Terza Storia Strettamente riservato

Prologo

Era un omino piccolo, dalla carnagione olivastra, con gli occhi a mandorla. La preda ambita da ogni poliziotto della capitale. Il sorriso colpevole, smarrito; lo sguardo ingenuo, sfuggente; nonostante la calura mortale indossava un abito scuro, di taglio antiquato ma quasi nuovo; a completare il tutto, una vecchia cravatta dell'era sovietica. In una mano una cartella rigonfia, logora, di quelle che nei vecchi film usavano gli agronomi e i presidenti dei colcos; nell'altra una sacca per la spesa con un lungo melone asiatico.

L'omino scese da un vagone di seconda classe, sorridendo. Al cuccettista, agli altri viaggiatori, al facchino che l'aveva aiutato, al ragazzo della bancarella che vendeva limonata e sigarette. Alzò gli occhi, guardò estasiato il tetto che ricopriva la stazione Kazanskij. Poi s'incamminò lentamente lungo il marciapiede, fermandosi di tanto in tanto per impugnare più comodamente la borsa con il melone. Poteva avere trent'anni come cinquanta: per gli occhi di un europeo era difficile stabilirlo.

Il ragazzo sbucato un minuto dopo da una carrozza di quello stesso treno — il Taskent-Mosca, forse uno dei più sudici e scassati del mondo — sembrava esattamente l'opposto. Aveva anche lui un aspetto orientale, forse più vicino a quello degli usbechi, ma vestiva alla moscovita: calzoncini corti e maglietta, occhiali da sole; alla cintola, una borsetta di pelle e un cellulare. Nessun bagaglio. Nessuna patina provinciale. Non si guardò intorno, non cercò l'agognata lettera M. Un rapido cenno al cuccettista, una leggera oscillazione del capo in risposta alle offerte dei tassisti. Un passo, un altro… si immerse nella folla, sgusciò tra i viaggiatori frettolosi, il viso gli si colorì lievemente di ostilità e distacco. Un istante dopo divenne parte organica e indistinguibile della folla. Si radicò nel suo corpo come una cellula, sana e gioiosa, che non invogliava la curiosità né dei poliziotti-fagociti, né delle cellule vicine.

L'omino con il melone e la cartella, invece, vi si intrufolò a fatica, borbottando innumerevoli volte le proprie scuse in un russo non molto corretto, incassando la testa nelle spalle, guardandosi intorno. Passò davanti a un sottopassaggio senza fermarsi, girò la testa, si diresse verso quello successivo, si arrestò accanto a un cartellone pubblicitario, in un punto in cui cera meno calca, e stringendo maldestramente al petto le proprie cose estrasse un foglietto sgualcito e si immerse a studiarlo Sul suo viso non si manifestò il minimo sospetto che lo stessero seguendo.

La situazione era ottimale, per i tre individui che se ne stavano addossati alle pareti della stazione: una bella ragazza, radiosa, dai capelli rossi, con un vestito di seta aderente al corpo: un ragazzo con l'aspetto di un punk e gli occhi sorprendentemente vecchi e malinconici; un uomo con i lunghi capelli lisciati e modi da finocchio.

— Non gli somiglia — disse in tono dubbioso il ragazzo con gli occhi da vecchio. — Eppure non gli somiglia. L'ho visto tanto tempo fa e per poco, ma…

— Intendi forse chiedere precisazioni a Geser? — lo canzonò la ragazza. — Io ci vedo. È lui.

— Te ne assumi la responsabilità? — Il ragazzo non mostrò né stupore né desiderio di discutere. Volle semplicemente precisare la cosa.

— Sì. — La ragazza non staccò lo sguardo dall'asiatico. — Andiamo. Lo prendiamo di sotto.

I primi passi che fecero furono lenti e sincronizzati. Poi si divisero: la ragazza tirò dritto, i due uomini scomparvero ai lati.

L'omino ripiegò il foglietto e si avviò incerto verso il sottopassaggio.

Un moscovita o un ospite frequente della capitale si sarebbe stupito dell'improvvisa assenza di gente. Bene o male, si trattava del percorso più comodo e breve dal metrò al marciapiede ferroviario. Ma l'omino non vi prestò attenzione. Non si rese conto che alle sue spalle i passanti si arrestavano, come urtando contro una barriera invisibile, e infilavano le altre scale. Né poteva in alcun modo vedere che la medesima cosa si stava verificando all'altro capo del sottopassaggio.

Gli si fece incontro un uomo. Sorrideva e aveva un aspetto mellifluo. Da dietro comparvero una ragazza simpatica e un ragazzo trasandato, con l'orecchino e i jeans strappati.

L'omino continuò a camminare.

— Fermati un po', caro — disse il mellifluo con tono pacifico. La voce corrispondeva perfettamente al suo aspetto, era sottile e affettata. — Non correre.

L'asiatico sorrise, ma non si fermò.

Il mellifluo fece un movimento con la mano, come se stesse tracciando una linea tra sé e l'omino. L'aria cominciò a vibrare e un vento gelido si abbatté nel sottopassaggio. Da qualche parte sulla banchina ferroviaria alcuni bambini si misero a piangere, un cane cacciò un ululato.

L'omino si arrestò, guardando davanti a sé con aria meditabonda. Strinse le labbra a mo' di trombetta, soffiò, fece un sorriso astuto all'individuo che gli stava di fronte. Si udì un leggero tintinnio, come se un vetro invisibile si fosse infranto. Il mellifluo fece una smorfia di dolore e arretrò di un passo.

— Bravo, devona — disse la ragazza, fermandosi alle spalle dell'asiatico. — Ma adesso forse ti conviene non avere tutta questa fretta.

— Devo sbrigarmi, ohi, sbrigarmi — biascicò l'omino. Guardò di sbieco dietro di sé: — Vuoi un melone, bellezza?

Sorridendo, la ragazza lo fissò. Disse: — Vieni con noi, signore… Ci siederemo, mangeremo il tuo melone, berremo una tazza di tè. È tanto che ti aspettiamo, non è bello scappare subito via.

Sul viso dell'omino si rifletté un intenso lavorio mentale. Annuì. — Andiamo, andiamo.

Il suo primo passo fece cadere il mellifluo. Come se davanti all'asiatico ora si muovesse uno scudo invisibile, un muro non materiale, ma fatto piuttosto di vento furioso: l'uomo venne trascinato per il pavimento, i lunghi capelli svolazzanti. Strizzò gli occhi e un urlo silenzioso gli esplose in gola.

Il ragazzo con l'aspetto del punk agitò la mano e uno sfarfallio di luci scarlatte si scagliò contro l'omino. Erano accecanti, ma non appena si staccavano dal palmo della mano, cominciavano a indebolirsi. Alla schiena dell'asiatico giungevano quando non erano più che un bagliore a stento visibile.

— Ahi ahi ahi — disse l'omino senza fermarsi. Contrasse le scapole, proprio come se sulla schiena gli si fosse posata una mosca fastidiosa.

— Alisa! — gridò il ragazzo senza interrompere il suo inutile attacco. Le sue dita si muovevano, cincischiavano l'aria, ne attingevano grumi di luce scarlatta e li gettavano contro l'omino. — Alisa!

La ragazza chinò la testa, continuando a fissare l'asiatico in fuga. Bisbigliò piano qualcosa e fece scorrere la mano sul vestito. Dal nulla comparve sul palmo un prisma sottile e trasparente.

L'omino accelerò l'andatura, sbandò a sinistra e a destra, abbassò la testa in modo ridicolo. Il mellifluo continuava a rotolare davanti a lui, ma ormai non si sforzava più di urlare. Aveva il volto graffiato a sangue, gli arti spezzati e privi di controllo, come se non fosse semplicemente rotolato per tre metri su un pavimento liscio, ma come se un folle uragano o un cavallo spronato l'avessero trascinato per tre chilometri su una steppa sassosa.

La ragazza guardò l'omino attraverso il prisma.

Inizialmente l'asiatico rallentò il passo. Poi emise un gemito e aprì le mani. Il melone si spaccò con uno scricchiolio sul pavimento di marmo. Anche la cartella cadde per terra.

— Oh — disse, quando la ragazza lo chiamò devona. — Oh oh oh.

L'omino si accasciò e cominciò a rattrappirsi. Le guance si infossarono, gli zigomi si affilarono, le mani si assottigliarono come quelle dei vecchi e si ricoprirono di vene e venuzze. I capelli neri non imbiancarono, ma si diradarono e un velo di polvere grigia li ricoprì. L'aria intorno a lui vibrò… invisibili rivoli ardenti cominciarono a scorrere verso Alisa.

— Ciò che non mi era stato dato, d'ora in avanti sarà mio — sibilò la ragazza. — Tutto ciò che è tuo è mio.

Il suo viso si stava arrossando tanto rapidamente quanto l'omino rinsecchiva. Le labbra schioccavano, mormoravano sordamente parole dal suono bizzarro. Il punk fece una smorfia, abbassò la mano: l'ultimo raggio scarlatto colpì il pavimento e fece annerire il marmo.

— Davvero facile — disse. — Davvero.

— Il Capo era molto scontento — disse la ragazza, nascondendo il prisma da qualche parte tra le pieghe del vestito. Sorrise. Il suo viso emanava quella forza e quell'energia che a volte pervadono le donne dopo il sesso. — Facile, ma il nostro Kolen'ka non ha avuto fortuna.

Il punk guardò il corpo immobile del capellone e annuì. I suoi occhi torbidi non esprimevano particolare compassione ma nemmeno malevolenza.

— Proprio così — concordò. Con passo sicuro si avvicinò al cadavere disseccato. Gli passò sopra il palmo della mano: il corpo si dissolse in cenere. Con la mossa successiva il ragazzo ridusse in una poltiglia appiccicosa il melone spaccato.

— La cartella — disse la ragazza. — Controlla la cartella.

Un movimento del palmo: la similpelle logora scricchiolò e la cartella si aprì come una conchiglia perlifera sotto il coltello di un pescatore esperto. Solo che, a giudicare dallo sguardo del ragazzo, non vi era traccia della perla tanto attesa. Due cambi di biancheria pulita, una camicia bianca, un paio di scarpette di gomma in un sacchetto di plastica, un bicchiere di carta, un astuccio con gli occhiali.

Il ragazzo compì ancora alcuni gesti con la mano: il bicchiere si ruppe, l'abito si scucì, l'astuccio si aprì. Bestemmiò.

— È vuota, Alisa! Assolutamente vuota.

Sul viso della strega lentamente apparve stupore.

— Eppure è il devona, Stasik. Il corriere non poteva affidare il carico a nessuno!

— A quanto pare l'ha fatto — disse il ragazzo, rimestando con il piede la cenere dell'asiatico. Eppure ti avevo avvertita. Dagli agenti della Luce ci si può aspettare di tutto. Te ne sei assunta la responsabilità. Io sarò forse un mago poco potente. Ma ho cinquant'anni d'esperienza in più, rispetto a te.

Alisa annuì. Lo smarrimento era già scomparso dai suoi occhi. Di nuovo la mano scorse lungo il vestito, alla ricerca del prisma.

— Sì — convenne lei mite. — Hai ragione, Stasik. Ma tra cinquant'anni saremo pari.

Il punk scoppiò in una risata, si accovacciò accanto al cadavere del capellone e cominciò a frugare rapidamente nelle sue tasche.

— Ne sei convinta?

— Sì. Ti sei fatto valere, Stasik, ma inutilmente. Dopotutto l'avevo detto, io. di controllare anche gli altri passeggeri.

Il ragazzo si voltò troppo tardi, quando la vita, attraverso decine di invisibili fili roventi, aveva ormai cominciato ad abbandonare il suo corpo.

Capitolo 1

La Oldsmobile era antiquata, il che peraltro mi piaceva. Solo che, con il caldo pazzesco che per tutto il giorno aveva arroventato la strada, i finestrini aperti non servivano. Ci voleva un condizionatore.

Il'ja era con tutta probabilità della stessa opinione. Guidava tenendo il volante con una mano, si guardava intorno e attaccava discorso di continuo. Sapevo bene che un mago del suo livello vede ogni eventualità con una decina di minuti d'anticipo e che non si sarebbe verificato alcun incidente, e tuttavia mi sentivo a disagio.

— Avevo pensato di installare un condizionatore — disse a Julja in tono colpevole. La ragazzina soffriva il caldo più di tutti, il viso le si ricopriva di brutte macchie rosse, gli occhi si offuscavano. Avevamo paura che vomitasse. — Solo che bisognerebbe manomettere tutta la macchina, e la macchina non è predisposta! Né ai condizionatori, né al telefono, né ai computer di bordo.

— Uhu — disse Julja. Sorrise debolmente. Il giorno prima ci eravamo sfiniti: nessuno era andato a letto, avevamo lavorato fino alle cinque del mattino e poi avevamo dormito direttamente in sede. Far sgobbare una tredicenne quanto gli adulti naturalmente era una porcata. Ma l'aveva voluto lei stessa, nessuno l'aveva forzata.

Svetlana, che sedeva davanti, guardò preoccupata Julja e poi Semën, con aria di estrema disapprovazione. Sotto quello sguardo, l'imperturbabile mago per poco non si strozzò con la sua Java. Fece un respiro: il fumo di sigaretta che mulinava per tutto l'abitacolo fu risucchiato nei suoi polmoni. Con uno scatto gettò via il mozzicone. Anche le Java costituivano una concessione, dato che ormai da un po' Semën preferiva le Polet e altre terribili varietà di tabacco.

— Chiudete i finestrini — disse Semën.

Un minuto dopo l'interno della macchina cominciò a raffreddarsi. Si diffuse un vago odore di mare, leggermente salato. Compresi persino che si trattava di un mare notturno, e nemmeno troppo lontano: l'odore abituale della costa di Crimea. Iodio, alghe, una sottile nota di assenzio. Il Mar Nero. Koktebel'.

— Koktebel'? — chiesi.

— Jalta — rispose brevemente Semën. — Settembre, il dieci del mese, anno 1974, notte, verso le tre. Dopo una leggera tempesta.

Il'ja fece schioccare la lingua invidioso: — Caspita! E un bouquet così non l'avevi ancora consumato?

Julja guardò Semën con aria colpevole. La preservazione del clima riusciva difficile a qualsiasi mago, e il bouquet percettivo usato in quel momento da Semën era tale da abbellire qualsiasi festicciola.

— Grazie, Semën Pavlovič. — In sua presenza chissà perché la ragazzina si mostrava timida, proprio come di fronte a un capo, e lo chiamava per nome e patronimico.

— È una sciocchezza — rispose tranquillo Semën. — La mia collezione comprende una pioggia nella taiga del 1913, un tifone del '40, una mattina primaverile a Jurmala del '56 e, mi sembra, una sera d'inverno a Gagry.

Il'ja si mise a ridere. — Una sera d'inverno a Gagry… alla malora! Invece la pioggia nella taiga…

— Non ho intenzione di scambiarla — l'avverti subito Semën. — Conosco la tua collezione, non possiedi niente che abbia lo stesso valore.

— Però in cambio di due, no, di tre…

— Posso regalarla — disse Semën.

— Ma va' là — rispose piccato Il'ja, strattonando il volante. — Come potrei ricambiare un regalo del genere?

— Allora ti inviterò quando la riattiverò.

— Grazie.

