. — Che cosa farai, Anton?

— È meglio essere pronti alla guerra…

— Vieni nel mio ufficio. Tra… ehm… tra dieci minuti.

— Va bene. — Chiusi la telefonata.

Prima passai dalle bambine. Tolja era lì e lavoravano tutti con impegno.

In effetti la Guardia non aveva nessun bisogno di due programmatrici tutt'altro che dotate. Il loro livello di accesso ai materiali segreti era basso, e dovevamo fare quasi tutto noi. Ma dove avremmo potuto sistemare due maghe molto molto deboli? Almeno avessero accettato di passare alla vita normale… No, avevano aspirazioni romantiche, volevano lavorare per la Guardia… E così erano finite da noi.

Di solito ammazzavano il tempo navigando e giocando; anche i solitari di tutti i tipi erano tornati di gran moda.

A una delle macchine libere c'era Tolja. Sulle sue ginocchia c'era Julja, che muoveva il mouse sul tappetino con grande concentrazione.

— È questa la famosa alfabetizzazione informatica? — chiesi, osservando i mostri che attraversavano fulminei lo schermo.

— Non c'è niente che sviluppi la capacità di utilizzare il mouse come i giochini elettronici — si giustificò Tolja.

— Be'… — Lasciai perdere, non trovando al momento una risposta adeguata.

Io i giochini li avevo abbandonati da tantissimo tempo. Come la maggioranza degli agenti della Guardia della Notte. Eliminare le forze del male dalla realtà virtuale è divertente finché non le incontri davvero. A meno di sopravvivere ancora per un altro secolo e farsi una bella scorta di cinismo, come Ol'ga…

— Tolja, probabilmente oggi non rientro — dissi.

— Aha. — Annuì senza nessuna meraviglia. Non abbiamo grandi capacità di prevedere il futuro, ma questi particolari li avvertiamo subito.

— Galja, Lena, ciao — salutai le bambine.

Galja mormorò qualcosa di gentile, esibendo contemporaneamente una gran concentrazione nel lavoro. Lena mi chiese: — Posso uscire prima?

— Certo.

Non ci mentiamo tra noi. Se Lena chiede un permesso è perché ha davvero bisogno di uscire prima. Non mentiamo. Solo, qualche volta, facciamo i furbi e non raccontiamo proprio tutto…

Sul tavolo del Capo regnava un tremendo disordine. C'erano penne, matite, fogli di carta, bollettini stampati, cristalli magici offuscati ormai esauriti.

Il colmo della sconcezza, però, era un fornello a spirito acceso su cui, in un crogiolo, si scaldava una polverina bianca. Il Capo la mescolava con espressione assorta con la punta di una preziosa Parker, evidentemente in attesa di qualche effetto. La polverina però ignorava sia il calore sia il rimescolamento.

— Ecco. — Depositai il dischetto davanti al Capo.

— Che cosa facciamo? — mi chiese senza sollevare gli occhi. Non aveva la giacca, la camicia era spiegazzata e la cravatta di traverso.

Lanciai di nascosto un'occhiata al divano. Ol'ga non c'era, ma sul pavimento c'erano una bottiglia vuota di champagne e due coppe.

— Non so. Non ho ucciso io gli agenti delle Tenebre… quegli agenti delle Tenebre. Lo sa anche lei.

— Lo so.

— Ma non posso dimostrarlo.

— Secondo i miei calcoli, abbiamo due-tre giorni — disse il Capo. — Poi la Guardia del Giorno presenterà un atto d'accusa contro di te.

— Organizzarmi un falso alibi non è difficile.

— E tu acconsentiresti? — mi chiese Boris Ignat'evič incuriosito.

— No, naturalmente. Posso farle una domanda?

— Prego.

— Da dove vengono tutti questi dati? Le fotografie e le videoregistrazioni?

Il Capo rimase un istante in silenzio. — Me lo immaginavo. Eppure tu hai visto anche il mio dossier, Anton. Ti è sembrato meno disinvolto?

— No, è vero. È anche per questo che lo chiedo. Perché permette che si raccolga questo genere di informazioni?

— Io non posso vietarlo. Il controllo è gestito dall'Inquisizione.

La stupida domanda: "Ma esiste davvero l'Inquisizione?" riuscii a non formularla esplicitamente. Probabilmente, però, la mia faccia era abbastanza espressiva.

Il Capo mi guardò ancora per un attimo, forse aspettandosi altre domande, poi proseguì: — Allora, Anton. Da questo momento non devi più rimanere solo. Diciamo che puoi andare da solo in bagno, ma in tutti gli altri casi devi sempre avere accanto due o tre testimoni. Possiamo sperare che si verifichi un altro omicidio.

— Se davvero vogliono incastrarmi, non ci saranno più omicidi finché non resterò senza alibi.

— E prima o poi capiterà. — Il Capo sogghignò. — Non prendermi per un vecchio scemo.

Annuii un po' incerto, senza capire del tutto. — Ol'ga…

Quasi subito una porta a metà parete, che mi era sempre sembrata quella di un armadio, si aprì ed entrò Ol'ga, sorridente, aggiustandosi i capelli. I jeans e la camicia le stavano estremamente aderenti, come capita soltanto dopo una doccia calda. Dietro di lei riuscii a intravedere un bagno enorme, con una vasca idromassaggio e una immensa finestra panoramica probabilmente trasparente solo dall'interno.

— Ol'ga, ce la farai? — le chiese il Capo. Si riferiva a qualcosa di cui avevano già parlato.

— Da sola? No.

— Intendevo quell'altra cosa.

— Certo che ce la farò.

— Mettetevi schiena contro schiena — ordinò il Capo.

Non avevo voglia di discutere. Anche se avevo avuto un tuffo al cuore: capivo che stava per accadere qualcosa di molto serio.

— E lasciatevi andare tutti e due — continuò Boris Ignat'evič.

Chiusi gli occhi, mi rilassai. La schiena di Ol'ga era calda e umida anche attraverso la camicia. Che strana sensazione: toccare una donna che ha appena fatto l'amore… ma non con te.

No, non ero innamorato di lei. Forse perché mi ricordavo il suo aspetto non umano, forse perché eravamo subito passati al tipo di rapporti che ci sono tra compagni di lavoro. Forse anche per tutti gli anni che separavano le nostre date di nascita: che cosa significa un corpo giovane, quando negli occhi dell'altro vedi la polvere dei secoli? Eravamo rimasti amici, niente di più.

Ma stare così vicino a una donna il cui corpo ricorda ancora le carezze di un altro uomo è comunque una strana sensazione…

— Cominciamo… — disse il Capo, forse un po' troppo bruscamente. Poi pronunciò qualche parola di cui non riuscii a capire il significato, in una lingua che era risuonata sul nostro mondo molti millenni prima.

Mi sommerse un'ondata di gioia così pura e folle, e assolutamente ingiustificata, che il mondo circostante si offuscò. Sarei caduto, ma la forza che fluiva dalle mani alzate del Capo sorreggeva Ol'ga e me con fili invisibili, ci costringeva a piegarci, a stringerci l'uno all'altra.

Poi i fili si ingarbugliarono.

— Mi devi scusare, Anton — disse Boris Ignat'evič. — Ma non c'era tempo per incertezze e spiegazioni.

lo rimasi in silenzio. Un silenzio sordo, ottuso mentre, seduto sul pavimento, guardavo le mie mani con le dita sottili ornate da due anelli d'argento, le mie gambe, lunghe ed eleganti, ancora umide per il bagno recente e fasciate da un paio di jeans decisamente aderenti, e le scarpe da corsa bianche e blu, sui piedi aggraziati.

— È solo per poco — disse il Capo.

— Che… — Volevo imprecare. Mi riscossi, cercai di rimettermi in piedi, ma mi zittii immediatamente dopo aver sentito il suono della mia voce. Una tenera voce femminile, un po' di petto.

— Anton, stai tranquillo. — Il giovane uomo al mio fianco mi tese la mano e mi aiutò ad alzarmi.

E per fortuna, perché altrimenti sarei sicuramente caduto. Il baricentro era completamente diverso. Era diventato anche più basso, e vedevo il mondo da un'angolatura completamente differente…

— Ol'ga? — domandai, fissando la mia vecchia faccia. La mia compagna, e adesso anche inquilina del mio corpo, annuì. Guardando confuso il suo… il mio viso, notai che quella mattina non mi ero rasato molto bene. E che sulla fronte mi stava maturando un piccolo brufolo rosso, degno di un adolescente in piena età dello sviluppo.

— Anton, stai tranquillo, anch'io cambio sesso per la prima volta.

Non so perché, ma le credetti. Nonostante la sua età, era abbastanza probabile che Ol'ga non si fosse mai trovata in una situazione così spinosa.

— Ti sei ambientato? — mi chiese il Capo.

Mi guardai ancora una volta, un po' osservandomi le mani, un po' studiando il mio riflesso nei vetri degli scaffali.

— Andiamo. — Ol'ga mi prese per mano. — Boris, un attimo… — I suoi movimenti erano incerti quanto i miei, forse addirittura di più. — Luce e Tenebre, ma come camminate voi maschietti? — esclamò improvvisamente.

Allora mi misi a ridere. Io, l'obiettivo della provocazione della Guardia del Giorno, ero stato messo al riparo nel corpo di una donna! E per l'esattezza nel corpo dell'amante del Capo, vecchio quanto la cattedrale di Notre Dame di Parigi!

Ol'ga mi spinse letteralmente nel bagno — notai con un piacere istintivo la mia forza — e mi fece chinare sulla vasca. Poi mi indirizzò in faccia il getto dell'acqua fredda della doccia, già premurosamente preparata per quell'evenienza.

Sbuffando mi divincolai dalla sua stretta. Riuscii a malapena a soffocare l'impulso di assestarle un bello schiaffo… o l'avrei assestato a me stesso? A quanto pare i processi motori di quel corpo non mio cominciavano a rimettersi in moto.

— Non è una crisi isterica — dissi irritato. — È che è tutto così ridicolo.

— Davvero? — Ol'ga mi guardava, aggrottando la fronte. Possibile che quello fosse il mio sguardo, quando volevo assumere un'espressione di benevolenza mista a dubbio?

— Assolutamente.

— Allora datti un'occhiata.

Mi avvicinai allo specchio, grande e sontuoso come tutte le suppellettili di quella stanza da bagno segreta, e fissai la mia immagine.

Il risultato fu strano. Osservando il mio nuovo aspetto, mi calmai completamente. Probabilmente se mi fossi ritrovato in un corpo altrui maschile, lo shock sarebbe stato maggiore. Ma così… niente di speciale, a parte la sensazione di essere mascherato.

— Non state agendo su di me? — le chiesi. — Tu o il Capo?

— No.

— Vuol dire che ho nervi molto saldi.

— E hai anche il rossetto sbavato — notò Ol'ga ridacchiando. — Sei capace di truccarti le labbra?

— Ma sei impazzita? No di certo!

— Ti insegnerò io. Non ci vuole molto. Sei stato fortunato, Anton.

— Perché?

— Se tutto questo fosse successo tra qualche giorno, avresti dovuto imparare anche a usare gli assorbenti.

— Come tutti gli uomini che guardano la televisione, so perfettamente come si usano.

Capitolo 2

Uscii dall'ufficio di Boris Ignat'evič e mi fermai per un attimo, lottando contro la tentazione di tornare indietro.

Potevo rifiutare in qualsiasi momento il piano organizzato dal Capo. Bastava che mi girassi, pronunciassi qualche parola, e Ol'ga e io ci saremmo ritrovati nei nostri veri corpi. Ma nell'ultima mezz'ora di colloquio il Capo mi aveva dato motivi sufficienti per ritenere che lo scambio dei corpi fosse l'unica risposta efficace alla provocazione degli agenti delle Tenebre.

In fondo non è ragionevole rifiutare una cura risolutiva solo perché le punture fanno male.

In borsetta avevo le chiavi dell'appartamento di Ol'ga. Insieme a soldi e carta di credito — in un borsellino — trucchi, un fazzoletto, un assorbente (perché, poi, se non mi doveva servire?), una confezione già aperta di mentine, un pettine, qualche moneta, uno specchietto, un minuscolo cellulare…

Le lasche vuote dei jeans, invece, mi trasmettevano un'inconscia sensazione di perdita. Le esplorai per un secondo, sperando di trovarci almeno una monetina dimenticata, ma finii con il convincermi che, come la maggioranza delle donne. Ol'ga teneva tutto nella borsetta.

Non che le tasche vuote fossero il mio problema principale, quel giorno. Ma era comunque un particolare irritante. Trasferii qualche banconota dalla borsetta alla tasca e mi sentii più sicuro.

Peccato soltanto che Ol'ga non usasse il walkman…

— Ciao. — Era arrivato Garik. — È libero il Capo?

— È… con Anton… — risposi.

— Va tutto bene, Ol'ga? — Garik mi guardò attentamente. Non so che cosa avesse notato: un'intonazione diversa, i movimenti incerti, una nuova aura. Ma se perfino un operativo, con cui né io né Ol'ga avevamo particolari rapporti, avvertiva il cambiamento… non valevo un fico secco.

Nel frattempo Garik mi aveva rivolto un sorriso timido, incerto, che mi colse di sorpresa: non mi ero mai accorto che cercasse di flirtare con le ragazze della Guardia della Notte. Faceva fatica perfino a fare conoscenza con le ragazze del genere umano, e nel complesso negli affari di cuore era decisamente sfortunato.

— Niente di grave. Abbiamo avuto una piccola discussione. — Mi voltai e, senza salutarlo, mi avviai verso le scale.

Era la versione per la Guardia del Giorno nel caso poco verosimile che tra di noi ci fosse un loro agente. A quanto ne sapevo, di casi simili ce n'erano stati uno o due in tutta la storia dei Guardiani, ma non si sa mai… meglio che tutti credessero che Boris Ignat'evič aveva litigato con la sua vecchia amica.

In effetti c'era anche il pretesto, e tutt'altro che insignificante. La reclusione secolare nell'ufficio del Capo, l'impossibilità di assumere sembianze umane, poi la riabilitazione parziale ma con la perdita della maggioranza dei poteri magici. Motivi più che sufficienti per giustificare una bella arrabbiatura… Così almeno mi ero liberato dalla necessità di impersonare la ragazza del Capo, che sarebbe stato decisamente eccessivo.

Immerso in questi pensieri, raggiunsi il secondo piano. Bisognava riconoscere che Ol'ga aveva cercato in tutti i modi di facilitarmi la vita. Quel giorno si era messa i jeans, e non il solito tailleur, o un vestito, e in più aveva scelto un paio di scarpe per correre, e non quelle con il tacco alto. Perfino il leggero profumo che mi aleggiava intorno non era troppo stordente.

Viva la moda unisex… e pensare che non l'avevo mai apprezzata…

Sapevo cosa dovevo fare adesso, come dovevo comportarmi. Ma era lo stesso molto difficile. Non dovevo avviarmi verso l'uscita, ma imboccare un corridoio laterale, seminascosto e tranquillo.

E poi sprofondare nel passato.

Dicono che gli ospedali abbiano un loro inconfondibile odore. Certamente. E non è strano, sarebbe più strano se non esistesse un odore speciale per quel miscuglio di disinfettanti e di ferite, di autoclavi e di dolore, di biancheria statale e di cibo insipido.

Ma da dove proviene, ditemelo, vi prego, da dove proviene l'odore caratteristico delle scuole e dei licei?

Nella sede della Guardia si studiano solo alcune materie. Ci sono argomenti che è più comodo insegnare all'obitorio, di notte: abbiamo i nostri uomini sul posto. Altri che si imparano sul territorio. Altri ancora che vengono presentati all'estero, nel corso di viaggi turistici finanziati dalla Guardia. Quando sono stato istruito io, mi hanno portato a Haiti, in Angola, negli USA e a Cuba.

Ciò nonostante, certi argomenti si possono trattare solo sul territorio della Guardia, un edificio coperto di magia e di incantesimi protettivi dalle fondamenta fino all'ultima tegola del tetto. Trent'anni prima, quando la Guardia si era trasferita in quella sede, avevano organizzato tre aule, della capienza di una quindicina di persone ciascuna. Non ho ancora capito cosa ci fosse alla base di tanta grandiosità, se un eccesso di ottimismo o una sovrabbondanza di spazi. Perfino ai miei tempi, ed era un anno molto fortunato, utilizzavamo una sola aula, e anche quella rimaneva mezzo vuota.

Adesso la Guardia istruiva quattro Altri. E solo riguardo a Svetlana avevamo la sicurezza che sarebbe entrata nelle nostre fila e non avrebbe scelto la normale vita degli umani.

Qui era tutto vuoto, vuoto e silenzioso. Camminavo lentamente per il corridoio, ammirando le aule deserte, che perfino la più ricca e attrezzata delle università avrebbe guardato con invidia. In ogni aula c'era un enorme proiettore, su ogni tavolo un notebook, e gli scaffali traboccavano di libri… E se quei libri li avesse visti uno storico, un vero storico, e non uno che ci speculava sopra…

Ma non li avrebbe mai visti.

In alcuni di essi c'era troppa verità. In altri troppo poca menzogna. Non era il caso che gli uomini li leggessero, soprattutto per la loro stessa tranquillità. Meglio che continuassero a vivere con la storia a cui erano abituati.

In fondo al corridoio era appeso un grande specchio, che occupava tutta la parete. Mi diedi un'occhiata di sbieco: lungo il corridoio avanzava ancheggiando una donna giovane e bella.

Inciampai, rischiando di finire lungo e disteso sul pavimento: anche se aveva fatto tutto il possibile per semplificarmi le cose. Ol'ga non aveva potuto cambiare il centro di gravità del suo corpo. Finché riuscivo a dimenticarmi del mio nuovo aspetto, tutto procedeva più o meno normalmente, perché funzionavano gli automatismi motori. Ma bastava che mi vedessi per un istante dall'esterno che cominciavano i guai. Perfino il respiro era diverso, come se l'aria penetrasse nei polmoni in un altro modo.

Mi avvicinai alla porta a vetri dell'ultima aula e cautamente sbirciai all'interno.

La lezione si stava concludendo proprio in quel momento.

Quel giorno avevano studiato la magia quotidiana, lo capivo scorgendo, allo stand di dimostrazione, Polina Vasil'evna. Era uno dei membri più vecchi della Guardia, dal punto di vista esteriore, dico, non come età reale. Era stata scoperta e iniziata quando aveva già sessantatré anni. Chi avrebbe potuto immaginare che quella vecchietta, che nei difficili anni del dopoguerra sbarcava il lunario leggendo le carte, avesse davvero dei poteri? E per di più tutt'altro che trascurabili, anche se male utilizzati.

— E adesso, se dovrete rimettere a posto i vestiti in tutta fretta — diceva Polina Vasil'evna in tono edificante — potrete farlo in pochi minuti. Ma non dimenticatevi di controllare prima quanta forza vi resta, altrimenti vi ritroverete in una confusione ancora peggiore.

— E quando l'orologio batterà la mezzanotte, la carrozza si trasformerà in una zucca — aggiunse a voce alta un giovanotto seduto accanto a Svetlana. Non lo conoscevo, era il secondo o il terzo giorno che frequentava la scuola, ma non mi piaceva.

— Esattamente! — concluse entusiasta Polina, abituata a trovare più o meno in ogni gruppo uno spiritosone del genere. — Le fiabe non mentono meno della statistica! Però ogni tanto ci si può trovare anche una goccia di verità.

Prese dal tavolo uno smoking perfettamente stirato, molto elegante, anche se un po' fuori moda. Del tipo di quello con cui ha fatto il suo ingresso nel mondo James Bond.

— Quando si trasformerà di nuovo in uno straccio? — chiese Svetlana in tono pratico.

— Tra due ore — le rispose Polina altrettanto spiccia. Appese lo smoking a una gruccia e tornò allo stand. — Non mi sono sforzata troppo.

— E per quanto tempo può farlo restare in perfetta forma, al massimo?

— All'incirca per ventiquattr'ore.

Svetlana annuì e improvvisamente guardò dalla mia parte. Mi aveva sentito. Sorridendo mi salutò con la mano. A quel punto mi notarono tutti.

— Prego, signora. — Polina chinò la testa. — È un grande onore per noi.

Sì, sapeva di Ol'ga qualcosa che io ignoravo. Tutti conoscevamo di lei solo una parte; soltanto il Capo, probabilmente, sapeva tutto.

Entrai, cercando disperatamente di attenuare l'eleganza della camminata. Inutilmente. Il giovanotto che sedeva accanto a Svetlana, un altro ragazzino sui quindici anni che già da sei mesi scaldava il banco del primo corso di magia, un coreano alto e robusto che poteva avere trenta come quarant'anni, tutti si girarono a guardarmi.

Con identico interesse. L'atmosfera di mistero che avvolgeva Ol'ga, le voci e i bisbigli, e il fatto che fosse dalla notte dei tempi l'amante del Capo provocavano nella parte maschile della Guardia un effetto particolare.

— Buongiorno — dissi. — Non sono importuna?

Concentrato com'ero sull'uso giusto del genere, non avevo controllato il tono. Il risultato era che quella banalissima domanda aveva assunto un suono tra il languido e l'enigmatico, e sembrava rivolta personalmente a ciascuno dei presenti. Il ragazzino brufoloso mi trafisse con lo sguardo, il giovanotto inghiottì, soltanto il coreano mantenne una parvenza di sangue freddo.

— Ol'ga, vuole annunciare qualcosa agli studenti? — mi chiese Polina.

— Devo parlare con Sveta.

— Potete andare — dichiarò la vecchia maga. — Ol'ga, qualche volta passerà a trovarci durante le lezioni? I miei insegnamenti non possono certo sostituire la sua esperienza.

— Sicuramente — promisi. — Tra tre giorni.

Certo, Ol'ga avrebbe dovuto rispondere delle mie promesse. D'altra parte io stavo pagando le conseguenze del suo sex-appeal!

Mi avviai all'uscita insieme a Svetlana. Tre paia di occhi mi seguirono, incollati avidamente alla mia schiena, o meglio… non proprio alla schiena.

Sapevo che tra Ol'ga e Svetlana i rapporti erano molto amichevoli. Da quella notte in cui io e Ol'ga le avevamo spiegato la verità sul mondo, sugli Altri, sulle Forze della Luce e le Forze delle Tenebre, sui Guardiani, sul Crepuscolo; da quell'alba in cui, tenendo le nostre mani, aveva oltrepassato la porta chiusa della sede del quartier generale operativo della Guardia della Notte. Da allora tra me e Svetlana c'era il legame di un filo mistico, i nostri destini erano intrecciati. Ma sapevo, e lo sapevo fin troppo bene, che non sarebbe durato a lungo. Svetlana sarebbe andata molto più lontano di quanto avrei mai potuto fare io, fossi anche diventato mago di primo livello. Era il destino a unirci, e a unirci strettamente. Ma era un legame a tempo determinato. Invece Ol'ga e Svetlana erano semplicemente amiche, per quanto mi sia sempre dichiarato scettico sulla possibilità dell'amicizia femminile. Non era stato il fato ad avvicinarle. Loro erano libere.

— Ol'ga, io devo aspettare Anton. — Svetlana mi aveva preso per mano. Non era il gesto di una sorella minore che si stringe alla maggiore in cerca di sostegno e di autoaffermazione. Era il gesto che può esserci tra due persone alla pari. E se Ol'ga permetteva a Svetlana di comportarsi alla pari, voleva dire che quella ragazza aveva davvero un grande futuro davanti.

— Non è il caso — dissi. — Sveta, non è il caso.

Di nuovo avvertii qualcosa di strano nella costruzione della frase o forse nel tono con cui l'avevo pronunciata. Adesso Svetlana mi fissava sconcertata, e il suo sguardo era assolutamente identico a quello di Garik.

— Ti spiegherò tutto — le dissi. — Ma non adesso e non qui. A casa tua.

Il suo appartamento era stato protetto come si deve, la Guardia aveva decisamente fatto le cose in grande per la nuova collaboratrice. Il Capo non si era nemmeno messo a discutere se fosse o meno il caso che parlassi con Svetlana, aveva insistito solo su un punto: che la conversazione avvenisse a casa sua.

— Va bene. — Lo stupore, però, non scomparve dagli occhi della ragazza. — Sei sicura che non sia il caso di aspettarlo?

— Assolutamente — dissi, senza nemmeno un'ombra di menzogna. — Prendiamo una macchina?

— Sei venuta a piedi oggi?

Idiota!

Mi ero completamente dimenticato che Ol'ga preferiva a qualsiasi altro mezzo di trasporto la macchina sportiva che le aveva regalato il Capo.

— No, appunto, ti dicevo… andiamo alla macchina? — mi corressi, consapevole che stavo facendo la figura dello stupido. Anzi, della stupida.

Svetlana annuì. Lo sconcerto nei suoi occhi cresceva sempre più.

Per fortuna sapevo guidare. Non ero mai stato attratto dal discutibile piacere di possedere una macchina in una megalopoli dotata di strade così terribili.

Il nostro corso di studi era molto vario. Alcune materie ce le insegnavano nel modo normale, altre ce le fissavano nella coscienza con la magia. A guidare la macchina avevo imparato come imparano gli uomini, ma se il caso mi avesse scaraventato nella cabina di un elicottero o di un aereo, sarebbero entrati in azione automatismi di cui. in condizioni normali, non ero consapevole. Per lo meno, in teoria sarebbero dovuti entrare in azione.

Trovai le chiavi della macchina in borsetta. L'auto, di un bell'arancione fiammante, ci aspettava nel parcheggio davanti alla nostra sede, sotto l'occhio vigile della sorveglianza. Le portiere erano chiuse, il che era abbastanza ridicolo considerando che la macchina era scoperta.

— Guidi tu? — mi chiese Svetlana.

Assentii in silenzio. Mi sedetti al volante e avviai il motore. Ol'ga, a quanto mi ricordavo, partiva a razzo, ma io non ero in grado di imitarla.

— Ol'ga, hai qualcosa di strano oggi. — Alla fine Svetlana si era decisa a dar voce ai suoi pensieri. Annuii, imboccando il Leningradskij Prospekt.

— Sveta, parleremo di tutto quando arriviamo a casa tua.

Non aprì più bocca.

Non sono un grande pilota. Viaggiammo a lungo, molto più a lungo di quanto sarebbe stato necessario. Svetlana però non mi chiese più nulla, sedeva abbandonata, guardando diritto davanti a sé. Probabilmente meditava, o cercava di vedere attraverso la penombra. Negli ingorghi capitò più di una volta che qualcuno, dalle macchine vicine, cercasse di attaccare discorso. Era sempre qualcuno a bordo di un'auto molto costosa, come se il nostro aspetto, e la nostra macchina, creassero una barriera invisibile che non tutti si azzardavano a superare. Abbassavano il finestrino, sporgevano la testa sempre dai capelli molto corti… qualche volta spuntava anche una mano con il telefonino, immancabile attributo. All'inizio li trovavo semplicemente fastidiosi. Poi ridicoli. Alla fine smisi di reagire a qualsiasi provocazione, esattamente come faceva Svetlana.

Mi sarebbe piaciuto sapere se Ol'ga trovava divertenti quei tentativi di abbordaggio.

Probabilmente sì. Dopo aver trascorso interi decenni in un corpo non umano ed essere stata reclusa in una vetrina!

— Ol'ga, perché mi hai portato via? Perché non hai voluto aspettare Anton?

Mi strinsi nelle spalle. La tentazione di dirle: "Perché è qui, di fianco a te" era grande. Le possibilità che qualcuno ci stesse seguendo erano piuttosto scarse. Anche la macchina era coperta da incantesimi protettivi, che in parte percepivo e in parte superavano le mie possibilità.

Ma mi trattenni.

Svetlana non aveva ancora frequentato il corso di sicurezza delle informazioni, che cominciava solo dopo i primi tre mesi di addestramento. Secondo me varrebbe la pena di introdurlo prima, ma per ognuno degli Altri viene elaborato un programma personalizzato, e questo richiede un certo tempo.

Una volta superato l'addestramento, Svetlana avrebbe imparato sia a parlare sia a stare zitta. Quello era contemporaneamente il corso più facile e il più duro. Durante quel periodo cominciano semplicemente a darti delle informazioni, meticolosamente dosate e con una ben precisa consequenzialità. Una parte di queste informazioni è vera, una parte è falsa. Qualcosa ti viene comunicato apertamente, con grande disinvoltura, qualcosa con la clausola del più assoluto segreto, qualcos'altro ancora lo scopri ''per caso", lo senti di sfuggita, lo sbirci di nascosto.

E tutto, tutto ciò che vieni a sapere fermenta dentro di te, evocando dolore e paura, e lotta per venire alla superficie, lacerandoti il cuore, ed esige una reazione, rapida e immediata. A lezione ti racconteranno ogni genere di sciocchezze, in generale del tutto inutili per la vita di un Altro. Perché la prova fondamentale, l'addestramento decisivo, avviene nella tua anima.

In realtà sono pochi quelli che non ce la fanno. Anche perché si tratta di un addestramento, e non di un esame. E a ciascuno viene proposto solo il grado di difficoltà che può affrontare, impegnando al massimo tutte le sue forze e lasciando brandelli di pelle e schizzi di sangue sull'ostacolo da superare, sempre coperto di filo spinato.

Ma quando questo corso lo frequentano quelli che ti sono davvero cari, o anche solo che ti stanno simpatici, inizi a tormentarti e a lacerarti nei dubbi. Magari cogli uno sguardo strano del tuo amico, e cominci a chiederti che cosa ha scoperto, quali verità o quali menzogne gli stanno somministrando. E che cosa sta scoprendo su di sé, sul mondo che lo circonda, sui suoi genitori, sui suoi amici.

E ti prende un desiderio strano, doloroso. Il desiderio di aiutarlo. Di spiegare, di accennare, di suggerire.

Anche se nessuno che abbia frequentato quel corso penserà mai di realizzare quel desiderio. Perché lì si impara proprio che cosa e quando si può e si deve dire, superando quel dolore.

In generale si può e si deve dire tutto. Bisogna solo scegliere bene il momento, perché altrimenti la verità può essere peggio di una bugia.

— Ol'ga?

— Capirai — dissi. — Devi solo aspettare.

Scrutando nella penombra lanciai la macchina avanti, insinuandomi tra un goffo fuoristrada e un ingombrante autocarro militare. Lo specchietto si piegò con un forte schiocco urtando la fiancata dell'autocarro. Superai il primo incrocio, e curvando con uno stridio di pneumatici, imboccai a tutta velocità il viale Entuziasty.

— Mi ama? — mi chiese all'improvviso Svetlana. — Sì o no? Tu probabilmente lo sai…

Sussultai, la macchina scartò di lato, ma Svetlana non ci fece caso. Non era la prima volta che rivolgeva a Ol'ga quella domanda, lo sentivo. Doveva esserci già stato un discorso tra loro due a questo proposito, un discorso pesante e ancora aperto.

— O ama te?

Basta. Adesso non potevo continuare a stare zitto.

— Anton ha un ottimo rapporto con Ol'ga. — Parlavo in terza persona sia di me sia della proprietaria del mio attuale corpo! Lo facevo apposta, ma suonava come l'espressione di una cortesia fredda e distaccata. — Ma è un'amicizia tra compagni di battaglia. Niente di più.

Se adesso avesse chiesto a Ol'ga cosa pensava lei di me, sarebbe stato molto più difficile cavarsela senza mentire.

Ma Svetlana rimase in silenzio. E dopo un minuto mi sfiorò brevemente la mano, come se volesse chiedermi scusa.

Allora fui io a non riuscire a trattenermi: — Perché me lo hai domandato?

Svetlana rispose subito, senza esitazioni. — Non capisco. Anton si comporta in modo molto strano. Talvolta sembra pazzo di me. E subito dopo mi tratta come tratterebbe uno qualsiasi dei tanti Altri che conosce. Un compagno di battaglie, e basta.

— Un nodo del destino — le spiegai asciutto.

— Cosa?

— Non ci siete ancora arrivati, Sveta.

— E allora spiegamelo!

— Cerca di capire. — Guidavo sempre più veloce. Evidentemente si erano inseriti i riflessi motori del corpo di Ol'ga. — Cerca di capire, la prima volta che è venuto a casa tua…

— So che ero stata suggestionata. Me l'ha detto — mi interruppe Svetlana.

— Non si tratta di questo. La suggestione era stata eliminata quando ti hanno raccontato la verità. Ma quando imparerai a vedere il destino, e tu imparerai sicuramente, e anche molto meglio di me. allora capirai.

— Ci hanno detto che il destino è mutevole.

— Il destino prevede molte varianti. Venendo da te. Anton sapeva che, in caso di successo, si sarebbe innamorato di te.

Svetlana non rispose. Mi sembrava che le si fossero un po' arrossate le guance, ma forse era per il vento che entrava dal tettuccio abbassato.

— E con questo?

— Sai che cosa significa? Essere condannali ad amare?

— Ma non è forse sempre così"? — Svetlana adesso tremava addirittura per l'indignazione. — Quando le persone si amano, quando si trovano tra mille, tra milioni di altri individui, non è sempre il destino?

In quel momento tornai a percepire in lei la ragazza infinitamente ingenua che già cominciava a svanire, la ragazza che era capace di provare perfino l'odio soltanto per se stessa.

— No. Sveta, non hai mai sentito la metafora "l'amore è come un fiore"?

— Sì.

— Un fiore si può coltivare, Sveta. O lo si può comperare. Oppure magari te lo regalano.

— E Anton l'ha comperato?

— No — dissi, forse un po' troppo bruscamente. — L'ha ricevuto in dono, dal destino.

— E allora? Se è comunque amore?

— Sveta. i fiori recisi sono bellissimi. Ma non vivono a lungo. Muoiono in fretta, anzi, anche se li metti con la massima cura in un vaso di cristallo pieno di acqua fresca.

— Ha paura di amarmi — disse Svetlana pensierosa. — È così? Io non avevo paura perché non sapevo questa cosa.

Mi avvicinai alla casa, procedendo con cautela tra le macchine parcheggiate. Soprattutto Žiguli e Moskvič. Non era un quartiere molto prestigioso.

— Perché ti ho detto queste cose? — mi chiese Svetlana. — Perché ho cercato di strapparti una risposta? E come fai tu a sapere le risposte, Ol'ga? È solo perché hai quattrocentoquarantatré anni?

Sentendo quella cifra sussultai. Un'esperienza di vita decisamente ricca. Ricchissima.

Tra un anno Ol'ga avrebbe festeggiato un compleanno molto originale.

Speravo che il mio corpo potesse giungere in una forma così strepitosa almeno a un quarto di quell'età.

— Andiamo.

Lasciai la macchina senza sorveglianza. Nessun essere umano avrebbe comunque neppure pensato di rubarla; gli incantesimi protettivi erano più sicuri di qualsiasi antifurto. Salimmo le scale ed entrammo nell'appartamento in silenzio, rapidamente.

Lì adesso c'era qualcosa di diverso. Dal lavoro Svetlana si era licenziata, ma il suo stipendio attuale, unito all'indennità che viene conferita al momento dell'iniziazione, erano ben più alti delle modeste entrate di un medico. Il televisore era nuovo, anche se non capivo quando trovava il tempo di guardarlo. Un televisore lussuoso, con uno schermo grandissimo, quasi troppo grande per il suo appartamento. Era divertente notare la passione per la bella vita che si risvegliava all'improvviso; all'inizio capitava a tutti, probabilmente per una reazione di difesa. Quando il mondo intorno a te crolla, quando le paure e i timori che ti hanno sempre accompagnato svaniscono e al loro posto ne compaiono altri, ancora più incomprensibili e confusi, cominci a realizzare i sogni della tua vita precedente che solo pochi giorni prima ti sembravano impossibili. C'è chi si tuffa nei ristoranti più cari, chi compra auto di lusso, chi comincia a vestirsi solo griffato. È una fase abbastanza breve, non tanto perché nella Guardia non si diventa miliardari, quanto perché quei desideri che ancora ieri accarezzavi con tanta passione cominciano a impallidire, a svanire nel passato. Per sempre.

— Ol'ga? — Svetlana mi guardava negli occhi.

Feci un respiro profondo per raccogliere le forze. — Non sono Ol'ga.

Silenzio.

— Non ero autorizzato a dirtelo prima. Solo qui. Il tuo appartamento è protetto dalle intrusioni delle Forze delle Tenebre.

— Autorizzato? — Aveva afferrato subito il punto.

— Non ero autorizzato — ripetei. — Questo è solo il corpo di Ol'ga.

— Anton?

Annuii.

Come mi sentivo assurdo in quel momento!

Per fortuna Svetlana era già abituata alle assurdità.

Mi credette subito.

— Mascalzone!

Lo disse con un'intonazione che sembrava più pertinente all'aristocratica Ol'ga. E anche lo schiaffo che mi arrivò immediatamente dopo aveva lo stesso stile.

Non mi fece male, però mi sentii offeso.

— Perché? — le chiesi.

— Perché hai ascoltato i discorsi altrui! — sparò Svetlana furibonda.

La formulazione era affrettata, però la capii. Nel frattempo aveva sollevato l'altra mano, ma io, contro l'insegnamento cristiano, avevo deciso di non porgere l'altra guancia.

— Sveta, ho promesso di custodirlo, questo corpo!

— Ma io no!

Svetlana respirava profondamente, si mordeva le labbra, gli occhi le scintillavano. Non l'avevo mai vista in uno stato simile e non sospettavo neppure che potesse raggiungere un simile grado di furore. Ma cos'era ad averla fatta tanto infuriare?

— Allora hai paura di amare i fiori recisi? — Cominciò a camminare lentamente verso di me. — E così, sì?

Adesso lo avevo capito. Anche se un po' in ritardo.

— Vattene! Vattene subito!

A furia di indietreggiare mi ritrovai con la schiena contro la porta. Ma a quel punto potevo fermarmi, visto che anche Svetlana si era fermata. Scrollò la testa e gridò: — Rimani pure in quel corpo! È quello giusto per te. Tu non sei un uomo, sei uno straccio!

Io non risposi. Tacevo perché vedevo già come sarebbe stato il futuro. Vedevo come si sarebbero dipanate davanti a noi le linee delle probabilità, come un destino beffardo avrebbe intrecciato le strade.

E quando Svetlana, sbollendo all'improvviso tutta la sua furia, cominciò a piangere, coprendosi il viso con le mani, quando le circondai le spalle con un braccio e lei subito si sciolse in singhiozzi contro il mio petto, dentro di me rimase solo una sensazione di vuoto e di freddo. Un freddo penetrante, come se fossi di nuovo sul tetto pieno di neve sotto la sferza del vento dell'inverno.

Svetlana era ancora un essere umano. In lei c'era ancora troppo poco degli Altri, non capiva, non vedeva come andava lontano la strada che dovevamo percorrere. E soprattutto non vedeva come quella strada si divideva per prendere due direzioni diverse.

L'amore è felicità, ma solo quando puoi credere che sia per sempre. E anche se ogni volta questa promessa di eternità si rivela una menzogna, è l'unica in grado di dare l'orza e gioia all'amore.

Svetlana singhiozzava sulla mia spalla.

Molto sapere… molto dolore. Come avrei voluto ignorare l'inevitabile futuro! Ignorarlo… e amare, senza calcoli, come un semplice essere mortale.

E che peccato trovarmi in quel momento in un corpo altrui!

Dall'esterno potevamo sembrare due carissime amiche che avessero deciso di trascorrere una tranquilla serata con tanto di film alla televisione, tè con la marmellata, bottiglia di vino e chiacchiere su tre eterni temi: gli uomini che mascalzoni, non ho niente da mettermi e, soprattutto, come fare per dimagrire.

— Ma ti piacciono le tartine? — mi chiese Svetlana stupita.

— Sì. Con il burro e la marmellata — riconobbi in tono tetro.

— Mi sembrava che qualcuno avesse promesso di custodire quel corpo.

— E che cosa gli faccio di male? Ti assicuro che questo organismo è entusiasta.

— Ma… ma… — replicò Svetlana poco convinta. — Poi chiedi a Ol'ga come fa a conservare questa figura.

Ebbi un attimo di esitazione, però alla fine tagliai a metà l'ennesima tartina e la spalmai abbondantemente di marmellata.

— Ma a chi è venuta in mente la geniale idea di nasconderti in un corpo di donna?

— Al Capo, credo.

— Ne ero certa.

— Ol'ga è stata d'accordo.

— Che scoperta: Boris Ignat'evič per lei è un dio in terra.

Su questo avevo qualche dubbio, ma preferii tacere. Svetlana si alzò, andò al guardaroba. Lo aprì e rimase soprappensiero a esaminare l'attaccapanni.

— Ti vuoi mettere una vestaglietta?

— Che cosa? — Mi andò di traverso la tartina.

— Vuoi stare in casa vestito in quel modo? Quei jeans sembrano sul punto di scoppiare. Starai scomodo…

— Ma ci sarà qualche abito sportivo? — chiesi in tono lamentoso.

Svetlana prima mi guardò ironicamente, poi si impietosì: — Certo che c'è.

A dire la verità un vestito del genere mi sarebbe piaciuto di più vederlo su qualcun altro. Su Svetlana, per esempio. Pantaloncini corti bianchi e camicetta. Per giocare a tennis o per fare jogging.

— Cambiati.

— Sveta, non credo che passeremo tutta la sera qui a casa tua.

— Non importa. Prima o poi ti serviranno, perciò è meglio verificare se sono della taglia giusta. Mettiteli, io vado a scaldare il tè.

Svetlana uscì, e io mi tolsi in fretta i jeans. Iniziai a sbottonarmi la camicetta, anche se le mie dita si imbrogliavano tra quei bottoni sconosciuti, troppo duri, e poi mi guardai allo specchio con odio.

Una ragazza simpatica, non c'erano dubbi. Giusta per una foto su una rivista erotica soft.

Mi cambiai in fretta e andai a sedermi sul divano. Alla televisione c'era una soap opera: mi stupii che Svetlana avesse scelto quel canale. Del resto probabilmente anche su tutti gli altri c'era qualcosa del genere.

— Stai benissimo.

— Sveta, per favore, non potresti evitare? — le chiesi. — Sto già male anche senza i tuoi commenti.

— Va bene, scusami — convenne subito lei, venendo a sedersi accanto a me. — Allora, cosa dobbiamo fare?

— Dobbiamo? — ripetei, sottolineando leggermente quel plurale.

— Sì, Anton. Non sei mica venuto qui per niente.

— Dovevo raccontarti in che guaio ero finito.

— D'accordo, ma se il Capo — la parola "Capo" Svetlana era riuscita a pronunciarla in modo straordinariamente gustoso, con rispetto e insieme con una certa ironia — ti ha permesso di raccontarmi tutto, significa che ti devo aiutare. Se non altro, per volere del destino — non si trattenne dal concludere.

Mi arresi.

— Non posso rimanere solo. Nemmeno per un minuto. Tutto il piano si basa sul fatto che le Forze delle Tenebre sacrificano volontariamente le loro pedine, eliminandole essi stessi o lasciando che vengano uccise.

— Come questa volta?

— Sì. Esatto. E se questa provocazione è diretta contro di me, allora adesso avverrà un altro omicidio. Nel momento in cui, almeno secondo loro, naturalmente, rimarrò senza alibi.

Svetlana mi guardava con il mento appoggiato sulle palme delle mani. Scosse lentamente la testa: — E allora, Anton, salterai fuori da questo corpo come un pupazzetto dalla sua scatola. Sarà evidente che non hai avuto la possibilità di compiere quegli omicidi. E il nemico sarà sbaragliato.

— Ah-ah.

— Devi scusarmi. È solo da poco che faccio parte della Guardia, forse c'è ancora qualcosa che non capisco.

Istintivamente mi misi sulla difensiva. Mentre Svetlana, dopo un attimo di esitazione, proseguì: — Ecco, quando è successo a me… Come sono andate le cose? Hanno tentato di iniziarmi le Forze delle Tenebre. Sapevano che i Guardiani della Notte l'avrebbe notato, e anche che tu saresti potuto intervenire in mio aiuto.

— Sì.

— Per questo hanno inscenato una montatura sacrificando alcune figure secondarie e creando dei centri di forza fittizi. E all'inizio la Guardia della Notte si è fatta portare al guinzaglio. Se il Capo non avesse escogitato le sue contromosse, e tu non ti fossi spinto avanti, senza preoccuparti di niente…

— Adesso tu saresti un mio nemico — dissi. — E frequenteresti la scuola dei Guardiani del Giorno.

— Non lo dicevo in questo senso, Anton. Ti sono molto grata, sono grata a tutta la Guardia, ma a te soprattutto. Però adesso non volevo parlare di questo. Cerca di capirmi: la storia che mi hai raccontato è verosimile quanto quella. Come si è creato tutto, passo dopo passo? Una coppia di vampiri senza licenza. Un ragazzo con elevate potenzialità di Altro. Una ragazza colpita da una terribile maledizione. Una minaccia globale che incombe sulla città…

Non sapevo che cosa risponderle. Ma mentre la guardavo, sentivo il rossore salirmi alle guance. Una ragazza che aveva frequentato soltanto un terzo dei nostri corsi, una novellina nel nostro mondo mi aveva illustrato la situazione proprio come avrei dovuto io illustrarla a lei.

— Che cosa sta accadendo adesso? — Svetlana non aveva notato i miei tormenti. — C'è un serial killer che elimina le Forze delle Tenebre. E tu sei nella lista dei sospettati. Il Capo escogita rapidamente una mossa astuta: tu e Ol'ga vi scambiate i corpi. D'accordo, ma fino a che punto è davvero astuta questa mossa? A quanto capisco la pratica dello scambio dei corpi è largamente diffusa. Boris Ignat'evič l'aveva appena adottata per un altro caso, no? E ha mai usato lo stesso procedimento per due volte di seguito? Contro lo stesso avversario?

— Non so, Sveta, non mi comunicano i dettagli di tutte le operazioni.

— Allora prova a pensarci. E ancora. Possibile che Zavulon sia così isterico, meschino e vendicativo? In fondo ha centinaia di anni, e guida i Guardiani del Giorno da tempi molto antichi… Se questo maniaco…

— Il Selvaggio.

— Se davvero da qualche anno permettono al Selvaggio di divertirsi per le strade di Mosca, per prepararci una provocazione, secondo te il comandante della Guardia del Giorno la sprecherebbe per una simile sciocchezza? Scusami. Anton, ma tu non sei un obiettivo così importante.

— Capisco. Ufficialmente sono un mago di quinto livello. Però il Capo ha detto che in realtà posso rivendicare il terzo.

— Ma anche così…

Ci guardammo negli occhi, e io allargai le braccia: — Mi arrendo. Svetlana, probabilmente hai ragione. Ma io ti ho raccontato tutto quello che so. E non vedo nessun altro possibile scenario.

— Allora hai intenzione di sottometterti agli ordini? Andare in giro con la gonna e non rimanere da solo nemmeno per un minuto?

— Quando sono entrato nella Guardia, sapevo di rinunciare a una parte della mia libertà.

— Una parte. — Svetlana fece un risolino. — Hai detto bene. Basta, tu sai più cose di me. Allora, questa notte la passiamo insieme?

Annuii: — Sì. Ma non qui. È meglio che stia sempre in mezzo alla gente.

— E per dormire?

— Stare qualche giorno senza dormire non è niente di speciale. — Mi strinsi nelle spalle. — Penso che il corpo di Ol'ga non sia meno allenato del mio. Negli ultimi mesi si è sempre dedicata alla vita del bel mondo.

— Anton, io non ho ancora imparato questi trucchi. Quando potrò dormire?

— Di giorno. A scuola.

Sveta fece una smorfia. Sapevo che avrebbe acconsentito, era inevitabile. Il suo carattere non le avrebbe semplicemente permesso di rifiutare il suo aiuto neppure a un conoscente casuale, e io comunque non ero casuale.

— Andiamo al Maharaja? — proposi.

— Che cos'è?

— Un ristorante indiano niente male.

— E rimane aperto tutta la notte?

— No, purtroppo. Ma penseremo a dove andare dopo.

Svetlana mi guardò così a lungo che tutta la mia innata faccia tosta non bastò a difendermi. Che cosa avevo adesso che non andava?

— Anton, ti ringrazio — mi disse. — Ti ringrazio di cuore. Mi hai invitata al ristorante. Erano due mesi che aspettavo questo invito.

Poi si alzò, andò all'armadio, lo aprì, soppesò con aria critica i vestiti appesi.

— Della tua misura non c'è niente di adatto — concluse. — Dovrai rimetterti i jeans. Ti lasceranno entrare al ristorante?

— Per forza — risposi senza troppa sicurezza. Alla fine avrei sempre potuto esercitare una leggera pressione sul personale.

— Se sarà il caso, mi allenerò un po' nell'ipnosi — disse Svetlana, come se mi avesse letto nel pensiero. — E li costringerò a lasciarti entrare. Sarebbe una buona azione, no?

— Certo.

— Sai, Anton — Svetlana tolse dalla gruccia un vestito, se lo appoggiò davanti e scosse la testa. Poi passò a un tailleur beige — mi stupisce sempre la capacità che hanno i membri della Guardia di giustificare qualsiasi pressione sulla realtà con gli interessi del Bene e della Luce.

— Non qualsiasi! — protestai.

— Assolutamente qualsiasi. Se fosse necessario, considerereste un'opera buona anche il furto, o l'omicidio.

— No.

— Ne sei proprio sicuro? Quante volte ti sei dovuto insinuare nella coscienza della gente? Ecco, perfino il nostro incontro: in fondo mi hai costretta a credere che fossimo vecchi amici. Usi spesso i tuoi poteri di Altro nella vita?

— Sì, ma…

— Immaginati di essere per la strada. Vedi davanti a te un adulto che picchia un bambino. Cosa fai?

— Se avessi una possibilità di interferenza — mi strinsi nelle spalle — procederei a una rimoralizzazione. È ovvio.

— E saresti proprio sicuro di avere agito per il meglio? Senza riflettere, senza provare a capire? E se il bambino si fosse meritato quella punizione? Se quella punizione potesse salvarlo da grossi rischi futuri, impedendogli di diventare un bandito o un assassino? E tu parli di rimoralizzazione!

— Sveta, ti stai sbagliando.

— In che cosa?

— Anche se non avessi limiti nelle azioni di influenza parapsicologica, non esagererei lo stesso.

Svetlana sbuffò leggermente: — Sei così certo della tua giustizia? Qual è il confine?

— Il confine ciascuno lo stabilisce autonomamente. È necessario.

Mi guardò pensierosa.

— Anton, mi sa che queste domande le fanno tutti i novellini, vero?

— Vero. — Sorrisi.

— E tu sei abituato a dare le risposte giuste, conosci tutto il corredo di frasi fatte, di sofismi, di esempi storici e di analogie.

— No, Sveta. Non è così. Le Forze delle Tenebre queste domande non le fanno, per esempio.

— Come fai a saperlo?

— Un mago delle Tenebre può anche risanare, un mago della Luce anche uccidere — dissi. — È la verità. Sai qual è la differenza tra la Luce e le Tenebre?

— No. Non so perché, ma non ce la insegnano. Forse è difficile da formulare?

— Non è affatto difficile. Se pensi soprattutto a te, ai tuoi interessi, la tua strada ti porta verso le Tenebre. Se pensi agli altri, sei in cammino verso la Luce.

— Ed è lungo questo cammino verso la Luce?

— Dura tutta la vita.

— Queste sono solo parole, Anton. Giochi di parole. Che cosa dice un vecchio mago delle Tenebre a un novellino? Probabilmente parole altrettanto belle e giuste…

— Sì. Sulla libertà. Gli dice che ciascuno, nella vita, occupa il posto che si è meritato. Che l'abbandonarsi alla pietà umilia, che il vero amore è cieco, che la bontà autentica è inerme, che la libertà reale è libertà da tutto e da tutti.

— E non è vero.

— No. È una parte della verità. Sveta, noi non possiamo scegliere una verità assoluta. La verità ha sempre due volti. Tutto quello che abbiamo è il diritto di rifiutare la menzogna che ci ripugna di più. Sai che è la prima volta che parlo a un novellino del Crepuscolo? Noi vi entriamo per ricevere nuova forza. E il prezzo da pagare per l'ingresso è il rifiuto di quella parte della verità che non vogliamo accettare. Per gli uomini è più semplice. Un milione di volte più semplice, pur con tutti i loro guai, problemi, pensieri, che per gli Altri non esistono. Gli uomini non si trovano davanti a questa scelta: possono essere sia buoni che cattivi, dipende dal momento, dall'ambiente, dal libro che hanno letto la sera prima, da quello che hanno mangiato a pranzo. Ecco perché è così facile controllarli. Anche il mascalzone più scatenato può essere facilmente ricondotto verso la Luce, così come l'uomo più buono e nobile può essere sospinto verso le Tenebre. Noi invece abbiamo fatto la nostra scelta.

— Anch'io l'ho fatta, Anton. Sono già entrata nel Crepuscolo.

— Sì.

— Perché allora non capisco dov'è il confine, qual è la differenza tra me e una qualunque strega che partecipa alle messe nere? Perché faccio ancora certe domande?

— Le farai sempre. All'inizio a voce alta. Poi dentro di te. È un tormento che non passa mai. Se avessi voluto liberarti dalle domande scomode, non avresti scelto questa parte.

— Ho scelto ciò che volevo.

— Lo so. E perciò sopporta!

— Per tutta la vita?

— Sì. Sarà lunga, ma non ti abituerai mai lo stesso. Non ti libererai mai dalla domanda di quanto sia giusto ogni passo che fai.

Capitolo 3

Maksim non amava particolarmente i ristoranti. Anche questo per il suo carattere. Si sentiva molto più a suo agio, molto più allegro in qualche bar, o in un club, magari anche più costoso di un ristorante, ma decisamente più alla mano. Naturalmente c'è chi, anche nel ristorante più lussuoso, si comporta come un commissario rosso alle prese con una delegazione di borghesi: niente raffinatezza, né il minimo desiderio di acquisirla. Ma perché prendere a modello i "nuovi russi" delle barzellette?

Tuttavia la sera prima esigeva una qualche riparazione. Sua moglie aveva creduto all'«importante incontro di lavoro» o per lo meno aveva fatto finta di crederci. Ma lo stesso gli era rimasto qualche rimorso di coscienza. Se avesse saputo! Se avesse anche soltanto immaginato chi era lui in realtà e di che cosa si occupava!

Maksim non poteva dire nulla. E non gli era rimasto che rimediare a quella strana assenza notturna con il metodo usato da tutti gli uomini del mondo dopo una scappatella. Regali, attenzioni, inviti. Per esempio, in un ristorante prestigioso dalla ricercata cucina esotica, con camerieri stranieri, arredamento elegante e lista dei vini chilometrica.

Gli sarebbe piaciuto sapere se davvero Elena pensava che la sera prima l'avesse tradita… Diciamo che la domanda lo interessava, ma non fino al punto da formularla a voce alta. Bisogna sempre lasciare qualcosa di non detto. Magari prima o poi sua moglie avrebbe saputo la verità. E allora sarebbe stata orgogliosa di lui.

Speranze vane, probabilmente. Lo capiva benissimo. In un mondo pieno di creature del Male e delle Tenebre, lui era l'unico cavaliere della Luce, infinitamente solo, impossibilitato a condividere con chiunque altro le verità che andava scoprendo. All'inizio Maksim aveva sperato di incontrare qualcuno come lui: un vedente in un paese di ciechi, un cane da guardia capace di fiutare, in mezzo al gregge inconsapevole, i lupi travestiti da agnelli.

No. Non c'era nessun altro, non esisteva nessuno che potesse combattere al suo fianco.

E tuttavia non aveva abbandonato l'impresa.

— Cosa dici, prendo questo?

Maksim abbassò gli occhi sul menu. Non aveva la minima idea di cosa potesse essere quel Malai Kofta. Ma questo non gli impediva di lavorare di immaginazione. Tanto più che tutti gli ingredienti erano indicati.

— Prendilo. È carne in salsa di panna.

— Carne bovina?

Non capì subito che Elena stava scherzando. Poi rispose al suo sorriso.

— Ovviamente.

— E se ordinassi un piatto di carne bovina?

— Respingerebbero gentilmente la tua richiesta, suppongo — replicò Maksim. L'incombenza di distrarre la moglie in realtà non era affatto pesante. Al contrario, si rivelava decisamente piacevole. Anche se in quel momento sarebbe stato molto felice di poter osservare più attentamente la sala. C'era qualcosa di strano. Qualcosa emergeva dalla penombra, un brivido freddo lungo la schiena, e la necessità di socchiudere gli occhi e guardare, guardare, guardare…

Possibile?

Di solito tra una missione e l'altra trascorreva qualche mese, anche mezzo anno… Che capitasse addirittura due giorni di seguito…

Ma i sintomi erano quelli, inequivocabili.

Maksim controllò la tasca interna della giacca, come se volesse verificare la presenza del portafogli. In realtà cercava un'altra cosa: un piccolo pugnale di legno, intagliato con cura, ma senza nessuna pretesa artistica. Aveva conservato quell'arma dall'infanzia, senza sapere bene perché, ma presentendo che non era solo un giocattolo.

Il pugnale era come in attesa.

Ma di chi?

— Maks? — La voce di Elena aveva un'increspatura di rimprovero. — Dove stanno veleggiando i tuoi pensieri?

Brindarono. Porta male, dicono, brindare tra moglie e marito, in famiglia non ci saranno soldi… ma Maks non era superstizioso.

Chi era?

All'inizio sospettò di due ragazze. Tutt'e due simpatiche, belle anche, ma ciascuna a suo modo. La più bassa era bruna, forte, aveva gesti angolosi, un pochino maschili, di un'energia strabordante. Sembrava letteralmente emanare fluidi sessuali. L'altra, bionda, era più alta, più tranquilla e posata. E la sua bellezza era completamente diversa, pacificante.

Maksim scorse uno sguardo attento della moglie e smise di osservarle.

— Lesbiche — disse Elena con un certo disprezzo.

— Come?

— Ma guardale! Quella bruna, con i jeans, sembra decisamente un uomo!

Era vero. Maksim annuì.

Non erano loro. Gli era parso, ma si era sbagliato. Ma chi era, allora?

In un angolo della sala un cellulare cominciò a suonare e subito almeno una decina dei presenti controllò automaticamente il telefonino. Maksim seguì quel suono e di colpo gli si mozzò il fiato.

L'uomo che adesso parlava piano, brevemente, al telefono non era semplicemente un malvagio. Era addirittura tutto avvolto da un velo nero, invisibile per gli altri, ma ben percepibile da Maksim.

Emanava segnali di pericolo, e per di più di un pericolo prossimo e terribile.

Il petto gli doleva. — Sai, Lena, mi piacerebbe vivere su un'isola deserta — disse Maksim, sorprendendo innanzitutto se stesso.

— Da solo?

— Con te e i bambini. Ma che non ci fosse nessun altro. Nessuno.

Vuotò il calice in un sorso solo, e subito il cameriere gli versò altro vino.

— A me non piacerebbe.

— Lo so.

Il pugnale, nella tasca… lo sentiva bruciare e pesare sempre più. E si sentiva anche invadere da un'eccitazione sempre più forte, quasi sessuale. Che esigeva soddisfazione.

— Ti ricordi Edgar Allan Poe? — chiese Svetlana.

Ci avevano fatto entrare senza nessuna difficoltà, mi ero addirittura stupito. O le regole erano diventate più democratiche di un tempo, o i clienti erano diminuiti.

— No. È morto da troppo tempo. Anche se Semën mi ha raccontato…

— Ma non intendevo Poe come persona. Volevo dire i suoi racconti.

L'uomo della folla? - Cominciavo a capire.

Svetlana fece una risatina: — Sì. Tu adesso sei nella sua situazione. Sei condannato a muoverti sempre nei luoghi più affollati.

— Finché non mi avranno definitivamente disgustato.

Avevamo preso tutt'e due un bicchierino di Baileys e avevamo ordinato qualcosa da mangiare. Probabilmente così facendo avevamo indotto il cameriere a un'interpretazione ben precisa della nostra visita: due prostitute inesperte in cerca di lavoro. Però la cosa mi lasciava del tutto indifferente.

— Ma lui era un Altro?

— Poe? Probabilmente, ma non iniziato.

Svetlana mormorò:

Ci sono qualità… incorporee essenze,

cui è data come una duplice vita, che è poi

emblema della doppia identità che sempre scocca

da materia e luce, in solida forma e in ombra…

La guardai stupito.

— La conosci?

— Come dirtelo? — Sollevai lo sguardo e recitai in tono solenne:

È quello il silenzio corporeo: non devi paventarlo!

Non ha potere in se stesso di nuocere.

Ma se mai un incalzante fato (intempestiva

sorte!) ti portasse a incontrare la sua ombra,

(un elfo è, senza nome e frequenta solinghe plaghe,

mai calpestate dal piede di un uomo),

oh, allora, raccomandati a Dio!

Ci guardammo in faccia per un secondo e poi scoppiammo a ridere contemporaneamente.

— Un piccolo duello letterario — disse maliziosamente Svetlana. — Risultato: uno a uno. Peccato che non ci fossero spettatori. E perché Poe è rimasto non iniziato?

— In genere, tra i poeti, i potenziali Altri sono numerosi. Ma alcuni di questi candidati è meglio che continuino a vivere da uomini. Poe, per esempio, aveva una psiche troppo instabile. Dare capacità particolari a una persona così sarebbe come dare a un piromane un fusto di napalm. Non mi arrischio neppure a cercare di immaginare da quale parte si sarebbe schierato. Probabilmente sarebbe sparito per sempre nel Crepuscolo, e molto presto anche.

— E come vivono là? Quelli che scelgono il Crepuscolo?

— Non lo so, Svetlana. Non lo sa nessuno. Qualche volta può capitare di incontrarli, nel loro mondo, ma una vera e propria comunicazione non si stabilisce.

— Vorrei saperlo. — Svetlana esaminò la sala con espressione assorta. — E qui hai notato qualche Altro?

— Il vecchio dietro di me, che parla al cellulare.

— In che senso, vecchio?

— In senso profondo. Non sto guardandolo con gli occhi.

Svetlana si morse le labbra, corrugando la fronte. Cominciava a conoscere il gusto delle prime ambizioni.

— Non ci riesco ancora — ammise. — Non capisco neppure se appartiene alle Forze della Luce o a quelle delle Tenebre.

— Alle Tenebre. Non è un agente della Guardia del Giorno, ma appartiene alle Forze delle Tenebre. Un mago di media potenza. Anche lui, comunque, ci ha notate.

— Che cosa facciamo?

— Noi? Niente.

— Ma è un mago delle Tenebre!

— Sì, e noi siamo maghi della Luce. E allora? Come membri effettivi della Guardia abbiamo il diritto di chiedergli i documenti. Ma probabilmente sono in ordine.

— E quando avremmo il diritto di intervenire?

— Be', se adesso si alzasse, agitasse le braccia, si trasformasse in un demone e cominciasse a sbranare la testa ai presenti…

— Anton!

— Sono serissimo. Non abbiamo nessun diritto di disturbare un onesto mago delle Tenebre in un momento di riposo.