Di sicuro si era offeso. Secondo me, quei due erano pressoché identici per capacità, poteva darsi addirittura che Il'ja fosse un po' più potente. Ma in quel momento Semën possedeva un'aura degna di una raffigurazione magica. E in più era capace di non consumare la propria collezione per un nonnulla.

Da un certo punto di vista ciò che aveva appena compiuto era uno sperpero: addolcire l'ultima mezz'ora di viaggio nella calura con un assortimento di percezioni tanto prezioso.

— Un nettare così bisognerebbe inalarlo di sera, mangiando spiedini — fece Il'ja. A volte si distingueva per la sua stupefacente insensibilità. Julja si irrigidì.

— Mi ricordo che una volta capitai in Oriente — disse all'improvviso Semën. — Il nostro elicottero… insomma, partimmo a piedi. Gli strumenti tecnici di comunicazione erano andati distrutti, usare la magia sarebbe stato come scorrazzare per Harlem con un cartello con la scritta MORTE AI NEGRI! Ci incamminammo per il deserto del Hadramaut. E per raggiungere l'agente locale rimaneva da percorrere una bazzecola, cento chilometri… forse centoventi. E non avevamo più forze. Niente acqua. Allora Alëška, un bravo ragazzo — adesso lavora a Primor'e — dice: «Oddio, non ce la faccio, Semën Pavlovič, a casa ho lasciato una moglie e due bambini, voglio tornare indietro.» Si sdraia sulla sabbia e riattiva la scorta. Venti minuti di acquazzone torrenziale. Ci dissetammo, riempimmo le borracce e, insomma, ci rimettemmo in forze. Avrei voluto spaccargli la faccia, per non averlo detto prima, ma ebbi pietà.

Dopo una conversazione così lunga, in macchina calò per un attimo il silenzio. Raramente Semën coloriva gli episodi della sua tempestosa biografia in modo tanto pittoresco.

Il'ja si riprese per primo. — Perché allora non hai usato la tua pioggia nella taiga?

— Ho fatto un confronto — sbuffò Semën. La mia pioggia modello da collezione del 1913 e un acquazzone primaverile di serie, raccolto a Mosca; l'acquazzone sapeva di benzina, ci credi?

— Ci credo.

— Questo è il punto. Ogni cosa a suo tempo e luogo. La sera che ho rievocato adesso era gradevole. Ma non eccezionale. Perfettamente adatta a questo tuo macinino.

Svetlana rise piano. La sottile tensione che si era accumulata all'interno dell'auto si scaricò.

Per tutta la settimana i Guardiani della Notte erano stati preda di una grande agitazione. Benché, in apparenza, a Mosca non stesse accadendo niente di particolare. Il solito lavoro di routine. Sulla città gravava una calura senza precedenti per il mese di giugno, e le statistiche degli incidenti erano scese ai livelli minimi. Tutto ciò non piaceva affatto né agli agenti della Luce né a quelli delle Tenebre.

I nostri esperti formularono l'ipotesi secondo cui l'inaspettata canicola era dovuta a un'azione che le Forze delle Tenebre andavano preparando. Di certo, nello stesso tempo, i Guardiani del Giorno avevano cercato di scoprire se per caso non fossero stati i maghi della Luce ad agire sul clima. Quando entrambe le parti si convinsero che gli squilibri atmosferici avevano cause ambientali, si piombò nella più assoluta inattività.

Gli agenti delle Tenebre si calmarono, come mosche abbattute dalla pioggia. Con un tempo così, nonostante tutte le previsioni dei medici, il numero di sciagure e di morti naturali calò. Anche gli agenti della Luce non avevano da lavorare, i maghi litigavano per sciocchezze, per ottenere dall'archivio i più banali documenti toccava aspettare mezza giornata, alla proposta di elaborare una previsione del tempo gli esperti proferivano in tono cattivo: «Scura è l'acqua nelle nubi.» Boris Ignat'evič vagava per l'ufficio con aria completamente stravolta: la calura in versione moscovita aveva prostrato persino lui, con tutti i suoi illustri trascorsi e le sue origini orientali.

Giovedì mattina aveva convocato il personale: con un'ordinanza, la pattuglia chiamava in aiuto presso di sé due volontari, e ai restanti comandava di sparire dalla capitale. Dove meglio credevano: alle Maldive, in Grecia, all'inferno, in una dacia in campagna. L'ordine era di non comparire in ufficio prima di lunedì all'ora di pranzo.

Il Capo attese giusto un minuto, finché su ogni faccia non si fu aperto un largo sorriso di gioia, e aggiunse che sarebbe stato bene ripagare con il lavoro l'inattesa fortuna. Con un impegno eccezionale. Perché non si finisse poi per vergognarsi dei giorni spesi inutilmente. Disse che i classici non a torto affermavano: «Il lunedì comincia di sabato» e che, dati quei tre giorni di ferie, eravamo tenuti a completare tutta l'attività di routine nel tempo rimanente.

Ci mettemmo quindi al lavoro, alcuni fino al mattino. Eseguimmo una verifica sulle Forze delle Tenebre rimaste in città e sotto sorveglianza speciale: vampiri, mutantropi, streghe e tutta l'irrequieta marmaglia dei ranghi più bassi. In quel momento, i vampiri non avevano sete di sangue caldo, ma di birra ghiacciata. Le streghe tentavano non di dare il malocchio al prossimo, ma di provocare una pioggerella leggera su Mosca.

Perciò adesso ce ne andavamo in vacanza. Non alle Maldive, naturalmente: il Capo aveva un po' sopravvalutato la munificenza dell'ufficio contabilità. Ma anche due o tre giorni in campagna erano un'ottima cosa. Poveri volontari, rimasti con il Capo nella capitale, a vigilare e fare la guardia!

— Devo telefonare a casa — disse Julja. Si era visibilmente rianimata, quando Semën aveva sostituito la calura che regnava in macchina con la frescura marina. — Sveta, passami il telefonino.

Anch'io mi godevo il fresco. Guardavo le macchine che sorpassavamo: nella maggior parte dei casi i vetri erano abbassati, e la gente ci lanciava occhiate invidiose, sospettando erroneamente che la vecchia automobile disponesse di un poderoso impianto di climatizzazione.

— Tra poco bisogna svoltare — dissi a Il'ja.

— Me lo ricordo. Ci sono stato, una volta.

— Zitti! — sibilò Julja con voce terribile. E si mise a cicalare nel ricevitore: — Mammina, sono io! Siamo già arrivati. Certo, bene! C'è un lago, qui… No, piccolino. Mammina, posso stare solo un minuto, il papà di Sveta mi ha dato il suo cellulare. No, nessun altro. A Sveta? Sì, subito.

Svetlana sospirò e prese il telefono dalla ragazzina. Mi guardò cupamente e io tentai di conferire alla mia faccia un'espressione seria.

— Buongiorno, zia Nataša — fece Svetlana con voce sottile, infantile. — Sì, tanto contente. Sì… No, con i grandi. Mamma è lontana, devo chiamarla? Sì, glielo riferirò… Senz'altro… Arrivederci.

Spense il cellulare e disse: — Ragazza, cosa succederà quando tua mamma chiederà alla vera Sveta come avete passato la vacanza?

— Sveta risponderà che l'abbiamo passata bene.

Svetlana sospirò e guardò Semën in cerca di sostegno.

— L'utilizzo dei poteri magici per scopi personali porta a conseguenze imprevedibili — disse Semën in tono burocratico. — Se ricordo bene, una volta…

— Ma quali poteri magici?! — esclamò Julja con sincero stupore. — Ho detto alla mamma che andavo a una festa con i ragazzi e ho chiesto a Svetlana di coprirmi. Sveta ha protestato un po', ma poi ha accettato.

Dietro il volante, Il'ja fece una risatina. — Mi ci vuole proprio, questa festa — disse, evidentemente senza rendersi conto che la cosa divertiva lui, ma scandalizzava Julja. — Ma sì, che i marmocchi umani se la spassino. Be', che c'è da ridere? Eh?

A ciascuno di noi Guardiani il lavoro porta via gran parte della vita. Non perché siamo sgobboni esaltati, ma uno sano di mente non preferisce il riposo al lavoro? Non perché lavorare sia poi tanto interessante: gran parte della nostra attività consiste in noiosi pattugliamenti o nel logorarsi il fondo dei pantaloni in ufficio. Ma siamo in pochi. La formazione della Guardia del Giorno si completa molto più facilmente: qualsiasi agente delle Tenebre aspira alla possibilità di esercitare il potere. La nostra situazione è completamente diversa.

Eppure, oltre al lavoro, ciascuno di noi custodisce un pezzettino di vita che non cede a nessuno: né alla Luce, né alle Tenebre. È solo e soltanto nostro. Un pezzettino di vita che non nascondiamo, ma nemmeno mettiamo in mostra, e che costituisce ciò che ci rimane della nostra precedente esistenza umana.

Qualcuno alla prima occasione si mette a viaggiare. Il'ja, per esempio, predilige i viaggi turistici ordinari, Semën invece il banale autostop. Una volta andò da Mosca a Vladivostok senza un soldo in un tempo record, ma non poté registrare il risultato presso la Lega dei Liberi Viaggiatori, perché durante il tragitto aveva usato per due volte i poteri magici.

Ignat, e non solo lui, non concepisce alcun tipo di svago all'infuori del sesso. Quasi tutti attraversano questa fase: la vita concede molte più possibilità agli Altri che non agli umani. E che la gente normale provi un'intensa e inconscia attrazione per gli Altri, persino quando questi non vorrebbero, è un fatto risaputo.

Molti di noi sono collezionisti e la gamma si estende dagli innocui appassionati di temperini, ciondoli, francobolli e accendini, fino ai raccoglitori di climi, odori, aure e sortilegi. Una volta io facevo collezione di modellini d'automobile, sperperavo un sacco di soldi per certi esemplari rari che avevano valore solo per qualche migliaio di idioti. Ora tutta questa raccolta giace ammassata in due scatole di cartone. Bisogna che una volta o l'altra le porti in strada e le rovesci sulla piazzuola di sabbia, per la gioia dei bambini.

Anche i cacciatori e i pescatori sono numerosi. Igor' e Garik sono appassionati di paracadutismo estremo. Quella cara ragazza di Galja, la nostra inutile programmatrice, si dedica alla coltivazione dei bonsai. In generale reclamiamo tutta la ricca scorta di svaghi accumulata dall'umanità.

Per cosa invece si appassionasse Tigrotto, da cui in quel momento ci stavamo recando, non riuscivo nemmeno a immaginarlo. Desideravo saperlo quasi quanto fuggire dal caldo infernale della città. Di solito, capitando a casa di qualcuno, si capisce subito qual è la sua piccola "bizzarria".

— Manca ancora molto? — chiese Julja in tono lievemente capriccioso. Avevamo ormai lasciato la strada principale e percorso cinque chilometri di terra battuta, costeggiando un piccolo villaggio di dacie e un fiumiciattolo.

— Siamo quasi arrivati — risposi, dopo aver fatto un confronto con l'immagine della strada lasciataci da Tigrotto.

— No, siamo arrivati nel vero senso della parola — disse Il'ja, sterzando e lanciando la macchina dritto verso gli alberi. Svetlana reagì con maggior calma, ma puntò ugualmente in avanti le braccia in attesa dell'urto.

La macchina sfrecciò attraverso un'intricata macchia di cespugli e piante cadute, e si abbatté contro l'ininterrotto muro d'alberi che le si parava di fronte. Ovviamente non ci fu alcuno schianto. Attraversammo l'oscurità e ci ritrovammo in una magnifica strada asfaltata. Davanti a noi scintillava lo specchio di un laghetto, presso la cui riva sorgeva una casa di mattoni a due piani, circondata da un alto steccato.

— Ciò che mi colpisce dei mutantropi — disse Svetlana — è questa loro tendenza alla riservatezza. Non solo si è nascosta nell'oscurità, ma si è anche costruita uno steccato.

— Tigrotto non è un mutantropo! — s'indignò la ragazzina. — È una maga mutante!

— È la stessa cosa — ribatté Svetlana con dolcezza.

Julja guardò Semën, evidentemente in cerca di supporto. Il mago sospirò. — In effetti, Sveta ha ragione. I maghi da combattimento strettamente specializzati sono essi stessi mutantropi. Solo, con un segno differente. Se, entrando per la prima volta nel Crepuscolo, Tigrotto fosse stata di un umore appena un po' diverso, si sarebbe trasformata in un agente delle Tenebre, in un mutantropo. Sono pochissime le persone per cui tutto è chiaro e definito già in anticipo. Di norma avviene una lotta. Una preparazione all'iniziazione.

— E per me com'è stato? — chiese Julja.

— Te l'ho già raccontato — borbottò Semën. — Abbastanza facile.

— Una semplice rimoralizzazione degli insegnanti e dei genitori — ridacchiò Il'ja, fermando la macchina davanti al cancello. — E la ragazzina di colpo si è riempita d'amore e bontà per tutto ciò che la circondava.

— Il'ja! — lo riprese Semën. Come istruttore di Julja era piuttosto svogliato e volentieri evitava d'intromettersi nella maturazione della giovane maga. Ora però certamente non aveva gradito l'eccessiva impertinenza di Il'ja.

Julja era una ragazzina talentosa, e la Guardia riponeva in lei serie speranze. Non tali tuttavia da farle attraversare i labirinti dei rompicapi morali allo stesso ritmo di Svetlana, futura Grande Maga.

Probabilmente io e Sveta avevamo formulato questo pensiero nello stesso momento. Ci fissammo… e all'unisono volgemmo lo sguardo altrove.

Un muro invisibile ci opprimeva, premeva contro di noi spingendoci in direzioni diverse. Io sarei rimasto per sempre un mago di terzo livello. Svetlana da un momento all'altro mi avrebbe superato e, dopo un periodo certamente breve — molto breve, poiché la direzione della Guardia lo riteneva necessario — sarebbe diventata una maga fuori categoria.

Da allora tra noi sarebbero rimaste soltanto le strette di mano amichevoli a ogni incontro e le cartoline d'auguri per il compleanno e a Natale.

— Cos'è, si sono addormentati, là dentro? — si irritò Il'ja, per niente straziato da simili problemi. Si sporse dal finestrino e agitò la mano guardando nell'obiettivo della telecamera posta sopra l'ingresso. Fece una serie di segnali.

Lentamente il portone cominciò ad aprirsi.

— Così va meglio — brontolò, entrando con la macchina nel cortile. Il posto sembrava grande e fitto d'alberi. Era stupefacente come fossero riusciti a costruire la villa senza danneggiare quei pini e quegli abeti giganteschi. Di certo non si vedeva alcuna aiuola coltivata, a parte quella che circondava una piccola fontana non in funzione. Nello spiazzo di cemento davanti alla casa si trovavano già cinque automobili. Riconobbi la vecchia Niva che Danila usava per patriottismo, e l'auto sportiva di Ol'ga… chissà come aveva fatto ad arrivare fin lì con quella macchina sulla terra battuta… Tra di loro era parcheggiato il logoro furgoncino di Tolja; le ultime due le avevo già viste presso l'ufficio, ma non sapevo di chi fossero.

— Non ci stavano aspettando — disse indignato Il'ja. — Si fa bisboccia, tutti si divertono, e gli uomini migliori della Guardia si trascinano per le stradine di campagna.

Spense il motore e in quel momento Julja strillò felice: — Tigrotto!