Il cameriere ci portò i nostri piatti, per cui ci zittimmo. Svetlana cominciò a mangiare senza appetito. Poi sbottò con aria offesa, come i bambini quando fanno i capricci: — E la Guardia dovrà strisciare così ancora per molto tempo?

— Davanti alle Forze delle Tenebre?

— Sì.

— Finché non avremo conquistato una superiorità decisiva. Finché gli uomini che diventano Altri non avranno nemmeno il più fuggevole dubbio al momento della scelta tra la Luce e le Tenebre. Finché gli agenti delle Tenebre non saranno tutti morti di vecchiaia. Finché non saranno più in grado di sospingere gli uomini verso il Male con la facilità di adesso.

— Ma questa è una capitolazione, Anton!

— È uno stato di neutralità. Entrambe le parti hanno bisogno di tempo, perché nasconderlo?

— Sai che il Selvaggio che da solo sparge il terrore tra le Forze delle Tenebre mi è molto più simpatico? Anche se infrange il Patto, anche se involontariamente ci mette in difficoltà! Ma almeno lui combatte contro le Tenebre. Capisci? Combatte! Uno contro tutti!

— E non ti sei mai chiesta perché uccide i maghi delle Tenebre, ma non entra in contatto con noi?

— No.

— Non ci vede, Svetlana. Non ci vuole vedere.

— Be', è un autodidatta.

— Sì. Un autodidatta di grande talento. Un Altro con capacità che si manifestano in modo caotico. Capace di vedere il Male. Incapace di distinguere il Bene. Non ti spaventa questa cosa?

— No — rispose Svetlana cupa. — Scusami, ma non capisco dove tu voglia arrivare, Ol'… cioè, Anton. Scusa, ma ti sei messo a parlare proprio come lei.

— Non fa niente.

— Il mago delle Tenebre se n'è andato — disse Svetlana, guardando oltre la mia spalla. — A succhiare le forze altrui, a compiere riti malvagi. E noi non interveniamo.

Mi voltai appena. Lo vidi. Esternamente in effetti non dimostrava più di una trentina d'anni. Vestito con gusto, affascinante. Al suo tavolo erano rimasti una giovane donna e due bambini, un maschietto sui sette anni e una bambina un pochino più piccola.

— È andato a fare pipì, Sveta. E la sua famiglia, tra l'altro, è assolutamente normale. Nessun potere. Vorresti liquidare anche loro?

— Sono frutti di quell'albero…

— Prova a dirlo a Garik. Suo padre è un mago delle Tenebre. Ed è ancora vivo.

— Ci sono sempre eccezioni.

— Tutta la vita è fatta di eccezioni.

Svetlana non rispose.

— Conosco la tua smania, Sveta. Fare il Bene, perseguitare il Male. Una volta per tutte. Anch'io sono così. Ma se non capisci che è un vicolo cieco, finisci nel Crepuscolo. E qualcuno di noi sarà costretto a interrompere la tua esistenza terrena.

— Però intanto avrei fatto qualcosa di buono…

— Sai come sarebbero interpretate le tue azioni, dall'esterno? Come quelle di uno psicopatico che uccide brave persone a destra e a sinistra. Descrizioni agghiaccianti sui giornali. Soprannomi pittoreschi: il Borgia di Mosca, magari. Inoculeresti nel cuore degli uomini tanto di quel Male, che nemmeno un'intera brigata di maghi delle Tenebre potrebbe rivaleggiare con te.

— Perché avete sempre una risposta pronta a qualsiasi domanda? — chiese Svetlana con amarezza.

— Perché abbiamo passato l'apprendistato. E siamo sopravvissuti. Per lo meno, siamo sopravvissuti quasi tutti!

Chiamai il cameriere e gli chiesi il menu. Poi proposi: — Prendiamo un cocktail e poi ce ne andiamo? Scegli!

Svetlana annuì e cominciò a esaminare la carta dei vini. Il cameriere, un ragazzo alto e bruno di pelle, non russo, rimase in attesa. Era abituato a vedere di tutto e lo spettacolo di due ragazze sole, una delle quali si comportava come un uomo, non lo turbava affatto.

— Un Alter Ego — disse Svetlana.

Scossi la testa perplesso: era uno dei cocktail più forti. Ma non volli cominciare un'altra discussione.

— Due Alter Ego e il conto.

Mentre il barman ci preparava i cocktail e il cameriere si occupava del conto, rimanemmo in un silenzio penoso. Alla fine Svetlana mi chiese: — Va bene, per quanto riguarda i poeti la situazione è chiara. Sono potenziali Altri. E i malfattori? Caligola, Hitler, i serial killer?

— Esseri umani.

— Tutti?

— Di solito sì. Noi abbiamo i nostri malfattori. I loro nomi non dicono niente agli uomini, ma voi presto inizierete il corso di storia.

L'Alter Ego risultò all'altezza del suo nome. Nel calice oscillavano senza mescolarsi due strati pesanti, uno bianco e uno nero, costituiti l'uno da un liquore dolce e pannoso e l'altro da una birra scura amara.

Pagai in contanti — non mi piace lasciare tracce elettroniche — e alzai il calice.

— Alla Guardia.

— Alla Guardia — ripeté Svetlana. — E che tu possa uscire al più presto da questa storia.

Avrei tanto voluto chiederle di toccare legno, così, per sicurezza, ma preferii tacere. Bevvi il cocktail in due sorsi: prima una dolcezza morbida, poi una leggera sensazione di amaro.

— Buono — disse Sveta. — Sai che mi piace questo posto? Possiamo fermarci ancora un po'?

— A Mosca ci sono molti posti simpatici. Meglio trovarne uno senza maghi neri in libera uscita.

Sveta annuì. — A proposito, non si vede più.

Guardai l'orologio. Decisamente quella sosta in bagno stava diventando troppo lunga.

E la cosa più spiacevole era vedere la famiglia del mago ancora seduta al tavolo: la moglie aveva già l'aria molto agitata.

— Sveta, torno subito.

— Non dimenticarti chi sei! — mi sussurrò lei mentre mi alzavo.

Sì. Effettivamente entrare in una toilette al seguito di un mago delle Tenebre sarebbe stato un po' strano, per me.

In ogni caso attraversai la sala, dando nel frattempo un'occhiata al Crepuscolo. Sarebbe stato logico vedere l'aura del mago, ma tutto intorno c'era solo un vuoto grigio, colorato dalle solite aure: soddisfatte, preoccupate, libidinose, alcoliche, felici.

Eppure non si era certo dileguato attraverso le tubature!

Soltanto oltre i muri del ristorante, dalle parti del consolato della Bielorussia, baluginava una luce incerta: l'aura di un Altro. Ma non era quella di un mago delle Tenebre, era molto più debole, e di una coloritura diversa.

Dove si era ficcato?

Il corridoio stretto aveva due porte in fondo ed era assolutamente vuoto. Per un attimo rimasi ancora indeciso: magari non l'avevamo semplicemente notato mentre rientrava, magari se n'era andato attraverso il Crepuscolo, magari aveva una tale potenza da essere capace di teletrasportarsi. Poi aprii la porta della toilette degli uomini.

Era un ambiente molto pulito, chiaro, un po' angusto e decisamente pervaso dal profumo di un deodorante floreale.

Il mago delle Tenebre era in terra, con le braccia spalancate che non permettevano alla porta di aprirsi completamente. Il suo viso aveva un'espressione sconcertata, confusa, e sul palmo aperto di una mano notai il luccichio di un sottile tubetto di cristallo. Aveva cercato di afferrare un'arma, ma troppo tardi.

Sangue non ce n'era. Anzi, non c'era proprio niente, e quando guardai di nuovo attraverso il Crepuscolo, non scorsi nello spazio il minimo segno di magia.

Sembrava che il mago delle Tenebre fosse morto per un banale attacco di cuore o per un colpo apoplettico, il che non era possibile.

E c'era un altro piccolo particolare che confutava decisamente questa versione: un piccolo taglio sul colletto della camicia. Sottile, come lasciato da un rasoio. Come se la gola fosse stata trafitta da una lama che aveva trapassato anche il tessuto della camicia. Solo che sulla pelle non c'era il minimo segno.

— Vigliacchi — mormorai, non sapendo a chi di preciso indirizzare il mio insulto. — Vigliacchi!

Difficilmente avrei potuto immaginare una situazione peggiore di quella in cui ero finito. Cambiare corpo, andare "alla presenza di testimoni" in un ristorante affollato, per poi ritrovarmi assolutamente solo davanti al cadavere di un mago delle Tenebre, ucciso dal Selvaggio.

— Forza, Pavlik — sentii alle mie spalle.

Mi girai: la donna che prima era seduta al tavolo con il mago delle Tenebre era lì nel corridoio, e teneva per mano suo figlio.

— Non voglio, mamma! — piagnucolava il bambino.

— Entra e vai a dire a papà che ci siamo stufati — disse la donna in tono paziente. Un attimo dopo alzò la testa e mi vide.

— Chiami qualcuno! — gridai disperatamente. — Chiami qualcuno! C'è una persona che sta male, qui! Porti via il bambino e chiami qualcuno!

In sala di certo mi avevano sentito: Ol'ga aveva la voce forte. Subito tutti si zittirono, si sentiva solo il motivo monotono della musica etnica che continuava a suonare, ma il sottofondo di voci era cessato del tutto.

La donna non mi ascoltò. Si scaraventò nella toilette, spingendomi bruscamente da una parte, e si gettò sul corpo del marito, lamentandosi ad alta voce, già perfettamente consapevole di quello che era accaduto, e tuttavia affannandosi a fare qualcosa, come allargare il colletto della camicia o scrollare il corpo immobile. Poi cominciò a schiaffeggiare il mago sulle guance, come se sperasse che fosse tutta una finzione, o uno svenimento momentaneo.

— Mamma, perché picchi papà? — gridò Pavlik con una vocina sottile sottile. Non era spaventato, soltanto stupito. Evidentemente non aveva mai assistito a scenate. Doveva essere una famiglia molto unita.

Presi il bambino per una spalla e con delicatezza cercai di allontanarlo. Il corridoio però stava già cominciando a riempirsi di gente. Vidi Sveta. I suoi occhi erano spalancati: aveva già capito tutto.

— Porti via il bambino — dissi al cameriere. — Credo che quest'uomo sia morto.

— Chi ha trovato il corpo? — chiese lui senza nessuna intonazione particolare, come se stesse prendendo un'ordinazione.

— Io.

Il cameriere annuì, passando abilmente il bambino — che adesso aveva cominciato a piangere, essendosi reso conto che nel suo piccolo mondo sicuro era successo qualcosa di sbagliato — a un'inserviente del ristorante.

— E che cosa faceva nella toilette degli uomini?

— La porta era aperta, ho visto che era disteso in terra — mentii senza nemmeno pensarci.

Il cameriere annuì, ammettendo la possibilità di un simile evento. Contemporaneamente, però, mi afferrò per un gomito.

— Dovrà aspettare l'arrivo della polizia, signorina.

Svetlana si era già spinta fino a noi e sentendo le ultime parole assunse un'aria accigliata. Ecco, ci mancava solo che le venisse l'idea di cancellare la memoria a tutti i presenti!

— Certo, certo. — Feci un passo e il cameriere dovette mollare la presa e seguirmi. — Sveta, che cosa orribile, c'è un cadavere!

— Ol'ga… — Sveta reagì nel modo giusto. Mi passò un braccio attorno alle spalle, lanciò un'occhiata di fuoco al cameriere e mi trascinò nella sala del ristorante.

In quel momento in mezzo a noi si insinuò il bambino, che stava risalendo la piccola folla avida e curiosa. Con un grido si lanciò sulla madre, che proprio in quel momento stavano cercando di sollevare dal cadavere. Approfittando di quell'intromissione, la donna si gettò di nuovo sul corpo del marito e cominciò a scuoterlo: — Alzati! Gena, alzati! Alzati!

Sentii come tremava Svetlana osservando quella scena. Mormorai: — Allora? Mettiamo a ferro e fuoco tutte le Forze delle Tenebre?

— Perché l'hai fatto? L'avrei capito lo stesso! — mi sibilò Svetlana furibonda.

— Che cosa?!

Ci guardammo negli occhi.

— Non sei stato tu? — mi chiese lei in tono incerto. — Scusami, ti credo.

Fu allora che capii di essere definitivamente incastrato.

L'inquirente non mi giudicò particolarmente interessante. Dai suoi occhi traspariva già la lettura dell'accaduto che aveva scelto: decesso dovuto a cause naturali. Problemi di cuore, abuso di stupefacenti, o qualsiasi altro motivo. Non provava, e nemmeno avrebbe potuto provare, la minima compassione per un uomo che frequentava ristoranti di quel livello.

— Il cadavere era in questa posizione?

— In questa posizione — confermai in tono stanco. — È stato orribile.

L'inquirente si strinse nelle spalle. In quel cadavere non ci trovava niente di particolarmente orribile, tanto più che non era neppure insanguinato. Ma con magnanimità volle darmi lo stesso ragione: — Sì, uno spettacolo penoso. C'era qualcuno nelle vicinanze?

— Nessuno. Poi però è arrivata una donna, la moglie del morto, con un bambino.

Un sorriso storto fu la ricompensa che ricevetti per quella risposta deliberatamente incoerente.

— Grazie, Ol'ga. Non è escluso che ci sia necessario metterci ancora in contatto con lei. Non avete intenzione di lasciare la città?

Scossi energicamente il capo. La polizia non mi preoccupava per nulla.

Mentre mi preoccupava moltissimo il Capo, che scorsi in quel momento, tranquillamente seduto a un tavolino nell'angolo.

Concluso il mio interrogatorio, l'inquirente si allontanò per andare a cercare la "moglie della vittima". Boris Ignat'evič, invece, si diresse subito al nostro tavolo. Doveva essere coperto da una leggera magia di distrazione, perché nessuno pareva notarlo.

— Avete finito di giocare? — si limitò a chiederci.

— Noi? — precisai per ogni evenienza.

— Sì. Voi. Tu, per essere più precisi.

— Ho eseguito tutte le istruzioni che mi sono state date — sussurrai, cominciando a scaldarmi. — E quel mago non l'ho nemmeno sfiorato!

Il Capo sospirò.

— Non lo metto in dubbio. Ma cosa ti è passato per la testa? Tu, un agente della Guardia, al corrente di tutta la situazione, metterti da solo alle calcagna di un mago delle Tenebre?

— Ma chi poteva prevederlo? — mi difesi. — Chi?

— Tu. Visto che eravamo arrivati ad adottare queste misure, questo mascheramento senza precedenti. Quali erano le istruzioni? Non restare solo neppure per un minuto! Neppure per un minuto! Mangiare, dormire… insieme a Svetlana. Fare anche la doccia insieme a lei! In modo da essere in ogni istante, in ogni istante… — Il Capo sospirò e tacque.

— Boris Ignat'evič — intervenne Svetlana inaspettatamente. — Ora questo non ha più importanza. Pensiamo a che cosa fare adesso.

Il Capo la guardò con un certo stupore. Poi annuì. — La bambina ha ragione. Pensiamoci. Cominciamo dal fatto che la situazione è peggiorata in modo catastrofico. Se prima Anton era uno dei sospettati, adesso praticamente l'hanno in pugno. Non dire di no! Ti hanno visto sopra il cadavere ancora caldo. Il cadavere di un mago delle Tenebre, ucciso nello stesso modo di tutte le vittime precedenti. Difenderti dall'incriminazione non è più in nostro potere. I Guardiani del Giorno si rivolgeranno al Tribunale e richiederanno la lettura della tua memoria.

— È una cosa così pericolosa? — chiese Svetlana. — Sì? Perché comunque si chiarirebbe che Anton è innocente?

— Certamente, ma intanto le Forze delle Tenebre verrebbero a conoscenza di tutte le informazioni in suo possesso. Svetlana, ti immagini quante cose sa il responsabile del sistema informatico della Guardia? Anche ammettendo che egli stesso non sia a conoscenza di ogni particolare, che certi dati li abbia solo scorsi rapidamente, elaborati e poi dimenticati, le Forze delle Tenebre schiereranno i loro specialisti. E quando Anton, assolto, lascerà la sala del Tribunale — ammesso che abbia sopportato il rovesciamento della coscienza — i Guardiani del Giorno saranno al corrente di tutte le nostre operazioni. Ti rendi conto di quello che accadrà? I nostri metodi di addestramento e di ricerca di nuovi Altri, l'analisi delle operazioni di guerra, la rete degli informatori, le statistiche sulle perdite, i dati di archivio relativi ai nostri membri, la situazione finanziaria…

Quei due parlavano di me, mentre io me ne stavo lì seduto come se la cosa non mi riguardasse. E non si trattava tanto di cinica franchezza, quanto di un fatto preciso: il Capo chiedeva consiglio a Svetlana, mago alle prime armi, e non a me, mago potenzialmente di terzo livello.

A tradurre i nostri rapporti nel linguaggio degli scacchi, la situazione era anche troppo chiara. Io ero un alfiere, uno dei tanti bravi alfieri della Guardia. E Svetlana era un pedone. Ma un pedone che si preparava a trasformarsi in regina.

E tutti i guai che potevano capitarmi per il Capo erano passati in secondo piano davanti alla possibilità di impartire a Svetlana una piccola lezione pratica.

— Boris Ignat'evič, sa benissimo che non permetterò che leggano la mia memoria — dissi.

— Allora sarai condannato.

— Lo so. Posso comunque giurare di non avere nessun rapporto con la morte di questi maghi delle Tenebre. Però non ho nessuna prova.

— Boris Ignat'evič, e se proponessimo loro di verificare pure la memoria di Anton, ma solo per quanto riguarda la giornata di oggi? — esclamò Svetlana contenta. — Dovrebbe bastare per convincerli…

— La memoria non si può tagliare a fette, Sveta. Si riepiloga per intero. Partendo dal primo istante di vita. Dal profumo del latte materno, dal gusto del liquido amniotico. — Adesso il Capo parlava con fredda perentorietà. — Ecco il problema. Anche se Anton non conoscesse nessun segreto, immagina cosa può essere ricordare e rivivere di nuovo tutto! La sospensione nel liquido oscuro, vischioso, le pareti che si contraggono, il barlume della luce davanti, il dolore, il soffocamento, la necessità di rivivere la propria nascita. E poi il resto, minuto per minuto. Hai mai sentito dire che negli attimi prima di morire si rivede tutta la propria vita? Il rovesciamento della memoria è qualcosa del genere. Inoltre da qualche parte, negli strati più profondi della coscienza, rimane il ricordo anche di questo evento. Capisci? È molto difficile non impazzire, dopo…

— Parla come se… — Svetlana si interruppe, incerta.

— Io l'ho provato. Non in un interrogatorio. Più di un secolo fa, quando la Guardia aveva solo cominciato a studiare gli effetti del rovesciamento della memoria, c'era bisogno di un volontario. Poi c'è voluto circa un anno perché mi rimettessero in sesto.

— E come hanno fatto? — chiese Svetlana incuriosita.

— Con nuove impressioni. Esperienze che non avevo mai vissuto prima. Paesi sconosciuti, piatti nuovi, incontri imprevedibili, problemi insoliti. E ciò nonostante… — il Capo fece un sorriso forzato — ogni tanto mi scopro a chiedermi se quello che mi circonda è la realtà o solo il suo ricordo, se sto vivendo o sono sdraiato su una lastra di cristallo nella sede della Guardia del Giorno mentre stanno srotolando la mia memoria come una matassa di lana…

Tacque.

Intorno a noi c'era gente seduta ai tavoli, e camerieri che correvano avanti e indietro. I poliziotti se n'erano andati, portandosi via il corpo del mago delle Tenebre, mentre un uomo, forse un parente, era venuto a prendere la vedova e i bambini. Più nessuno sembrava preoccuparsi di quello che era appena accaduto. Sembrava, anzi, che i clienti adesso avessero più appetito, e più sete di vita. Nessuno faceva caso a noi: il rapido incantesimo di cui si era servito il Capo costringeva tutti a distogliere lo sguardo.

E se tutto questo fosse già accaduto?

Se fossi io, Anton Gorodeckij, responsabile di sistema della ditta commerciale Niks e contemporaneamente mago della Guardia della Notte, a essere disteso su una lastra di cristallo coperta di antiche rune? E qualcuno — non importa chi, se i maghi delle Tenebre o il Tribunale a composizione mista — stesse dipanando, esaminando, rielaborando la mia memoria?

No!

Non poteva essere. Non provavo le sensazioni di cui aveva parlato il Capo. Non avevo nessun tipo di dejà-vu. Non mi ero mai trovato prima in un corpo femminile, non avevo mai scoperto cadaveri nella toilette di qualche luogo pubblico prima di oggi.

— Vi ho spaventati — disse il Capo. Prese dalla tasca un sigaro lungo e sottile. — La situazione è chiara. Che possiamo fare?

— Io sono pronto a compiere il mio dovere — dichiarai.

— Aspetta. Anton. Non c'è bisogno di fare gli eroi.

— Non sto facendo l'eroe. E il punto non è neppure se sono pronto a difendere i segreti della Guardia. E semplicemente che non sopporterei un interrogatorio di quel tipo. Preferisco morire.

— Ma noi non moriamo come muoiono gli uomini.

— Lo so, per noi è peggio. Ma sono pronto.

Il Capo sospirò. — Scusate, bambine. Anton, proviamo a pensare non alle conseguenze, ma ai presupposti dell'accaduto. Qualche volta è utile guardare al passato.

— Proviamoci — dissi senza grandi speranze.

— Il Selvaggio caccia di frodo in città già da qualche anno. Dagli ultimi dati della sezione analisi, questi strani omicidi sono iniziati tre anni e mezzo fa. Una parte delle vittime è costituita da agenti delle Tenebre chiaramente identificabili in quanto tali. Un'altra parte probabilmente da agenti delle Tenebre potenziali. Nessuno degli uccisi era di un livello superiore al quarto. Nessuno lavorava nella Guardia del Giorno. La cosa più divertente è che quasi tutte le vittime erano Forze delle Tenebre di tendenza moderata, se questa definizione ha un senso. Diciamo che uccidevano e influenzavano gli uomini, ma molto meno di quanto avrebbero potuto.

— Li hanno sacrificati — disse Svetlana. — Giusto?

— È probabile. La Guardia del Giorno non ha toccato questo psicopatico e gli ha anche offerto qualcuno dei suoi, qualcuno di cui non le importava molto. Perché? Questa è la domanda fondamentale: perché?

— Per accusarci di negligenza — tentai io.

— Il fine non giustifica i mezzi.

— Per incastrare qualcuno dei nostri.

— Anton, di tutti i membri della Guardia l'unico a non avere un alibi per i momenti degli assassini sei tu. Perché la Guardia del Giorno dovrebbe darti la caccia?

Mi strinsi nelle spalle. — Una vendetta di Zavulon.

Il Capo scosse la lesta dubbioso. — No. È da poco che ti sei scontrato con lui. Mentre il primo attacco è stato sferrato tre anni e mezzo fa. La domanda rimane aperta: perché?

— Forse Anton potenzialmente è un mago molto forte… — azzardò timidamente Sveta. — E le Tenebre l'hanno capito. Siccome era troppo tardi per attirarlo dalla loro parte, hanno deciso di eliminarlo.

— Anton è più forte di quanto crede — rispose il Capo in tono sbrigativo. — Ma non supererà mai il secondo livello.

— E se i nostri nemici vedessero delle possibili evoluzioni della realtà che noi non riusciamo a vedere? — Guardai il Capo negli occhi.

— E cioè?

— Io posso essere un mago debole, posso essere medio, o forte. Ma se mi bastasse solo fare una certa cosa per cambiare l'attuale equilibrio di forze? Magari qualche cosa di semplice, non legato alla magia? Boris Ignat'evič, in fondo le Forze delle Tenebre hanno cercato di allontanarmi da Svetlana. Evidentemente avevano previsto quella variante della realtà in cui l'avrei potuta aiutare! E se avessero visto qualcos'altro? Un avvenimento futuro? E l'avessero visto già da molto tempo, e da molto tempo si fossero preparati a neutralizzarmi? E se, a paragone con quella che mi aspetta, la lotta per Sveta fosse stata una sciocchezza?

All'inizio il Capo mi ascoltò attentamente. Poi corrugò la fronte e scosse la testa. — Anton, hai manie di grandezza. Scusami. Io esamino le linee di tutti i lavoratori della Guardia, da quelli più importanti fino allo zio Sura, il tecnico dell'impianto igienico. E tu non hai, scusami Anton, ma non hai nel tuo futuro nessuna impresa particolare. Su nessuna delle tue linee della realtà.

— Boris Ignat'evič, è assolutamente certo di non sbagliarsi?

Comunque mi aveva fatto infuriare.

— No. Io non sono assolutamente certo di nulla. Neppure di me stesso. Ma ci sono poche, pochissime possibilità che tu abbia ragione. Credimi.

Gli credetti.

Rispetto a quelle del Capo le mie capacità erano pari a zero.

— Dunque non sappiamo la cosa principale: il motivo.

— Sì. L'attacco è indirizzato a te, ormai non ci sono più dubbi. Questo Selvaggio lo governano con grande finezza ed eleganza. Gli lasciano credere che sta combattendo contro il Male, mentre da molto tempo è solo una marionetta nelle loro mani. Oggi l'hanno portato nello stesso ristorante dove c'eri tu. Gli hanno presentato la vittima. E ti hanno incastrato.

— Allora… cosa possiamo fare?

— Cercare il Selvaggio. È l'ultima possibilità, Anton.

— Ma praticamente lo uccìdiamo.

— Non noi. Noi lo troviamo soltanto.

— Non importa! Per quanto sia cattivo, per quanto si comporti in modo sbagliato, è sempre dei nostri! Combatte contro il Male nell'unico modo che conosce! Bisogna solo spiegargli le cose.

— È tardi, Anton. È tardi. Ci siamo lasciati scappare il momento della sua comparsa. Adesso ha alle spalle una tale storia… Ricordi come è morta quella vampira?

Annuii. — Riposi in pace.

— Eppure aveva commesso molti meno delitti, dal punto di vista delle Tenebre. E anche lei senza capire quello che stava succedendo. Ma la Guardia del Giorno ha riconosciuto la sua colpa.

— L'ha riconosciuta in modo occasionale o ha creato un precedente? — chiese Svetlana.

— Chi lo sa? Anton, devi trovare il Selvaggio.

Alzai gli occhi.

— Trovarlo e consegnarlo alle Forze delle Tenebre — disse il Capo perentoriamente.

— Perché io?

— Perché soltanto nel tuo caso è moralmente accettabile. Sei tu a essere minacciato. Tu ti limiteresti a difenderti. Per chiunque di noi consegnare un mago della Luce, sia pure il più selvaggio, il più grezzo, il più traviato, sarebbe uno shock troppo grande. Tu lo puoi sopportare.

— Non ne sono sicuro.

— Lo puoi sopportare. E tieni presente, Anton, che hai solo questa notte. I Guardiani del Giorno non hanno più motivo di aspettare, domani mattina presenteranno un'imputazione ufficiale contro di te.

— Boris Ignat'evič!

— Cerca di ricordare! Cerca di ricordare chi c'era qui. Chi è entrato nella toilette dopo il mago delle Tenebre?

— Nessuno. Sono sicura perché ho continuato a guardare per vedere se usciva — intervenne Svetlana.

— Vuol dire che il Selvaggio era già nella toilette, in attesa del mago. Ma in ogni caso deve esserne uscito. Non vi ricordate niente? Sveta, Anton?

Non rispondemmo. Io non ricordavo niente. Avevo cercato di non guardare dalla parte del mago delle Tenebre.

— È uscito un uomo dalla toilette — disse Svetlana. — Un tipo, be'…

Pensò per qualche istante.

— Normale, assolutamente normale. Un uomo medio, come se avessero mescolato milioni di facce e ne avessero creata una media. L'ho visto di sfuggita e l'ho subito dimenticato.

— Ricordatelo adesso — ordinò il Capo.

— Non ci riesco, Boris Ignat'evič. Un essere umano come tanti. Un uomo. Di età media. Non ho neppure capito che era un Altro.

— È un Altro allo stato naturale. Non entra nemmeno nel Crepuscolo, ma sta in equilibrio proprio sul confine. Sveta, ricorda! La faccia, o qualche segno particolare.

Svetlana si passò una mano sulla fronte. — Dopo essere uscito è tornato al suo tavolo, dove c'era una donna. Una bella donna, bionda. Si stava truccando. Ho notato anche la marca del fard che stava usando. Ljumene. Lo uso anch'io qualche volta: sono cosmetici che costano poco, non molto buoni.

Nonostante tutto, non riuscii a trattenere un sorriso.

— Ed era scontenta — aggiunse Svetlana. — Sorrideva, ma forzatamente. Come se volesse restare ancora un po', mentre lui la portava via.

Si interruppe di nuovo per riflettere.

— L'aura della donna! — gridò il Capo. — Te la ricordi! Trasmettimi la composizione!

Aveva alzato la voce e cambiato tono. Naturalmente nessuno nel ristorante l'aveva sentito. Ma sul volto dei presenti passò una breve smorfia convulsa, e un cameriere che portava un vassoio inciampò e fece cadere una bottiglia di vino e due coppe di cristallo.

Svetlana scosse la lesta: il Capo l'aveva fatta andare in trance senza sforzo, come se fosse stata un normale essere umano. Vidi le sue pupille dilatarsi e una lieve striscia arcobaleno che si stendeva tra il suo volto e quello del Capo.

— Grazie, Sveta — disse Boris Ignat'evič.

— Ci sono riuscita? — chiese Sveta stupita.

— Sì. Ti puoi considerare mago di settimo grado. Comunicherò che hai superato l'esame individualmente. Anton!

Adesso toccava a me guardare il Capo negli occhi.

Una scossa.

Flussi di un'energia sconosciuta agli uomini.

E una forma.

No, non vedevo il volto dell'amica del Selvaggio. Vedevo la sua aura, che è molto di più. Strati verdi e azzurri mescolati, come gelato in una coppa, una piccola macchia marrone, una fascia bianca. Un'aura abbastanza complessa, ma facile da ricordare e tutto sommato simpatica. Cominciai a sentirmi a disagio.

E inoltre lo amava.

Lo amava e si sentiva offesa da qualcosa. Pensava che lui avesse smesso di amarla, ma sopportava ed era disposta a sopportare a lungo.

Sulle tracce di questa donna avrei trovato il Selvaggio. E lo avrei consegnato al Tribunale, a morte sicura.

— N-no — dissi.

Il Capo mi guardò poco convinto.

— Lei non ha nessuna colpa! E lo ama, si vede chiaramente!

Una musica malinconica ci avvolgeva tutti, e nessuno dei presenti sembrò udire il mio grido. Potevi metterti a strisciare per terra, e magari intrufolarti sotto il loro tavolo… quelli al massimo avrebbero spostato le gambe e poi avrebbero continuato a degustare le specialità della cucina indiana.

Svetlana ci guardava. Si era ricordata l'aura, ma non era in grado di decifrarla: per quello ci voleva il sesto grado.

— Allora morirai tu — disse il Capo.

— Io so perché.

— E non pensi a coloro che ti amano, Anton?

— Io non ho questo diritto.

Boris Ignat'evič sorrise a denti stretti. — Che eroe! Ah, che eroi siamo tutti! Abbiamo mani pure, cuori d'oro zecchino, piedi che non hanno mai calpestato la merda. E la donna che hanno accompagnato fuori da poco, te la ricordi? I bambini in lacrime, te li ricordi? Loro non sono agenti delle Tenebre. Sono persone normali, quelle che noi abbiamo promesso di difendere. Quanto valuteremo ognuna delle nostre operazioni? Perché i nostri analisti, anche se li maledico cento volte al giorno, hanno già i capelli bianchi a cinquant'anni?