Mi scavalcò con facilità, aprì la portiera e sgusciò fuori dalla macchina.

Semën mandò un'imprecazione e con un movimento impercettibile le fu dietro. In tempo.

Non so dove fossero nascosti quei cani. In ogni caso, non si erano palesati in alcun modo fino all'istante in cui Julja uscì dall'auto. Ma non appena i suoi piedi ebbero toccato terra, le loro ombre sbucarono ondeggiando da ogni parte, in silenzio.

La ragazzina gridò. Le sue facoltà le sarebbero bastate per avere la meglio non dico su cinque o sei cani, ma su un intero branco di lupi. Semplicemente non le era mai capitato di affrontare un vero combattimento, perciò si confuse. In tutta sincerità, neanch'io mi aspettavo un assalto in quel luogo. Tanto più di quel tipo. In genere i cani non attaccano gli Altri. Delle Forze delle Tenebre hanno paura. Amano le Forze della Luce. Bisogna lavorare a lungo e seriamente sugli animali per reprimere il timore istintivo che provano di fronte a una sorgente magica incarnata.

Svetlana, Il'ja e io balzammo fuori, ma Semën ci aveva preceduti. Con un braccio afferrò e sollevò la ragazzina, con l'altro tracciò una linea nell'aria. Pensai che avrebbe usato una magia d'intimidazione, sarebbe scomparso nel Crepuscolo, o avrebbe ridotto i cani in cenere. Di solito "per riflesso'" si usano gli incantesimi più semplici.

Invece Semën provocò un "freeze", una gelata temporale. Due cani furono raggiunti in aria: avviluppati in un luccichio turchino, i loro corpi vi rimasero sospesi, con gli stretti musi digrignanti protesi in avanti. Gocce di bava si staccarono e caddero dalle zanne come una specie di grandine azzurra, splendente.

La vista dei tre cani congelati a terra faceva meno effetto.

Tigrotto stava già accorrendo. Sbiancò in viso e spalancò gli occhi. Per un attimo fissò Julja: la ragazzina continuava a strillare, ma in modo già più attenuato, per inerzia.

— Siete tutti interi? — domandò infine.

— Ma va' a quel paese — borbottò Il'ja, abbassando il bastone magico. — Che razza di belve ti sei messa ad allevare?

— Non vi avrebbero fatto niente! — disse Tigrotto sulla difensiva.

— Davvero? — Semën liberò Julja dalla stretta e la rimise a terra. Con fare pensoso passò il dito sulla zanna di uno dei cani sospesi nell'aria. Lo strato elastico di gelo si tese sotto la sua mano.

— Giuro! — Tigrotto strinse la mano al petto. — Ragazzi, Sveta, Julja, perdonatemi. Non sono riuscita a fermarli. I cani sono addestrati a gettare a terra e tener fermi gli sconosciuti.

— Anche gli Altri?

— Sì.

— Anche le Forze della Luce? — Nella voce di Semën si manifestò una sincera ammirazione.

Tigrotto abbassò gli occhi e annuì.

Julja si avvicinò, si strinse a lei, e in tono piuttosto tranquillo disse: — Ma io non mi sono spaventata. Solo confusa.

— Meno male che mi sono confuso anch'io — fece cupamente notare ll'ja, mettendo via l'arma. — L'arrosto di cane è un piatto troppo esotico. Però, Tigre, i tuoi cani mi conoscono!

— Non ti avrebbero nemmeno sfiorato.

Lentamente la tensione cominciò a calare. Beninteso, non sarebbe successo niente di terribile, siamo capaci di curarci l'un l'altro, ma il picnic sarebbe andato a monte.

— Perdonatemi — ripeté Tigrotto. Ci abbracciò con uno sguardo implorante.

— Ascolta, perché una cosa del genere? — Sveta indicò i cani con gli occhi. — Spiegamelo, dunque, perché? Le tue arti sono sufficienti a respingere un plotone di berretti verdi: perché questi rottweiler?

— Non sono rottweiler, sono Staffordshire terrier.

— Capirai che differenza!

— Una volta hanno catturato un ladro. Io qui ci vengo due giorni la settimana. Dalla città la strada non è lunga.

La spiegazione non era molto convincente. Un semplice sortilegio d'intimidazione e nessuno si sarebbe avvicinato. Ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo apertamente. Tigrotto fu disarmante: — È la loro indole.

— Rimarranno sospesi per molto? — domandò Julja, stringendosi a lei come prima. — Voglio fare amicizia con loro. Altrimenti mi resterà un trauma psicologico nascosto, che inciderà inevitabilmente sul mio carattere e sulle mie preferenze sessuali.

Semën fece una risatina. Con quella replica, chissà quanto spontanea e quanto invece calcolata, Julja aveva spento il conflitto.

— Verso sera si rianimeranno. Padrona, ci inviti a entrare?

Lasciammo i cani sospesi intorno alla macchina e c'incamminammo verso la villa.

— Salve, Tigrotto! — disse Julja. Ormai ci ignorava completamente, incollata com'era alla ragazza. Pareva che la maga fosse il suo idolo, a cui perdonava ogni cosa, persino i cani troppo vigili.

Sarebbe interessante capire perché sono sempre le doti inaccessibili a diventare il nostro feticcio…

Julja era un'eccellente maga analitica, capace di dipanare i fili delle cose reali, individuare le cause magiche nascoste di fatti apparentemente quotidiani. Era intelligente, al dipartimento la adoravano, e non solo perché era una ragazzina, ma anche come compagna di lotta, come collaboratrice preziosa, a volte insostituibile. Ma il suo idolo era Tigrotto, una maga-mutantropo da combattimento. Avrebbe potuto imitare quella brava vecchietta di Polina Vasil'evna, tuttora impiegata presso la sezione analitica a metà stipendio, o innamorarsi del caposezione, l'imponente, attempato donnaiolo Edik.

Invece no, il suo idolo era diventato Tigrotto.

Cominciai a fischiettare qualcosa, standomene in coda alla processione. Intercettai lo sguardo di Svetlana, scossi leggermente la testa. Tutto a posto. Ci aspettava un giorno intero d'ozio. Niente Forze delle Tenebre e della Luce, niente intrighi, niente opposizioni. Fare il bagno nel lago, prendere il sole, mangiare spiedini innaffiandoli di vino rosso. Di sera, la sauna. In una villa così doveva per forza esserci un'ottima sauna. Infine, prendere un paio di bottiglie di vodka, un vasetto di funghi sotto sale, andare a nascondersi con Semën da qualche parte lontano dalla folla e bere fino all'ottenebramento, guardando le stelle e facendo discorsi filosofici su temi elevati.

Splendido.

Vivere come un umano. Anche solo per un giorno.

Semën si fermò e mi fece un cenno d'assenso. — Prenderemo due bottiglie. O tre. Arriverà anche qualcun altro.

Non c'era da meravigliarsi, né tanto meno da indignarsi. Non aveva letto nei miei pensieri: semplicemente la sua esperienza di vita era di gran lunga maggiore.

— D'accordo — annuii. Di nuovo Svetlana mi lanciò un'occhiata sospettosa, ma restò zitta.

— Per te è più facile — aggiunse Semën. — A me riesce molto di rado di diventare un umano.

— Ma è proprio necessario? — chiese Tigrotto, fermandosi presso l'uscio.

Semën si strinse nelle spalle. — Ovviamente no. Però se ne ha voglia…

Ed entrammo nella villa.

Venti ospiti forse erano un po' troppi persino per quella casa. Fossimo stati uomini, sarebbe stata un'altra faccenda. Ma così facevamo troppo chiasso. Provate a mettere insieme una ventina di bambini, che abbiano studiato sodo per diversi mesi, date loro in mano l'intero assortimento di un negozio di giocattoli, autorizzateli a fare tutto ciò che vogliono, e osservate il risultato.

Forse soltanto io e Sveta ci tenevamo un po' in disparte, rispetto a quei rumorosi divertimenti. Avevamo preso un bicchiere di vino a testa dal buffet e ci eravamo seduti su un divanetto di pelle, in un angolo del salotto.

Semën e Il'ja invece ingaggiarono un duello magico. Molto civile, pacato e all'inizio persino piacevole per i presenti. Evidentemente in macchina Semën aveva ferito l'amico nell'amor proprio: ora a turno i due cambiavano il clima nella stanza. A quel punto avevamo già provato l'inverno in un bosco nei dintorni di Mosca, la nebbia autunnale e l'estate in Spagna. Tigrotto oppose un veto deciso su piogge e acquazzoni, ma i due maghi non avevano certo l'intenzione di evocare la furia degli elementi. Avevano chiaramente imposto determinate limitazioni interne ai cambiamenti del clima e la competizione non si basava tanto sulla rarità dei frammenti sensoriali, quanto piuttosto sulla loro idoneità rispetto al momento.

Garik, Farid e Danila giocavano a carte. Ai giochi più ordinari, con semplicità, così che solo l'aria sopra il tavolo scintillava di magia. Adoperavano ogni possibile sistema magico per barare e per difendersi dai bari. A quel punto ormai non contavano più né le carte in mano, né a chi toccasse un'altra presa.

Ignat se ne stava accanto alla porta aperta, circondato dalle ragazzette della sezione scientifica; al gruppetto si erano aggiunte anche le nostre inette programmatrici. Con ogni evidenza il nostro sessuofilo era riuscito in qualche modo a sopportare la disfatta sul fronte amoroso e adesso si leccava le ferite in quella cerchia ristretta.

— Anton — mi domandò Sveta sottovoce — secondo te tutto questo è autentico?

— Cosa, di preciso?

— Tutta questa allegria. Ti ricordi cos'ha detto Semën?

Alzai le spalle. — Quando avremo cent'anni torneremo su questa domanda. A me fa piacere. Semplicemente piacere. Che non si sia costretti a fuggire da nessuna parte, che non si debba calcolare niente, che i Guardiani abbiano mostrato la lingua per poi ritirarsi nell'ombra.

— Anche a me fa piacere — assentì Svetlana. — Però di giovani o quasi giovani ce ne sono solo quattro, qui. Julja, Tigrotto, tu, io. Cosa sarà di noi tra cent'anni? O trecento?

— Staremo a vedere.

— Anton, cerca di capire. — Sveta sfiorò la mia mano con un tocco leggero. — Sono veramente fiera di essere entrata nella Guardia. Sono felice che mia mamma stia di nuovo bene. Io adesso vivo molto meglio, metterlo in dubbio sarebbe addirittura ridicolo. Posso persino comprendere il motivo per cui il Capo ti ha sottoposto a quella prova…

— Non bisogna, Sveta. — Le presi la mano. — Anch'io l'ho compreso, e da quel momento è stato più difficile. Non bisogna.

— E io non mi ci provo nemmeno. — Sveta inghiottì il vino e posò il bicchiere vuoto. — Anton, c'è una cosa, però: non vedo alcuna gioia.

— Dove? — Certo a volte sono di un'ottusità stupefacente.

— Qui. Nella Guardia della Notte. Nella nostra affiatata compagnia. Ogni giorno per noi è una specie di battaglia. Ora grande, ora piccola. Contro un mutantropo impazzito, contro un mago delle Tenebre, contro tutte le Forze delle Tenebre contemporaneamente. La tensione dello sforzo, il mento in fuori, gli occhi spalancati, essere pronti a gettarsi di petto contro una cannoniera o a culo nudo su un riccio.

Feci una risatina.

— Cosa c'è di male in questo, Sveta? Sì, siamo soldati. Tutti quanti, da Julja a Geser. Certo la guerra non è molto divertente. Ma se ci ritiriamo…

— Cosa succederebbe? — domandò Sveta. Verrebbe l'Apocalisse? Le forze del Bene e del Male sono in lotta da millenni. Si sono tagliate la gola a vicenda, hanno aizzato gli eserciti umani gli uni contro gli altri, e sempre per scopi superiori. Eppure, dimmi, Anton: davvero gli uomini in tutto questo tempo sono diventati migliori?

— Sì.

— Ma dai tempi in cui è cominciato il lavoro delle Guardie? Anton caro, me ne hai parlato fino alla nausea, e non solo tu. Che il conflitto principale si svolge per le anime degli uomini, che noi scongiuriamo gli scontri di massa. Scongiuriamo! Gli uomini continuano a uccidersi l'un l'altro. Ancor più che duecento anni fa.

— Intendi dire che il nostro lavoro è dannoso?

— No — Svela scosse stancamente la testa — non intendo questo. Non ho tanta presunzione. Intendo dire soltanto una cosa: sarà pur vero che noi siamo la Luce. Solo che… Sai, in città hanno cominciato a vendere false decorazioni per l'albero di Natale. Nell'aspetto sono identiche a quelle vere, ma non portano nessuna gioia.

Raccontò il breve aneddoto con assoluta serietà e senza cambiare tono. Mi guardò negli occhi. — Capisci?

— Capisco.

— Sì, certamente. Le Forze delle Tenebre hanno cominciato a compiere di meno il Male — disse Svetlana. — Credo che queste nostre concessioni reciproche — opera buona per opera malvagia, licenze di uccidere e di guarire — si possano giustificare. Le Forze delle Tenebre commettono il Male meno di prima, noi non lo commettiamo per definizione. Ma gli uomini?

— Che c'entrano gli uomini?

— C'entrano eccome! Noi li difendiamo. Con abnegazione totale e instancabilmente. Perché dunque non diventano migliori? Invece fanno da soli il lavoro delle Tenebre. Perché? Non sarà che abbiamo perso qualcosa, Anton? Quella fede per cui i maghi della Luce mandavano gli eserciti a morire, ma marciando essi stessi in prima linea? L'abilità forse non sta soltanto nel difendere, ma anche nel dare gioia. A che servono mura robuste, se sono le mura di una prigione? Gli uomini hanno dimenticato la vera magia, non credono nelle Tenebre, ma neppure nella Luce! Anton, siamo soldati, sì! Ma l'esercito si ama solo se si è in guerra.

— Lo siamo.

— Chi può saperlo?

— Probabilmente non siamo proprio semplici soldati — dissi io. Recedere dalla propria posizione abituale è sempre spiacevole, ma non potevo fare altro. — Degli ussari, piuttosto. Tram pam pam!…

— Gli ussari erano capaci di sorridere. Noi non lo siamo quasi più.

— Allora dimmi cosa bisogna fare. — All'improvviso compresi che quella giornata, preannunciatasi come meravigliosa, stava precipitosamente scivolando verso un burrone oscuro e fetido, pieno di vecchio pattume. — Dillo! Sei una Grande Maga o lo diventerai presto. Uno dei generali della nostra guerra. Io invece sono un semplice tenente. Comandami, e che i tuoi ordini siano precisi. Dimmi, che fare?

Solo in quel momento notai che in sala era sceso il silenzio, che tutti ci stavano ascoltando. Ma ormai non aveva più importanza.

— Dimmi: scendere in strada, uccidere gli agenti delle Tenebre? Lo farò. Non ne sono granché capace, ma mi ci proverò con tutte le mie forze! Dimmi: sorridere e portare in dono il Bene agli uomini? Lo farò. Ma chi pagherà per il Male a cui aprirò la strada? Bene e Male, Luce e Tenebre… Sì, ripetendo queste parole ne cancelliamo il significato, le esponiamo come bandiere e le lasciamo imputridire al vento e sotto la pioggia. Allora dacci una parola nuova! Dacci nuove bandiere! Di' dove bisogna andare e cosa bisogna fare!

Le labbra cominciarono a tremarle. M'interruppi, ma ormai era troppo tardi.

Svetlana piangeva, tenendosi il viso coperto con le mani.

Che diavolo stavo facendo?

Davvero avevamo disimparato persino a sorridere gli uni agli altri?

Potevo avere cento volte ragione, ma…

Cosa contava che io avessi ragione, se ero pronto a difendere il mondo intero, ma non chi mi stava vicino? Se riuscivo a frenare l'odio, ma senza lasciare via libera all'amore?

Mi alzai di scatto, le circondai le spalle con il braccio e la trascinai fuori dalla sala. I maghi se ne stettero fermi, ci accompagnarono con lo sguardo. Forse avevano assistito a scene come quella più di una volta. Forse avevano capito tutto.

— Anton. — Tigrotto comparve accanto a noi senza fare alcun rumore, ci sospinse leggermente, aprì una porta. Mi fissò con un misto di rimprovero e inaspettata comprensione. Poi ci lasciò soli.

Per un minuto restammo immobili, Svetlana piangendo sommessamente, affondata nella mia spalla, e io in attesa. Adesso era troppo tardi per parlare. Avevo già detto tutto il possibile.

— Ci proverò.

Ecco, questo non me l'aspettavo. Ero pronto a tutto: ingiurie, contrattacchi, lamentele… ma non a quella risposta.

Svetlana ritrasse le mani dal viso bagnato, scrollò il capo e fece un sorriso.

— Hai ragione, Anton. Perfettamente ragione. Sono capace soltanto di lamentarmi e protestare. Piagnucolo come un bambino, non capisco niente. Mi mettono sotto il naso la pentola bollente, lasciano che mi scotti e poi aspettano, aspettano che io cresca. Quindi va bene così. Ci proverò, vi darò nuove bandiere.

— Sveta…

— Hai ragione — tagliò corto lei. — Ma anch'io ho un po' ragione. Certo però non avrei dovuto lasciarmi andare davanti ai ragazzi. Oggi è il nostro giorno di festa, non bisogna rovinarlo. D'accordo?

Di nuovo percepii un muro. Quel muro invisibile che si ergerà sempre tra me e Geser, tra me e i funzionari della direzione centrale.

Quel muro che il tempo erige tra noi. Quel giorno avevo posato con le mie mani qualche strato di gelidi mattoni di cristallo.

— Scusami, Sveta — sussurrai. — Scusa.

— Dimentichiamo tutto — disse lei molto ferma. — Su, dimentichiamocelo. Finché siamo ancora in grado di farlo.

Finalmente ci guardammo intorno.

— È uno studio? — chiese Sveta.

Librerie in quercia ebanizzata, volumi dietro vetri scuri. Una scrivania enorme con sopra un computer.

— Sì.

— Ma Tigrotto vive da sola?

— Non lo so. — Scossi la testa. — Non abbiamo mai pensato di chiederglielo.

— Sembrerebbe che vìva sola. Per lo meno adesso. — Svetlana sfilò il fazzoletto e cominciò ad asciugarsi le lacrime. — Ha una bella casa. Andiamo, non mettiamo a disagio gli altri.

— Eppure hanno senz'altro sentito che non stavamo litigando.

— No, non potevano. Qui ci sono barriere ovunque, tra una stanza e l'altra. È impossibile sondare.

Guardando attraverso il Crepuscolo, anch'io notai uno scintillio nascosto nelle pareti.

— Ora le vedo. Diventi ogni giorno più potente.

Svetlana sorrise, un po' forzatamente, ma con orgoglio. Disse: — Strano. Perché costruire barriere, se si vive da soli?

— E perché metterle, quando non si è soli? — chiesi io. A mezza voce, poiché non pretendevo una risposta. E Svetlana non rispose.

Uscimmo dallo studio e ritornammo in sala.

L'atmosfera non era proprio cimiteriale, ma poco ci mancava.

Semën e Il'ja si erano dati da fare: nella stanza regnava un'umidità odorosa di palude. Ignat se ne stava in piedi, abbracciato a Lena, e guardava ansiosamente i presenti. Prediligeva l'allegria in ogni sua forma: qualsiasi discordia e tensione erano per lui come una coltellata nel cuore. I giocatori fissavano in silenzio l'unica carta posata sul tavolo: sotto i loro sguardi, questa si contorceva e si attorcigliava, cambiando di continuo seme e valore. Julja, imbronciata, stava domandando qualcosa sottovoce a Ol'ga.

— Mi versate qualcosa da bere? — chiese Sveta, tenendomi per mano. — Non sapete che per le isteriche la miglior medicina sono cinquanta grammi di cognac?

Tigrotto, che se ne stava accanto alla finestra con espressione infelice, andò frettolosamente verso il bar. Che avesse attribuito a sé la causa del nostro litigio?

Io e Sveta prendemmo un bicchiere di cognac a testa, brindammo con ostentazione e ci scambiammo un bacio. Intercettai lo sguardo di Ol'ga: non gioioso, non rattristato, ma interessato. E un po' geloso. Eppure quella gelosia non era in alcun modo legata al bacio.

Di colpo cominciai a sentirmi male.

Come se fossi uscito da un labirinto in cui mi ero trascinato per lunghi giorni, per mesi interi. Ma uscito soltanto per ritrovarmi all'ingresso di nuove catacombe.

Capitolo 2

Potei parlare a quattr'occhi con Ol'ga solo due ore dopo. La baldoria, per quanto a Svetlana potesse sembrare sforzata, si era ormai trasferita nel cortile. Semën spadroneggiava davanti alla griglia, distribuendo spiedini a chi li voleva; il cibo si cuoceva con rapidità: segno inequivocabile che si stava impiegando la magia. Lì vicino, all'ombra, erano posate due casse di vino secco.

Ol'ga chiacchierava amichevolmente con Il'ja, ciascuno reggendo in mano uno spiedino e un bicchiere di vino. Mi dispiaceva interrompere l'idillio, ma…

— Ol'ga, ho bisogno di parlarti — dissi avvicinandomi a loro. Svetlana era completamente assorbita dalla disputa con Tigrotto: avevano cominciato a parlare della canicola; poi, per una qualche bizzarra logica tutta femminile, la discussione, assai vivace, era passata al tradizionale carnevale di Capodanno della Guardia. Era il momento più adatto.

— Scusami, Il'ja. — La maga allargò le braccia. — Ne riparliamo un'altra volta, d'accordo? Mi interessa molto la tua opinione sui motivi del crollo dell'URSS. Anche se ti stai sbagliando.

Il mago sorrise con aria trionfante e si allontanò.

— Domanda pure, Anton — disse Ol'ga con lo stesso tono.

— Sai cosa voglio domandarti?

— Lo immagino.

Mi guardai intorno. Vicino a noi non c'era nessuno. Ancora durava quel breve momento in cui, durante i picnic in campagna, si ha voglia di mangiare, di bere, e non si avverte alcuna pesantezza né allo stomaco né alla testa.

— Cosa ne sarà di Svetlana?

— È difficile leggere il futuro. Il futuro dei Grandi Maghi, poi…

— Non tergiversare, collega. — La fissai per un attimo negli occhi. — Siamo stati insieme. Abbiamo lavorato in coppia. Quando tu sei stata punita e privata di ogni cosa, persino di questo corpo… E punita secondo giustizia…

Ol'ga sbiancò in viso.

— Cosa sai della mia colpa?

— Tutto.

— Come hai fatto?

— Dopotutto, io sono uno che lavora con i dati.

— L'accesso alle informazioni non può esserti sufficiente. Ciò che mi è successo non è mai stato registrato negli archivi elettronici.

— Informazioni indirette, Ol'ga. Hai mai visto i cerchi nell'acqua? Una pietra può essersi adagiata sul fondo già da un pezzo, può essersi già ricoperta di melma, eppure i cerchi continuano a muoversi. A erodere gli strapiombi, a portare a riva il pattume e la schiuma, a rovesciare le barche, se la pietra era grossa. Ecco, la tua pietra era molto grossa. Fa' conto che io me ne sia stato a lungo sullo strapiombo, Ol'ga. A guardare le onde che corrodevano la riva.

— Stai bluffando.

— No. Ol'ga, cosa toccherà a Sveta? Quale tappa dell'addestramento?

La maga mi guardò, dimentica dello spiedino ormai freddo e del bicchiere mezzo vuoto. Le assestai un altro colpo: — Tu l'hai superata, quella tappa?

— Sì. L'ho superata. Ma nel mio caso mi avevano preparata più lentamente.

— Perché allora tutta questa fretta con Sveta?

— Nessuno aveva previsto che in questo secolo sarebbe nata ancora una Grande Maga. Geser ha dovuto improvvisare, regolarsi al momento.

— Per questo ti hanno restituito l'aspetto di prima? Non solo per il buon lavoro, dunque?

— Evidentemente capisci tutto da solo! — Gli occhi di Ol'ga mandavano lampi cattivi. — Perché allora mi tormenti?

— Sei tu che controlli la sua preparazione? Basandoti sulla tua esperienza?

— Sì. Soddisfatto?

— Ol'ga. siamo dalla stessa parte della barricata — mormorai.

— Allora non dare gomitate ai compagni di lotta!

— Ol'ga, qual è lo scopo? Cosa non sei riuscita a fare? Cosa deve compiere Sveta?

— Anton! — disse, smarrita. — Dunque stavi bluffando!

Io tacqui.

— Tu non sai nulla! I cerchi nell'acqua non sai dove guardare, per vederli!

— Ammettiamo che sia così. Però non è forse vero che ho indovinato l'essenziale?

Ol'ga mi fissava mordendosi le labbra. Poi scosse la testa: — È così. Domanda diretta, risposta sincera. Ma non ti darò alcuna spiegazione. Tu non devi sapere. La cosa non ti riguarda.

— Ti sbagli.

— Nessuno di noi desidera il male per Sveta — tagliò corto lei. — Chiaro?

— Noi non siamo nemmeno capaci di desiderare il male. Solo che il nostro Bene a volte non si distingue per niente dal Male.

— Finiamola qui, Anton. Non ho il diritto di risponderti. E non bisogna guastare agli altri questa vacanza inattesa.

— Fino a che punto è inattesa? — insinuai. — Ol'ga?

Si era già ricomposta e il suo viso si era fatto impenetrabile. Troppo impenetrabile per una simile domanda.

— Hai già saputo troppo. — La sua voce si era alzata, ritrovando l'antica imperiosità.

— Ol'ga, non ci hanno mai mandati in vacanza tutti insieme. Addirittura per un fine settimana intero. Perché Geser ha cacciato i Guardiani dalla città?

— Non tutti.

— Polina Vasil'evna e Andrej non contano. Sai benissimo che sono impiegati d'ufficio. A Mosca non è rimasto un solo agente!

— Anche gli agenti delle Tenebre si sono calmati.

— E allora?

— Basta. Anton.

Capii che non sarei riuscito a strapparle una parola di più. Annuii. — Va bene. Ol'ga. Sei mesi fa, per quanto casualmente, ci siamo rivelati alla pari. Adesso non è più così. Scusami. Non sono problemi miei, non è mia competenza.

Ol'ga annui. Così inaspettatamente che non credetti ai miei occhi. — Così alla fine hai capito.

Mi stava prendendo in giro o credeva davvero che avessi deciso di non immischiarmi?

— In generale sono un tipo piuttosto sveglio — dissi. Guardai Svetlana: stava chiacchierando allegramente con Tolja.

— Non sei arrabbiato con me, vero? — chiese Ol'ga.

Le sfiorai le mani, sorrisi ed entrai in casa. Avevo una gran voglia di fare qualcosa, come fossi un genio fatto uscire dalia lampada dopo una prigionia millenaria. Qualsiasi cosa: costruire palazzi, distruggere città, programmare in Basic o ricamare a punto croce.

Spalancai la porta senza toccarla: la spinsi attraverso il Crepuscolo. Non so perché. Mi capita raramente, a volte se bevo troppo, altre volte se sono particolarmente infuriato. In quel momento la prima causa non aveva motivo di sussistere.

La sala era deserta. E in effetti, perché starsene al chiuso quando fuori ci sono spiedini fumanti, vino fresco e una quantità sufficiente di sedie a sdraio sotto gli alberi?

Mi lasciai cadere su una poltrona. Sul tavolino ritrovai il mio bicchiere… o forse era quello di Sveta; lo riempii di cognac. Bevvi tutto d'un fiato, come se non avessi versato un liquore invecchiato quindici anni, ma vodka da due soldi. Lo riempii di nuovo.

In quel momento entrò Tigrotto.

— Hai qualcosa in contrario? — chiesi.

— No, certo. — La maga si sedette accanto a me. — Anton, sei molto giù?

— Non farci caso.

— Tu e Sveta avete litigato?

— Non è questo.

— Anton, ho fatto qualcosa di male? Ai ragazzi non piace stare qui?

La fissai con autentico stupore. — Piantala, Tigrotto! È una meraviglia. Si stanno divertendo tutti.

— E tu?

Non avevo mai notato in lei queste esitazioni prima. In fondo è impossibile accontentare tutti.

— Vogliono continuare la preparazione di Svetlana — dissi.

— Fino a che punto?

— Non lo so. Fino a qualcosa che Ol'ga non è riuscita a superare. Qualcosa di molto pericoloso e molto importante al tempo stesso.

— È un bene. — Si allungò verso il bicchiere. Si versò da bere da sola, toccò appena il cognac con le labbra.

— Un bene?

— Ma sì. Che la stiano preparando, che la stiano guidando. — Tigrotto cercò qualcosa con gli occhi, poi, aggrottando la fronte, guardò l'impianto stereo contro il muro.

Lo stereo si rianimò, si accese. Cominciò a suonare Kind of Magic dei Queen. Apprezzai la naturalezza del gesto. Controllare i circuiti elettronici a distanza non è come fare buchi nel muro con lo sguardo o cacciare le zanzare a colpi di fireball.

— Quanto è durata la tua preparazione al lavoro nella Guardia? — chiesi.

— Iniziò quando avevo sette anni. A sedici ormai prendevo parte alle operazioni.

— Nove anni! Ma certo per te è stato più semplice, la tua magia è naturale. Nel caso di Svetlana si preparano a farne una Grande Maga in sei mesi-un anno!

— È difficile — concordò la ragazza. — Pensi che il Capo stia sbagliando?

Alzai le spalle. Dire che il Capo aveva torto sarebbe stato sciocco quanto negare che il sole sorge a oriente. Da centinaia — macché centinaia, migliaia — di anni Geser aveva appreso a non commettere errori. Poteva agire duramente o addirittura brutalmente. Poteva provocare le Forze delle Tenebre e lasciare scoperti gli agenti della Luce. Poteva tutto. Tranne sbagliarsi.

— Mi sembra che sopravvaluti Sveta.

— Smettila! Il Capo fa i suoi calcoli.

— Prevede ogni cosa. Lo so. Gioca molto bene al vecchio gioco.

— E vuole il bene di Sveta — aggiunse Tigrotto caparbia. — Capisci? Forse a modo suo. Tu agiresti in un'altra maniera, e pure io, e Semën, e Ol'ga. Ciascuno di noi farebbe altrimenti. Ma è lui che dirige la Guardia. E ne ha pieno diritto.