E come poco prima io avevo redarguito Svetlana, con la stessa sicura autorevolezza adesso il Capo mi schiaffeggiò sulle guance.

— Tu servi alla Guardia, Anton! Sveta serve alla Guardia! Mentre uno psicopatico, ammettiamo anche che sia buono, non ci serve! Afferrare un pugnale e far fuori qualche agente delle Tenebre sul portone di casa o in una toilette non è difficile. Senza pensare alle conseguenze, senza valutare la colpa. Dov'è il nostro fronte, Anton?

— Tra gli uomini. — Abbassai gli occhi.

— Chi difendiamo?

— Gli uomini.

— Non esiste un Male astratto, è questo che devi capire! Le radici sono qui, attorno a noi, in questa mandria che mastica e brinda un'ora dopo un assassinio! Ecco per che cosa devi lottare. Per gli uomini. Le Tenebre sono come l'idra, e più teste tagli, più ne ricresceranno! Si può sterminare solo con la fame, ti ricordi? Uccidi cento agenti delle Tenebre, e al loro posto ne sorgeranno mille. Ecco perché il Selvaggio è colpevole! Ecco perché tu. proprio tu, Anton, lo troverai. E lo obbligherai a presentarsi in tribunale. Spontaneamente o con la forza.

Il Capo si zittì all'improvviso. Si alzò bruscamente. — Andiamocene, bambine.

Ormai non mi colpiva più quell'appellativo. Balzai in piedi afferrando la borsa… un movimento inconscio, involontario.

Il Capo non aveva intenzione di perdere tempo. — Veloci!

Di colpo mi resi conto che avrei avuto bisogno di fare una sosta nel luogo in cui il mago delle Tenebre aveva incontrato la morte. Ma non mi arrischiai nemmeno ad accennare alla faccenda. Ci dirigemmo verso l'uscita a una tale velocità che gli uomini della sorveglianza sicuramente ci avrebbero fermato, se avessero potuto vederci.

— Troppo tardi — disse piano il Capo proprio sulla porta. — Abbiamo chiacchierato troppo.

Nel ristorante stavano entrando, o meglio, si stavano insinuando tre Altri. Due ragazzi robusti e una ragazza.

La ragazza la conoscevo. Alisa Donnikova. Una streghetta della Guardia del Giorno. Quando vide il Capo spalancò gli occhi.

Dietro di lei c'erano due sagome invisibili e inafferrabili che avanzavano in mezzo al Crepuscolo.

— Vi chiedo di fermarvi — disse Alisa con voce strozzata, come se le si fosse improvvisamente seccata la gola.

— Via. — il Capo mosse appena una mano e gli agenti delle Tenebre finirono addossati alle pareti che ci circondavano. Alisa si inclinò, tentando di puntarsi contro il muro, ma le forze in gioco erano evidentemente impari.

— Zavulon, io ti chiamo! — strillò.

O-oh. La streghetta doveva essere una delle amanti del capo della Guardia dei Giorno, per avere il diritto di chiamata!

Gli altri due agenti delle Tenebre uscirono dalla penombra. A occhio li individuai come maghi combattenti di terzo o quarto grado. Naturalmente per Boris Ignat'evič non costituivano alcun pericolo, e anch'io sarei stato in grado di aiutarlo, ma potevano farci perdere tempo.

Anche il Capo se ne rese conto. — Che cosa volete? — chiese in tono imperioso. — È l'ora dei Guardiani della Notte.

— È stato compiuto un delitto. — Gli occhi di Alisa mandavano fiamme. — Qui, e da poco. È stato ucciso un nostro fratello, ucciso da qualcuno di… — Il suo sguardo trapanava ora il Capo, ora me.

— Di…? — chiese il Capo speranzoso. La strega non cadde nella provocazione. Se si fosse arrischiata a lanciare contro Boris Ignat'evič un'accusa del genere — dato il suo status e l'ora non legittima — il Capo l'avrebbe senz'altro spalmata sul muro.

E senza nemmeno un secondo di esitazione.

— Da qualcuno della Luce!

— I Guardiani della Notte non hanno notizia di un criminale.

— Chiediamo ufficialmente assistenza.

Ecco. Adesso non avevamo più via di scampo. Rifiutare assistenza all'altra Guardia era quasi una dichiarazione di guerra.

— Zavulon, io ti chiamo! — gridò di nuovo la strega. Sentii nascere dentro di me una timida speranza che il capo delle Tenebre non la sentisse o fosse impegnato in qualche faccenda più importante.

— Siamo pronti all'assistenza — disse il Capo. La sua voce era di ghiaccio.

Detti una rapida occhiata alla sala, al di sopra delle robuste spalle dei maghi. Gli agenti delle Tenebre ci avevano già circondato, evidentemente con l'intenzione di tenerci sulla porta. Nel ristorante stava accadendo qualcosa di straordinario.

La gente mangiava.

Il rumore di mascelle era tale che sembrava che ai tavoli sedessero dei maiali. Sguardi ottusi, vitrei. In mano avevano le posate, ma afferravano il cibo con le dita, si soffocavano, grugnivano, sputacchiavano. Un uomo anziano, dall'aspetto dignitoso, che cenava tranquillo circondato da tre guardie del corpo e da una fanciulla, a un tratto cominciò a bere vino direttamente dalla bottiglia. Un simpatico giovanotto, di certo appartenente alla brillante schiera degli yuppy, e la sua attraente compagna si strappavano il piatto di mano, macchiandosi di salsa arancione. I camerieri correvano da un tavolo all'altro e lanciavano ai mangiatori piatti, tazze, fornellini, vasetti…

Le Tenebre avevano i loro metodi per distrarre i presenti.

— Qualcuno di voi era nel ristorante al momento dell'omicidio? — chiese solennemente la strega.

Il Capo rispose solo dopo qualche istante. — Sì.

— Chi?

— Le mie compagne.

— Ol'ga. Svetlana. — La strega ci scrutò brevemente. — Non era presente l'Altro, membro della Guardia della Notte, il cui nome di umano è Anton Gorodeckij?

— Oltre a noi, qui non c'erano membri della Guardia! — disse in fretta Svetlana. Bene, ma troppo in fretta. Alisa si rabbuiò, rendendosi conto di avere formulato la domanda in modo troppo vago.

— Una notte tranquilla, non è vero? — si sentì dalla porta.

Zavulon aveva risposto alla chiamata.

Lo guardavo, comprendendo irrimediabilmente che un mago di quel livello non si sarebbe lasciato ingannare dal mio mascheramento. Non aveva riconosciuto il Capo in Il'ja, ma con lo stesso trucco non si può prendere due volte una vecchia volpe.

— Non troppo tranquilla, Zavulon — disse il Capo semplicemente. — Manda via il tuo bestiame, o lo farò io in vece tua.

Il mago delle Tenebre era vestito come se il tempo si fosse fermato, e al gelido inverno non fosse subentrata una tiepida primavera. Giacca, cravatta, camicia grigia, scarpe strette ormai fuori moda. Guance vizze, sguardo offuscato, capelli corti.

— Sapevo che ci saremmo incontrati — disse.

Guardava me. Soltanto me.

— Che sciocchezza. — Zavulon scosse la testa. — Ma che bisogno hai di fare ancora certe cose, eh?

Fece un passo avanti. Alisa si scostò rapidamente.

— Un buon lavoro, una discreta agiatezza, l'amor proprio soddisfatto, tutte le gioie del mondo a tua disposizione, basta che pensi in tempo a quale sarà il Bene questa volta. E tu non vedi l'ora di buttarti in qualche stupida avventura. Io non ti capisco, Anton.

— E io non capisco te, Zavulon. — il Capo gli sbarrò la strada.

Il mago delle Tenebre fu costretto a guardarlo.

— Vuol dire che stai invecchiando. Nel corpo della tua amante — Zavulon ridacchio — c'è Anton Gorodeckij. Colui che noi sospettiamo per la serie di omicidi delle Forze delle Tenebre. È da tanto che sta nascosto lì, Boris? E tu non ti sei accorto di niente? — Ridacchiò di nuovo.

Lanciai un'occhiata agli agenti della Guardia del Giorno. Non avevano capito. Avevano ancora bisogno di un secondo, o forse meno.

Poi vidi che Svetlana sollevava le mani e che sulle sue palme pulsava il fuoco giallo della magia.

L'esame per il settimo grado di forza l'aveva dato, solo che probabilmente in quello scontro avremmo perso. Noi eravamo tre. Loro sei. Se Svetlana li avesse colpiti — salvando non sé, ma me, già sprofondato nella merda fino al collo — sarebbe cominciato il combattimento.

Balzai in avanti.

Che bella cosa che Ol'ga avesse un corpo così forte e allenato. Che bella cosa che tutti noi — sia le Forze della Luce che quelle delle Tenebre — ci fossimo disabituati a contare sull'energia di gambe e braccia per una semplice e schietta rissa. Che fortuna che Ol'ga, privata della maggior parte della sua magia, non avesse trascurato quest'arte.

Zavulon si piegò emettendo un suono rauco quando il mio pugno — il pugno di Ol'ga — gli arrivò nella pancia. Con un calcio lo misi in ginocchio e mi precipitai fuori.

— Fermati! — gridò Alisa. Con entusiasmo, con odio e con amore insieme.

"Prendilo, prendilo!"

Mi misi a correre per la Pokrovka, dalla parte del Zemljanoj Val, con la borsetta che mi picchiava sulla schiena. Per fortuna non avevo i tacchi. Sganciarsi, mischiarsi alla folla… il corso di sopravvivenza in città mi era sempre piaciuto, peccato solo che fosse stato breve, brevissimo. Chi avrebbe potuto pensare che un agente della Guardia dovesse fuggire e nascondersi, e non soltanto catturare chi fuggiva e si nascondeva?

Da dietro mi giunse una specie di ululato.

Balzai di lato istintivamente, senza neppure immaginare cosa stava accadendo. Un torrente infuocato, purpureo, snodandosi come un serpente, invase rapidamente la strada, cercò di fermarsi e di ritornare indietro, ma la forza d'inerzia era troppo grande: la carica investì la parete dell'edificio, portando in un istante le pietre all'incandescenza.

Ragazzi, che roba!

Inciampai, caddi, guardai indietro. Zavulon puntò di nuovo il suo bastone da guerra, ma adesso questo si muoveva molto lentamente, come se qualcosa lo impacciasse, rallentandolo.

Stava battendo in ritirata!

Credo che di me non sarebbe restato neppure un mucchietto di cenere, se solo la Frusta di Saab mi avesse raggiunto!

Questo significava che il Capo aveva torto. I Guardiani del Giorno non erano interessati a quello che c'era nella mia testa. Volevano semplicemente eliminarmi.

Gli agenti delle Tenebre stavano arrivando. Zavulon puntava la sua arma, il Capo abbracciava Svetlana che si divincolava. Balzai in piedi e mi lanciai di nuovo a correre, ma già comprendevo che non sarei riuscito a sfuggire. L'unico aspetto positivo era che in strada non c'era nessuno: una paura istintiva, inconsapevole aveva allontanato tutti i passanti appena era iniziata la nostra lotta. Non ci sarebbero state vittime innocenti.

Sentii uno stridio di freni. Mi girai e vidi che gli agenti delle Guardie si facevano da parte per lasciar passare una macchina lanciata a velocità folle. Il guidatore doveva aver deciso di trovarsi in mezzo a un regolamento di conti tra bande rivali e, dopo un attimo di sosta, era ripartito alla massima velocità.

Fermarlo? No, non era nemmeno pensabile.

Mi gettai sul marciapiede e mi sedetti, per nascondermi da Zavulon. dietro una vecchia Volga parcheggiata, in modo da lasciarmi superare da quella macchina che passava per caso. Ma la Toyota color argento di colpo, con lo stesso penetrante stridio di freni surriscaldati, si fermò.

Lo sportello del guidatore si spalancò e qualcuno mi fece segno con la mano.

Sono cose che non succedono! Capita solo nei film d'azione più scontati che l'eroe in fuga sia salvato da una macchina di passaggio!

Mentre finivo di formulare questo pensiero, avevo già aperto la portiera posteriore e mi stavo infilando nell'abitacolo.

— Più in fretta, più in fretta! — gridò la donna accanto alla quale mi stavo sistemando. In realtà il guidatore non aveva bisogno di incitamenti, perché avevamo già ripreso la corsa. Alle nostre spalle crepitò una nuova vampa, e partì un'altra carica della Frusta: l'auto però sterzò bruscamente, e il torrente di fuoco ci passò di fianco senza toccarci. La donna cominciò a strillare.

Chissà sotto quale forma vedevano la nostra lotta. Un fuoco di mitragliatrici? Un attacco missilistico? Un colpo di lanciafiamme?

— Perché, perché sei tornato indietro? — La donna cercò di slanciarsi in avanti, con la chiara intenzione di dare un pugno sulla schiena al guidatore. Io ero già pronto ad afferrarle la mano, ma uno scarto della macchina la rigettò indietro.

— Non deve fare così — le dissi gentilmente, rimediando uno sguardo indignato.

E del resto… Quale donna avrebbe accolto con gioia l'arrivo, nella sua macchina, di una sconosciuta simpatica, ma squinternata, inseguita da una folla di banditi armati a causa della quale suo marito si ritrovava all'improvviso sotto tiro?

Fortunatamente il momento più pericoloso ormai l'avevamo superato. Avevamo raggiunto il Zemljanoj Val e adesso viaggiavamo all'interno di un flusso continuo di macchine. Sia gli amici che i nemici ce li eravamo lasciati alle spalle.

— Grazie — dissi alla nuca rasata del guidatore.

— È ferita? — mi chiese senza voltarsi.

— No. Mille grazie. Perché si è fermato?

— Perché è uno stupido! — strillò la donna. Si era tutta rannicchiata dall'altra parte del sedile per evitare di sfiorarmi, come se fossi un'appestata.

— Perché non sono uno stronzo — rispose l'uomo tranquillamente. — Perché la inseguivano? È vero che non sono fatti miei…

— Volevano violentarmi — sparai a casaccio. Proprio una bella spiegazione. Direttamente al ristorante, in mezzo ai tavoli, neanche fossimo, invece che a Mosca, pur con tutte le sue storie di banditi, in un saloon del Far West.

— Dove la devo lasciare?

— Qui. — Guardai la lettera illuminata che segnalava l'entrata della metropolitana. — Da qui sono comoda.

— Possiamo accompagnarla a casa.

— Non c'è bisogno. Avete fatto anche troppo.

— Va bene.

L'uomo non si mise a discutere o a cercare di convincermi. La macchina frenò, e io scesi. Guardando la donna dissi: — La ringrazio moltissimo.

Lei sbuffò, poi, di scatto, chiuse la portiera.

Ecco fatto.

Casi come quello dimostrano comunque che il nostro lavoro ha un senso.

Istintivamente mi ravviai i capelli, mi lisciai i jeans. I passanti mi guardavano con una certa diffidenza, ma non cambiavano strada, il che mi faceva pensare di avere un aspetto più o meno accettabile.

Quanto tempo avevo? Cinque minuti, dieci, prima che gli inseguitori ritrovassero le mie tracce? O il Capo era riuscito a trattenerli?

Sarebbe stato bello. Perché cominciavo a capire quello che stava succedendo.

E avevo una chance. Magari piccolissima, ma ce l'avevo.

Mentre mi avviavo al metrò, presi il cellulare dalla borsa di Ol'ga. Stavo per digitare il suo numero, poi, imprecando contro la mia stupidità, feci quello di casa mia.

Cinque squilli, sei, sette.

Chiusi la telefonata e feci il numero del mio cellulare. Questa volta Ol'ga rispose subito.

— Pronto? — disse bruscamente una voce sconosciuta, maschile, un po' roca. La mia.

— Sono io, Anton — gridai. Un ragazzo che proprio in quel momento stava passando accanto a me, mi lanciò un'occhiata stupita.

— Testa di cazzo! — Da Ol'ga non mi aspettavo un saluto diverso.

— Dove sei, Anton?

— Sto per infilarmi sotto terra.

— Per quello c'è sempre tempo. Come ti posso aiutare?

— Sei già al corrente degli ultimi avvenimenti?

— Sì. Con Boris siamo in comunicazione parallela.

— Ho bisogno del mio corpo.

— Dove ci incontriamo?

Mi presi un secondo per riflettere.

— Quando ho cercato di disperdere il vortice nero sulla testa di Svetlana, poi sono sceso a una stazione.

— Ho capito. Boris me l'ha spiegato. Facciamo così: alla terza stazione della linea circolare, in alto sulla sinistra. — Evidentemente aveva davanti lo schema.

— D'accordo.

— Al centro della sala. Sarò lì tra venti minuti.

— Va bene.

— Ti devo portare qualcosa?

— Porta me. Per il resto vedi tu.

Chiusi il telefono, mi guardai attorno ed entrai velocemente nella stazione.

Capitolo 4

Ero in attesa, al centro del salone della stazione Novoslobodskaja. Una scena piuttosto usuale, a quell'ora ancora non troppo tarda: una ragazza che aspetta forse un ragazzo, forse un'amica.

Nel mio caso… tutti e due.

Sotto terra trovarmi era più difficile che in superficie. Perfino i migliori tra i maghi delle Tenebre non sarebbero riusciti a individuare la mia aura, attraverso strati di terreno, attraverso le antiche tombe su cui è costruita Mosca, in mezzo alla folla. Naturalmente anche rastrellare le stazioni non era difficile: bastava mandare in ognuna un Altro con la mia immagine, ed era fatta.

Ma speravo di avere ancora mezz'ora o un'ora prima di questa mossa della Guardia del Giorno.

Com'era tutto semplice, alla fine. Con che eleganza si ricomponeva il puzzle. Scossi la testa, sorrisi e subito colsi su di me io sguardo interrogativo di un giovane punk. "No, amico, ti stai sbagliando. Questo corpo così sexy sta sorridendo solo ai suoi pensieri.1'

In effetti si poteva immaginarlo subito, appena le fila dell'intrigo avevano cominciato a convergere verso di me. Il Capo aveva ragione, naturalmente. Io non rappresentavo un obiettivo così importante da meritarmi un piano tanto lungo, complicato e devastante. Si trattava di una faccenda diversa, completamente diversa.

Cercano di prenderci sfruttando le nostre debolezze. Sfruttando la bontà e l'amore.

E ce la fanno, o comunque ci vanno molto vicino.

All'improvviso mi venne voglia di fumare, una voglia intensissima, tanto che la bocca mi si riempì di saliva. Strano, non ero abituato al tabacco, doveva essere una reazione dell'organismo di Ol'ga. Me la immaginai come doveva essere cento anni fa: una dama di grande eleganza con una sigaretta sottile infilata nel bocchino che fa la sua comparsa in qualche salotto letterario in compagnia di due poeti come Blok e Gumilëv. E che discetta sorridendo di massoneria, di populismo, della ricerca della perfezione spirituale.

Be', forse era meglio passare ai fatti!

— Non avrebbe per caso una sigaretta? — chiesi a un giovanotto che mi veniva incontro, vestito abbastanza bene da non fumare le Zolotaja Java.

Lo sguardo era stupito, ma mi porse un pacchetto di Parlamenta.

Presi la sigaretta, lo ringraziai con un sorriso e mi coprii con un leggero incantesimo. Lo sguardo della gente scivolava via senza vedermi.

Che meraviglia.

Concentrandomi, alzai la temperatura dell'estremità della sigaretta finché non raggiunse i duecento gradi e aspirai. Aspetteremo. Infrangeremo qualche piccola implacabile regoletta.

La gente continuava a passarmi accanto, evitandomi senza vedermi. Annusavano sconcertati, non capendo da dove arrivasse quell'odore di tabacco. Io continuavo a fumare, scuotendo la cenere in terra, osservando il poliziotto cinque passi più in là. e cercando di calcolare le mie possibilità.

Mi resi conto che non erano poi così poche, anzi. E questo mi turbava.

Se erano tre anni che lavoravano a quel piano, dovevano per forza anche avere previsto la possibilità della mia intuizione. E avere perciò pronta una contromossa. Ma quale?

Quello sguardo stupito non lo colsi subito. Ma quando realizzai di chi era, ebbi un sussulto.

Egor.

Un ragazzino, un Altro di piccola forza, che sei mesi prima era finito in mezzo alla grande lotta che si era scatenata tra le Guardie. Scoperto da entrambe le parti. Una carta che non era ancora stata distribuita a nessuno dei giocatori. Del resto, non era una carta da suscitare appetiti particolari.

I suoi poteri erano sufficienti a superare il mio leggero occultamento. L'incontro in sé, comunque, non mi stupì. Nel mondo esistono molti casi fortuiti, senza contare che esiste anche la predestinazione.

— Ciao, Egor — dissi, senza pensarci. E ampliai l'incantesimo, attirando anche lui nel cerchio di non visibilità.

Il ragazzino sussultò e si guardò attorno. Fissò gli occhi su di me. Naturalmente non aveva mai visto Ol'ga nel suo aspetto umano, ma solo in forma di civetta bianca.

— Chi è lei. e come fa a conoscermi?

Sì, era maturato. Non esternamente, interiormente. Non capivo come fosse riuscito a non determinarsi fino in fondo, a non schierarsi né dalla parte della Luce, né dalla parte delle Tenebre. Perché era già entrato nel Crepuscolo, e per di più in condizioni tali da poter diventare chiunque avesse desiderato. Ma la sua aura era come prima: pulita, neutrale.

Un destino speciale. Che bellezza avere un destino speciale.

— Sono Anton Gorodeckij, agente della Guardia della Notte — dissi semplicemente. — Ti ricordi di me?

Certo che si ricordava di me.

— Ma…

— Non farci caso. È un mascheramento, possiamo scambiarci i corpi.

Pensai se fosse il caso di ricordarmi le prime lezioni del corso di illusione e di riassumere temporaneamente il mio solito aspetto. Ma non ce ne fu bisogno: Egor mi credette. Forse si era ricordato le trasformazioni del Capo.

— Che cosa vuole da me?

— Niente. Sto aspettando una collega, la proprietaria di questo corpo. Il nostro incontro è assolutamente casuale.

— Odio le vostre Guardie! — gridò Egor.

— Come preferisci. Io davvero non ti stavo cercando. Se vuoi, vai via.

Credermi a questo proposito gli riusciva molto più difficile che credere allo scambio di corpi. Il ragazzino si guardò intorno con aria sospettosa, aggrottando la fronte.

Di sicuro non gli era facile andarsene. Aveva percepito il mistero, aveva sentito le forze che stanno oltre il mondo degli umani. E aveva rifiutato queste forze, sia pure temporaneamente.

Ma potevo immaginare che volesse imparare almeno qualche piccola cosa, che so, qualche trucchetto con la pirocinesi e la telecinesi, l'ipnosi, la guarigione, la maledizione. Non so esattamente da cosa, ma probabilmente era attratto da questi giochetti. Non solo dal conoscerli, ma dal saperli usare.

— Davvero non mi stava cercando? — mi chiese alla fine.

— Non ti stavo cercando. Non ne abbiamo il diritto, per davvero.

— E come faccio a esserne sicuro? Magari anche questa è una bugia — borbottò, distogliendo lo sguardo. Era logico.

— Non puoi — convenni. — Se vuoi, credimi.

— Io vorrei — disse lui, sempre fissando il pavimento. — Ma mi ricordo quello che è successo sul tetto. Di notte me lo sogno.

— Non devi più avere paura di quella vampira — gli dissi. — È defunta. Per decreto del Tribunale.

— Lo so.

— Come hai fatto a saperlo? — gli chiesi stupito.

— Mi ha chiamato il vostro comandante. Quello che cambia anche lui corpo.

— Non lo sapevo.

— Una volta mi ha chiamato, quando a casa non c'era nessuno. Mi ha detto che avevano condannato la vampira. Ha detto anche che, in quanto potenziale Altro, anche se ancora non determinato, sono stato cancellato dall'elenco degli umani. E che non sarei mai più stato sorteggiato, e non dovevo più avere nessuna paura.

— Sì, certo — confermai.

— Gli ho chiesto se i miei genitori erano ancora nell'elenco.

E qui rimasi decisamente senza parole. Capivo quale doveva essere stata la risposta del Capo.

— Va bene, vado. — Egor fece un passo indietro. — La sua sigaretta è finita.

Gettai il mozzicone e gli chiesi: — Da dove vieni? È già tardi.

— Dagli allenamenti, faccio nuoto. No, mi dica, è davvero lei?

— Ti ricordi il gioco con la tazza rotta?

Egor sorrise debolmente. I trucchi più facili sono sempre quelli che impressionano di più il pubblico.

— Sì. Ma… — Tacque, guardando dietro di me. Mi voltai.

E strano vedersi dall'esterno. Un ragazzo con la mia faccia, che camminava con la mia andatura e aveva addosso i miei jeans e la mia maglia, con il walkman e in mano una piccola borsa. Anche il sorriso, appena accennato, era il mio. Perfino gli occhi, un finto specchio, erano i miei.

— Ciao, Anton — disse Ol'ga. — Buonasera. Egor.

La presenza del ragazzino evidentemente non l'aveva stupita. In generale sembrava molto tranquilla.

— Buonasera. — Egor guardava un po' lei e un po' me. — Anton adesso è nel suo corpo?

— Esattamente.

— Lei è simpatica. Ma come fa a conoscermi?

— Ti ho visto mentre mi trovavo in un corpo meno simpatico. Ma adesso scusaci, Anton ha dei grossi problemi, e dobbiamo risolverli.

— Devo andarmene? — Egor sembrava aver dimenticato che solo qualche istante prima stava appunto per farlo.

— Sì. E non ti arrabbiare, qui adesso farà caldo, molto caldo.

Il ragazzino guardò me.

— I Guardiani del Giorno mi danno la caccia — gli spiegai. — Tutti gli agenti delle Tenebre di Mosca.

— Perché?

— È una storia lunga. Perciò adesso vai diritto a casa.

Quelle parole suonarono brusche ed Egor, un po' corrucciato, annuì. Detti un'occhiata alla piattaforma: proprio in quel momento arrivava un treno.

— Ma c'è qualcuno che vi difende, vero? — Faceva comunque un po' di fatica a capire a quale corpo rivolgersi per parlare con me. — La vostra Guardia?

— Ci prova — rispose dolcemente Ol'ga. — Adesso vai, per favore. Abbiamo poco tempo, e diventa sempre meno.

— Arrivederci. — Egor si girò e corse verso il treno. Al terzo passo uscì dal confine della zona di occultamento e per poco non lo gettarono a terra.

— Se il ragazzino fosse rimasto, sono sicura che sarebbe venuto dalla nostra parte — disse Ol'ga, seguendolo con lo sguardo. — Bisognerebbe vedere le probabilità per capire perché vi siete incrociati nel metrò.

— Un caso.

— Il caso non esiste. Ah, Anton, un tempo leggevo le linee della realtà con la massima facilità, come un libro aperto.

— Una buona previsione non mi dispiacerebbe.

— Una vera previsione non si può fare su commissione. Va bene, mettiamoci al lavoro. Vuoi riprendere il tuo corpo?

— Sì, proprio qui.

— Come vuoi. — Ol'ga tese le braccia — le mie braccia — e mi prese per le spalle. Era una sensazione assurda, duplice. Anche lei, evidentemente, sentiva qualcosa di analogo, perché ridacchiò: — Come mai poi ti sei fatto incastrare tanto in fretta, Anton? Avevo dei progetti così originali per la serata!

— Non vorrei dover ringraziare il Selvaggio per averli mandati a monte…

Ol'ga si concentrò, smise di sorridere. — Va bene. Lavoriamo.

Ci mettemmo schiena contro schiena e aprimmo le braccia a croce. Strinsi le dita di Ol'ga, le mie dita.

— Restituiscimi ciò che è mio — disse Ol'ga.

— Restituiscimi ciò che è mio — ripetei io.

— Geser, ti restituiamo il tuo dono.

Sussultai rendendomi conto che aveva pronunciato il vero nome del Capo. E che nome!

— Geser, ti restituiamo il tuo dono! — ripeté Ol'ga bruscamente.

— Geser, ti restituiamo il tuo dono!

Ol'ga passò a una lingua molto antica, le cui parole erano dolci e armoniose, e da come le pronunciava pensai che dovesse essere la sua lingua madre. Ma percepii con dolore quanta fatica le costasse quella magia, tutt'altro che difficile, al livello di un mago di secondo grado.

Lo scambio di corpi è come lo scatto di una molla. Le nostre coscienze restavano in un corpo altrui solo grazie all'energia esercitata da Boris Ignat'evič Geser. Bastava rifiutare la forza con cui lui ci investiva e saremmo ritornati nel nostro vecchio corpo. Se uno di noi fosse stato un mago di primo livello non ci sarebbe stato neppure bisogno del contatto fisico, tutto sarebbe potuto avvenire anche a distanza.

La voce di Ol'ga si alzò: era arrivata alla formula conclusiva del rifiuto.

Per un attimo non successe nulla. Poi fui colto da convulsioni, tutto cominciò a fluttuarmi davanti agli occhi e a diventare grigio, come se stessi sprofondando nella penombra. Per un istante vidi tutta la stazione, da cima a fondo, le polverose vetrate colorate, il pavimento sporco, la gente che avanzava lenta, l'arcobaleno delle aure e due corpi che sussultavano, come inchiodati l'uno all'altro.

Poi mi sentii spingere, schiacciare, comprimere in un involucro corporeo.

— A-a-ah — mormorai, cadendo a terra e riuscendo solo all'ultimo momento a ripararmi con le mani. Avevo i muscoli irrigiditi, le orecchie mi fischiavano. Il viaggio di ritorno risultò molto meno confortevole dell'andata, forse perché non era stato il Capo a guidarlo.

— Tutto a posto? — mi chiese Ol'ga con voce debole. — Ohi, che carogna che sei, però!

— Come? — La guardai.

Ol'ga, con una smorfia, si stava alzando: — Potevi, pardon, fare una capatina alla toilette?

— Solo con il permesso di Zavulon.

— Va bene, non parliamone più. Anton, abbiamo ancora un quarto d'ora. Raccontami.

— Che cosa?

— Quello che hai capito. Forza. Non volevi semplicemente tornare nel tuo corpo. Hai elaborato un piano, no?

Annuii, mi raddrizzai, mi sfregai le palme impolverate. Poi le battei sulle ginocchia per sistemare un po' i jeans. Sotto l'ascella la cinghia della fondina mi stringeva troppo, dovevo allargarla un po'. Di gente nella metropolitana non ce n'era più molta, il grosso del fiume di viaggiatori era già defluito. Quelli che si erano attardati, però, ormai liberi dalla preoccupazione di farsi largo tra la folla, adesso avevano il tempo di pensare: si accendevano gli arcobaleni delle aure, e mi giungevano echi di emozioni altrui.

Quanto erano stati limitati i poteri di Ol'ga! Nel suo corpo avevo dovuto sforzarmi al massimo per vedere il mondo segreto dei sentimenti degli umani. E nello stesso tempo era così semplice, davvero semplicissimo. Non ci si poteva nemmeno inorgoglire per averlo capito.

— Io non interesso alla Guardia del Giorno, Ol'ga. Per niente. Sono un normale mago di medio livello.

Lei annuì.

— Eppure la caccia era diretta contro di me. Su questo non ci sono dubbi. Dunque non sono la preda, ma l'esca. Come Egor è stato l'esca quando la preda era Sveta.

— L'hai capito soltanto adesso? — Ol'ga scosse la testa. — Certo. Tu sei l'esca.

— Per Svetlana?

Lei annuì.