— A lui è più chiaro? — domandai in tono maligno.

— Sì.

— E la libertà? — Di nuovo riempii il bicchiere. Forse era già superfluo, la testa cominciava a ronzarmi. — La libertà?

— Parli come gli agenti delle Tenebre — brontolò lei.

— Preferisco pensare che siano loro a parlare come me.

— Ma è tutto molto semplice, Anton. — Tigrotto si chinò verso di me e mi guardò negli occhi. Sapeva di cognac e di qualche altro odore lieve, floreale; difficile che si trattasse di un profumo: ai mutantropi non piacciono i prodotti di profumeria. — Tu la ami.

— La amo. Non è una novità per nessuno.

— Sai che presto il suo livello di forza supererà il tuo.

— Se già non l'ha superato. — Non lo dissi, ma mi ricordai quanto facilmente Sveta avesse percepito gli schermi magici celati nei muri.

— Ti supererà veramente. Le vostre rispettive forze diventeranno incommensurabili. I suoi problemi ti diverranno incomprensibili e persino estranei. Restando al suo fianco, finirai per sentirti un accessorio sgraziato, un gigolò, comincerai ad appigliarti al passato.

— Sì. — Annuii e notai con stupore che il bicchiere era già vuoto. Lo riempii ancora sotto lo sguardo fisso della padrona di casa. — Vorrà dire che me ne andrò. Non ho bisogno di tutto questo.

— Ma non ti è concesso nient'altro.

Non immaginavo che potesse essere così dura.

— Lo so.

— Se lo sai, Anton, allora l'unico motivo per cui ti scandalizzi è che il Capo voglia tanto tenacemente portare in alto Sveta.

— Il mio tempo scorre via — dissi — come sabbia tra le dita, come pioggia dal cielo.

— Il tuo tempo? Il vostro, Anton.

— Non è mai stato il nostro.

— Perché?

Già. In sostanza, perché? Alzai le spalle.

— Sai, certi animali non si riproducono in cattività.

— Ancora?! — s'indignò la ragazza. — Ma quale cattività? Dovresti rallegrarti per lei. Svetlana diventerà l'orgoglio delle Forze della Luce. Sei stato il primo a scoprirla, sei stato proprio tu a salvarla.

— Per cosa? Per l'ennesima, inutile battaglia contro le Tenebre?

— Anton, adesso stai davvero parlando come un agente delle Tenebre. Bene, la ami: allora non pretendere e non aspettarti nulla in cambio! È la via della Luce!

— Dove inizia l'amore, la Luce e le Tenebre finiscono.

L'indignazione fece ammutolire la ragazza. Scosse la testa tristemente. Disse di malavoglia: — Potresti almeno promettere…

— Dipende da cosa.

— Di essere sensato. Di avere fiducia nei vecchi compagni.

— Prometto a metà.

Tigrotto sospirò. — Ascolta, Anton. Di sicuro pensi che io proprio non ti capisca. Non è così. Anch'io non volevo diventare una maga-mutantropo. Ero dotata di poteri curativi piuttosto notevoli.

— Davvero? — La guardai con stupore. Non l'avrei mai pensato.

— Li possedevo, sì — confermò con leggerezza. — Ma quando venne il momento di scegliere in che direzione sviluppare le mie forze, il Capo mi chiamò. Ci sedemmo, prendemmo il tè con i pasticcini. Discutemmo molto seriamente, come persone adulte, sebbene io fossi solo una ragazzina, più giovane di Julja. Parlammo di ciò che serviva alla Luce, di cosa aveva bisogno la Guardia, di chi avrei potuto diventare. E decidemmo che bisognava sviluppare la capacità di trasformazione da combattimento, anche a costo di danneggiare tutto il resto. All'inizio non mi piacque molto. Sai quant'è doloroso tramutarsi?

— In tigre?

— No, in tigre è semplice, il difficile è l'inverso. Ma ho pazientato. Perché avevo fede nel Capo, perché capivo che era giusto.

— E adesso?

— Adesso sono felice — rispose lei con fervore. — Quando penso a cosa mi sarei persa, a ciò di cui mi sarei dovuta occupare… Erbe, esorcismi, campi psichici devastati, stregonerie…

— Sangue, dolore, paura, morte — continuai io nello stesso tono. — Combattimenti su due o tre livelli di realtà contemporaneamente. Scansare il fuoco, assaggiare il sangue, passarne di tutti i colori.

— È la guerra.

— Sì, certo. Ma dovevi andarci proprio tu, in prima linea?

— Chi, altrimenti? E poi non avrei potuto possedere una casa come questa. — Tigrotto indicò la sala con la mano. — Lo sai anche tu, con la magia curativa non si guadagna molto.

— È così, d'accordo — convenni. — Ma ci vieni spesso, qui?

— In certi periodi sì, in altri no.

— Non tanto spesso, mi pare di capire. Fai un turno di servizio dopo l'altro, ti vai a ficcare persino all'inferno.

— È la mia strada.

Annuii. Cos'ero io, in effetti?

— Sì, hai ragione. Forse sono stanco. E allora dico un sacco di scemenze.

Tigrotto mi guardò con sospetto, visibilmente stupita da una resa tanto rapida.

— Ho bisogno di starmene seduto per un po' con il bicchiere — aggiunsi. — Di ubriacarmi per bene in solitudine, addormentarmi sotto il tavolo, svegliarmi con il mal di testa. Allora starò subito meglio.

— Fa' pure — disse lei con un lieve tono di diffidenza. — Per quale altro motivo siamo venuti qui? Il bar è aperto, scegli ciò che preferisci. Oppure torniamo dagli altri. O vuoi che mi fermi a tenerti compagnia?

— No, meglio da solo — dissi, dando dei colpetti con la mano alla bottiglia panciuta. — In modo assolutamente schifoso, senza roba da mangiare né compagnia. Quando andate a fare il bagno, da' un'occhiata qui. Caso mai fossi ancora in grado di muovermi…

— D'accordo.

Sorrise e lasciò la stanza. Rimasi solo, eccetto per la presenza della bottiglia di cognac armeno.

Una ragazza davvero simpatica. Sono tutti buoni e simpatici i miei amici e compagni della Guardia. Sentivo le loro voci attraverso la musica dei Queen, ed era una sensazione piacevole. Con alcuni i miei rapporti erano più stretti, con altri meno. Ma lì non avevo né avrei avuto nemici. Eravamo andati avanti insieme e avremmo continuato a farlo, perdendoci l'un l'altro per una sola e unica causa.

Ma allora perché ero così scontento di ciò che stava accadendo? Solo io. Sia Ol'ga. sia Tigrotto approvavano il comportamento del Capo, e gli altri, a chiederglielo apertamente, avrebbero concordato.

Davvero avevo perso obiettività?

Certo.

Sorbii il cognac a lunghe sorsate. Lanciai uno sguardo attraverso il Crepuscolo e scorsi le pallide fiammelle di una vita estranea, insensata.

In sala erano sbucate tre zanzare, due mosche e, proprio nell'angolo, sul soffitto, un ragnetto.

Agitai le dita e modellai una minuscola pallina di fuoco, con un diametro di due millimetri. Mirai verso il ragno — per gli esercizi di riscaldamento è meglio scegliere un bersaglio immobile — e feci partire la fireball.

Non c'era nulla di immorale nel mio comportamento. Non siamo buddisti… in ogni caso non lo è la maggior parte degli Altri in Russia. Mangiamo la carne, schiacciamo le mosche e le zanzare, sterminiamo gli scarafaggi; se non si avesse voglia di acquisire ogni mese nuovi incantesimi d'intimidazione, gli insetti diverrebbero rapidamente immuni alla magia.

Niente di immorale. È semplicemente una cosa buffa: "fireball sulle zanzare". Il passatempo preferito dei bambini di tutte le età che frequentano i corsi presso la Guardia. Credo che anche gli agenti delle Tenebre si divertano nello stesso modo: però senza fare differenze tra una mosca e un passero, tra una zanzara e un cane.

In un attimo bruciai il ragno. Anche con le zanzare semiaddormentate non ebbi problemi.

Festeggiai ogni vittoria con un bicchiere di cognac, brindando in anticipo con la servizievole bottiglia. Poi cercai di colpire le mosche, ma forse cominciavo ad avere un po' troppo alcol nelle vene, o forse le mosche percepivano assai meglio ravvicinarsi delle sferette di fuoco. Per la prima dovetti usare quattro cariche. La seconda la abbattei alla sesta fireball, dopo aver infilato due minuscoli fulmini globulari infuocati nello scaffale vetrato sul muro.

— Che brutta cosa — dissi pentito mentre finivo il cognac. Mi alzai: la stanza oscillò. Mi avvicinai allo scaffale. Al suo interno, su un panno di velluto nero, erano fissate alcune spade. Tedesche, a prima vista, del XV o XVI secolo. L'illuminazione era disinserita, perciò non potei definirne meglio l'età. Nel vetro erano comparsi alcuni piccoli fori, ma ero riuscito a non toccare le spade.

Per un po' riflettei su come rimediare al danno, e non trovai niente di meglio che far tornare al suo posto il vetro vaporizzato e sparso per la stanza. Nel fare ciò, dovetti impiegare forze di gran lunga superiori a quelle che avrei usato se avessi dissolto e ricostruito tutto il vetro daccapo.

Poi mi infilai nel bar. Chissà perché il cognac non mi andava più. Perciò la bottiglietta di liquore messicano al caffè mi sembrò un buon compromesso tra la voglia di bere e la voglia di rinfrancarsi. Caffè e alcol in un'unica boccetta.

Tornai indietro e trovai Semën seduto sulla mia poltrona.

— Se ne sono andati tutti al lago — riferì.

— Adesso — dissi, avvicinandomi. — Adesso adesso.

— Posa la bottiglia — consigliò Semën.

— Perché? — ribattei. Tuttavia la posai.

Semën mi fissò negli occhi. Le barriere non funzionarono e io intuii l'insidia troppo tardi. Cercai di deviare lo sguardo, ma non ci riuscii.

— Canaglia — espirai, piegandomi con forza.

— In fondo al corridoio a destra! — mi gridò dietro Semën. Il suo sguardo continuava a trapanarmi la schiena e a serpeggiare subito dopo davanti a me come un filo invisibile.

Raggiunsi di corsa il bagno. Cinque minuti dopo arrivò anche il mio torturatore.

— Va meglio?

— Sì — risposi, respirando affannosamente. Mi sollevai e infilai la testa nel lavandino. In silenzio. Semën aprì il rubinetto. Mi diede qualche pacca sulla schiena. — Rilassati. Abbiamo cominciato con i rimedi popolari, ma…

Un'onda di calore mi attraversò. Mandai un gemito, tuttavia non cercai più di ribellarmi. L'intontimento era passato da un pezzo, adesso mi stavano abbandonando gli ultimi postumi residui.

— Che stai facendo? — chiesi soltanto.

— Do una mano al tuo fegato. Bevi un sorso d'acqua, starai meglio.

Effettivamente funzionò.

Di lì a cinque minuti uscii dal bagno sulle mie gambe, sudato fradicio, rosso in viso, ma assolutamente sobrio. E persino pronto a difendere le mie posizioni.

— Perché ti sei immischiato? Avevo voglia di ubriacarmi e l'ho fatto.

— La gioventù! — Semën scosse la testa con disapprovazione. — Aveva voglia di ubriacarsi! Chi mai si ubriaca con il cognac? E dopo il vino, oltretutto, e così in fretta, mezzo litro in mezz'ora. Una volta io e Saška Kuprin decidemmo di sbronzarci…

— Quel dannato Saška?

— Proprio lui, lo scrittore. Solo che all'epoca ancora non scriveva. Be', allora bevemmo, ma in modo civile, in mezzo al fumo e al casino, con balli sui tavoli, spari sul soffitto e dissolutezza.

— E lui cos'era, un Altro?

— Saška? No. ma era una brava persona. Facemmo fuori un quarto, mentre le ginnasiali si diedero allo champagne.

Mi lasciai cadere pesantemente sul divano. Inghiottii la saliva, guardai la bottiglia vuota e ricominciai ad avere la nausea.

— E vi ubriacaste con un quartino?

— Un quarto di secchio… come avremmo potuto non sbronzarci? — si meravigliò Semën. — Sbronzarsi va bene, Anton. Se è davvero necessario. Ma bisogna farlo con la vodka. Il cognac e il vino sono per il cuore.

— E la vodka?

— Per l'anima. Se fa davvero molto male.

Mi guardò con aria di lieve rimprovero. Era un piccolo, ridicolo mago dal viso furbesco, con tutti quei ridicoli piccoli ricordi di grandi uomini e grandi battaglie.

— Ho sbagliato — riconobbi. — Grazie dell'aiuto.

— Sciocchezze, vecchio mio. Una volta ho dovuto far passare la sbornia al tuo omonimo per tre volte in una sera. Be', quella volta si era in azione, bisognava bere, non ubriacarsi.

— Omonimo? Čechov? — chiesi stupito.

— No, che dici? Era un altro Anton, uno dei nostri. È morto in Estremo Oriente, quando i samurai… — Semën lasciò perdere e tacque. Poi, quasi con tenerezza, aggiunse: — Non avere fretta. Stasera faremo le cose come si deve. Ma adesso bisogna raggiungere i ragazzi. Andiamo, Anton.

Uscii dalla casa seguendo docilmente Semën. E vidi Sveta. Se ne stava su una sdraio, già con indosso il costume da bagno e una gonna colorata, o un pezzo di stoffa avvolto intorno ai fianchi.

— Tutto bene? — mi domandò, con leggero stupore.

— Assolutamente.

Mi guardò con attenzione. Ma evidentemente, a parte il colorito grigio-marrone del viso e i capelli bagnati, nulla tradiva l'ubriachezza.

— Devi controllare il pancreas.

— Tutto a posto — si affrettò a dire Semën. — Controlla pure, anch'io mi sono occupato della cura. Il caldo, il vino acido, gli spiedini grassi: ecco le cause. Adesso farà il bagno, e stasera quando farà fresco ci berremo una bottiglia. La cura è tutta qui.

Sveta si alzò, si avvicinò e mi fissò negli occhi.

— Ce ne stiamo qui seduti per un po'? Preparo un tè forte.

Sì, certo. Starcene semplicemente seduti. Noi due. Bere il tè. Parlare o tacere. Non era importante. Guardarla di tanto in tanto oppure non guardarla addirittura. Ascoltarne il respiro, oppure tapparsi le orecchie. Solo sapere che eravamo vicini. Noi due, non l'affiatato collettivo della Guardia della Notte. E insieme, ma perché se ne aveva voglia, non perché Geser lo aveva messo in programma.

Davvero avevo disimparato a sorridere?

Scossi la testa. E riportai sulla superficie del viso un sorriso codardo.

— Andiamo. Non sono ancora un veterano benemerito delle guerre magiche. Andiamo, Sveta.

Semën era già avanti, ma chissà perché capii che aveva strizzato l'occhio. Con approvazione.

La notte non portò refrigerio, ma ci liberò dalla calura. Già verso le sei o le sette la compagnia si era frazionata in piccoli gruppi. Al lago rimasero l'instancabile Ignat, Lena e, per quanto fosse strano. Ol'ga. Tigrotto e Julja andarono a fare un giro nel bosco. Gli altri si disposero in ordine sparso per la casa o lì intorno.

lo e Semën occupammo un'ampia loggia al primo piano. Ci si stava comodi, il venticello vi circolava meglio e c'erano mobili in vimini: inestimabili, con quel caldo.