— L'ho capito soltanto oggi — ammisi. — Un'ora fa, quando Sveta si è opposta ai Guardiani del Giorno, ha raggiunto il quinto livello di forza. Di colpo. Se ci fosse stato uno scontro l'avrebbero uccisa. Perché anche noi siamo facili da controllare, Ol'ga. Gli umani si possono spingere in direzioni diverse, verso il Bene o verso il Male, le Forze delle Tenebre si possono prendere puntando proprio sulle loro meschinità, sul loro egoismo, sulla loro avidità di potere e di gloria. E noi possiamo essere incastrati sfruttando l'amore. Su questo punto siamo vulnerabili come bambini.

— Sì.

— Il Capo lo sa? — chiesi. — Ol'ga?

— Sì.

Emetteva le parole a fatica, come se avesse un nodo alla gola. Non ci potevo credere! Non provano vergogna i maghi della Luce che hanno vissuto interi millenni! Hanno salvato il mondo tante di quelle volte che conoscono a memoria tutte le giustificazioni etiche. Non provano vergogna le Grandi Maghe, anche quelle ormai ex. Sono state tradite anche loro troppe volte.

Scoppiai in una risata. — Ol'ga, ma voi l'avevate capito subito? Appena è arrivata la protesta dalle Tenebre? Che davano la caccia a me, ma che lo scopo reale era costringere Svetlana a perdere il controllo?

— Sì.

— Sì, sì, sì! E avete deciso di non avvertire né lei né me?

— Svetlana deve maturare. Magari saltando anche qualche gradino. — Negli occhi di Ol'ga si accese una luce speciale. — Anton, tu sei mio amico. E ti parlerò con la massima onestà. Cerca di capirmi, non abbiamo il tempo adesso di allevare una Grande Maga. Ma ci serve, ci serve più di quanto tu possa immaginare. E lei ha abbastanza forza. Si temprerà, imparerà a raccogliere e ad applicare la sua forza, e soprattutto imparerà a controllarla.

— E la mia eliminazione non farebbe altro che accrescere la forza del suo odio per le Tenebre, giusto?

— Sì. Ma tu non sarai eliminato, ne sono sicura. I Guardiani cercano il Selvaggio, sono tutti all'erta. Lo presenteremo alle Forze delle Tenebre e la tua incriminazione cadrà automaticamente.

— Però sarà eliminato un mago della Luce non iniziato al momento giusto, infelice, solitario, braccato, convinto di combattere da solo contro le Tenebre.

— Sì.

— Oggi sei sempre d'accordo con me. — Parlavo senza nessuna rabbia. — Ol'ga, e se quello che fate fosse una vigliaccata?

— No. — Nella sua voce non c'era ombra di dubbio. La posta in gioco doveva essere davvero alta.

— Quanto tempo devo resistere, Luminosa?

Ol'ga sussultò.

Un tempo molto, molto lontano, quello era l'appellativo che si usava nella Guardia. Luminoso, Luminosa… perché queste parole avevano perso il loro significato, e adesso suonavano insensate come l'espressione "gentlemen" rivolta a un gruppo di straccioni in coda davanti a un chiosco di birra?

— Almeno fino al mattino.

— La notte non è più un tempo nostro. Oggi tutte le Forze delle Tenebre batteranno le strade di Mosca. E a pieno diritto.

— Finché non troviamo il Selvaggio. Resisti.

— Ol'ga… — Feci un passo verso di lei e le sfiorai la guancia con le dita, dimenticandomi per un attimo della nostra differenza d'età — che cos'è un millennio di fronte a questa notte infinita? — e della nostra differenza di forze e di conoscenza. — Ol'ga. tu ci credi che arriverò fino al mattino?

La maga non rispose.

Annuii. Non c'era più niente da dire.

Non hai mai provato, amico,

a perderti in un'alba cristallina,

a bussare a un portone smarrito,

a restare più solo di prima?

Schiacciai un pulsante e passai ad ascoltare il walkman in modalità casuale. Non perché la canzone non si accordasse con il mio stato d'animo, anzi.

Mi piace la metropolitana di notte. Non so nemmeno io perché. Nulla da guardare, se non vecchie pubblicità e le aure stanche, tutte uguali, degli umani. Il rumore del motore, correnti d'aria dai finestrini lasciati aperti, sussulti del vagone sugli scambi. Ottusa attesa della propria stazione.

Eppure mi piace.

E così facile prenderci sfruttando i nostri amori!

Sussultai, mi alzai, mi avvicinai alle porte. Anche se prima avevo pensato di andare fino alle fine della linea.

— Rizskaja, prossima stazione: Alekseevskaja.

E cantano con voci silenziose

sempre, la stessa canzone,

oggi il club dei lebbrosi

inaugura la nuova stagione.

Mentre ero già sulla scala mobile, sentii alle mie spalle un leggero soffio di forza. Percorsi con lo sguardo la scala che veniva nella direzione opposta e quasi subito vidi un mago delle Tenebre.

No, non era un agente regolare della Guardia del Giorno, non ne aveva i vezzi. Era un mago piccolo, di quartoquinto livello, più probabilmente quinto: doveva concentrarsi al massimo per analizzare i passanti. Ancora molto giovane, poco più di vent'anni. con lunghi capelli chiari, un giubbino stazzonato aperto, una faccia simpatica, anche se un po' tesa.

"Come mai hai finito per scegliere le Tenebre? Che cosa è accaduto prima che entrassi per la prima volta nel Crepuscolo? Avevi litigato con la tua amica? O con i tuoi genitori? Ti avevano cacciato da un esame, o avevi preso un brutto voto a scuola? Ti avevano pestato un piede sull'autobus? Ma la cosa più tremenda è che esternamente non sei cambiato. Forse sei addirittura migliorato. I tuoi amici hanno notato con un certo stupore come si stia sempre bene e allegri in tua compagnia, e come vadano bene le imprese che avviano insieme a te. La tua ragazza ha scoperto in te tutta una serie di doti che non aveva mai sospettato. I tuoi genitori non si stancano di rallegrarsi perché sei diventato più serio e più intelligente. Gli insegnanti sono entusiasti del talento che stai dimostrando. E nessuno sa che compensi riscuoti da chi ti circonda. Che ripercussioni hanno la tua bontà, i tuoi scherzi, la tua disponibilità."

Chiusi gli occhi e mi appoggiai al corrimano. Ero stanco, leggermente ubriaco, non guardavo nulla, ascoltavo la mia musica.

Lo sguardo del mago delle Tenebre scivolò su di me, passò oltre, poi ebbe come un fremito e si fermò.

Un contatto freddo, penetrante, come una folata di vento. Il ragazzo mi stava confrontando con l'immagine campione distribuita, probabilmente, a tutte le Forze delle Tenebre di Mosca. Si comportava in modo molto goffo, dimenticando di difendersi e senza notare che la mia coscienza si insinuava per un sentiero che, attraversando il Crepuscolo, arrivava ai suoi pensieri.

Gioia. Entusiasmo. Esultanza. L'ho trovato. La preda. Mi daranno una parte della forza della preda. Mi apprezzeranno. Mi daranno un grado più alto. Gloria. Regolare i conti. Non mi hanno apprezzato. Capiranno. Pagheranno.

Continuavo ad aspettare che almeno in un angolino della sua coscienza si risvegliassero anche altri pensieri. Il fatto che ero un nemico, che combattevo le Tenebre. Che avevo ucciso i suoi compagni.

No. Niente. Pensava soltanto a se stesso.

Prima che il giovane mago mettesse goffamente in azione i suoi tentacoli, utilizzai i miei. Ecco.

Non aveva grandi poteri, e non sarebbe riuscito a collegarsi con la Guardia del Giorno dalla metropolitana. E non ci avrebbe nemmeno provato. Per lui ero una bestia braccata, e nemmeno una bestia pericolosa: un coniglio, e non un lupo.

Coraggio, amico.

Uscii dal metrò. Scivolai di lato rispetto alla porta e cercai la mia ombra. Una sagoma incerta oscillava sul terreno e io vi entrai.

Crepuscolo.

I passanti si tramutarono in una nebbiolina spettrale, le macchine cominciarono a muoversi lente come tartarughe, la luce dei lampioni si oscurò e divenne soffocante, pesante. Silenzio. I rumori si erano trasformati in brusio sordo, appena percettibile.

Io però cercavo di muovermi in fretta, finché il mago non mi avesse raggiunto in superficie… Ma sentivo una forza che mi riempiva fino all'ultima fibra. Probabilmente era opera di Ol'ga. Sotto il mio aspetto aveva riacquistato gli antichi poteri e aveva riempito il mio corpo di energia che poi non aveva utilizzato. Era un pensiero che non doveva esserle nemmeno balenato nella mente, nonostante tutte le sue arti.

«Lo capirai da sola dov'è il confine» avevo detto a Svetlana. Ol'ga quel confine lo conosceva da millenni, e molto meglio di me.

Avanzai lungo il muro, poi provai a controllare attraverso il cemento l'interno della stazione, e il nastro della scala mobile. La macchia nera saliva. E abbastanza velocemente: il mago aveva fretta, correva su per i gradini, ma non si era ancora deciso a uscire dal mondo degli uomini. Risparmiava le forze. Su, su. muoviti.

Poi mi bloccai.

Scivolando un poco al di sopra del terreno veniva verso di me una piccola nuvola turbinante, un grumo di nebbia, che andava assumendo le fattezze di un essere umano.

Un Altro. Un ex Altro.

Forse era dei nostri. O forse no. Anche le Forze delle Tenebre, dopo la morte, raggiungono come noi un altro luogo. Adesso comunque era solo una piccola nuvola nebbiosa e sfumata, eterna pellegrina del Crepuscolo.

— Pace a te, caduto — dissi. — Chiunque tu sia stato.

La sagoma vacillante mi si fermò proprio davanti. Ne uscì una lingua di nebbia che si protese verso di me.

Che cosa voleva? I casi in cui gli abitanti del Crepuscolo avevano cercato di entrare in comunicazione con i vivi erano assai rari!

La mano — se si poteva considerare una mano — tremava. I filamenti di nebbia biancastra si spezzavano, dissolvendosi nell'oscurità o perdendosi nel terreno.

— Ho pochissimo tempo — dissi. — Caduto, chiunque tu sia stato nella vita, Tenebre o Luce, pace a te. Che cosa vuoi da me?

Poi fu come se una folata di vento dissipasse quella massa di nebbia bianca. Lo spettro si voltò, la mano tesa — ora non avevo più dubbi: si trattava davvero di una mano — indicò, attraverso l'oscurità, un punto a nord-ovest. Guardai in quella direzione: indicava una sagoma sottile e appuntita che baluginava contro il cielo.

— Sì, ho capito, la torre! Ma che cosa significa?

La nebbia cominciò a dissolversi. Ancora un istante e l'oscurità attorno a me ritornò assolutamente vuota.

Mi sentii attraversare da un tremito. Il morto aveva cercato di comunicarmi qualcosa. Era un amico o un nemico? Mi voleva dare un consiglio o voleva mettermi in guardia?

Non era più possibile capirlo.

Guardai attraverso le pareti della stazione, poi attraverso la terra. Il mio nemico era quasi arrivato in cima, ma era ancora sulla scala mobile. Dunque, proviamo a capire che cosa voleva lo spettro… Non prendevo in considerazione la possibilità di raggiungere la torre, avevo in mente un altro percorso, rischioso, ma del tutto imprevedibile. Perciò non aveva senso che volesse distogliermi dalla torre di Ostankino.

Un'indicazione? Ma da parte di chi? Amico o nemico? Ecco la questione fondamentale. Non è il caso di sperare che oltre il confine della vita le differenze siano cancellate, i nostri morti non ci lasciano nella battaglia.

Dovevo decidere io. E l'avrei fatto, ma non proprio in quel momento.

Corsi verso l'uscita della metropolitana, afferrando nel frattempo la pistola che tenevo nella fondina sotto l'ascella.

Appena in tempo: il mago delle Tenebre apparve alle porte e subito scivolò nel Crepuscolo. Subito mi accorsi che cosa gli aveva dato quella possibilità. Tempeste nelle aure dei passanti, scintille oscure che volavano in tutte le direzioni.

Se mi fossi trovato nel mondo degli umani, avrei visto come si deformavano le loro facce: per un'improvvisa fitta al cuore, o per un infarto, che è molto peggio.

Il mago delle Tenebre si guardò intorno, cercando la mia traccia. Era capace di assorbire l'energia altrui, ma dal punto di vista della tecnica era decisamente scarso.

— Zitto — dissi, premendogli la pistola contro la colonna vertebrale. — Zitto. Mi hai già trovato. Bisogna vedere se ti fa poi così piacere…

Gli stringevo il polso, per impedirgli di muovere le mani. Tutti questi giovani maghi sfacciatelli, infatti, usano un assortimento standard di incantesimi, di solito i più semplici e potenti, che però richiedono il lavoro coordinato di tutte e due le mani.

Il suo palmo era bagnato.

— Andiamo — dissi. — Dobbiamo parlare un po'.

— Tu, tu… — Non riusciva assolutamente a credere a quello che stava accadendo. — Tu sei Anton! Sei un fuorilegge!

— Ammettiamolo anche. Ma adesso pensi che ti servirà?

Voltò la testa dalla mia parte: nel Crepuscolo il suo viso si era alterato, e aveva perso quella patina di bonaria simpatia. No, non aveva ancora assunto il suo definito volto crepuscolare, a differenza di Zavulon. E tuttavia non era già più umano. Aveva la mascella troppo tirata, la bocca larga come quella di una rana, gli occhi piccoli e torbidi.

— Sei proprio un mostro, amico. — Gli spinsi un'altra volta la pistola contro la schiena. — Questa è una pistola. È caricata con pallottole d'argento, anche se non sempre è necessario. Nel Crepuscolo funziona bene come nel mondo umano; forse è un po' più lenta, ma non meno micidiale. Anzi, sentirai meglio come la pallottola lacera la pelle, scivola tra le fibre dei muscoli, frantuma le ossa, strappa i nervi.

— Non farai una cosa simile!

— Perché?

— Da questo non potresti ripulirti mai più!

— Davvero? Vuoi dire che ho ancora qualche possibilità? Sai, ho sempre più voglia di premere il grilletto. Andiamo, vigliacco.

Aiutandolo a muoversi con qualche spintone, lo condussi in uno stretto passaggio tra due bancarelle. Il muschio azzurrastro cresciuto in abbondanza sulle loro pareti cominciò a vibrare. Nella Zona Oscura la flora desidera ardentemente provare le nostre emozioni: la mia rabbia, la sua paura. E nello stesso tempo, anche se priva di cervello. è comunque sufficientemente dotata di istinto di conservazione.

Qualità che non mancava neppure al mago delle Tenebre, anzi.

— Senti, ma che cosa vuoi da me? — cominciò a gridare. — Ci hanno dato le tue caratteristiche e ci hanno ordinato di trovarti! Non ho fatto altro che eseguire un ordine! Io rispetto il Patto, agente della Guardia!

— Non sono più un agente della Guardia. — Con uno strattone lo trascinai contro una parete, nel morbido abbraccio del muschio. Che si liberasse pure di un po' di paura, così sarebbe stato più facile parlare. — Chi guida la caccia?

— La Guardia del Giorno.

— E concretamente, chi?

— Il loro capo, non so come si chiama.

Probabilmente era la verità. Del resto, io lo sapevo come si chiamava.

— Ti hanno indirizzato proprio verso questa stazione della metropolitana?

Il mago delle Tenebre esitò.

— Parla. — Gli affondai la pistola nella pancia.

— Sì.

— Da solo?

— Sì.

— Menti. Del resto non ha importanza. Che cosa ti hanno ordinato di fare, dopo che mi avessi trovato?

— Tenerti d'occhio.

— Menti. E questa volta ha importanza. Pensaci e poi dammi la risposta giusta.

Il mago taceva: evidentemente il muschio aveva agito anche troppo.

Tirai il grilletto, e la pallottola superò la breve distanza che ci divideva fischiando allegramente. Il mago ebbe perfino il tempo di vederla: gli occhi gli si dilatarono, ritrovando una forma più umana, e lui scattò di lato, ma ormai troppo tardi.

— Per ora sei solo ferito — dissi. — E neanche mortalmente.

Era caduto a terra e si contorceva premendosi la ferita sul ventre. Nell'oscurità il suo sangue sembrava quasi trasparente. Poteva essere un'illusione, o forse anche una caratteristica particolare di quel mago.

— Rispondi alla domanda!

Agitando una mano, incendiai il muschio attorno a noi. Basta, adesso giocheremo sulla paura, sul dolore, sulla disperazione. Basta pietà, basta comprensione, basta discorsi.

Solo le Tenebre.

— Mi hanno ordinato di comunicarlo e se possibile di eliminarti.

— Non di trattenermi? Proprio di eliminarmi?

— Sì.

— Risposta accettata. Mezzo di comunicazione?

— Il telefono, solo il telefono.

— Dammelo.

— In tasca.

— Lanciamelo.

Con una mano raggiunse goffamente la tasca. La ferita non era mortale, e la sua riserva di resistenza ancora alta, ma il dolore era atroce.

Come giustamente si meritava.

— Il numero? — chiesi, afferrando il telefonino.

— È il tasto delle chiamate urgenti. Guardai il display.

Già dalle prime cifre capii che quel numero poteva essere ovunque: era quello di un altro cellulare.

— È il quartier generale? Dove si trova?

— Non… — Si interruppe e fissò la pistola.

— Ricordatelo — lo incoraggiai.

— Mi hanno detto che sarebbero arrivati nel giro di cinque minuti.

Benissimo!

Guardai dietro di me il grande ago infuocato che si stagliava contro il cielo. Corrispondeva perfettamente, proprio perfettamente.

Il mago si mosse.

No, non era stata una provocazione quel momento di assenza. Ma quando prese dalla tasca una bacchetta — rozza, corta, chiaramente non costruita da lui, ma comprata a poco prezzo — provai un senso di sollievo.

— Allora? — gli chiesi, vedendolo bloccato, ancora non deciso ad alzare la sua arma. — Forza!

Il ragazzo taceva, immobile.

Se avesse provato ad attaccarmi, gli avrei scaricato addosso tutto il caricatore. Sarebbe stato inevitabile. Ma probabilmente gli avevano insegnato come comportarsi in caso di conflitto con le Forze della Luce. E aveva capito che mi sarebbe stato difficile uccidere un nemico disarmato e indifeso.

— Resisti — lo incitai. — Lotta! Figlio d'un cane, non hai avuto paura di distruggere la vita degli altri, quando attaccavi chi non si poteva difendere! Allora? Forza!

Il mago si umettò le labbra: aveva la lingua lunga, leggermente biforcuta. Improvvisamente capii quale sarebbe stato prima o poi il suo aspetto nel Crepuscolo e fui invaso da un senso di ripugnanza.

— Mi consegno alla tua pietà, Guardiano. Chiedo indulgenza e il giudizio.

— Basterebbe che mi allontanassi di un passo — dissi — o che tu riuscissi a prendere un po' di forza da qualcuno, e ti precipiteresti a telefonare. Prova a negarlo… lo sappiamo tutti e due.

Il mago delle Tenebre sorrise e ripeté: — Chiedo indulgenza e il giudizio, Guardiano!

Mi dondolavo la pistola tra le dita, mentre guardavo il suo volto sogghignante. Sono sempre pronti a chiedere. Mai a dare.

— Mi è sempre stato così difficile capire la nostra doppia morale — dissi. — È così penoso e sgradevole. Si impara solo col tempo, e adesso di tempo ne ho così poco! Quando bisogna inventarsi delle giustificazioni. Quando non si possono difendere tutti. Quando sai che in un certo reparto ogni giorno si firmano delle licenze per persone da consegnare alle Tenebre. È brutto, no?

Adesso non sorrideva più. Ripeté, come uno scongiuro: — Chiedo indulgenza e il giudizio. Guardiano!

— Non sono più un Guardiano — risposi.

La pistola con un sussulto cominciò a sparare, l'otturatore si mosse pigramente, sputando i bossoli. Le pallottole volavano nell'aria come un piccolo nugolo di vespe malefiche.

Il mago gridò solo una volta, poi due pallottole gli ridussero in frammenti il cranio. Quando la pistola si zittì con uno scatto, cominciai a ricaricarla lentamente, senza pensare a nulla.

Il corpo lacerato, distrutto, giaceva davanti a me. Aveva già cominciato a uscire dal Crepuscolo, e il ghigno delle Tenebre abbandonava a poco a poco la sua faccia da ragazzo.

Percorsi l'aria con la mano, nel tentativo di catturare qualcosa di inafferrabile che stava attraversando lo spazio. Lo strato più superficiale. Il calco del volto del mago delle Tenebre.

L'indomani l'avrebbero ritrovato. Un giovanotto buono, sano, amato da tutti. Ucciso bestialmente. Quanto Male avevo introdotto nel mondo con quel delitto? Quante lacrime, quanta durezza, quanto odio cieco? Che conseguenze avrebbe avuto nel futuro?

Ma quanto Male avevo eliminato? Quanti uomini sarebbero vissuti più a lungo e più felicemente? Quante lacrime risparmiate, quanta cattiveria, quanto odio eliminati prima ancora di nascere?

Forse in quel momento avevo superato la barriera che non si può superare.

Forse adesso capivo il confine successivo, che è necessario oltrepassare.

Rimisi la pistola nella fondina e uscii dal Crepuscolo.

La torre di Ostankino trapanava il cielo con la sua punta.

— Allora giochiamo senza regole — dissi. — Ma proprio senza.

Riuscii a fermare una macchina subito, senza nemmeno bisogno di suscitare nel guidatore un attacco di altruismo. Forse perché adesso indossavo la maschera del mago delle Tenebre morto, una maschera molto affascinante…

— Alla torre della televisione — dissi, ficcandomi in un'utilitaria dall'aria malconcia. — E il più in fretta possibile, prima che chiudano l'ingresso.

— Andiamo a divertirci? — chiese sorridendo l'uomo al volante, un tipo magro, con gli occhiali, dall'aria simpatica.

— Non puoi sapere quanto — risposi. — Non puoi sapere quanto.

Capitolo 5

Nella torre l'ingresso era ancora aperto. Comprai il biglietto, compreso l'accesso al ristorante, e attraversai il prato verde che circondava la torre. Per gli ultimi cinquanta metri la stradina era protetta da una sottile tettoia. Mi sarebbe piaciuto sapere a che scopo era stata allestita… Forse dalla vecchia costruzione si staccavano frammenti di cemento?

La tettoia terminava davanti alla garitta del punto di controllo. Presentai il passaporto, passai attraverso il metal detector, peraltro fuori servizio. Fine delle formalità, e di tutte le difese dell'importante obiettivo strategico.

Adesso cominciavano ad assalirmi i dubbi. A ben vedere l'idea di raggiungere quel luogo era decisamente strana. Non sentivo nelle vicinanze nessuna particolare concentrazione di Forze delle Tenebre. Se erano davvero lì, dovevano essersi nascosti molto bene, il che significava che mi sarei trovato alle prese con maghi di secondo-terzo livello. Una missione suicida, in pratica.

Il quartier generale. Il quartier generale operativo della Guardia del Giorno, schierato al gran completo per il coordinamento delle operazioni della caccia all'obiettivo numero uno. Cioè a me. Quale altro luogo sarebbe stato più appropriato per comunicare l'avvenuta eliminazione di un inesperto mago delle Tenebre?

Ma intrufolarmi nello stato maggiore, dove sedevano almeno una decina di maghi delle Tenebre, e tra i più esperti, non mi pareva una buona idea. Andare a infilare la testa nel cappio da solo… era una sciocchezza, e non una prova di eroismo, se avevo ancora qualche possibilità di cavarmela. E speravo moltissimo di avercela.

Dal basso, da sotto i petali di cemento dei piloni, la torre della televisione risultava molto più impressionante che da lontano. Anche se probabilmente la maggior parte dei moscoviti non era mai salita neppure una volta fino alla piattaforma panoramica, considerando la torre un'imprescindibile caratteristica dell'orizzonte moscovita, utile e simbolica, ma non un luogo di ricreazione. Qui, come in un tubo aerodinamico di bizzarra costruzione, soffiava il vento, e con l'ultima propaggine dell'udito si riusciva a cogliere un suono appena percepibile: la voce della torre.

Rimasi fermo lì sotto, guardando in alto, le griglie e i varchi, il cemento traforato, e la silhouette della torre, flessibile e incredibilmente aggraziata. Perché la torre è davvero flessibile: dischi di cemento appoggiati a cavi in tensione. Tutta la forza è nella flessibilità. Solo nella flessibilità.

Poi varcai le porte a vetri.

Che strano: ero convinto che di gente desiderosa di contemplare ii panorama di Mosca di notte dall'altezza di trecentotrenta metri ce ne fosse un sacco. E invece no. Il viaggio in ascensore lo feci da solo, o meglio, da solo con l'addetta di turno.

— Pensavo che ci fosse molta gente qui — osservai con un sorriso cordiale. — È sempre così la sera?

— No, di solito c'è una bella confusione. — La donna aveva parlato senza manifestare stupore, ma nella sua voce riuscii a cogliere una nota di sconcerto. Poi schiacciò un pulsante e le doppie porte cominciarono a richiudersi. All'istante mi si tapparono le orecchie e mi sentii schiacciare contro il pavimento: la cabina si era lanciata verso l'alto, dolcemente, ma anche molto velocemente. — Saranno un paio d'ore che il flusso si è bloccato.

Un paio d'ore.

Subito dopo la mia fuga dal ristorante.

Se in quel momento in cima alla torre era davvero riunito il quartier generale, niente di strano che centinaia di persone, che in quella bella serata primaverile, limpida e calda, avevano pensato di raggiungere il ristorante sopra le nuvole, avessero improvvisamente cambiato idea. Certo, gli umani non erano in grado di vedere certe cose, ma le percepivano lo stesso.

E, per quanto non coinvolti negli avvenimenti in corso, avevano comunque abbastanza buon senso per non avvicinarsi troppo alle Forze delle Tenebre.

Naturalmente avevo assunto l'aspetto del mago delle Tenebre. La questione fondamentale, adesso, era capire se quel mascheramento fosse sufficiente. Gli incaricati della sicurezza avrebbero confrontato le mie caratteristiche con l'elenco che avevano in memoria, avrebbero trovato il riscontro previsto, e avrebbero percepito la presenza della forza.

E se avessero provato a scavare un po' più in profondità? Se avessero provato a verificare il profilo della forza, a chiarire se si trattava di Luce o di Tenebre, e di quale grado?

Avevo più o meno cinquanta possibilità su cento. Da una parte quella era la procedura prevista. Dall'altra sempre e dovunque gli addetti trascurano i controlli del genere. Magari chi era in servizio quella sera li trovava terribilmente noiosi, o al contrario era stato appena assunto ed era ancora pieno di zelo.

Alla fine il cinquanta per cento di possibilità era una percentuale molto favorevole rispetto a quella che avevo di non farmi trovare dai Guardiani del Giorno per le strade della città.

L'ascensore si fermò. Non riuscii neppure a fermare il flusso dei miei pensieri: in tutto la salita non era durata più di venti secondi. Ci fossero stati ascensori così nei nostri palazzoni!

— Eccoci arrivati — annunciò la donna in tono quasi allegro. Un po' come se fossi stato l'ultimo visitatore della torre di Ostankino, per quella sera.

Uscii sulla piattaforma panoramica.

Di solito lì c'era un sacco di gente. Ed era facile distinguere subito chi era appena arrivato da chi invece c'era già da un po': per l'incertezza dei movimenti, la comica cautela nell'avvicinarsi alla finestra circolare, e per quel gironzolare attorno agli oblò di vetro blindato, saggiando timorosamente con la punta del piede la loro effettiva robustezza.

A occhio e croce i visitatori dovevano essere una ventina. Non c'erano bambini, mentre io chissà perché mi ero già chiaramente immaginato le loro scene isteriche appena saliti sulla torre, e il nervosismo e il disorientamento dei genitori. I bambini infatti sono più sensibili alla presenza delle Tenebre.

Anche gli adulti che erano sulla piattaforma, comunque, avevano l'aria distratta e oppressa. Non li rallegrava neppure lo spettacolo della città spalancata sotto di loro, colorata di luci, brillante, festosa come sempre. Adesso nessuno sembrava apprezzarlo. Il respiro delle Tenebre riempiva l'aria, invisibile ma presente, soffocante come un gas velenoso anche se insapore, inodore e incolore.

Guardai ai miei piedi, trovai la mia ombra e vi entrai. Uno degli addetti alla sorveglianza era a due passi da me, su uno degli oblò di vetro che costellavano il pavimento. Mi fissava con aria amichevole, ma anche un po' stupita. Nel Crepuscolo si muoveva con una certa difficoltà, e capii che il quartier generale non aveva selezionato per la sorveglianza i suoi elementi migliori. Quel ragazzo robusto, giovane, con un severo vestito grigio e una cravatta discreta sulla camicia bianca, aveva più l'aria di un impiegato di banca che di un agente delle Tenebre.

— Ciao, Anton — mi salutò gentilmente.

Per un istante il sangue mi si gelò nelle vene.

Possibile che fossi così stupido? Così mostruosamente, intollerabilmente ingenuo?

E che mi avessero aspettato, e allettato, gettando sul piatto della bilancia l'ennesima pedina, e coinvolgendo addirittura — chissà come — anche lo spettro che mi era venuto incontro all'uscita della metropolitana?

— Come mai sei qui?

Il sangue d'un tratto riprese a scorrere. C'era una spiegazione più semplice, molto più semplice.

Il mago delle Tenebre che avevo eliminato era un mio omonimo.

— Ho notato qualcosa. Devo consultarmi.

Il sorvegliante si accigliò. Forse non gli avevo parlato nel modo giusto. Però non aveva ancora capito.

— Anton, identificati. Altrimenti non ti lascio passare, lo sai anche tu.

— Devi lasciarmi passare, invece — abbaiai, sperando di azzeccarla. Nella nostra Guardia chiunque sia a conoscenza della dislocazione del quartier generale può accedervi direttamente.

— E perché mai? — Sorrideva, ma la sua mano destra aveva già cominciato ad abbassarsi.

La bacchetta magica che aveva alla cintura era carica al massimo. Una bacchetta di osso, ricavata con un lavoro molto attento da una tibia, con un piccolo cristallo scintillante in cima. Anche se l'avessi evitata e mi fossi nascosto, una simile manifestazione della forza avrebbe messo in allarme tutti gli Altri nelle vicinanze.

Sollevai la mia ombra dal pavimento ed entrai nel secondo strato del Crepuscolo.

Freddo.

Mulinelli di nebbia, o più probabilmente nuvole. Nuvole umide, pesanti, in volo sopra la terra. La torre di Ostankino lì non c'era più, era scomparsa anche l'ultima parvenza del mondo umano. Feci un passo avanti, sulla bambagia di nuvola, sulle gocce turgide, lungo un sentiero invisibile. Il tempo rallentò la sua corsa: in effetti stavo cadendo, ma così lentamente che per il momento non me ne preoccupai. In alto nel cielo, visibili come macchie incerte attraverso la cortina di nubi, splendevano tre lune, una bianca, una gialla e una purpureo-sanguigna. Davanti a loro nacque, si gonfiò e si armò di cariche appuntite un fulmine, che poi scivolò attraverso le nuvole, disegnando un fiammeggiante canale ramificato.

Mi avvicinai all'ombra dai contorni vaghi che con esasperante lentezza stava portando la mano alla cintura per prendere la bacchetta. Afferrai la mano: era pesante, inerte, fredda come ghiaccio. Non sarei riuscito a trattenerla. Dovevo tornare indietro, nel primo strato del Crepuscolo, e accettare lo scontro. Con scarse probabilità di vittoria.