— Numero uno — disse Semën, estraendo una bottiglia di vodka da un sacchetto di plastica con stampigliata la pubblicità di una marca di yogurt. — Smirnovka.

— La consigli? — chiesi in tono dubbioso. Non mi ritenevo uno specialista di vodka.

— È il secondo secolo che la bevo. Un tempo era molto peggiore, credimi.

Subito dopo la bottiglia comparvero due bicchieri sfaccettati, un vaso di cetriolini, una grossa confezione di cavolo salato.

— E da berci sopra? — domandai.

— Sulla vodka non si beve sopra niente, ragazzo. — Semën scosse la testa.

— Fino alla bara sempre s'impara…

— Imparerai prima. Quanto alla vodka, non dubitare, la cittadina di Cernogolovka è territorio sotto il mio controllo. Nello stabilimento ci lavora uno stregone, un tipo insignificante, non particolarmente schifoso. Mi fornisce il prodotto giusto.

— Sprechi le tue energie in sciocchezze — mi arrischiai a fargli notare.

— Non spreco niente. Lo pago. Non c'è niente di disonesto, sono i nostri rapporti personali, non sono affari della Guardia.

Con mossa agile, Semën strappò la capsula alla bottiglia e riempì i bicchieri a metà. La borsa era rimasta tutto il giorno sulla veranda, ma la vodka era ancora ghiacciata.

— Alla salute? — proposi.

— È presto. A noi.

Nel pomeriggio mi aveva fatto passare la sbornia, e in modo davvero eccellente: non aveva rimosso solo l'alcol dal sangue, ma anche tutti i prodotti del metabolismo. Bevvi il mio mezzo bicchiere senza tremare, scoprendo con grande meraviglia che la vodka poteva essere piacevole non soltanto in inverno, con il gelo, ma anche in estate dopo la canicola.

— Ecco qua. — Semën grugnì di soddisfazione e si stravaccò più comodamente. — Bisogna dire a Tigrotto che qui sarebbe bene mettere delle sedie a dondolo.

Estrasse una delle sue terribili Java e si mise a fumare. Intercettò il mio sguardo scontento e disse: — Eppure continuerò lo stesso a fumarle. Io amo la mia patria.

— E io amo la mia salute — brontolai.

— Uhm — fece Semën. — Ecco, una volta un conoscente straniero mi ha invitato…

— È successo molto tempo fa? — chiesi io, intonandomi involontariamente al suo stile.

— Non molto. L'anno scorso. E mi ha invitato perché gli insegnassi a bere alla russa. Stava all'Hotel Penta. Ho portato con me un'amica occasionale e il suo fratellino…

Mi immaginai quella compagnia e scossi la testa. — E vi hanno fatti entrare?

— Sì.

— Hai adoperato la magia?

— No, l'amico straniero ha adoperato i soldi. Aveva una bella scorta di vodka e di roba da mangiare, abbiamo cominciato a bere il 30 aprile e abbiamo finito il 2 maggio. Non abbiamo lasciato entrare le cameriere né spento il televisore.

Guardando Semën, con la sua camicia sgualcita a quadretti di fabbricazione nostrana, i logori jeans turchi e un paio di sandali cechi tutti sformati, si poteva senza fatica raffigurarselo nell'atto di scolare del vino da un cartone di tre litri. Immaginarselo al Penta era difficile.

— Bruti — sbottai.

— No, perché? Al mio amico è piaciuto molto. Mi ha detto che aveva capito in cosa consiste la vera ubriachezza russa.

— Cioè?

— È quando ti svegli la mattina e ogni cosa intorno è grigia. Il cielo è grigio, la città è grigia, le persone sono grigie, i pensieri sono grigi. E l'unica via d'uscita è ricominciare a bere. Allora si sta meglio. Allora ritornano i colori.

— Ti è capitato uno straniero interessante.

— Non me ne parlare!

Di nuovo Semën versò la vodka nei bicchieri, stavolta in quantità minore. Ci pensò un attimo, poi li riempì fino all'orlo.

— Su, beviamo, vecchio mio. Beviamo perché a noi non succeda mai di dover bere per riuscire a vedere il cielo blu, il sole giallo e la città colorata. Su, brindiamo a questo. Io e te entriamo nel Crepuscolo e vediamo che il mondo visto da rovescio non è tale e quale appare agli altri. Ma certo non è nemmeno soltanto quel rovescio. Ai colori vividi!

Trangugiai mezzo bicchiere in stato di totale stordimento.

— Non battere la fiacca, ragazzino — disse Semën con lo stesso tono di prima.

Bevvi il resto e ci mangiai sopra una manciata di cavolo agrodolce croccante.

Chiesi: — Semën, perché ti comporti così? Perché questo atteggiamento scandalistico, questa posa?

— Parole troppo intelligenti, non le capisco.

— Allora?

— Così è più semplice, Anton. Ognuno si protegge come può. Io lo faccio in questo modo.

— Cosa devo fare, Semën? — domandai. Senza alcuna specificazione.

— Fa' ciò che devi.

— E se non volessi fare ciò che devo? Se la nostra luminosissima verità, la nostra parola d'onore di Guardiani e i nostri eccelsi buoni propositi fossero come il fumo negli occhi?

— Devi capire una cosa, Anton. — Il mago cominciò a sgranocchiare un cetriolino. — Già da un pezzo avresti dovuto capirla. La nostra verità, per quanto sia grande e luminosa, è fatta di una moltitudine di piccole verità. Anche se Geser è un pozzo senza fine di scienza e ha un'esperienza tale che, Dio non voglia, noi la vediamo solo in sogno, in più ha le emorroidi curate con la magia, il complesso di Edipo e l'abitudine di rivoltare i vecchi schemi di successo in modo nuovo. Tutto questo è solo un esempio, perché di certo non ficco il naso nelle sue faccende personali, è pur sempre il Capo.

Tirò fuori un'altra sigaretta; stavolta non mi arrischiai a obiettare.

— Anton, il fatto è questo. Sei entrato nella Guardia che eri un giovanotto, e la cosa ti ha fatto gioire. Finalmente tutto il mondo si è diviso: bianco da una parte, nero dall'altra. Si è realizzato il sogno dell'umanità, è diventato chiaro chi fosse buono e chi malvagio. Invece no. Non è così. Un tempo eravamo la stessa cosa. Forze delle Tenebre e della Luce. Ce ne stavamo intorno al fuoco nelle caverne, guardavamo attraverso il Crepuscolo qual era il prato più vicino in cui pascolavano i mammut, con canti e danze lanciavamo scintille dalle dita e arrostivamo a colpi di fireball le altre tribù. E, tanto per perfezionare l'esempio, c'erano due fratelli: due Altri. Quello dei due che entrò per primo nel Crepuscolo forse era sazio, o forse si era innamorato per la prima volta. Il secondo, invece, tutto il contrario. Gli faceva male la pancia per aver mangiato solo del bambù, la donna l'aveva respinto con la scusa del mal di testa e della stanchezza per aver raschiato pelli tutto il giorno. Andò così. Uno punta al mammut ed è soddisfatto. L'altro pretende un pezzo di proboscide e la figlia del capo in aggiunta. Fu così che ci dividemmo in Forze delle Tenebre e Forze della Luce, in buoni e cattivi. È l'abbicci, non ti pare? Istruiamo così i piccoli Altri. Solo una cosa, vecchio mio: chi ti ha detto che tutto questo finirà?

Semën si sporse bruscamente verso di me, tanto che la sedia scricchiolò. — È stato, è, e sarà così. Per sempre, Anton. Non esiste una fine. Operando il Bene senza chiedere il permesso, noi ora disincarniamo quelli che perdono il controllo e si scatenano. Ma cosa succederà un domani? Tra cent'anni, tra mille? Chi può saperlo? Tu, io, Geser?

— Quindi?

— Hai la tua verità, Anton? Dimmi, ce l'hai? Hai fiducia in lei? Allora è alla tua verità che devi credere, non alla mia o a quella di Geser. Abbi fede e combatti. Se ti basta lo spirito. Se il cuore non sussulta. La libertà delle Tenebre non è cattiva in quanto libertà da chiunque altro. Si tratta, lo ripeto, di una spiegazione per i bambini. La libertà delle Tenebre è in primo luogo libertà da se stessi, dalla propria coscienza e dalla propria anima. Non percepisci più alcun dolore nel petto, e allora invochi aiuto. Ma ormai è troppo tardi.

Tacque, ficcò la mano nel sacchetto e tirò fuori un'altra bottiglia di vodka. Sospirò. — Due. Tutto sommato, penso che non ci ubriacheremo. Non ci riusciremo. Quanto a Ol'ga e alle sue parole…

Come riusciva a sentire sempre ogni cosa?

— Ol'ga non è invidiosa perché Svetlana potrebbe compiere ciò che a lei non è riuscito. Ne perché Sveta ha tutto davanti a sé. mentre per lei, a dirla franca, tutto è ormai alle spalle. È invidiosa del fatto che tu le stai accanto, che vorresti fermare la donna che ami. Anche se in realtà non puoi fare niente. Geser poteva, ma non voleva. Tu non puoi, ma vorresti. Insomma, forse non c'è nessuna differenza.

— Tu sai a cosa stanno preparando Svetlana?

— Sì. — Semën versò la vodka nei bicchieri.

— A cosa?

— Non posso rispondere. Ho firmato un impegno scritto. Quello che potevo dire, l'ho detto.

— Semën…

— Te l'ho detto. Ho firmato. Devo togliermi la camicia per farti vedere il segno del fuoco punitivo sulla schiena? Se mi lascio scappare qualcosa, brucerò insieme a questa poltroncina e la mia cenere starà tutta in un pacchetto di sigarette. Perciò scusami, Anton. Non chiedermi niente.

— Grazie — dissi. — Su, beviamo. E se riuscissimo a ubriacarci? Ne avrei bisogno.

— Lo vedo — concordò Semën. — Cominciamo.

Capitolo 3

Mi svegliai molto presto. C'era silenzio, l'autentico silenzio della campagna, animato dal fruscio di un venticello che finalmente, verso il mattino, si era rinfrescato. Il letto era inondato di sudore e la testa mi scoppiava. Nel letto vicino — ci era stata assegnata una stanza da tre — russava monotono Semën. Direttamente sul pavimento, avvolto nella coperta, dormiva Tolja: aveva rifiutato l'amaca che gli era stata offerta, dicendo che la schiena gli doleva sempre di più a causa di un trauma subito nel 76 durante una certa baraonda, e che perciò era meglio per lui dormire sul duro.

Mi sollevai, cingendomi la nuca con le palme per non crollare a quel movimento brusco, e mi misi a sedere sul letto. Guardai sul comodino e con stupore vidi due pastiglie di aspirina e una bottiglia d'acqua minerale. Chi era l'anima buona?

La sera prima avevamo svuotato tre bottiglie in due. Poi era arrivato Tolja. Poi qualcun altro ancora con del vino. Ma non ne avevo bevuto. Erano bastati i barlumi residui di coscienza.

Presi l'aspirina, ci bevvi sopra mezza bottiglia di minerale e restai per un po' seduto, in attesa che la medicina facesse effetto. Il dolore non passava, ed era insopportabile.

— Semën — chiamai con voce rauca. — Semën!

Lui aprì un occhio. Aveva un aspetto assolutamente decoroso. Come se non avesse affatto bevuto molto più di me. Ecco cosa significa avere qualche secolo d'esperienza.

— La testa… levami via tutto…

— Non ho l'accetta sottomano — borbottò.

— Ma no — gemetti. — Intendo il dolore!

— Anton, abbiamo bevuto di nostra spontanea volontà? Ci ha costretti qualcuno? Ce la siamo goduta?

Si girò sull'altro fianco.

Capii che da Semën non avrei ottenuto alcun aiuto. E sostanzialmente aveva anche ragione, solo che non riuscivo proprio più a sopportare il dolore. Tastai con i piedi in cerca delle scarpe, oltrepassai Tolja e uscii.

Le stanze per gli ospiti erano due, ma la porta dell'altra sembrava chiusa a chiave. Invece la camera da letto della padrona di casa, in fondo al corridoio, era aperta. Mi tornarono in mente le parole di Tigrotto sulle sue capacità curative, così mi avviai in quella direzione senza esitare.

Ma sembrava che quel giorno tutto avesse dato inizio alle ostilità contro di me. Nella stanza non c'era nessuno. Contro tutti i miei sospetti, non c'erano neppure Ignat e Lena. Tigrotto era nella camera di Julja. La ragazzina stava dormendo, con un braccio e una gamba a penzoloni dal letto come fanno i bambini.

A quel punto mi era indifferente a chi domandare aiuto. Mi avvicinai con circospezione, mi sedetti accanto all'enorme letto, e cominciai a bisbigliare: — Julja, Julja …

La ragazzina aprì gli occhi, batté le ciglia. E domandò pietosa: — Postumi?

— Sì. — Ad annuire non riuscii: in quel momento nella mia testa fecero scoppiare una piccola granata.

— Eh, già…

Chiuse gli occhi, mi si strinse al collo e addirittura, secondo me, si assopì di nuovo. Per alcuni secondi non accadde nulla, poi il dolore cominciò rapidamente a regredire. Come se avessero aperto un piccolo rubinetto nascosto nella nuca, e ora stessero facendo uscire il veleno ribollente che vi si era accumulato.

— Grazie — sussurrai soltanto. — Grazie, Julja.

— Non bere così tanto, non lo reggi — borbottò lei un attimo prima di mettersi a sbuffare con il naso: proprio come se in un istante fosse passata dal lavoro al sonno. Così sanno fare soltanto i bambini e i computer.

Mi rimisi in piedi, accorgendomi con entusiasmo che il mondo aveva ritrovato i colori. Ovviamente Semën aveva ragione. Bisognava farsi carico delle proprie responsabilità. Ma a volte semplicemente non se ne ha la forza. Esaminai la stanza. Era tutta dominata dalle sfumature del marrone, persino la finestra inclinata era in tono, l'impianto stereo era dorato, il tappeto sul pavimento era lanuginoso, color marrone chiaro.

Brutta, nel complesso. Nessuno mi ci aveva invitato.

Mi avvicinai in silenzio alla porta; quando ormai l'avevo superata, udii la voce di Julja: — Mi comprerai gli Snickers, d'accordo?

— Due confezioni — risposi.

Potevo tornare a dormire, ma al letto erano legati ricordi abbastanza spiacevoli. Come se bastasse sdraiarsi, perché il dolore, acquattatosi nel cuscino, balzasse fuori di nuovo. In camera feci solo un salto, il tempo di afferrare i jeans e la camicia: mi vestii standomene in piedi sulla soglia.

Ma davvero dormivano tutti? Tigrotto doveva essere in giro da qualche parte là fuori, e qualcuno tra le chiacchiere e il bere doveva aver tirato mattina.

Sempre al primo piano si trovava una piccola hall: vi incontrai Daniil e Nastja della sezione scientifica, pacificamente addormentati su un divanetto. Mi allontanai in fretta, scuotendo la testa: Daniil aveva una moglie molto graziosa e simpatica, Nastja un marito non più giovane e follemente innamorato di lei.

In effetti erano semplici esseri umani.

Noi Altri, invece, siamo volontari della Luce. Niente da fare, anche la nostra morale è differente. E come al fronte, nelle relazioni militari e sessuali con le crocerossine, che confortano il corpo ufficiali e i soldati semplici non solo nelle brande d'ospedale. In guerra si percepisce troppo acutamente il gusto della vita.

C'era anche la biblioteca. Ci trovai Garik e Farid. Erano stati proprio loro a conversare tutta la notte, facendo fuori più di una bottiglia. Si erano addormentati sulle poltrone e, con ogni evidenza, da non molto: sul tavolo di fronte a Farid una pipa mandava ancora un filo di fumo. Sul pavimento giacevano pile di libri tolti dagli scaffali. Dovevano aver discusso a lungo di qualcosa, chiamando in aiuto scrittori e poeti, filosofi e storici.

Scesi giù per una scala a chiocciola di legno. Chissà se avrei trovato qualcuno con cui condividere quel mattino placido e silenzioso.

Anche in salotto dormivano tutti. Diedi un'occhiata in cucina e non vi trovai nessuno, tranne un cane accucciato in un angolo.

— Ti sei rianimato? — gli chiesi.

Il terrier digrignò i denti e cominciò a guaire lamentosamente.

— Be', e chi ti ha detto di attaccarci, ieri? — Mi accovacciai davanti al cane. Presi dal tavolo un pezzo di salame: il cane, beneducato, non aveva osato farlo. — To'.

Le fauci schioccarono sul palmo, mentre spazzavano il salame.

— Sii buono, e gli altri saranno buoni con te! — gli spiegai. — E non rannicchiarti negli angoli.

Niente. Avrei mai trovato qualcuno sveglio?

Presi un pezzetto di salame anche per me. Lo masticai per bene, riattraversai la sala e gettai un'occhiata nello studio.

Anche lì dormivano.

Perfino il divanetto d'angolo era stato utilizzato a mo' di giaciglio. Era angusto, perciò ci stavano stretti. Al centro, Ignat aveva le braccia muscolose aperte e sorrideva. Lena gli si stringeva al fianco sinistro, con una mano aggrappata alla sua folta capigliatura bionda e l'altra tesa sul petto di lui, verso la seconda partner del nostro dongiovanni. Svetlana giaceva affondata con il viso sotto il mento rasato del giovane e le mani allungate sotto la coperta.

Richiusi la porta con molta attenzione e in silenzio.

Il ristorantino era confortevole. Il Lupo di Mare, come suggeriva il nome, era rinomato per i piatti di pesce e per il simpatico arredamento "navale". In più era vicino alla metropolitana. E per un magrolino di categoria media, disposto ogni tanto a darsi alla pazza gioia al ristorante, ma propenso a economizzare sul taxi, ciò costituiva un fattore non irrilevante.

L'avventore arrivò in auto: una macchina vecchiotta ma assolutamente decorosa. All'occhio esperto dei camerieri, d'altra parte, l'uomo si rivelò di gran lunga più promettente della sua vettura. La calma con cui cominciò a ingollare una costosa vodka danese, senza preoccuparsi né del prezzo né dei possibili problemi con i vigili urbani, non fece che rafforzare quel giudizio.

Quando il cameriere portò lo storione, l'uomo per un istante alzò gli occhi su di lui. Prima era rimasto seduto, sfregando lo stuzzicadenti sulla tovaglia e immobilizzandosi di tanto in tanto nella contemplazione della fiamma della lampada a olio; ora invece lo guardò.

Il cameriere non raccontò a nessuno ciò che gli era sembrato di vedere in quel momento. Era stato come guardare in due pozzi abbacinanti. Accecanti come la luce quando arde e si rende indistinguibile dall'oscurità.

— Grazie — disse l'avventore.

Il cameriere se ne andò, lottando contro il desiderio di affrettare il passo. E ripetendosi: sono soltanto i riflessi della lampada nell'accogliente penombra del ristorante.

Boris Ignat'evič restò seduto, facendo a pezzi gli stuzzicadenti. Lo storione si raffreddò, la vodka rimasta nella piccola caraffa di cristallo si scaldò. Dietro il tramezzo — un insieme di grosse funi, finti timoni e falsa stoffa da vela — una compagnia festeggiava un compleanno, snocciolava una serie ininterrotta di auguri, imprecava contro il caldo, le tasse e certi banditi "scorretti".

Geser, capo del dipartimento moscovita della Guardia della Notte, continuò ad aspettare.

I cani rimasti in cortile scartarono di lato impauriti, quando mi videro comparire. Il freeze li aveva colpiti duramente, molto duramente. Il corpo non ubbidisce, non si respira né ci si può mettere a guaire, la bava si congela in bocca, l'aria stringe con la mano pesante di un malato in delirio.

Ma l'anima resta cosciente.

Quei cani se l'erano vista davvero brutta.

Il cancello era semiaperto. Uscii, mi fermai lì fuori, senza capire in alcun modo dove stessi andando e cosa mi stessi preparando a fare.

Che importava?

Non ero offeso, né provavo dolore. Io e lei non eravamo mai stati intimi. Per di più, io stesso avevo diligentemente innalzato barriere tra di noi.

Mi tastai la cintura alla ricerca del walkman e feci partire una selezione casuale. Mi riuscivano sempre bene. Sarà stato perché, come Tigrotto, da un bel pezzo ero in grado di manovrare le apparecchiature elettroniche più semplici senza nemmeno rendermene conto?

Di chi è la colpa della tua stanchezza?

Cosa non hai trovato, che aspettavi tanto?

Hai perso tutto ciò che cercavi,

ti sei alzato in volo — e sei precipitato?

E di chi è la colpa, se giorno dopo giorno

la vita sfugge al tuo controllo,

se sulla tua casa è scesa la solitudine,

e hai il vuoto al di là della finestra,

e la luce si offusca, si azzittiscono i suoni,

se le mani cercano nuovo tormento,

se il tuo dolore si placa, è perché

una nuova disgrazia è in arrivo.

Io stesso l'avevo desiderato. E adesso non potevo rimproverare nessuno. Invece di ragionare tutta la sera con Semën circa le complessità dell'opposizione universale tra Bene e Male, sarei dovuto restare con Sveta. Piuttosto che guardare in cagnesco Geser e Ol'ga con la loro verità maliziosa, avrei dovuto far valere la mia. Senza pensare, senza mai pensare che vincere fosse impossibile.

Come ti metti a pensare così, hai già perso.

Di chi è la colpa, di' un po', fratello.

uno è sposato, un altro è ricco,

uno è ridicolo, un altro è innamorato,

uno è uno stupido, un altro è tuo nemico,

e di chi è la colpa se ovunque

ci si aspetta l'un l'altro e di questo si vive,

eppure i giorni sono monotoni e le notti vuote,

non ci sono più posti accoglienti

e la luce si offusca, si azzittiscono i suoni,

le mani cercano nuovo tormento,

se il tuo dolore si placa, è perché

una nuova disgrazia è in arrivo.

Di chi è la colpa e dov'è il segreto,

se non si prova né pena né gioia?

Senza disfatta non esiste vittoria

e pari è il conto dei successi e dei fallimenti.

E di chi è la colpa, se sei solo,

se la vita è una soltanto, e così lunga

e noiosa, se tu non fai altro che aspettare

il giorno in cui ti toccherà morire…

— Questo poi non lo farò mai — sussurrai sfilandomi le cuffie.

Ci hanno insegnato a lungo a dare senza ricevere nulla in cambio. A sacrificarci per gli altri. Ogni passo è come esporsi alle mitragliatrici, ogni sguardo è nobile e saggio; non un pensiero vano, non un'intenzione peccaminosa. Noi siamo gli Altri. Ci siamo elevati al di sopra della gente comune, abbiamo dispiegato le nostre impeccabili, immacolate bandiere, lucidato i nostri stivali cromati, infilato i guanti. Oh, sì, nel nostro piccolo, piccolo mondo ci concediamo tutto ciò che desideriamo. Per ogni atto si trova una giustificazione nobile ed elevata. Un numero unico: per la prima volta nell'arena noi in trionfo e tutti gli altri nella merda.

Che noia!

Cuore bollente, mani pulite, mente fredda… Sarà un caso, se ai tempi della rivoluzione e della guerra civile le Forze della Luce quasi al gran completo entrarono nella polizia politica? E quelli che non vi si unirono, in gran parte sparirono. Per mano delle Forze delle Tenebre ma, ancor più, per mano di coloro che essi difendevano. Per mano degli esseri umani. Per colpa della stupidità, della bassezza, della vigliaccheria, dell'ipocrisia e dell'invidia degli uomini. Cuore bollente, mani pulite. Che la mente rimanga fredda. Non si può altrimenti. Ma con tutto il resto non sono d'accordo. Che il cuore sia pulito e le mani siano bollenti. Così mi piace di più!

— Non voglio difendervi — dissi al silenzio di quel mattino boschivo. — Non voglio! Donne e bambini, vecchi e mentecatti: nessuno! Vivete come più vi piace. Prendetevi ciò che vi meritate! Fuggite dai vampiri, inchinatevi ai maghi delle Tenebre, leccate i piedi al padrone! Se il mio amore è meno importante della vostra felicità, allora io non voglio che siate felici!

Gli uomini possono e devono diventare migliori: sono le nostre radici, il nostro futuro, sono sotto la nostra tutela. Grandi e piccoli, portinai e presidenti, delinquenti e poliziotti. In loro brilla appena una luce che può divampare in un calore vivificante o in una fiamma mortifera…

Non ci credo!

Vi ho visti tutti. Portinai e presidenti, sbirri e banditi. Ho visto come le madri picchiano i propri figli e come i padri stuprano le proprie figlie. Ho visto come i figli cacciano via di casa le proprie madri e come le figlie somministrano l'arsenico ai propri padri. Ho visto come, non appena chiusa la porta alle spalle degli ospiti, senza smettere di sorridere il marito picchia in viso la moglie incinta. Ho visto come, chiusa la porta alle spalle de! marito ubriaco, corso al supermercato per comprare altra roba da bere, la moglie bacia e abbraccia avidamente il migliore amico di lui. Vedere è molto semplice. Bisogna saper guardare. Perché a noi, prima ancora che a guardare attraverso il Crepuscolo, viene insegnato a non guardare.

Eppure guardiamo lo stesso.

Gli uomini sono deboli, vivono poco, hanno paura di tutto. Non ci è concesso di disprezzarli e odiarli delittuosamente. Possiamo soltanto amarli, compatirli e proteggerli. È il nostro lavoro e il nostro dovere. Noi siamo la Guardia.

Non ci credo!

Non permetterai a nessuno di commettere una bassezza. Non li si può far cadere nel fango, ci cadono da soli. Quali che siano le circostanze, non ci sono né si prevedono giustificazioni. Eppure le cercano e le trovano. Così gli uomini sono stati istruiti. E si sono rivelati tutti allievi diligenti.

Ma noi, certo, siamo solo i migliori tra i migliori.

Sì, certo, naturalmente c'è stato, c'è e ci sarà chi non diventa un Altro, ma trova il modo di restare umano. Solo che sono pochi, molto pochi. Può essere che noi abbiamo paura di guardarli più attentamente? Che abbiamo paura di ciò che potremmo scoprire?

— Vivere per voi? — domandai. Il bosco taceva, era d'accordo con ogni mia parola.

Perché dovremmo sacrificare tutto? Noi stessi e coloro che amiamo?

Per chi non lo saprà mai, né mai lo apprezzerà?

E se anche lo venisse a sapere, l'unica ricompensa che riceveremmo sarebbe un dondolamento meravigliato della testa e l'esclamazione: "Idioti!"

Può forse bastare mostrare una sola volta all'umanità cosa sono gli Altri? Cosa può un solo e unico Altro, non vincolato al Patto e sfuggito al controllo della Guardia?

Sorrisi persino, nell'immaginarmi tutta la scena. Una scena generica, non riferita a me personalmente: mi fermerebbero in fretta. Come qualsiasi Grande Mago o Grande Maga che decidesse di infrangere il Patto e svelare al mondo il mondo degli Altri.

Succederebbe un bel casino!

Nessun nemico extraterrestre che s'insediasse contemporaneamente alla Casa Bianca e al Cremlino potrebbe combinare niente di paragonabile.

No, naturalmente.

Non è questa la mia strada.

Anzitutto perché non mi interessa né il dominio del mondo né il disordine universale.

Io voglio una cosa sola: che alla donna che amo non venga permesso di sacrificarsi. Perché la strada dei Grandi è esattamente il sacrificio. Le forze immani che essi acquisiscono li trasformano completamente.

Noi non siamo del tutto umani. Ciò nonostante, ci ricordiamo di esserlo stati. E siamo ancora in grado di provare gioia e tristezza, di amare e odiare. I Grandi Maghi oltrepassano i confini delle emozioni umane. Certo ne sperimentano di nuove, ma la loro comprensione ci è preclusa. Persino Geser, mago non classificabile, non appartenente ai Grandi. Ol'ga però non è riuscita a diventare una Grande Maga.

Hanno sbagliato qualcosa. Non sono riusciti a condurre fino in fondo l'imponente operazione di lotta contro le Tenebre.

E adesso sono pronti a mandare sulla breccia una nuova candidata.

Per gli uomini, che se ne fregano della Luce e delle Tenebre.

La fanno passare per tutti i gironi che un Altro è tenuto ad attraversare. In virtù della sua forza, l'hanno già elevata al terzo livello; ora ne perfezionano la coscienza. A un ritmo rapidissimo.

Di sicuro, in questa furiosa corsa verso un obiettivo imperscrutabile, c'è posto anche per me. Geser usa qualsiasi cosa gli capiti sottomano, me compreso. Qualunque cosa io faccia, che io vada a caccia di vampiri, mi metta sulle tracce di un selvaggio o frequenti Sveta sotto le sembianze di Ol'ga: tutto ciò gioca a vantaggio del Capo.

Anche adesso, sicuramente, qualsiasi cosa facessi sarebbe già stata prevista.

L'unica speranza è che persino a Geser non sia concesso di prevedere tutto.

Che io riesca a trovare l'unica azione in grado di scombinare il suo piano. Il grande piano delle Forze della Luce.

Ma senza provocare il Male. Perché allora mi aspetterebbe il Crepuscolo.

Mi resi conto che stavo premendo il viso contro il tronco di un piccolo pino striminzito. Me ne stavo impalato e tempestavo di pugni l'albero. Per la rabbia, o forse per il dolore. Fermai la mano, tutta graffiata e sanguinante. Ma il rumore non cessò. Veniva dal bosco, proprio dal limite della barriera magica. Una serie di colpi ritmici, un suono nervoso.

Mi curvai e cominciai a correre. In effetti intuivo cosa avrei visto.

In una piccola radura si dimenava una tigre. Femmina, per la precisione. La pelliccia nera e arancione luccicava ai raggi del sole nascente. La tigre non mi vedeva, non vedeva nulla e nessuno, in quel momento. Correva tra gli alberi e i pugnali acuminati dei suoi artigli strappavano la corteccia. Di tanto in tanto si arrestava, si alzava sulle zampe posteriori e con gli artigli cominciava a scorticare i fusti.

Lentamente tornai sui miei passi.

Ciascuno di noi si svaga come può. Ciascuno di noi lotta non solo contro le Tenebre, ma anche contro la Luce. Perché a volte acceca.