"Luce e Tenebre, io non sono un operativo! Non ho mai cercato di lasciare la mia postazione di retroguardia! Lasciatemi al lavoro che amo e che so fare!"

Ma sia la Luce che le Tenebre rimasero in silenzio, come fanno sempre quando provi a chiamarle. E solo quella vocina un po' ironica che risuona talvolta in fondo all'anima sussurrò: "Nessuno ti ha mai promesso un lavoro pulito."

Mi guardai i piedi. Ero già una decina di centimetri più in basso del mago delle Tenebre. Cadevo, privo ormai di qualsiasi appiglio in questa realtà, dove non esisteva più la torre della televisione, e neppure nulla che le somigliasse, perché non c'erano né rocce così sottili né alberi così alti.

Come avrei voluto avere le mani pulite, il cuore ardente e la mente fredda. Ma chissà perché questi tre fattori non possono mai trovarsi tutti insieme. Mai. Come il lupo, la capra e il cavolo… dov'è il traghettatore folle disposto a trasportarli sulla stessa barca?

E dov'è il lupo che, dopo essersi mangiato la capra, non vorrà assaggiare il barcaiolo?

— Dio lo sa — dissi. La mia voce si perse tra le nuvole. Abbassai una mano, afferrando l'ombra del mago delle Tenebre: uno straccio floscio, steso nello spazio. Trascinai l'ombra in alto, mi gettai sul corpo e lo spinsi nel secondo livello del Crepuscolo.

Il mago gridò, quando il mondo che lo circondava perse qualsiasi contorno di certezza. Probabilmente non gli era mai capitato di immergersi oltre il primo strato. L'energia per quell'escursione la stavo spendendo io, ma anche lui provava quelle sensazioni per la prima volta.

Appoggiandomi sulle sue spalle, lo spinsi ancora più giù. Io invece cominciai a risalire, puntando i piedi sulla sua schiena.

I grandi maghi si alzano sempre sulle spalle altrui. — Bastar… do! Anton, bastardo!

Il mago delle Tenebre non aveva ancora capito chi ero. E non lo capì fino a quando non si girò, dalla posizione supina in cui era finito servendomi da appoggio, e vide la mia faccia. Qui, nel secondo strato del Crepuscolo, il mio sommario mascheramento non funzionava più. I suoi occhi si dilatarono, e lui fece prima un breve verso rauco, e poi lanciò un grido, aggrappandosi al mio piede.

Però non aveva ancora capito che cosa stessi facendo e perché lo facessi.

Lo colpii diverse volte di seguito, picchiandolo con i tacchi sulle mani e sulla faccia. Non sono colpi molto gravi per un Altro, ma non intendevo fargli fisicamente del male. "Più giù, più giù, cadi, muoviti, attraverso tutti gli strati della realtà, attraverso il mondo degli umani e il Crepuscolo, attraverso il mobile tessuto degli spazi. Non avevo il tempo e nemmeno i poteri per sfidarti in un vero e proprio duello, nel rispetto di tutte le leggi delle Guardie, secondo le regole pensate per i giovani maghi della Luce, con la loro fede nel Bene e nel Male, nell'infallibilità dei dogmi, nell'inesorabilità della ricompensa."

E quando mi parve di avere spinto il mago delle Tenebre abbastanza giù, mi sollevai con un'ultima spinta dal suo corpo, con un balzo superai lo strato di freddo umido e di nebbia, e abbandonai il Crepuscolo.

Subito nel mondo degli umani. Subito sulla piattaforma panoramica.

Mi ritrovai accoccolato su uno degli oblò, ansimante, scosso da una tosse improvvisa, bagnato dalla testa ai piedi. La pioggia del mondo degli Altri sapeva di ammoniaca e di bruciato.

Tutto intorno si levò un leggero respiro, i più vicini fecero un passo indietro, nel tentativo di allontanarsi un po'.

— Va tutto bene! — li rassicurai con voce rauca. — Mi sentite?

I loro occhi non sembravano affatto convinti. L'uomo in uniforme in piedi contro il muro, un agente addetto alla sicurezza della torre, con espressione impietrita sfilò la pistola dalla fondina.

— È per il vostro bene — continuai, inciampando in un nuovo accesso di tosse. — Mi avete capito?

Lasciai che la forza si liberasse ed entrasse in contatto con le loro menti. Le facce tutto intorno a me cominciarono a distendersi, a rasserenarsi. I presenti lentamente si voltarono e ripresero a osservare dalle finestre. L'agente rimase immobile, con la mano appoggiata sulla fondina.

Solo allora mi permisi di guardare sotto di me. E rimasi paralizzato.

Il mago delle Tenebre era lì. Gridava, con gli occhi trasformati in medaglioni neri, colmi di dolore e di paura. Era attaccato sotto l'oblò, penzolava nel vuoto, appeso alla punta delle dita aggrappate al vetro, e dondolava come un pendolo a ogni folata di vento, con le maniche della camicia inzuppate di sangue. La bacchetta magica era ancora al suo posto: doveva essersela dimenticata. Adesso per lui esistevo solo io, dall'altra parte del vetro superblindato, nel guscio asciutto, caldo e luminoso della piattaforma panoramica, dall'altra parte del Bene e del Male. Io, il mago della Luce seduto sopra di lui, che adesso fissavo i suoi occhi folli di dolore e di paura.

— Cosa pensavi, che combattessimo sempre onestamente? — gli chiesi. Non so perché, ma ebbi l'impressione che mi sentisse, anche attraverso il vetro e l'urlo del vento. Mi alzai e cominciai a battere coi tacchi sul vetro. Una volta, un'altra, un'altra ancora… non mi importava se il colpo non arrivava alle dita aggrappate al vetro.

Il mago delle Tenebre ebbe un sussulto, e spostò di scatto la mano per sottrarla al tacco che la minacciava: un gesto involontario, dettato dall'istinto più che dalla razionalità.

Per un istante il sangue coprì tutto l'oblò, ma subito una folata di vento lo spazzò via. Rimase solo la silhouette del mago delle Tenebre che si faceva sempre più piccola mentre roteava nel flusso di una corrente d'aria che lo trascinava verso I Tre Porcellini, un bar alla moda proprio sotto la torre.

L'orologio invisibile che ticchettava nella mia coscienza ebbe uno scatto e di colpo ridusse della metà il tempo a mia disposizione.

Mi spostai dall'oblò e lentamente feci il giro della piattaforma, guardando non la gente, che comunque si faceva da parte, ma il Crepuscolo. No, non si vedevano altri maghi di guardia. Dovevo solo decidere dove poteva essere il quartier generale. In cima, dove c'erano i locali di servizio della torre, in mezzo ai macchinari? Non mi sembrava molto probabile. Dovevano avere scelto una sede molto più confortevole.

All'imbocco della scala che portava giù, verso il ristorante, c'era un altro agente. Mi bastò uno sguardo per capire che era già stato suggestionato, e decisamente da poco. Per fortuna l'azione era stata molto superficiale.

E per fortuna, soprattutto, che avevano ritenuto necessario quell'intervento. Perché si trattava di un'arma a doppio taglio.

L'agente spalancò la bocca, preparandosi a gridare.

— Silenzio! Andare! — ordinai seccamente.

E lui mi seguì ubbidiente senza dire una parola.

Entrammo nella toilette, un'ulteriore piccola gratuita attrazione della torre, i servizi igienici più alti di Mosca, per chi vuole lasciare una sua traccia tra le nuvole. Mossi una mano nell'aria: da una cabina venne fuori, allacciandosi i pantaloni, un adolescente brufoloso; un uomo all'orinatoio grugnì, ma subito si allontanò e uscì dalla toilette con occhi spenti.

— Spogliati — ordinai all'agente e cominciai a sfilarmi la maglia bagnata.

La fondina non si chiudeva bene: quest'arma era molto più grossa della mia vecchia Makarov. Ma la cosa non mi preoccupava affatto. L'importante era che l'uniforme mi stesse quasi a pennello.

— Se senti degli spari — dissi all'agente — scendi da basso e fai il tuo dovere. Hai capito?

Lui annuì.

Recitai la formula di arruolamento. — Ti rivolgo alla Luce… Rinnega le Tenebre, difendi la Luce. Ti darò uno sguardo capace di distinguere il Bene dal Male. Ti darò la fede per seguire la Luce. Ti darò il coraggio per combattere le Tenebre.

Un tempo credevo che non sarei mai riuscito a utilizzare il diritto di arruolare volontari. Che libertà di scelta può esserci nel mezzo delle Tenebre? Come possiamo coinvolgere una persona nei nostri giochi, quando le stesse Guardie sono nate in contrapposizione a questa pratica?

Adesso avevo agito senza esitazioni. Avevo sfruttato la scappatoia che mi avevano lasciato le Forze delle Tenebre, che avevano ordinato all'agente di sorvegliare il loro quartier generale, così, per sicurezza, come si tiene talvolta in casa un cagnolino incapace di morsicare, ma in grado comunque di abbaiare. La loro azione mi dava il diritto di rivolgere l'agente nella direzione opposta, e di trascinarlo dalla mia parte. Perché lui non era né buono né cattivo, era un uomo comune, con una moglie che amava moderatamente, genitori anziani che si ricordava di aiutare, una figlia piccola e un figlio ormai quasi adulto nato da un primo matrimonio, una flebile fede in Dio, un certo numero di principi morali un po' pasticciati e qualche sogno standard… insomma, uno come tanti.

Un pezzo di carne da cannone tra l'esercito della Luce e quello delle Tenebre.

— La Luce sia con te — dissi. E il piccolo uomo insignificante assentì, con il volto splendente. Negli occhi gli brillava il fuoco dell'adorazione. Esattamente allo stesso modo qualche ora prima aveva guardato il mago delle Tenebre che gli aveva dato un ordine frettoloso e gli aveva mostrato la mia fotografia.

Un minuto dopo l'agente, con addosso i miei abiti bagnati e puzzolenti, era di guardia alla scala. Mentre io scendevo, cercando di capire che cosa avrei potuto fare se nel quartier generale avessi trovato Zavulon, o un altro mago del suo livello.

In quel caso i miei poteri non sarebbero bastati neppure con il nuovo mascheramento.

La Sala di Bronzo. Vi entrai e diedi una rapida occhiata a quell'assurdo "vagone-ristorante" circolare. Il grande anello su cui erano fissati i tavolini ruotava lentamente.

Non so perché pensavo che le Tenebre avessero scelto per il loro quartier generale la Sala d'Oro o quella d'Argento. E fui perfino un po' stupito dallo spettacolo che mi accolse.

I camerieri fluttuavano tra i tavoli come pesci intorpiditi, distribuendo bevande alcoliche che in quella sede sarebbero state proibite. Proprio di fronte a me, su due tavolini, erano disposti i terminali del computer, collegati a due telefoni cellulari. Non erano stati a cablare tutte le innumerevoli comunicazioni della torre, il che significava che la riunione del quartier generale non doveva durare a lungo. Tre ragazzi con i capelli lunghi lavoravano con grande concentrazione, le dita danzavano sulle tastiere, sugli schermi scorrevano le immagini, nei portacenere fumavano le sigarette. Non avevo mai visto i programmatori delle Tenebre, ma questi naturalmente erano semplici operatori, e non i responsabili del sistema. Ed erano assolutamente identici a un qualsiasi mago dei nostri, al lavoro nella nostra sede davanti al suo notebook collegato in rete. Forse avevano addirittura un'aria più rispettabile dei nostri, o almeno di qualcuno di loro.

— Sokol'niki è completamente coperta — disse uno dei ragazzi. Non aveva gridato, ma la sua voce era risuonata in tutta la sala e i camerieri avevano avuto un sussulto, incespicando leggermente.

— La linea Tagansko-Krasnopresnenskaja è sotto controllo — replicò un altro. I due si scambiarono un'occhiata e scoppiarono a ridere. Probabilmente stavano facendo una specie di gara: chi riepilogava più velocemente la situazione dei suoi distretti.

"Provate un po' a prendermi, allora!"

Avanzai un poco nella sala, dirigendomi verso il bar. "Non fate troppo caso a me. Sono un insignificante agente, uno di quelli che avete sbrigativamente destinato al ruolo di cane da guardia. Ecco, adesso l'agente ha voglia di farsi una birra: un caso di totale evaporazione del senso di responsabilità? O forse ha deciso di verificare personalmente la sicurezza dei suoi nuovi padroni? Il più zelante servitore agli ordini del re. Taram-pam-pam, tara-rara-rara-ra…"

Al banco della birra una donna di mezza età lavava i boccali con gesti meccanici. Quando mi fermai davanti a lei, cominciò a versarmi una birra in silenzio. I suoi occhi erano vuoti e opachi, si era trasformata in una marionetta, e fu con molta fatica che riuscii a reprimere un breve, ma accecante scoppio di rabbia. Non si poteva. Non avevo diritto alle emozioni. Ero anch'io un automa. E gli automi non hanno sentimenti.

E poi vidi la ragazza seduta su un alto sgabello girevole di fronte al bar, e di nuovo mi sentii mancare.

Come avevo fatto a non pensarci?

Tutti i quartier generali operativi devono essere dichiarati alla Guardia avversaria. E in tutti viene inviato un osservatore. Fa parte del Patto, è una di quelle regole del gioco vantaggiose — almeno apparentemente — per entrambe le parti. Anche nel nostro quartier generale, quando viene convocato, è presente un rappresentante delle Tenebre.

Qui per noi c'era Tigrotto.

All'inizio lo sguardo della ragazza mi scivolò addosso senza curiosità, e stavo già per rallegrarmi per lo scampato pericolo, quando i suoi occhi si bloccarono improvvisamente.

Aveva già visto l'agente di guardia di cui avevo preso le sembianze. E qualcosa evidentemente non corrispondeva alle caratteristiche registrate dalla sua memoria. Un segnale di allarme. Un attimo… e mi stava già esaminando attraverso il Crepuscolo.

Rimasi lì fermo, senza cercare di nascondermi.

La ragazza distolse lo sguardo, e fissò il mago seduto di fronte a lei. Un mago tutt'altro che debole: valutai la sua età all'incirca sul secolo, e come livello di forza doveva essere almeno al terzo. Tutt'altro che debole, ma molto soddisfatto di sé.

— Comunque le vostre iniziative si configurano come una provocazione — disse la ragazza con voce piatta. — I Guardiani del Giorno sono sicuri che il Selvaggio non sia Anton.

— E chi è allora?

— Un mago della Luce non iniziato e a noi sconosciuto. Controllato dalle Forze delle Tenebre.

— E perché, bambina? — Il mago appariva sinceramente meravigliato. — Spiegamelo, te ne prego. Perché mai dovremmo fare fuori i nostri, ammettendo anche che si tratti dei meno preziosi?

— «I meno preziosi» è l'espressione chiave — osservò malinconicamente Tigrotto.

— Se però avessimo avuto la possibilità di eliminare il capo delle Forze della Luce di Mosca. Ma lui, come al solito, è fuori discussione. E sacrificare una ventina dei nostri per un unico mago della Luce di media forza non mi sembra un discorso da prendere in considerazione. O ci consideri tutti degli stupidi?

— Io vi considero molto intelligenti. Decisamente più intelligenti di me. — Tigrotto sorrise senza nessuna cordialità. — Ma io sono solo un elemento operativo. Le conclusioni le tireranno gli altri, e loro sapranno farlo, non ne dubiti…

— Ma se noi non pretendiamo neppure l'immediata esecuzione! — Il mago delle Tenebre sorrise. — Perfino adesso non escludiamo la possibilità di un nostro errore. Il Tribunale, un'indagine qualificata e imparziale, un giudizio equo, ecco quello che vogliamo!

— Non le pare anche un po' strano che il suo capo, utilizzando la Frusta di Saab, non sia riuscito a catturare Anton? — La ragazza picchiettò col dito sul boccale di birra semivuoto. — Io direi che è molto strano. È la sua arma preferita, e la maneggia alla perfezione da qualche secolo. Sembra quasi che alla Guardia del Giorno il puro fatto della cattura di Anton non interessi poi tanto.

— Bambina cara — il mago delle Tenebre si curvò al di sopra del tavolino che li separava — sei decisamente incoerente! Non puoi accusarci prima perché perseguitiamo un mago della Luce innocente e rispettoso delle leggi, e poi perché non facciamo di tutto per catturarlo!

— E perché?

— È un piccolo caso di sadismo. — Il mago ridacchiò. — La nostra conversazione mi procura un sincero piacere: possibile che ci consideriate una banda di psicopatici assetati di sangue?

— No, vi consideriamo una banda di astuti mascalzoni.

— Proviamo a paragonare i nostri metodi! — Ebbi l'impressione che il mago delle Tenebre stesse per montare sul suo cavallo preferito. — Facciamo un confronto dei danni che le azioni delle Guardie arrecano agli umani, la nostra base alimentare.

— Ecco cosa sono per voi gli umani: mangime.

— E per voi? O adesso le Forze della Luce provengono dalla Luce e non vengono scelte tra la folla?

— Per noi gli umani sono radici. Le nostre radici.

— E chiamiamoli pure radici. Perché litigare per una semplice parola? Ma allora, bambina, sono anche le nostre. E ci mandano sempre nuova linfa, non te lo nascondo, non è un segreto.

— Anche noi non diminuiamo. E neppure questo è un segreto.

— Naturalmente. Tempi difficili, stress, superlavoro, gli umani vivono al limite, e dal limite è facile cadere. Almeno su questo punto siamo arrivati alla stessa conclusione! — Il mago ridacchiò di nuovo.

— Lo ammetto — convenne Tigrotto. Non guardò più dalla mia parte, e la conversazione passò ad altri temi, quelli delle eterne, irrisolvibili controversie che hanno impegnato per secoli i filosofi di entrambe le parti, certo troppo in alto per due maghi un po' annoiati, uno della Luce e uno delle Tenebre. Capii che Tigrotto mi aveva già comunicato tutto quello che dovevo sapere.

O forse tutto quello che riteneva possibile dire.

Presi il boccale di birra che la donna mi aveva messo davanti. Lo bevvi a sorsi misurati, ma profondi. Avevo davvero sete.

La caccia era una finta?

Sì. Anche questo lo avevo già capito da un po'. L'importante era scoprire se anche i nostri lo avevano capito.

Il Selvaggio non era ancora stato preso?

Naturalmente. Altrimenti si sarebbero già messi in contatto con me. Per telefono o mentalmente, per il Capo non era certo un problema. L'assassino sarebbe stato consegnato al Tribunale, Svetlana non si sarebbe lacerata tra il desiderio di aiutarmi e la necessità di non immischiarsi nella lotta, e io avrei potuto ridere in faccia a Zavulon.

Ma come, come si fa a trovare in un'immensa città un umano i cui poteri si manifestano spontaneamente? Divampano e poi si spengono. Da un omicidio all'altro, da un'inutile vittoria sul Male all'altra. Se davvero le Tenebre lo avevano identificato era un segreto riservato al livello più alto della gerarchia.

E non certo alla portata dei maghi che mi circondavano, impegnati in un gioco molto futile.

Mi guardai intorno con un senso di disgusto.

Non c'era niente di serio!

L'agente che avevo eliminato con tanta facilità. Il mago di terzo grado che punzecchiava divertito la nostra osservatrice senza mai guardarsi intorno. Quei ragazzotti ai terminali che gridavano con entusiasmo: — Cvetnoj Boulevard… verificato!

— Poležaevskaja… sotto controllo!

Sì, era un quartier generale. Ma assurdo e sgangherato come i maghi inesperti che avevano cercato di catturarmi prima, in città. Certo, la rete era stata lanciata, ma nessuno si era preoccupato della quantità di buchi che aveva. Più mi agitavo per sfuggirle, più mi dibattevo, meglio era per le Tenebre. In linea generale, naturalmente. Svetlana non avrebbe resistito. Avrebbe perso il controllo. E avrebbe cercato di aiutarmi, sentendo nascere in sé la forza autentica. Nessuno dei nostri sarebbe riuscito ad arginarla. E avrebbero eliminato anche lei.

— Volgogradskij Prospekt.

Ma se avrei potuto sgozzarli tutti, o sparargli, anche adesso! Tutti, fino all'ultimo! Erano gli scarti delle Tenebre, i falliti, quelli che non avevano più futuro, o che avevano troppi difetti. Per le Tenebre non erano solo un peso morto, ma molto peggio, perché disturbavano le loro attività ed erano sempre in mezzo ai piedi. La Guardia del Giorno non è un ospizio, a differenza della Guardia della Notte. che certe volte lo ricorda un po'. La Guardia del Giorno si libera degli elementi superflui, e per di più generalmente per il nostro intervento. Guadagnandosi così una posizione di vantaggio, grazie al conseguente diritto a iniziative volte a ristabilire l'equilibrio.

Anche quella figura spettrale che mi aveva indicato la torre di Ostankino era una creatura delle Tenebre. Una cautela quasi eccessiva, nel caso non avessi capito dove dovevo recarmi.

Mentre le vere azioni vengono coordinate dal solo e unico Altro.

Zavulon.

Che non nutre nessun risentimento nei miei confronti, naturalmente. Che senso avrebbero emozioni così complesse e pericolose in un esercito serio? Lui i maghi come me li mangia a colazione, li prende dalla scacchiera e li sostituisce con le sue pedine.

Quando deciderà che la partita è finita, che si può allestire il gran finale?

— Non avrebbe da accendere? — chiesi, posando il boccale e afferrando un pacchetto di sigarette abbandonato sul banco. Evidentemente l'aveva dimenticato lì qualcuno, forse un cliente del ristorante fuggito in stato di incoscienza, o forse un mago delle Tenebre.

Gli occhi di Tigrotto avevano un luccichio forzato, evidentemente era tesa. Capii che stava per assumere l'aspetto da combattimento. Probabilmente anche lei aveva valutato le forze dell'avversario e aveva capito di avere buone probabilità di vittoria.

Ma non ce ne fu bisogno.

Il mago delle Tenebre, il vecchio mago di terzo livello, mi tese distrattamente un accendino. Il Ronson scattò melodiosamente, liberando la sua lingua fiammeggiante e il mago continuò: — Tutte le accuse che continuamente muovete alle Tenebre — di fare il doppio gioco, di essere perfidi, di essere dei provocatori — hanno un unico scopo: mascherare la vostra mancanza di forza vitale. La vostra incapacità di capire il mondo e le sue leggi. Di capire gli uomini, alla fin fine! Dovreste almeno riconoscere che la prognosi formulata dalle Tenebre è molto più precisa, e che il rispetto delle inclinazioni naturali dell'animo umano lo conducono dalla nostra parte. Ma a questo punto cosa resterebbe della vostra morale? Della vostra filosofia dell'esistenza? Eh?

Io accesi, lo ringraziai con un cenno e mi avviai verso la scala. Tigrotto mi seguì con gli occhi, con aria smarrita. Be', cerca un po' di capire da sola perché me ne vado.

Tutto quello che potevo scoprire in quel luogo, l'avevo già scoperto.

O meglio, quasi tutto.

Mi chinai su un occhialuto dai capelli corti, immerso nel suo notebook, e gli chiesi in tono sbrigativo: — Quali sono le zone che chiudiamo per ultime?

— L'Orto Botanico e l'Esposizione Permanente — mi rispose senza sollevare gli occhi.

Il cursore scivolava sullo schermo. Il mago delle Tenebre impartiva ordini e muoveva sulla carta di Mosca i puntini scarlatti, inebriandosi del suo piccolo potere. Distoglierlo da quel processo sembrava più arduo che non allontanarlo dalla fanciulla amata.

Perché anche loro sono capaci di amore.

— Grazie — gli dissi, e lasciai cadere la sigaretta ancora accesa in un portacenere stracolmo. — Mi sei stato di grande aiuto.

— Cavolate. — L'operatore agitò una mano senza distogliere lo sguardo dallo schermo. Spingendo in fuori la punta della lingua, fissò sulla carta l'ennesimo punto rosso: un altro agente delle Tenebre chiamato a eseguire il rastrellamento. "Ma di cosa ti vanti, stupidotto. quelli che contano davvero sulla tua carta non compariranno mai. Faresti meglio a giocare a soldatini, il gusto del potere lo assapori anche con quelli.'"

Scivolai giù per la scala a chiocciola. La furia che mi aveva condotto lì — pronto a uccidere e anche a essere ucciso — era svanita. Probabilmente è la stessa cosa che accade ai soldati, quando, nel bel mezzo della battaglia, provano un senso di calma assoluta. O al chirurgo, a cui le mani smettono di tremare quando il malato sotto i ferri comincia a morire.

Che varianti hai previsto. Zavulon?

Che cominci a dibattermi nella rete del tuo rastrellamento e che ai miei disperati tentativi accorrano tutti, Forze della Luce e Forze delle Tenebre, e soprattutto Svetlana?

Evitato.

Che mi arrenda o sia catturato, e cominci un processo lento, lungo, estenuante, coronato da uno scatto folle di Svetlana nell'aula del Tribunale?

Evitato.

Che cominci una lotta con tutto il quartier generale operativo dei maghi falliti e li sconfigga, ma mi ritrovi in trappola a trecento metri di altezza, e Svetlana corra alla torre per salvarmi?

Evitato.

Che passi per il quartier generale, capisca che qui del Selvaggio nessuno sa niente e cerchi di prendere tempo?

Possibile.

L'anello si sta stringendo, lo so. Si è già chiuso sulla linea di confine, intorno alla periferia di Mosca, poi è venuta la divisione della città in zone, e l'isolamento delle grandi arterie. Adesso ci sarebbe ancora il tempo di fuggire nelle immediate vicinanze, non ancora prese di mira, trovare un rifugio e provare a nascondersi; quello era stato in effetti l'unico consiglio che mi aveva dato il Capo: resistere, prendere tempo, finché i Guardiani della Notte non avessero trovato il Selvaggio.

Non è un caso se mi stai incastrando proprio nel quartiere in cui si è svolto il nostro piccolo tafferuglio quest'inverno. Giusto? Non posso non ripensarci, significa che in un modo o nell'altro agirò sotto l'influsso dei ricordi.

La piattaforma panoramica era già vuota. Completamente. Gli ultimi visitatori erano fuggiti e di personale non ce n'era. Solo la guardia che avevo arruolato io era in piedi alla fine della scala, con la pistola in pugno e gli occhi infuocati che controllavano la rampa.

— Scambiamoci di nuovo i vestiti — gli ordinai. — Accetta la gratitudine della Luce. Poi dimenticherai tutto quello di cui abbiamo parlato. Andrai a casa. Ti ricorderai solo che è stata una giornata normale, come ieri. Nessun avvenimento particolare.

— Nessun avvenimento particolare! — ripeté pronto l'agente mentre usciva dai miei vestiti. È così facile rivolgere gli umani alla Luce o alle Tenebre, ma loro sono felici soprattutto quando gli si permette di essere se stessi.

Capitolo 6

Uscendo dalla torre, mi fermai con le mani affondate nelle tasche.

Rimasi lì a guardare i fasci di luce dei proiettori che parevano sciabolate nel cielo scuro, e la garitta illuminata del punto di controllo.

C'erano solo due cose che non capivo del gioco che stavano conducendo le Guardie, o meglio i vertici delle Guardie.

L'apparizione proveniente dal Crepuscolo: chi era, da che parte stava? Mi voleva mettere in guardia o soltanto spaventare?

E il piccolo Egor: era stato davvero casuale il nostro incontro? E se non lo era stato, che significato aveva? Un segno del nostro fatale legame, o una mossa di Zavulon?

Degli abitanti del Crepuscolo non sapevo quasi nulla. Forse non ne sapeva molto neppure Geser.

A Egor invece potevo pensare.

Era una carta ancora non assegnata. Forse anche un sei, ma di briscola, come tutti noi. E le briscole sono sempre necessarie, anche le più piccole. Egor era già stato nel Crepuscolo, una prima volta nel tentativo di vedermi, e una seconda per sfuggire alla vampira. Una combinazione tutt'altro che felice, per la verità. Tutt'e due le volte era stato guidato dal terrore, e, non c'è che dire, il suo futuro era quasi predeterminato. Poteva resistere ancora per qualche anno al confine tra gli umani e gli Altri, ma la sua strada lo portava alle Tenebre.

Era meglio guardare negli occhi la verità.

Probabilmente sarebbe diventato un mago delle Tenebre. E non aveva nessuna importanza se per il momento era un bravo ragazzino simile a tanti altri. Se fossi sopravvissuto, in caso di un nostro incontro avrei dovuto chiedergli i documenti o presentargli i miei.

Probabilmente Zavulon era in grado di influenzarlo. Di dirigerlo nel punto in cui mi trovavo io. Questo implicava che fosse perfettamente al corrente anche della mia posizione. Ma questo me l'aspettavo.

Soltanto, aveva un senso quel nostro incontro "casuale"?

Considerando la dichiarazione dell'operatore informatico, e cioè il fatto che la zona dell'Esposizione Permanente non fosse ancora stata controllata, avrei detto di sì. Avrei potuto farmi venire la bella idea di servirmi del ragazzino, nascondendomi a casa sua o mandandolo a cercare aiuto. Avrei potuto dirigermi a casa sua. Giusto?

Troppo complicato. Esagerato. Prendermi sarebbe stato comunque facile. C'era qualcosa che mi sfuggiva, ed era la cosa più importante.

Mi incamminai lungo la strada, senza più voltarmi a guardare la torre, sede per quel giorno di una pacchiana imitazione del quartier generale delle Tenebre, senza pensare al corpo sfigurato del mago-agente finito da qualche parte ai suoi piedi. Che cosa volevano da me? Che cosa? Proviamo a ricominciare da qui.

Usarmi come esca. Catturarmi. Ma catturarmi in modo tale che non ci fosse il minimo dubbio sulla mia colpevolezza: obiettivo, quest'ultimo, che di fatto erano riusciti a realizzare.

E poi… Svetlana non avrebbe resistito. Potevamo difendere lei e i suoi parenti. Ma non avevamo il potere di intervenire nelle sue decisioni. E se avesse tentato di salvarmi, di strapparmi dai sotterranei della Guardia del Giorno, o di rapirmi dall'aula del Tribunale, l'avrebbero eliminata, in fretta e senza esitazioni. Tutto il gioco era basato su una sua probabile mossa falsa. Ed era stato architettato da tanto tempo, da quando il mago delle Tenebre Zavulon aveva visto la futura comparsa della Grande Maga e il ruolo che sarebbe toccato a me. Allora erano state preparate le trappole. La prima non aveva funzionato. La seconda aveva già spalancato le sue fauci avide. Ed era possibile che ce ne fosse anche una terza.

Ma cosa c'entrava il ragazzino, per ora ancora incapace di manifestare i suoi poteri magici?

Mi fermai.

Anche lui apparteneva alle Tenebre, no?

E chi erano gli agenti delle Tenebre che venivano uccisi? I più deboli e incapaci, quelli che non avevano la volontà di sviluppare i loro poteri.

Dunque poteva essere un altro cadavere da segnare sulla mia lista… ma che senso aveva?

Non lo sapevo. Però del fatto che il ragazzino era condannato e che il nostro incontro nel metrò non era stato casuale ero assolutamente certo. Forse ero stato visitato da un'altra premonizione, o forse era semplicemente un altro elemento di quel gigantesco puzzle che andava al suo posto.

Egor sarebbe perito.

Ricordai come mi aveva guardato dalla banchina della metropolitana, con la fronte aggrottata, desiderando nello stesso tempo chiedermi qualcosa e insultarmi, gridandomi ancora una volta quelle verità sulle Guardie che aveva scoperto troppo presto. E come poi si era voltato ed era corso verso il treno.

«Ma c'è qualcuno che vi difende, vero? La vostra Guardia?»

«Ci prova.»

Certo che ci provava. Avrebbe cercato il Selvaggio fino all'ultimo.

Ma ecco la risposta!

Mi bloccai, stringendomi la testa tra le mani. Luce e Tenebre, come ero stupido! Come ero irrimediabilmente ingenuo!

Finché il Selvaggio era vivo, non avrebbero fatto scattare la tagliola. Non bastava spacciarmi per uno psicopatico, per un assassino dei maghi della Luce. Volevano anche annientare il vero Selvaggio.

Le Forze delle Tenebre, o per lo meno Zavulon, sapevano chi era. Non solo, erano addirittura in grado di controllarlo. E gli offrivano le prede giuste: maghi da cui non avrebbero tratto grandi vantaggi. Adesso quello del Selvaggio non era nemmeno più il solito eroico duello con le Tenebre: andava a combattere a ragion veduta. Le Forze delle Tenebre lo circondavano da tutte le parti: prima il mutantropo, poi il mago al ristorante e adesso il ragazzino. Probabilmente aveva l'impressione che tutto il mondo stesse impazzendo, che si stesse avvicinando l'Apocalisse, che le Forze delle Tenebre avessero conquistato il mondo. Non avrei voluto essere al suo posto.

Il mutantropo l'avevano sacrificato per potere presentare la loro protesta e indicare chi era l'accusato. Il mago delle Tenebre per incastrarmi definitivamente e avere il diritto alla formalizzazione dell'accusa e all'arresto. Il ragazzo per eliminare finalmente il Selvaggio, che aveva ormai esaurito la sua funzione. Saltare fuori all'ultimo momento, coglierlo ancora davanti al cadavere, eliminarlo troncandogli ogni possibilità di fuga o di resistenza: lui infatti non si rendeva conto che combattevamo secondo una serie di regole, e non si sarebbe mai arreso né avrebbe ubbidito a un ordine di un ignoto "Guardiano del Giorno".

Dopo la morte del Selvaggio non avrei più avuto scampo. O acconsentivo al rovesciamento della memoria o sarei stato costretto a trasmigrare nel Crepuscolo. E in ogni caso Svetlana si sarebbe gettata in mio aiuto.

Rabbrividii.

Avevo freddo. Comunque avevo freddo. Avevo avuto l'impressione che l'inverno fosse completamente finito, ma era solo un'impressione.

Alzando una mano fermai una macchina di passaggio. Guardai il guidatore negli occhi e ordinai: — Andiamo.

L'impulso era stato abbastanza forte, non mi chiese nemmeno dove eravamo diretti.

Il mondo si avvicinava alla fine.

Qualcosa si muoveva, qualcuno strisciava, ombre antiche ritornavano, risuonavano parole sorde di lingue dimenticate, un tremito scuoteva la terra.

Le Tenebre sorgevano sul mondo.

Maksim era sul balcone, e fumava, ascoltando distratto lo sfogo di Elena. Andava avanti già da qualche ora, dal momento in cui la ragazza che avevano salvato era saltata giù dalla macchina alla stazione della metropolitana. Maksim aveva sentito sul suo conto tutto quello che avrebbe potuto immaginare, e anche qualcosa che non sarebbe mai stato in grado di immaginare.

Che era uno stupido e un donnaiolo, pronto a rischiare la pelle per un musetto grazioso e un bel paio di gambe, Maksim se lo sentì dire senza particolare stupore. Che era uno sfacciato e una carogna, che amoreggiava in presenza della moglie con una prostituta brutta e consumata era già più originale. Soprattutto considerando che con l'imprevista passeggera aveva scambiato al massimo un paio di parole.

Adesso era arrivata alle sciocchezze più assurde. Aveva tirato fuori i viaggi di lavoro, e quelle due volte che era tornato a casa ubriaco… completamente ubriaco. Poi aveva fatto alcune ipotesi sul numero delle sue amanti, e sulla sua completa ottusità e mollezza, che gli avevano impedito una crescita professionale e una vita decente.

Maksim le lanciò un'occhiata da sopra la spalla.

Elena questa volta non aveva accusato se stessa, cosa abbastanza strana. Era seduta sul divano di pelle davanti al gigantesco televisore Panasonic e parlava, parlava…

Ma davvero pensava tutte quelle cose?

Che avesse una folla di amanti? Che avesse salvato quella sconosciuta per il suo aspetto grazioso, e non per le pallottole che le fischiavano intorno? E che vivessero così poveramente? Loro, che tre anni prima avevano comprato quel bell'appartamento, che l'avevano riempito di cose carine, che a Natale erano stati in Francia?

La voce della moglie ne era sicura. La voce accusava. La voce soffriva.

Maksim con uno scatto lanciò la sigaretta nel vuoto. Guardò la notte.

Le Tenebre, le Tenebre si avvicinavano.

Là, nella toilette, aveva ucciso il mago delle Tenebre. Una delie più ripugnanti incarnazioni del Male universale. Un uomo che portava con sé la cattiveria e il terrore. Che sottraeva energia a chi lo circondava, che opprimeva le anime degli uomini, che trasformava il bianco in nero, l'amore in odio. Come al solito, da solo contro il mondo intero.

Però prima era diverso. Non gli era mai capitato di incontrare quelle creature del demonio per due giorni di seguito: o stavano tutti uscendo dalle loro fetide tane o la sua vista era migliorata.

Ecco, anche adesso…

Maksim guardava la città dall'alto del suo nono piano e quello che vedeva non era il solito panorama notturno punteggiato di luci. Quello era per gli altri. L'umanità cieca e impotente. Lui vedeva un grumo di Tenebre che ondeggiava sulla terra. Non molto in alto, più o meno al livello di un decimo-undicesimo piano.

Maksim vedeva una nuova creatura delle Tenebre.

Come sempre. Come al solito. Ma perché così spesso, perché addirittura di seguito? Era già la terza! La terza nel giro di ventiquattr'ore!

Le Tenebre baluginavano, oscillavano, si muovevano. Le Tenebre vivevano.

E alle sue spalle Elena elencava i suoi peccati con voce stanca, offesa, infelice. Si era alzata, adesso, e si era avvicinata alla portafinestra, come se temesse che Maksim non l'avesse sentita. Bene, anzi, meglio così. Almeno non avrebbe svegliato i bambini, ammesso che si fossero addormentati. Per qualche motivo Maksim quella sera era assalito dal dubbio.

Se avesse davvero creduto in Dio, sul serio… Ma di quella debole fede che lo riscaldava dopo ogni azione di purificazione ormai non restava quasi nulla. Non poteva esistere Dio in un mondo dove il Male prosperava in quel modo.

Però se Dio fosse esistito, o se almeno nell'anima di Maksim l'osse rimasta una fede autentica, sarebbe caduto in ginocchio all'istante, sul cemento sporco e rappezzato, e avrebbe teso le braccia all'oscuro cielo notturno, al cielo dove perfino le stelle splendevano timide, velate di tristezza. Avrebbe gridato: "Perché? Perché, Signore? È un'impresa superiore alle mie forze, superiore a me stesso! Sollevami da questo compito, te ne prego, sollevami. Io non sono la persona giusta. Sono debole."

Non gridò. Non era stato lui a scegliersi quel fardello. Non poteva essere lui a toglierselo. Ardeva e splendeva davanti a lui una luce nera. Il nuovo tentacolo delle Tenebre.

— Lena, scusami. — Scostò la moglie, rientrò nella stanza. — Devo andare.

Lei si interruppe a metà di una parola e nei suoi occhi, in cui fino a quel momento c'erano stati solo risentimento e offesa, balenò lo spavento.

— Torno. — Maksim si diresse rapidamente verso la porta, sperando di evitare qualsiasi domanda.

— Maksim! Maksim, aspetta!

Il passaggio dagli insulti alla supplica fu istantaneo. Elena gli si lanciò dietro, gli afferrò una mano, lo fissò negli occhi con uno sguardo pietoso e supplichevole.

— Scusami, scusami, mi sono presa un tale spavento! Scusami, ho detto un sacco di sciocchezze, Maksim!

Guardò la moglie, che aveva già perso tutta la sua aggressività, e si era arresa, disposta a tutto purché lui, stupido, depravato, vigliacco, non uscisse da quella porta. Possibile che sul suo viso fosse balenato qualcosa che aveva spaventato Elena ancora di più della sparatoria in cui si erano trovati quel giorno?

— Non ti lascio andare! Non ti lascio andare da nessuna parte! A quest'ora!

— Non mi succederà niente di male — disse dolcemente Maksim. — Non gridare, o sveglierai i bambini. Torno subito.

— Se non vuoi pensare a te, pensa almeno ai bambini! Pensa a me! — Poi Elena cambiò fulmineamente tattica. — E se hanno preso la targa della macchina? E se adesso vengono a cercare quella carogna? Che cosa faccio io?

— Non verrà nessuno. — Maksim in qualche modo sapeva che era la verità. — E se anche venissero, la porta è forte. A chi telefonare lo sai. Lasciami passare, Elena.

Sua moglie era immobile di traverso alla porta, con le braccia allargate, la testa sollevata, gli occhi socchiusi, come se si aspettasse uno schiaffo.

Maksim la baciò cautamente su una guancia e la scostò dalla soglia. Passò in anticamera, seguito da uno sguardo ormai completamente smarrito. Dalla camera della figlia veniva una musica sgradevole, pesante: non dormiva e aveva acceso lo stereo per non sentire le loro voci incattivite, la voce di Elena.

— Non farlo! — mormorò la moglie alle sue spalle, con tono implorante.

Maksim prese la giacca, controllando rapidamente che tutto fosse al suo posto nella tasca interna.

— Non ti importa niente di noi! — gridò Elena, ma già rassegnata, senza più speranze, come per forza di inerzia. La musica in camera di sua figlia aumentò di volume.

— Questo non è vero — disse calmo. — È proprio a voi che penso, invece. Vi proteggo.

Era già sceso di un piano — non aveva voluto aspettare l'ascensore — quando lo raggiunse il grido della moglie, del tutto inaspettato: a Elena non piaceva portare le loro discussioni fuori dalle mura domestiche e non si sarebbe mai messa a litigare sul pianerottolo.

— Faresti meglio ad amarci, invece di proteggerci!

Maksim si strinse nelle spalle e affrettò il passo.

Ecco, quello era il punto dove mi ero fermato quella sera d'inverno.

Era tutto uguale: l'androne deserto, il rumore delle macchine alle sue spalle, la debole luce dei lampioni. Solo che allora faceva molto più freddo. E tutto sembrava semplice e chiaro, un po' come può sembrare il mondo a un giovane agente di polizia americano che esca per il suo primo pattugliamento.

Difendere la legge. Perseguitare il Male. Proteggere gli innocenti.

Come sarebbe bello se le cose restassero per sempre così semplici e chiare, come a dodici anni, o a venti. Se nel mondo ci fossero davvero soltanto due colori: il nero e il bianco. Eppure anche il più onesto e ingenuo dei poliziotti americani, allevato nel culto dei roboanti ideali yankee, prima o poi capisce che per le strade che pattuglia non ci sono soltanto la Luce e le Tenebre. Ci sono anche gli accordi, i compromessi, i patti. Gli informatori, le trappole, le provocazioni. Prima o poi viene il momento di tradire gli amici, infilare un sacchettino di eroina nella tasca di qualcuno, picchiare sulle reni facendo attenzione a non lasciare segni.

E sempre in nome di quei semplicissimi principi.

Difendere la legge. Perseguitare il Male. Proteggere gli innocenti.

L'avevo dovuto capire anch'io.

Infilai lo stretto budello di mattoni, spostai col piede un foglio di giornale gettato ai piedi del muro. Proprio lì si era tramutato in cenere l'infelice vampiro, davvero infelice, perché colpevole soltanto di essersi innamorato. Non di una vampira, non di una donna, ma di una vittima, di un essere destinato a divenire cibo.

Ecco, lì avevo versato un po' di vodka dalla bottiglietta, bruciando il viso della donna che noi, i Guardiani della Notte, avevamo dato in pasto ai vampiri.

Come amano ripetere le Forze delle Tenebre: «Libertà!» E quante volte spieghiamo a noi stessi che la libertà ha dei limiti.

E tutto questo, probabilmente, è anche giusto. Almeno per quei rappresentanti della Luce e delle Tenebre che vivono semplicemente tra gli umani con poteri maggiori, ma con aspirazioni assolutamente identiche alle loro. Per coloro che hanno scelto di vivere secondo le regole, e non opponendosi a esse.

Ma basta soltanto uscire sul confine, sull'invisibile linea di confine dove stiamo noi delle Guardie, sulla linea che separa le Tenebre dalla Luce…

È la guerra. E la guerra è sempre criminale. Sempre, in tutti i tempi, sarà occasione non solo di eroismi e sacrifici, ma anche di tradimenti, vigliaccherie, colpi alle spalle. Evitare questi aspetti quando si combatte è semplicemente impossibile. Vorrebbe dire avere già perso prima di cominciare.

E poi che cos'è tutto questo, alla fin fine? Per che cosa vale la pena di combattere, per che cosa ho il diritto di combattere, quando vivo sul confine, a metà strada tra la Luce e le Tenebre? I miei vicini sono vampiri! E non hanno mai — per lo meno Kostja — non hanno mai ucciso nessuno. Sono persone piacevolissime dal punto di vista degli umani.

E, volendo considerare i loro comportamenti, sono molto più onesti del Capo o di Ol'ga.

Dov'è allora il confine? Dov'è la giustificazione? Dov'è il perdono? Non conosco la risposta. Non sono in grado di dire nulla, nemmeno a me stesso. Navigo armato dei vecchi ideali e dei vecchi dogmi soltanto per forza d'inerzia. Come possono combattere continuamente i miei compagni, gli agenti operativi della Guardia? Che spiegazioni danno ai loro atti? Anche questo non lo so. Ma le loro opinioni comunque non mi aiuterebbero. Qui ognuno deve fare da solo, come ci ricordano gli slogan delle Forze delle Tenebre.

E, cosa ancora più spiacevole, sentivo che se non avessi capito, se non fossi stato capace di scoprire quel confine, ero condannato. E non soltanto io. Sarebbe perita anche Svetlana. Slanciandosi in un disperato tentativo di salvare il Capo. Si sarebbe sfasciata tutta la struttura della Guardia moscovita.

Ero ancora lì, con un braccio appoggiato al sudicio muro di mattoni. Ricordavo, mordendomi le labbra e sforzandomi di trovare una risposta. Non c'erano risposte. Dunque era il destino.

Attraversando il tranquillo cortile dall'aria accogliente, arrivai al "casermone con le zampe". Il grattacielo sovietico suscitava un'intrinseca tristezza, del tutto ingiustificata, ma profonda. Lo stesso sentimento che mi capitava di provare vedendo dal treno villaggi abbandonati o silos semidistrutti. Un senso di inopportunità, come uno slancio troppo forte che finisce con un gran colpo nel vuoto…

— Zavulon — dissi — se mi senti…

Silenzio, il silenzio tipico di una notte moscovita: rumore di macchine, un po' di musica da una finestra e nessuno per la strada.

— Comunque non hai potuto calcolare tutto — continuai nel vuoto. — Non hai proprio potuto. La realtà ha sempre qualche diramazione inaspettata. Il futuro non è predeterminato. Lo sai. E lo so anch'io.

Attraversai la strada senza guardarmi attorno, senza fare attenzione alle macchine. Ero in missione, no?

Sfera di nascondimento!

Un tram tintinnò, frenando sulle rotaie. Le macchine ridussero la velocità per costeggiare il vuoto che mi circondava. Tutto smise di esistere… tranne l'edificio sul cui tetto avevamo combattuto tre mesi prima, l'oscurità, bagliori di energia, invisibile agli occhi degli umani.

E questa energia, che solo a pochi era dato di vedere, continuava a crescere.

Quello era il centro del tifone, non mi ero sbagliato. Mi avevano condotto proprio qui? Benissimo. Eccomi. Zavulon, certamente ricorderai quella piccola vergognosa sconfitta. Non puoi avere dimenticato lo schiaffo che hai preso davanti ai tuoi schiavi.

Oltre a tutti i suoi grandi scopi — capivo che comunque per lui erano grandi — a spingerlo c"era anche un altro desiderio, che una volta era stato una semplice debolezza umana, ma adesso era stato amplificato in modo smisurato dalle Tenebre.

Vendicarsi. Prendersi la rivincita.

Giocare un'altra partita. Agitare i pugni dopo la rissa.

In tutti voi, Grandi Maghi — sia quelli della Luce, sia quelli delle Tenebre — c'è questo tratto di noia per il combattimento in sé, e questo desiderio di vincere alla grande. Di umiliare l'avversario. Le vittorie semplici non vi interessano più, sono un fatto del passato. La grande contrapposizione è degenerata in un'infinita partita a scacchi. Come per Geser, il Grande Mago della Luce, che ha provato un immenso piacere nello schernire Zavulon, assumendo l'aspetto altrui.

Per me quella contrapposizione non era ancora diventata un gioco.

Forse proprio in quello era racchiusa la mia ultima possibilità.

Presi la pistola dalla fondina, tolsi la sicura. Respirai a fondo, molto a fondo, come se stessi per tuffarmi. Era ora.

Maksim sentiva che quella volta tutto si sarebbe risolto velocemente.

Non ci sarebbe stato bisogno di veglie notturne in attesa del momento propizio per l'agguato, né di lunghi inseguimenti. L'illuminazione era stata troppo chiara, e non solo come percezione di una presenza Altra, nemica, ma anche come precisa guida all'obiettivo.

Arrivato all'incrocio tra via Galuskin e via Jaroslavskaja, si fermò nel cortile di un palazzo molto alto. Guardò la piccola luce nera che ardeva senza fiamma e che si stava lentamente spostando all'interno dell'edificio.

Il mago delle Tenebre era lì. Maksim lo percepiva già concretamente, quasi visivamente. Maschio. Poteri deboli. Non era un mutantropo, non era un vampiro, non era un incubo. Era proprio un mago delle Tenebre. Considerando la modestia dei suoi poteri, non ci sarebbero stati problemi particolari. Il problema era un altro.

Maksim poteva solo sperare e pregare perché non accadesse tanto spesso. Distruggere ogni giorno qualche creatura delle Tenebre era pesante, non solo dal punto di vista fisico. C'era anche il momento più tremendo, quello in cui il pugnale trapassava il cuore del nemico. Il momento in cui tutto attorno a lui cominciava a tremare, a oscillare, i colori si confondevano, i suoni si spegnevano, i movimenti rallentavano fin quasi a fermarsi. Che cosa avrebbe fatto se una volta si fosse sbagliato? Se avesse liquidato non un nemico del genere umano, ma un suo rappresentante? Non lo sapeva.

Ma non c'era via d'uscita se solo lui, in tutto il mondo, era in grado di distinguere le Forze delle Tenebre dagli altri umani. Se solo nelle sue mani era stata posta — da Dio, dal destino, dal caso… — l'arma.

Maksim prese il pugnale di legno. Guardò quella specie di giocattolo con un senso di sgomento. Non era stato lui a costruire un tempo quell'arma, non era stato lui a dargli il solenne, suggestivo nome di "misericordia".

A quel tempo aveva dodici anni e aveva appena incontrato Pet'ka, il suo migliore e anzi unico amico dei tempi dell'infanzia, o meglio ancora, perché barare?, l'unico amico che avesse avuto in tutta la sua vita. Giocavano alle battaglie dei cavalieri antichi. Non solo a quello, naturalmente: la loro infanzia era stata ricca di giochi, anche se non esistevano ancora quelli per il computer. Giocavano con tutto il cortile, in quell'unica breve estate della loro amicizia, costruendosi spade e pugnali, e battendosi con grande forza, ma anche con una certa cautela. Si rendevano già ben conto, infatti, che persino con un'arma di legno ci si può cavare un occhio o causare una ferita grave. Stranamente lui e Pet'ka finivano sempre in campi diversi. Forse perché Pet'ka era più giovane, e Maksim un po' si vergognava dell'amico più piccolo che lo guardava con occhi estasiati e lo seguiva dovunque come un cucciolo adorante. E capitava più o meno ogni giorno che nel corso della battaglia Maksim strappasse la spada di legno dalle mani di Pet'ka — che per la verità non faceva quasi niente per difendersi — e gridasse: «Sei prigioniero!»

Solo una volta era successo qualcosa di speciale. Pet'ka gli aveva teso in silenzio quel pugnale e gli aveva detto che un cavaliere valoroso doveva porre fine alla sua vita con quella "misericordia" e non umiliarlo facendolo prigioniero. Era un gioco, naturalmente, un semplice gioco, ma Maksim aveva avvertito una specie di tremito quando aveva mimato l'affondo mortale con il pugnale di legno. E poi, quando Pet'ka l'aveva guardato per un attimo negli occhi e subito dopo aveva posato lo sguardo sulla mano stretta attorno al pugnale fermo a un millimetro dalla sua maglietta bianca. E alla fine aveva borbottato: «Tienilo, sarà il tuo trofeo.»

Maksim aveva accettato il pugnale di legno con piacere, senza esitazione. Sia come trofeo sia come regalo. Solo, per qualche motivo, non lo portava mai con sé per giocare alla battaglia. Preferiva tenerlo a casa, cercava quasi di dimenticarselo, come se si vergognasse di quel regalo inaspettato e della sua stessa prontezza nell'accettarlo. Ma se ne ricordava, se ne ricordava sempre. E anche quando era diventato grande, si era sposato, aveva avuto i figli, non se n'era mai dimenticato. Il pugnale giocattolo era in un cassetto, insieme alle foto di quando era bambino, a una bustina con una ciocca di capelli e ad altri sciocchi ricordi sentimentali. Fino al giorno in cui Maksim aveva avvertito per la prima volta la presenza nel mondo delle Forze delle Tenebre.

Allora il pugnale di legno l'aveva in qualche modo chiamato. E si era trasformato in un'arma vera, spietata, infallibile, invincibile.

Ma Pet'ka non c'era più. Li aveva divisi la giovinezza: un anno di differenza, che è molto per due bambini, diviene addirittura un abisso tra due adolescenti. Poi li aveva divisi la vita. Si sorridevano quando si incontravano, si davano la mano, qualche volta avevano anche bevuto insieme molto piacevolmente, ricordando la loro infanzia. Poi Maksim si era sposato, si era trasferito, e i loro rapporti si erano praticamente interrotti. E quell'inverno, del tutto casualmente, gli era arrivata la notizia. Gliel'aveva data la madre, a cui telefonava regolarmente, da figlio modello. «Ti ricordi Pet'ka? Eravate così amici da bambini, proprio amici per la pelle.»

Se lo ricordava. E aveva già capito a che cosa preludeva quell'introduzione.

Era morto in un incidente, cadendo dal tetto di un grattacielo. Ma come mai era salito fin lì nel cuore della notte? Forse voleva uccidersi, o forse era ubriaco, anche se poi i medici avevano stabilito che era sobrio. O forse l'avevano ucciso. Allora lavorava per un'organizzazione commerciale, aveva un buono stipendio, aiutava i suoi genitori e andava in giro con una bella macchina.

«Era strafatto» aveva commentato allora Maksim in tono duro. Così duro che sua madre non volle mettersi a contraddirlo. «Era strafatto, era sempre stato un tipo un po' strano.»

E il cuore non aveva avuto un sussulto, o una stretta dolorosa. Solo che quella sera, senza sapere bene perché, si era ubriacato. E poi era andato a uccidere la maga delle Tenebre che con la sua forza magica costringeva gli uomini a lasciare le donne che amavano, aveva ucciso quella strega non più giovane, ruffiana e separatrice, che braccava inutilmente già da due settimane.

Pet'ka non c'era più. Da molti anni non c'era più il ragazzino che era stato il suo unico amico, e da tre mesi non c'era più nemmeno Pet'ka Nesterov, il professionista che incontrava una volta l'anno, o anche più raramente. Il pugnale di legno, invece, era ancora lì, nelle sue mani.

Probabilmente non era stata inutile quella loro goffa amicizia infantile.

Maksim giocherellava con il pugnale sul palmo della mano. Ma perché, perché era così solo? Perché non aveva un amico a fianco che potesse togliergli dalle spalle almeno una parte di quel peso? C'erano così tante Tenebre, tutto intorno, e così poca Luce.

Chissà perché gli tornarono in mente le ultime parole che gli aveva gridato Elena mentre già se ne andava: «Faresti meglio ad amarci, invece di proteggerci!»

"Ma non è la stessa cosa?" le replicò mentalmente.

Ma no, probabilmente non era la stessa cosa. Solo, che cosa poteva fare un uomo per cui l'amore era guerra, e che combatteva contro, e non a favore?

Contro le Tenebre, e non per la Luce.

— Sono il Custode — disse Maksim. A se stesso, sussurrando, come vergognandosi di dichiararlo a voce alta. Sono i pazzi che parlano con se stessi. Lui però non era pazzo, era normale, più che normale. Lui vedeva l'antico Male che strisciando entrava nel mondo.

Ma davvero vi stava entrando o vi si era già insediato da lungo tempo?

Era una follia. Non poteva, non doveva farsi assalire dal dubbio. Se avesse smarrito anche soltanto una parte della sua fede, se si fosse permesso di ammorbidirsi o di mettersi alla ricerca di inesistenti compagni, sarebbe stata la fine. Il pugnale di legno non si sarebbe più tramutato nella sciabola portatrice della Luce che dissipa le Tenebre. E un mago qualsiasi l'avrebbe incenerito con il suo fuoco magico, una strega l'avrebbe annientato con un incantesimo, o forse sarebbe stato un mutantropo a farlo a pezzi.

Custode e Giudice!

Non doveva vacillare.

Il brandello di Tenebre che prima si aggirava al nono piano all'improvviso cominciò a scendere. Il cuore gli si fermò nel petto: il mago delle Tenebre andava incontro al proprio destino. Maksim scese dalla macchina e si guardò intorno rapidamente. Nessuno. Come sempre qualcosa dentro di lui aveva disperso i potenziali testimoni e gli aveva sgombrato il campo di battaglia.

Il campo di battaglia… o il palco dell'esecuzione?

Custode e Giudice?

O boia?

Ma che differenza c'era? Lui era al servizio della Luce!

Una forza che ben conosceva gli riempiva le membra, galvanizzandolo. Tenendo la mano sul risvolto della giacca, Maksim si avviò verso l'ingresso, incontro al mago delle Tenebre che scendeva in ascensore.

In fretta, doveva fare tutto molto in fretta. Non era ancora notte fatta. Potevano vederlo. E nessuno avrebbe mai potuto credere alla sua versione. Nel migliore dei casi sarebbe finito in manicomio.

Chiamarlo. Presentarsi. Estrarre il pugnale.

La "misericordia". La misericordia. Lui era Custode e Giudice. Il cavaliere della Luce. Non un boia!

E quel cortile era un campo di battaglia, non una forca!

Si fermò davanti al portone. Si sentì rumore di passi. La serratura scattò.

E in quell'istante Maksim ebbe voglia di urlare di offesa e di orrore, di gridare maledizione al cielo, al destino e al suo strano dono.

Il mago delle Tenebre era un bambino.

Un ragazzino magro con i capelli scuri. Apparentemente uguale a tanti altri ragazzini della sua età… ma Maksim vedeva chiaramente l'aura di Tenebre che gli splendeva intorno.

Ma perché? Non gli era mai successo niente di simile. Aveva ucciso uomini e donne, giovani e vecchi, ma non gli erano ancora mai capitati bambini che avessero dato la loro anima alle Tenebre. Maksim non aveva mai pensato a quella possibilità, l'orse non volendo neppure prenderla in considerazione, forse rifiutandosi di decidere in anticipo che cosa avrebbe fatto. Forse sarebbe addirittura rimasto a casa, sapendo che la sua vittima aveva soltanto dodici anni.

I! ragazzino si era fermato sulla soglia del portone e fissava Maksim disorientato. Per un attimo l'uomo ebbe la sensazione che il ragazzino stesse per girarsi e correre via, veloce, sbattendo la pesante porta blindata. Corri, allora, corri!

Il ragazzino invece fece un passo avanti, accompagnando la porta perché non sbattesse. Guardò Maksim negli occhi, aggrottando un po' la fronte, ma senza paura. Incredibile. Non l'aveva scambialo per un passante qualsiasi, aveva capito che era lì per lui. Eppure gli era andato incontro. Non aveva paura? Era così sicuro della sua forza?

— Lei è una Forza della Luce, lo vedo — disse il ragazzino. A voce bassa, ma sicura.

— Sì. — Maksim riuscì a pronunciare quella parola a fatica, come se non gli volesse uscire dalla gola, senza guardarlo in faccia. Poi, maledicendo la propria debolezza, tese il braccio e prese il ragazzino per una spalla: — Sono Colui che giudica.

Il ragazzino non si spaventò nemmeno adesso.

— Ho visto Anton, oggi.

Quale Anton? Maksim rimase in silenzio, anche se dai suoi occhi trapelava lo sconcerto.

— E per lui che è venuto da me?

— No. È per te.

— Perché?

Il ragazzino aveva una leggera aria di sfida, come se avesse avuto un tempo una lunga discussione con Maksim, come se Maksim fosse in qualche modo in colpa nei suoi confronti e dovesse adesso ammetterla.

— Sono Colui che giudica — ripeté Maksim. Aveva voglia di voltarsi e scappare. Le cose non erano andate come dovevano, forse c'era stato un errore! Il mago delle Tenebre non poteva essere un bambino, un coetaneo di sua figlia! Il mago delle Tenebre doveva difendersi, cadere, scappare, non rimanere lì con l'espressione offesa, come se ne avesse tutti i diritti.

Come se questo potesse in qualche modo salvarlo.

— Come ti chiami? — gli chiese Maksim.

— Egor.

— Mi dispiace moltissimo che le cose siano andate in questo modo. — Maksim parlava in modo assolutamente sincero. E non provava nessun sadico piacere nel rimandare il momento dell'omicidio. — Al diavolo! Ho una figlia della tua età!

Per un qualche motivo, questa notizia sembrò offenderlo ancora di più.

— Ma se non lo faccio io, chi lo farà?

— Di che cosa parla? — Il ragazzino cercò di liberarsi dalla sua stretta sulla spalla, il che lo aiutò un po' a decidersi.

Bambino… bambina… grande… piccolo… Che differenza c'era? Luce e Tenebre, quella era l'unica differenza!

— Devo salvarti — disse Maksim. Con la mano libera prese il pugnale. — Devo salvarti e lo farò.

Capitolo 7

Per prima cosa riconobbi la macchina.

Poi il Selvaggio che ne stava uscendo.

E mi prese un'ondata di angoscia, pesante, disperata. Era l'uomo che mi aveva salvato quando, dentro il corpo di Ol'ga, ero fuggito dal Maharaja.

Avrei dovuto intuirlo? Forse, se avessi avuto più esperienza, più tempo, più sangue freddo. Perché c'era la donna, in macchina con lui: mi sarebbe bastato osservare la sua aura: Svetlana l'aveva descritta con molta precisione. Avrei potuto riconoscere la donna e di conseguenza anche il Selvaggio. Avrei potuto concludere tutto già in macchina.

Ma… in che modo?

Mi tuffai nel Crepuscolo, quando il Selvaggio guardò dalla mia parte. La cosa funzionò, lui continuò a camminare verso il portone in cui una volta ero stato seduto vicino alla condotta dei rifiuti e avevo avuto una tetra conversazione con una civetta bianca.

Il Selvaggio andava a uccidere Egor. Tutto come avevo pensato. Tutto come aveva calcolato Zavulon. La trappola era lì davanti a me. la molla a lungo inattiva stava per scattare. Ancora un passo e i Guardiani del Giorno avrebbero potuto rallegrarsi di un'altra operazione felicemente condotta a termine.

Ma dov'era Zavulon?

Il Crepuscolo mi dava tempo. Il Selvaggio continuava ad avanzare verso la casa, camminando senza fretta, e io mi guardavo intorno, cercando qualche segnale delle Tenebre. Almeno una traccia, un sospiro, un'ombra…

La tensione della magia, tutto intorno, era terribile. Qui si incontravano i fili della realtà che avrebbero tessuto il nostro futuro. Un incrocio di cento strade, il punto in cui il mondo doveva decidere dove andare. Non a causa mia, o del Selvaggio, o del ragazzino. Noi eravamo solo comparse. Uno doveva pronunciare la battuta: "Il pranzo è servito", un altro fare finta di cadere, il terzo salire sul patibolo pieno d'orgoglio, a testa alta. Per la seconda volta quel punto di Mosca era l'arena di una battaglia invisibile. Ma io non vedevo Altri, né delle Forze della Luce, né delle Forze delle Tenebre. Solo il Selvaggio, che però nemmeno in quel momento era percepibile come Altro. Soltanto sul suo petto si scorgeva lo scintillio: un coagulo di forza. In un primo momento avevo creduto che si trattasse del suo cuore. Poi avevo capito che era l'arma, l'arma con cui uccideva le Forze delle Tenebre.

"Allora, Zavulon?" Mi invase un senso di offesa, un assurdo senso di offesa. "Sono arrivato! Sto per cadere nella tua trappola, guarda, un piede è già dentro, adesso avverrà tutto… ma tu dove sei? O ti sei nascosto così abilmente che non sono in grado di scoprirti, o tu qui non ci sei affatto!"

Avevo perso.

Avevo perso già prima della fine de! gioco, perché non ero riuscito a capire le intenzioni del mio nemico. Qui avrebbe dovuto esserci l'imboscata, e le Forze delle Tenebre avrebbero dovuto eliminare il Selvaggio non appena lui avesse ucciso Egor.

Ma come l'avrebbe ucciso?

Io ero già lì. Gli avrei spiegato tutto, gli avrei raccontato delle Guardie che si sorvegliano a vicenda, del Patto che ci obbliga a mantenere la situazione di neutralità, degli umani e degli Altri, del mondo e del Crepuscolo. Gli avrei raccontato tutto, come l'avevo raccontato a Svetlana, e lui avrebbe capito.

Davvero avrebbe capito?

Se davvero non poteva vedere la Luce…

Il mondo per lui era un grigio gregge di pecore senza intelligenza. Le Forze delle Tenebre erano lupi che correvano attorno al gregge per sbranare gli agnelli più grassi. E lui era il cane da guardia. Incapace di vedere i pastori, accecato dal terrore e dalla rabbia, impegnato a correre da un punto all'altro, solo contro tutti.

Non mi avrebbe creduto, non si sarebbe permesso di credermi.

Corsi avanti, per raggiungerlo. La porta dell'ingresso era già aperta, e il Selvaggio stava parlando con Egor. Perché era uscito così tardi, di notte, quello stupido ragazzino, pur sapendo già benissimo quali erano le forze che governano il mondo? Possibile che il Selvaggio fosse in grado di attirare le sue vittime?

Parlare era inutile. Un attacco delle Tenebre. Immobilizzarlo. E solo dopo spiegare!

Il Crepuscolo si frantumò in migliaia di teste ferite, quando superai di corsa la barriera invisibile. A tre passi dal Selvaggio, che già si preparava ad affondare il colpo, andai a sbattere contro una parete trasparente, mi ci appiattii sopra e poi scivolai lentamente a terra, scuotendo la testa terribilmente confusa.

Male. Molto male. Lui non capiva l'essenza della forza. Era un mago autodidatta, uno psicopatico del Bene. Però quando doveva lavorare, si proteggeva con una barriera magica. Non l'aveva fatto apposta, però non per questo mi procurava meno dolore.

Il Selvaggio disse qualcosa a Egor. Ed estrasse la mano dal risvolto della giacca.

Un pugnale di legno.

Avevo già sentito parlare di quella magia, contemporaneamente ingenua e potente, ma adesso non avevo il tempo di pensarci.

Scivolai fuori dalla mia ombra, entrai nel mondo umano e balzai sulla schiena del Selvaggio.

Qualcuno lo aveva fatto cadere, mentre alzava il pugnale. Il mondo attorno a lui stava già cominciando a tingersi di grigio, i movimenti del ragazzino erano già più lenti, vide le sue palpebre abbassarsi piano per l'ultima volta prima che i suoi occhi si dilatassero per la sorpresa e il dolore. La notte si era trasformata in un podio oscuro, dove era lui ad amministrare la giustizia e a pronunciare la condanna che nulla poteva fermare.

Lo avevano fermato. Lo avevano fatto cadere, lo avevano buttato giù, sull'asfalto. All'ultimo momento Maksim era riuscito ad appoggiare un braccio, a girarsi e a rimanere in piedi.

Sulla scena era comparso un terzo personaggio. Come aveva fatto a non vederlo? Come aveva fatto l'aggressore ad arrivare fino a lui che, quando era impegnato in quel compito così importante, era sempre protetto da eventuali spettatori o interventi inopportuni dalla forza più luminosa che ci fosse al mondo, la Forza della Luce che lo guidava nella battaglia?

L'uomo era giovane, appena più giovane di lui. In jeans, maglione, e una borsa a tracolla. Che adesso aveva buttato a terra senza riguardi con un movimento della spalla. E aveva una pistola in mano!

Come si era concluso tutto male.

— Fermati — disse l'uomo, come se Maksim volesse scappare. — Ascoltami.

Un passante qualunque, che l'aveva scambiato per un maniaco? E la pistola, e l'abilità con cui sì era avvicinato di soppiatto? Un poliziotto in borghese? Ma quello gli avrebbe sparato oppure gli sarebbe rimasto sopra, senza permettergli di rimettersi in piedi.

Maksim fissò lo sconosciuto, agghiacciato da quel terribile dubbio. Se fosse stato un agente delle Tenebre, lui non sarebbe mai riuscito a cavarsela con due di loro contemporaneamente!

Le Tenebre però non c'erano. Non c'erano e basta, non c'erano proprio!

— Chi sei? — gli chiese Maksim, quasi dimenticandosi del ragazzino-mago. Che intanto si stava lentamente avvicinando all'inaspettato salvatore.

— Un agente della Guardia. Anton Gorodeckij, della Guardia della Notte. Ascoltami.

Con la mano libera Anton afferrò il ragazzino e lo tirò dietro la sua schiena. L'intenzione era più che chiara.

— La Guardia della Notte? — Maksim cercava ancora di cogliere nello sconosciuto un segno delle Tenebre. Non la vedeva, e questo lo spaventava ancora di più. — Vieni dalle Tenebre?

Non capiva più nulla. Cercava di sondarmi: avvertivo i suoi sforzi furibondi, implacabili e tuttavia inutili. Non sapevo neppure se fosse il caso di occultarmi. In quell'umano, o in quell'Altro — nel suo caso erano giuste entrambe queste categorie — si percepiva una forza primordiale, una tensione folle, fanatica. Decisi di non occultarmi.

— La Guardia della Notte? Vieni dalle Tenebre?

— No. Come ti chiami?

— Maksim. — Il Selvaggio mi si avvicinò lentamente. Mi esaminava come se sentisse che ci eravamo già incontrati, magari sotto un altro aspetto. — Chi sei?

— Un agente della Guardia della Notte. Ti spiegherò tutto, ascoltami. Tu sei un mago della Luce.

Il volto di Maksim ebbe un fremito e poi si fece di pietra.

— Tu uccidi le Forze delle Tenebre. Lo so. Stamattina hai ucciso un mutantropo. E stasera, al ristorante, hai eliminato un mago delle Tenebre.

— Anche tu…?

Forse fu soltanto una mia impressione. O forse nella sua voce tremò davvero una speranza. Rimisi la pistola nel fodero con aria significativa.

— Io sono un mago della Luce. Non molto potente, a dire la verità. Uno dei mille maghi della Luce che ci sono a Mosca. Siamo in tanti, Maksim.

Gli occhi gli si erano come dilatati e capii di avere colto nel segno. Non era un folle convinto di essere una specie di Superman e orgoglioso del suo segreto. Probabilmente in vita sua non c'era niente che avesse mai desiderato tanto quanto incontrare un compagno.

— Maksim, non ti abbiamo scoperto in tempo — dissi. Possibile che mi riuscisse di risolvere tutto pacificamente, senza spargimenti di sangue, senza un'assurda lotta tra due maghi della Luce? — È stata colpa nostra. Ti sei messo a combattere per conto tuo, hai fatto degli errori. Maksim, possiamo ancora rimediare. Perché tu non sapevi del Patto, vero?

Non mi ascoltava, se ne infischiava del Patto. Non era solo: quella era la notizia principale, per lui.

— Combattete contro le Tenebre?

— Sì.

— Siete in tanti?

— Sì!

Maksim mi guardò di nuovo, e di nuovo nei suoi occhi balenò la luce penetrante del Crepuscolo. Cercava di vedere la menzogna, di vedere le Tenebre, di vedere l'odio e la rabbia, le uniche cose che gli era stato dato di vedere.

— Non vieni dalle Tenebre — disse, come se gli dispiacesse. — Lo vedo. E non mi sono mai sbagliato!

— Sono un agente della Guardia — ripetei. Diedi un'occhiata intorno: nessuno. C'era qualcosa che allontanava gli umani: probabilmente anche quello faceva parte dei poteri del Selvaggio.

— Questo bambino…

— Anche lui è un Altro — dissi in fretta. — Ancora non possiamo sapere se diventerà un agente della Luce o…

Maksim scosse la testa. — Appartiene alle Tenebre.

Guardai Egor. Il ragazzino sollevò lentamente gli occhi.

— No — dissi.

L'aura si leggeva molto chiaramente: un arcobaleno vivace, nitido, tipico dei bambini piccoli, ma raro tra gli adolescenti. Un destino speciale, un futuro ancora indeterminato.

— Appartiene alle Tenebre. — Maksim scosse la testa. — Non lo vedi? Io non mi sbaglio mai. Tu mi hai fermato e mi hai impedito di eliminare un agente delle Tenebre.

Forse era sincero. Aveva ricevuto un dono limitato, ma quello al massimo grado. Maksim poteva distinguere le Tenebre, scoprirne anche la più minuscola traccia nelle anime altrui. Anzi, riusciva a individuare meglio di chiunque altro proprio quella prima fase dell'attività delle Tenebre.

— Non uccidiamo tutti gli agenti delle Tenebre.

— Perché?

— C'è una tregua, Maksim.

— Come può esserci una tregua con le Forze delle Tenebre?

Rabbrividii: nella sua voce non c'era traccia di dubbio.

— La guerra è sempre peggio della pace.

— Questa però no. — Maksim sollevò la mano con il pugnale. — Lo vedi? È un regalo del mio più caro amico. È morto, adesso, e forse proprio per colpa di qualcuno come questo ragazzo. Tenebre maledette!

— Lo dici a me?

— Certo. Sarai forse anche un agente della Luce — il suo volto fu attraversato da un ghigno amaro — ma certamente la vostra Luce si è offuscata tanto tempo fa. Non può esserci perdono per il Male. Non può esserci tregua con le Tenebre.

— Non può esserci perdono per il Male? — Adesso mi ero irritato anch'io. E non poco. — Quando hai pugnalato il mago delle Tenebre, nella toilette del ristorante, perché non ti sei fermato nei paraggi per altri dieci minuti? Non hai visto come gridavano i suoi bambini, come piangeva sua moglie? Loro non sono agenti delle Tenebre, Maksim! Sono umani, e non hanno i nostri poteri! Hai salvato quella ragazza dalle pallottole…

Sussultò, ma subito il suo viso riprese un'espressione di assoluta fermezza.

— Bravo! Ma il fatto è che volevano ucciderla per colpa tua, del tuo delitto! Non lo sapevi, questo?

— È la guerra!

— Tu stesso hai dato origine alla tua guerra — mormorai. — Sei un bambino anche tu, con un pugnale da bambino. Quando si taglia il bosco, le schegge volano, è così? Tutto è permesso, nella grande lotta per la Luce?

— Io non combatto per la Luce. — Anche lui aveva abbassato la voce. — Non per la Luce, ma contro le Tenebre. E questo è tutto ciò di cui ho bisogno. Lo capisci? E non credere che per me si tratti di boschi e di schegge. Non sono stato io a chiedere questa forza, non me la sarei nemmeno potuta immaginare. Ma se l'ho ricevuta non posso agire diversamente.

Ma chi, chi era stato a non notarlo?

Perché non avevamo trovato Maksim subito, non appena era diventato uno degli Altri?

Sarebbe stato un magnifico agente operativo. Dopo lunghe discussioni e faticose spiegazioni. Dopo mesi di addestramento, dopo anni di allenamenti, dopo molti fallimenti, errori, ubriacature, tentativi di suicidio. Alla fine non con il cuore, ma con la sua mente fredda e implacabile, avrebbe capito le regole della contrapposizione. Le leggi secondo le quali le Forze della Luce e quelle delle Tenebre conducono la loro guerra, le leggi secondo le quali dobbiamo ignorare i mutantropi che inseguono la loro preda e uccidere i nostri che non riescono a ignorarli.

Eccolo, davanti a me. Il mago della Luce, che nel giro di pochi anni aveva ucciso più agenti delle Tenebre di un nostro operativo con un secolo di servizio sulle spalle. Solitario, braccato. Capace di odiare, ma incapace di amare.

Mi girai, presi Egor per le spalle (lui era rimasto lì, silenzioso, senza farsi notare, ad ascoltare attento la nostra discussione). Lo spinsi davanti a me. Dissi: — È un mago delle Tenebre? Probabilmente. Temo che tu abbia ragione. Passerà ancora qualche anno e poi questo ragazzino diventerà padrone dei suoi poteri. Percorrerà la sua vita, e intorno a lui arriveranno le Tenebre. A ogni passo la vita gli sembrerà più facile. Ogni suo passo lo pagherà qualcun altro, con il proprio dolore. Ti ricordi la storia della Sirenetta? La strega le aveva dato le gambe, poteva camminare, ma nei piedi era come se avesse lame roventi. Lo stesso vale per noi, Maksim! Camminiamo sempre su delle lame, e a questo non ci si abitua! Solo che Andersen non ci ha raccontato proprio tutto. La strega avrebbe potuto fare anche un'altra cosa: fare sì che, quando la Sirenetta camminava, le lame trafiggessero i piedi di qualcun altro. Questa è la via delle Tenebre.

— Il mio dolore è con me — disse Maksim. E di nuovo in fondo al mio cuore baluginò la folle speranza che potesse capire. — Ma questo non deve, non ha il diritto di modificare nulla.

— Sei pronto a ucciderlo? — Feci un cenno con la testa, indicandogli Egor. — Maksim, rispondi! Io sono un agente della Guardia, e conosco il confine tra il Bene e il Male. Anche uccidendo le Forze delle Tenebre puoi moltiplicare il Male. Dimmi, sei pronto a ucciderlo?

Non vacillava. Annuì, guardandomi negli occhi, sereno, quasi contento.

— Sì. Non solo sono pronto. Non mi sono mai lasciato sfuggire una creatura delle Tenebre. Non lo farò nemmeno adesso.

Invisibile, la trappola scattò.

Non mi sarei meravigliato, adesso, se avessi visto al suo fianco Zavulon. Che emergeva dalle Tenebre e gli batteva bonariamente la mano sulla spalla. O che mi sorrideva sarcastico.

Ma immediatamente capii che lì Zavulon non c'era. Non c'era e non c'era mai stato.

La trappola, una volta preparata, non ha bisogno di nessun intervento. Fa il suo lavoro da sola. Io c'ero caduto, e sicuramente in quel momento tutti gli agenti della Guardia del Giorno avevano un alibi perfetto.

O permettevo a Maksim di uccidere il ragazzo, che sarebbe diventato un mago delle Tenebre, e mi trasformavo in un suo complice con tutte le conseguenze del caso, oppure decidevo di lottare ed eliminavo il Selvaggio: le nostre forze erano comunque imparagonabili. Liquidavo con le mie stesse mani l'unico testimone oppure uccidevo un mago della Luce.

Perché Maksim non si sarebbe arreso. Era la sua guerra, il suo piccolo Golgota, su cui si trascinava già da qualche anno. Avrebbe vinto, o si sarebbe fatto ammazzare.

Perché mai Zavulon si sarebbe dovuto inserire nel nostro conflitto?

Aveva predisposto tutto nel migliore dei modi. Aveva ripulito le fila delle Tenebre da un po' di zavorra, mi aveva incastrato, aveva aumentato la tensione, sparandomi quasi addosso. Mi aveva costretto a lanciarmi contro il Selvaggio. E adesso se ne stava alla larga. Magari non era neppure a Mosca. Ed era probabile che osservasse tutto da lontano: aveva i mezzi sia tecnici sia magici per farlo. Mi osservava e rideva.

Ero incastrato.

Qualunque via avessi scelto, mi aspettava il Crepuscolo.

Il Male non sempre ha bisogno di annientare il Bene con le sue mani. Talvolta trova molto più semplice lasciare che il Bene si distrugga da solo.

E l'unica possibilità che ancora mi restava era incredibilmente minuscola e mostruosamente vile.

Perdere.

Permettere al Selvaggio di uccidere il ragazzino… no, non permetterglielo, ma non riuscire a impedirglielo. Dopo averlo ucciso si sarebbe calmato. Dopo averlo ucciso sarebbe venuto con me al quartier generale della Guardia della Notte, e avrebbe ascoltato, discusso, e poi si sarebbe arreso, schiacciato dalle ferree argomentazioni e dalla logica implacabile del Capo, avrebbe capito quello che aveva fatto, e che fragile equilibrio aveva infranto. E si sarebbe consegnato volontariamente al Tribunale, dove aveva una possibilità, sia pure minima, di essere assolto.

E poi, io non ero un agente operativo. Avevo fatto tutto quello che potevo. Ero riuscito perfino a capire il gioco delle Tenebre, la combinazione pensata da qualcuno molto più saggio di me. Semplicemente non avevo avuto abbastanza forze, tempo, riflessi.

Maksim agitò la mano con il pugnale.

Il tempo all'improvviso divenne denso e lento, come se fossimo entrati nel Crepuscolo. Solo che i colori non erano impalliditi, anzi, erano diventati ancora più vividi, e io stesso mi muovevo in quel pigro flusso gelatinoso.

Il pugnale di legno scivolò verso il petto di Egor, e in quel tragitto cambiò aspetto, assunse un bagliore metallico, e poi venne avvolto da una fiamma grigia; il viso di Maksim era concentrato, solo le labbra strette rivelavano tutta la sua tensione, mentre il ragazzino non aveva fatto in tempo a capire, e non aveva nemmeno cercato di allontanarsi.

Spinsi Egor di lato. I muscoli non volevano ubbidirmi, non volevano compiere un gesto così assurdo e autolesionista. Per lui, per il piccolo mago delle Tenebre, il colpo del pugnale avrebbe significato la morte. Per me la vita. Del resto è stato, è, e sarà sempre così.

Ciò che per le Tenebre è vita, per la Luce è morte, e viceversa. Non era certo in mio potere cambiare le cose…

Ci riuscii.

Egor cadde, batté la testa contro la porta d'ingresso e si accasciò lentamente. L'avevo colpito con troppa forza, ma mi interessava salvarlo e non avevo pensato troppo ai danni collaterali. Nello sguardo di Maksim scintillò un'espressione quasi infantile di offesa. Ma lo stesso non rinunciò a discutere. — È un nemico!

— Non ha fatto niente!

— Tu difendi le Tenebre.

Maksim non dubitava più della mia appartenenza alla Luce. Era comunque in grado di riconoscerla.

Solo che lui non aveva mai avuto dubbi su chi dovesse vivere e chi dovesse morire.

Il pugnale si alzò di nuovo, non contro il ragazzino, questa volta, ma contro di me. Mi piegai, trovai con lo sguardo la mia ombra, mi slanciai in quella direzione. E l'ombra mi venne docilmente incontro.

Il mondo si fece grigio, i suoni cessarono, tutti i movimenti rallentarono. Egor, che prima si stava lentamente muovendo, rimase immobile. Le macchine scivolavano incerte sulla strada, avanzando a scatti, i rami degli alberi ignoravano il vento. Solo Maksim non aveva subito quel rallentamento.

E mi inseguiva, senza nemmeno capire come. Era scivolato nel Crepuscolo con la stessa naturalezza con cui un umano passa dalla strada al marciapiede. Adesso per lui non c'erano più differenze: attingeva forza dalla sua convinzione, dal suo odio, un odio chiarissimo, dalla sua furia scatenata. Adesso non era più il boia delle Tenebre. Era il Grande Inquisitore. Molto più terribile di tutta la nostra Inquisizione.

Alzai le braccia, con le dita allargate nel Segno della Forza, semplice e sicuro. Ah, come ridono i giovani Altri, quando vedono per la prima volta questo procedimento, definito "dita a ventaglio". Maksim non si fermò nemmeno, vacillò appena, poi piegò caparbiamente la testa e riprese l'inseguimento. Già cominciando a capire, rinunciai, ripassando freneticamente tutto l'arsenale magico.

L'Agape, il segno dell'amore… ma lui non crede nell'amore.

La tripla chiave, generatrice di fiducia e di comprensione… ma lui non si fida di me.

L'oppio, il fumo violetto, la via del sonno… e sentii che già le palpebre mi si chiudevano.

Ecco come neutralizzava le Forze delle Tenebre. La sua fede furibonda, unita ai celati poteri di Altro, funzionava come uno specchio. Restituiva il colpo ricevuto. Si metteva al livello dell'avversario. E questo, insieme al potere di vedere le Tenebre e a quell'assurdo pugnale magico, gli garantiva in pratica l'invulnerabilità.

No, naturalmente non avrebbe potuto restituire qualsiasi colpo. I colpi non ritornavano proprio immediatamente. Il segno di Tanatos, la morte, o la spada bianca probabilmente avrebbero funzionato.

Solo che, uccidendo lui, uccidevo me stesso. Mi dirigevo verso l'unica strada a cui siamo tutti condannati: il Crepuscolo. Tra i pallidi sogni, tra le illusioni incolori, nell'eterna gelida nebbia. Non avevo la forza di considerarlo un nemico, la condizione che lui mi aveva assegnato con tanta facilità.

Ruotavamo avvinghiati, ogni tanto Maksim tentava un attacco, con scarsi risultati. In effetti non aveva mai combattuto con nessuno, era abituato a uccidere le proprie vittime in modo facile e rapido. E da un luogo lontano lontano udii la risata di scherno di Zavulon. E poi la sua voce morbida, insinuante: "Hai deciso di giocare contro le Tenebre? Gioca. Hai tutto quello che ti serve. Amici e nemici, amore e odio. Scegli la tua arma. Quella che preferisci. Tanto sai già il risultato. Adesso lo sai."

Forse quella voce me l'ero soltanto immaginata. O forse era risuonata davvero.

— Così uccidi anche te stesso! — gridai. La fondina mi picchiava sul petto, come se volesse chiedermi di prendere la pistola e di sparare contro Maksim uno sciame di piccole vespe d'argento. Con la stessa facilità con cui l'avevo fatto quando mi ero trovato ad affrontare il mio omonimo.

Non mi sentì… non era in grado di sentirmi.

"Sveta, tu eri così ansiosa di sapere quali sono i nostri limiti, qual è il confine che non dobbiamo superare, combattendo contro le Tenebre. Perché non sei qui adesso? Vedresti e capiresti subito tutto."

Però nelle vicinanze non c'era proprio nessuno, né delle Forze delle Tenebre, che avrebbero potuto godersi quello spettacolo, né delle Forze della Luce, che avrebbero potuto aiutarmi, intervenire, immobilizzare Maksim. interrompere la nostra danza mortale nel Crepuscolo. Solo il ragazzo, che adesso si stava goffamente rialzando, un futuro mago delle Tenebre, e l'implacabile boia dal volto di pietra, non richiesto paladino della Luce. Causa di futuri mali non meno di una dozzina di mutanti o di vampiri.

Afferrai un po' di quella gelida nebbia che mi fluiva tra le mani. Le permisi di essere risucchiata dalle mie dita. E riversai un po' più di forza nella mano sinistra.

Da quel palmo sorse una bianca sciabola incandescente. Il Crepuscolo sibilò ardendo. Sollevai la spada bianca, un'arma semplice e infallibile. Maksim si bloccò.

— Il Male, il Bene. — Sul mio viso apparve un ghigno nuovo, un po' sbilenco. — Vieni da me. Vieni, e ti ammazzo. Puoi essere tre volte Luce, ma non è questo che conta.

Con un altro magari avrebbe funzionato. Credo di sì. Immagino l'impressione che deve fare veder nascere dal nulla una sciabola infuocata. Ma Maksim venne verso di me.

E così fece i cinque passi che ci separavano. Tranquillamente, senza accigliarsi, senza guardare la spada bianca. E io rimasi lì, continuando a ripetere fra me le parole che avevo pronunciato poco prima con tanta facilità e sicurezza.

Poi il pugnale di legno mi colpì sotto le costole.

Lontano lontano, nella sua tana, il capo dei Guardiani del Giorno, Zavulon, quasi soffocava dalle risate.

Crollai in ginocchio, poi caddi supino. Mi premetti una mano contro il petto. Mi faceva male, per adesso soltanto male. Il Crepuscolo strillò indignato, percependo il sangue vivo, e cominciò a dissiparsi.

Che peccato, però!

O forse era proprio quella l'unica via di scampo che mi era concessa? Morire?

Svetlana non avrebbe più avuto nessuno da salvare. Avrebbe percorso la sua strada, lunga e gloriosa, e prima o poi anche lei sarebbe entrata per sempre nel Crepuscolo.

Geser, forse tu lo sapevi? Era proprio questo che speravi?

Il mondo riacquistava colore. Un colore cupo, notturno. Il Crepuscolo mi aveva risputato insoddisfatto, mi aveva rifiutato. Io ero ancora lì semisdraiato, con le mani sulla ferita che continuava a perdere sangue.

— Perché sei ancora vivo? — mi chiese Maksim.

Di nuovo risuonava nella sua voce una nota di offesa infantile: ci mancava solo che mettesse il broncio. Avrei voluto sorridere, ma il dolore me lo impedì. Maksim guardò il pugnale e con aria incerta lo sollevò di nuovo. In quell'istante comparve Egor. Si levò tra noi due, allontanandomi da Maksim. A questo punto il dolore non mi impedì di ridere.

Un futuro mago delle Tenebre che salva un mago della Luce da un altro mago della Luce!

— Sono ancora vivo perché la tua arma funziona solo contro le Tenebre — dissi. Nel petto qualcosa aveva cominciato a gorgogliare. Il pugnale non era arrivato al cuore, ma mi aveva lacerato un polmone. — Non so chi te l'abbia dato. Ma è un'arma contro le Tenebre. Contro di me è poco più di una scheggia, anche se riesce lo stesso a far male.

— Tu sei un mago della Luce — disse Maksim.

— Sì.

— Lui è un mago delle Tenebre. — Girò lentamente il pugnale verso Egor.

Cercai di trascinare via il ragazzino, ma quello scosse la testa con espressione caparbia e rimase al suo posto.

— Perché? — chiese Maksim. — Su, perché? Tu sei un mago della Luce, lui delle Tenebre…

Per la prima volta da quando ci eravamo incontrati sorrise, sia pure senza allegria. — E io chi sono allora? Dimmelo.

— Credo che tu sia il futuro Inquisitore — sentii che rispondeva qualcuno alle mie spalle. — Ne sono quasi sicuro. Il potente, spietato, incorruttibile Inquisitore.

Gettai una rapida occhiata in quella direzione e dissi: — Buona sera, Geser.

Il Capo mi fece un cenno con aria compassionevole. Dietro di lui c'era Svetlana, il viso bianco come gesso.

— Puoi resistere cinque minuti? — mi chiese il Capo. — Poi mi occupo della tua ferita.

— Certo che resisto — lo rassicurai.

Maksim guardava il Capo, con occhi fissi e come folli.

— Credo che tu non abbia nulla da temere — gli disse il Capo. — Certo, un cacciatore di frodo normalmente viene giustiziato dal Tribunale. Sulle tue mani c'è anche troppo sangue delle Tenebre, e il Tribunale dovrebbe ristabilire l'equilibrio. Ma tu sei magnifico, Maksim. I maghi come te non si possono eliminare. Tu sarai al di sopra di noi, della Luce e delle Tenebre, e non avrà più importanza da che parte sei giunto. Ma non credere che sia un posto di potere! È una prigione! E adesso getta il pugnale!

Maksim scagliò a terra la sua arma come se gli scottasse tra le dita. Ecco cosa sa fare un vero mago.

— Svetlana, tu hai resistito. — Il Capo guardò la ragazza. — Che cosa posso dirti? Terzo livello per autocontrollo e resistenza. Senza dubbio.

Cercai di alzarmi, appoggiandomi a Egor. Avevo proprio voglia di stringere la mano al Capo. Anche questa volta aveva giocato da par suo. Aveva usato tutti quelli che gli erano capitati sottomano. E aveva beffato Zavulon… che peccato che non fosse lì! Come avrei voluto vedere la sua faccia, la faccia del demone che aveva trasformato il mio primo giorno di primavera in un incubo spaventoso.

— Ma… — Maksim cercò di dire qualcosa, ma rinunciò quasi subito. Anche sulle sue spalle pesavano troppe cose, quel giorno. Capivo perfettamente come si doveva sentire.

— Ero sicuro, Anton, assolutamente sicuro che sia tu che Svetlana ce l'avreste fatta — disse dolcemente il Capo. — La cosa più pericolosa per una maga della sua forza è la perdita dell'autocontrollo. La perdita dei criteri nella lotta contro le Tenebre, l'eccessiva fretta o, al contrario, l'indecisione. E questa fase dell'addestramento non si può in nessun modo rimandare.

Finalmente Svetlana fece un passo verso di me. Mi prese delicatamente per un braccio. Poi guardò Geser e per un istante il suo viso fu sfigurato dall'ira.

— No, no — le dissi. — Svetlana, non devi. Ha ragione lui. Io oggi l'ho capito, ho capito per la prima volta qual è il confine da non superare nella nostra lotta. Non ti infuriare. E questo — sollevai la mano dalla ferita — è solo un graffio. Noi non siamo umani, siamo molto più resistenti.

— Grazie, Anton — disse il Capo. Poi guardò Egor: — Grazie anche a te, ragazzo. È molto spiacevole pensare che starai dall'altra parte della barricata. Ma ero sicuro che in ogni caso avresti difeso Anton.

Il ragazzino fece per muoversi verso il Capo, ma io lo trattenni per la spalla. Ci mancava soltanto che se ne venisse fuori con qualche frase inopportuna. Non conosceva certo tutta la complessità del nostro gioco! Non sapeva che tutte le azioni di Geser erano solo contromosse.

— Mi dispiace soltanto una cosa, Geser — feci. — Soltanto una cosa. Che Zavulon non sia qui. Non aver potuto vedere la sua faccia quando tutto il suo gioco è crollato.

Il Capo non mi rispose subito.

Probabilmente gli risultava difficile dirmi la verità. Anch'io, devo ammetterlo, non fui tanto lieto di sentirla.

— Ma qui Zavulon non c'entra affatto, Anton. Devi scusarci. Ma lui non c'entra proprio per niente. Questa operazione è stata completamente gestita dalla Guardia della Notte.

Загрузка...