Solo, non bisogna compatirci: noi siamo molto, molto orgogliosi. Siamo i soldati della guerra mondiale tra il Bene e il Male. Siamo gli eterni volontari.

Capitolo 4

Il ragazzo entrò nel ristorante con piglio sicuro, come se lo frequentasse ogni giorno a colazione. Ma non era così.

Si diresse subito verso un tavolino, a cui sedeva un uomo basso, olivastro, quasi si conoscessero da tempo. Peraltro, nemmeno questo era vero. Fatto un altro passo, si piegò dolcemente sulle ginocchia. Non stramazzò, non si prosternò: si piegò tranquillamente, senza perdere la dignità né curvare la schiena.

Passandogli vicino, il cameriere deglutì e si girò. Ne aveva viste di tutti i colori, altro che bazzecole come uno scagnozzo servilmente prostrato davanti a un boss. Anche se in verità il ragazzo non somigliava a uno scagnozzo, né l'uomo a un boss.

E le seccature, di cui avvertiva l'odore, solitamente minacciavano di diventare qualcosa di più serio che non un regolamento di conti tra banditi. Non sapeva esattamente cosa stesse per accadere, ma lo percepiva, perché egli stesso era un Altro, sebbene non iniziato.

Comunque un istante dopo dimenticò del tutto la scena cui aveva assistito. Qualcosa di indistinto gli batté forte nel cuore, ma cosa fosse se l'era già scordato.

— Alzati, Ališer — disse piano Geser. — In piedi. Da noi non si usa.

Il ragazzo si rialzò e si sedette di fronte al Capo della Guardia della Notte. Annuì. — Nemmeno da noi. Ora non si usa più. Ma mio padre mi ha pregato di inginocchiarmi davanti a te, Geser. Era fedele alle vecchie regole. Lui si sarebbe inginocchiato. Ma ormai non potrà più farlo.

— Sai come è morto?

— Sì. L'ho visto con i suoi occhi, l'ho sentito con le sue orecchie, l'ho provato con il suo dolore.

— Il suo dolore sia il mio, Ališer, figlio di devona e di donna.

— Ti sia concesso ciò che chiedi, Geser, sradicatore del Male, pari agli dei.

Si guardarono negli occhi. Poi Geser annuì. — Conosco gli assassini. Tuo padre sarà vendicato.

— Voglio essere io a farlo.

— No. Non puoi e non ne hai il diritto. Siete venuti a Mosca illegalmente.

— Prendimi nella tua Guardia, Geser. L'altro scosse la testa.

— Ero il migliore a Samarcanda, Geser. — Il ragazzo lo fissò con attenzione. — Non sorridere, lo so che qui sarò l'ultimo. Prendimi nella Guardia. Come allievo dei tuoi allievi. Come un cane alla catena. Te lo chiedo per la memoria di mio padre: prendimi nella Guardia.

— Mi chiedi troppo, Ališer. Mi chiedi di donarti la morte.

— Sono già morto. Quando hanno risucchiato l'anima di mio padre, io sono morto con lui. Me ne sono andato sorridendo, mentre lui distraeva gli agenti delle Tenebre. Sono sceso nella metropolitana, mentre loro calpestavano la sua cenere. Geser, io lo chiedo di diritto.

Geser annuì. — E sia. Sei nella mia Guardia, Ališer. Sul viso del giovane non si rifletté alcuna emozione. Fece un cenno con il capo e si portò una mano al petto.

— Dov'è quello che portavate con voi, Ališer?

— Qui con me, signore.

Geser allungò in silenzio il braccio attraverso il tavolo.

Ališer sfilò la borsetta che teneva alla cintola. Ne estrasse con molta cura un piccolo involto rettangolare di tela grezza.

— Prendila, Geser, liberami dalla responsabilità.

Il palmo di Geser coprì quello del giovane; le dita si strinsero. Quando un attimo dopo il giovane ritrasse la mano, essa non reggeva più niente.

— Il tuo servizio è terminato, Ališer. Ora semplicemente ci riposeremo. Mangeremo, berremo e ricorderemo tuo padre. Ti racconterò tutto ciò che riuscirò a ricordare.

Ališer annuì. Impossibile capire se le parole di Geser gli avessero fatto piacere o se semplicemente si sottomettesse a qualsiasi suo desiderio.

— Abbiamo mezz'ora — osservò per inciso Geser. — Dopodiché arriveranno gli agenti delle Tenebre. Alla fine ce l'hanno fatta a mettersi sulle tue tracce. Troppo tardi, ma ce l'hanno fatta.

— Ci sarà un combattimento, signore?

— Non lo so. — Geser alzò le spalle. — Cosa cambia? Zavulon è lontano. Gli altri non mi fanno paura.

— Ci sarà un combattimento — disse pensosamente Ališer. Girò lo sguardo intorno alla sala.

— Manda via tutti i clienti — suggerì Geser. — Con dolcezza, senza importunarli. Voglio vedere la tua tecnica. Poi ci rilasseremo e aspetteremo gli ospiti.

Verso le undici la gente cominciò a svegliarsi.

Io mi ero messo ad aspettare sul terrazzo, disinvoltamente allungato su una sdraio, sorseggiando di tanto in tanto un gin tonic da un grosso bicchiere. Mi sentivo bene, provavo la dolce sofferenza del masochista. Quando qualcuno appariva sulla porta, lo salutavo con un amichevole battimani e un piccolo arcobaleno che, staccandosi dalle mie dita distese, saliva verso il cielo. Si erano divertiti tutti come bambini, e ora sorridevano. Julja comparve sbadigliando, e quando vide il mio saluto fece uno strillo e lanciò a sua volta un arcobaleno in risposta. Gareggiammo così per due minuti, poi li unimmo in un solo grande arcobaleno che scompariva nel bosco. Julja mi comunicò che si sarebbe messa alla ricerca della pentola piena d'oro e partì a passo di marcia sotto l'arco variopinto. Uno dei terrier accorse docile ai suoi piedi.

Aspettavo.

Di quelli che stavo aspettando, la prima a uscire fu Lena. Allegra, vigorosa, con indosso solo il costume da bagno. Vedendomi, per un attimo si confuse, ma si riprese subito, fece un cenno di saluto con la testa e si diresse verso il cancello. Era piacevole vederla muoversi: snella, armoniosa, piena di vita. Adesso si sarebbe immersa nell'acqua fresca, se la sarebbe spassata per un po' in solitudine e infine, una volta risvegliatosi l'appetito, sarebbe tornata a fare colazione.

Subito dopo comparve Ignat. In costume da bagno e ciabatte di gomma.

— Ciao, Anton! — urlò allegro. Si avvicinò, aprì la sdraio di fianco alla mia e vi si lasciò cadere sopra. — Come va l'umore?

— Bellicoso! — risposi, sollevando il bicchiere.

— Bravo! — Ignat cercò con lo sguardo la bottiglia senza trovarla, allora protese le labbra verso la cannuccia e con gesto di familiarità prese un sorso direttamente dal mio bicchiere. — Troppo leggero, mescola.

— Ho già fatto il pieno ieri sera.

— Giusto. Allora riguardati — suggerì lui. — Noi invece ieri abbiamo tracannato champagne per tutta la sera. Poi, di notte, siamo passati al cognac. Temevo che mi sarebbe venuto un gran mal di testa, invece no. Mi è andata bene.

Prendersela con lui era addirittura impossibile.

— Ignat, cosa volevi diventare quand'eri bambino? — gli domandai.

— Inserviente d'ospedale.

— Cosa?

— Be', mi era stato detto che i maschietti non fanno le crocerossine, ma io volevo aiutare le persone. Così decisi che da grande avrei fatto l'inserviente.

— Molto bene — dissi ammirato. — Ma perché allora non il dottore?

— La responsabilità è troppo grande — ammise Ignat con franchezza. — E bisogna studiare per troppo tempo.

— E ce l'hai fatta?

— Sì. Sono entrato in una squadra di pronto intervento psichiatrico. Lavorare con me piaceva a tutti i dottori.

— Perché?

— Primo, sono una persona molto affascinante — spiegò lui, elogiandosi con assoluta ingenuità. — Sono capace di parlare tanto con un uomo quanto con una donna in modo tale che subito sì calmino e accettino di farsi ricoverare. Secondo, sono in grado di capire quando una persona è davvero soltanto malata, e quando invece effettivamente vede le cose invisibili. A volte, confabulando con loro, riuscivo a spiegare che era tutto a posto e che non era necessaria alcuna iniezione.

— Una grossa perdita, per la medicina.

— Sì. — Ignat sospirò. — Ma il Capo mi ha convinto che sarei stato più utile nella Guardia. Non è così?

— Certo.

— Sto ricominciando ad annoiarmi — continuò Ignat pensoso. — Tu no? Io ho già voglia di tornare al lavoro.

— Anch'io, direi. Ignat, ce l'hai un hobby? Oltre al lavoro, intendo.

— Perché me lo chiedi? — si stupì lui.

— Per curiosità. O è un segreto?

— Ma quali segreti! — Ignat si strinse nelle spalle. — Colleziono farfalle. Posseggo una delle più belle collezioni del mondo. Occupa due stanze.

— Notevole — concordai.

— Vieni a vederla, quando ti capita — propose Ignat. — Fate un salto, tu e Sveta: mi ha detto che anche a lei piacciono le farfalle.

Risi tanto a lungo da pungerlo sul vivo. Ignat si sollevò, con un sorriso incerto, e borbottò: — Vado a dare una mano per la colazione.

— Buona fortuna — riuscii soltanto a spiccicare. Ma non potei trattenermi e, quando il nostro seduttore giunse alla porta, lo chiamai di nuovo: — Senti, il Capo ha ragione di preoccuparsi per Sveta?

Ignat si toccò il mento con gesto pittoresco. Rifletté. — Sì, lo sai anche tu. In effetti Svetlana è un tipo teso, che non si rilassa assolutamente mai. Per lei sono in vista grandi cose, altro che le nostre.

— Ma almeno ci hai provato?

— Altroché! — si offese Ignat. — Passate a trovarmi, mi farà piacere, parola d'onore!

Il gin era diventato tiepido, il ghiaccio si era sciolto. Sulla cannuccia era rimasta un'impronta leggera di crema per le labbra. Scossi la testa e misi da parte il bicchiere.

Geser, non puoi prevedere tutto.

Ma per darti battaglia senza ricorrere a un duello magico — sarebbe ridicolo persino pensarlo — per darti battaglia sull'unico campo a me accessibile, quello delle parole e delle azioni, devo sapere cosa vuoi. Devo conoscere la disposizione delle carte nel mazzo. E cos'hai in mano.

Chi partecipa al gioco?

Geser è l'organizzatore e l'ispiratore. Ol'ga è la sua amante e consulente, una maga che ha commesso una mancanza. Svetlana è l'esecutrice tanto amorevolmente allevata. Io sono uno degli strumenti per la sua educazione. Di Ignat, Tigrotto, Semën e di tutti gli altri agenti della Luce si può non tenere conto. Anche loro sono strumenti, ma di secondo piano.

Le Forze delle Tenebre?

Vi partecipano, beninteso, ma non in modo manifesto. Sia Zavulon, sia tutti i suoi ausiliari sono turbati dalla comparsa di Svetlana nel nostro schieramento. Ma non possono fare niente in modo diretto. Possono solo tramare le loro porcherie di soppiatto, o preparare un colpo devastante, che conduca le Guardie sull'orlo della guerra.

Che altro?

L'Inquisizione?

Tamburellai con le dita sul bracciolo della sdraio.

L'Inquisizione. Una struttura al di sopra delle Guardie. Esamina le contese, punisce i trasgressori di entrambe le parti. Vigila. Raccoglie informazioni su ciascuno di noi. Ma il suo intervento è un fatto rarissimo e la sua forza risiede nella segretezza, piuttosto che nella potenza militare.

E tuttavia l'Inquisizione è coinvolta. Conosco il Capo. Da ogni cosa trae un tornaconto come minimo triplo. E il recente caso di Maksim, l'Altro Selvaggio, l'agente della Luce passato all'Inquisizione, ne è un esempio. Il Capo ha trascinato Svetlana in questa faccenda, le ha impartito lezioni di autocontrollo e intrigo, e contemporaneamente ha individuato un nuovo Inquisitore.

Se solo sapessi a cosa stanno preparando Svetlana!

Per il momento brancolo nel buio. E — ciò che è più terribile — mi allontano dalla Luce.

Mi infilai le cuffie, chiusi gli occhi.

Questa notte come un fiore meraviglioso si schiuderà

la felce,

questa notte gli spiriti domestici faranno ritorno,

nubi dal Settentrione, venti dal Sud,

vuol dire che presto una strega mi farà un cenno.

Vivo in attesa di un miracolo come una Mauser nella fondina,

proprio come se fossi un ragno sulla ragnatela,

proprio come un albero nel deserto,

proprio come una volpe nera in una tana.

Sto rischiando, sto rischiando molto. I Grandi Maghi perseguono i propri fini, ma persino loro non osano andare contro la propria parte. Chi resta solo non sopravvive.

Fuggivo attraverso il cannocchiale dagli occhi impauriti

dei bambini,

volevo andare a letto con una ninfa

ma non sapevo come fare,

volevo tornare in tram ed entrare dalla tua finestra,

il vento soffia dalle periferie, tutto ormai ci è indifferente,

il vento soffia dalle periferie e tutto ormai ci è indifferente.

Sii la mia ombra, gradino che scricchiola, domenica

a colori, pioggia di funghi,

sii la mia divinità, succo di betulla, corrente elettrica,

fucile ricurvo.

Sapevo che tu sei il vento,

che tu soffi sul mio viso, e io rido,

non voglio separarmi da te senza lottare, finché tu

mi sogni.

Sii la mia ombra…

Una mano si poso sulla mia spalla.

— Buongiorno. Sveta — dissi. Aprii gli occhi.

Indossava i calzoncini e il costume da bagno. I capelli erano umidi e accuratamente acconciati. Probabilmente aveva fatto la doccia. A me invece, da vero maiale, non era nemmeno venuto in mente di farla.

— Come stai, dopo ieri? — mi domandò.

— Bene. E tu?

— Bene. — Si voltò.

Attesi. Nelle cuffie suonavano sommessamente gli Spleen.

— Cosa ti aspettavi da me? — domandò bruscamente Sveta. — Sono una donna normale, sana, giovane. Non ho un uomo da quest'inverno. Lo so, ti sei ficcato in testa che Geser ci ha accoppiati come si portano i cavalli alla monta, ti sei impuntato.

— Non mi aspettavo niente.

— Allora scusa per la sorpresa!

— Hai percepito la mia traccia nella stanza, quando ti sei svegliata?

— Sì. — Svetlana estrasse con difficoltà dalla tasca stretta il pacchetto di sigarette. Se ne accese una. — Sono stanca. Benché non stia lavorando, ma solo studiando, sono stanca lo stesso. E sono venuta qui per riposarmi.

— Ma sei stata proprio tu a parlare di allegria simulata…

— E tu eri ben lieto di approfittarne!

— È vero — concordai.

— Poi hai cominciato a ingollare vodka e tramare complotti.

— Che diavolo di complotti?

— Contro Geser. E contro di me, tra l'altro. È assurdo! Persino io l'ho percepito! Non credere di essere un Grande Mago, che…

Si interruppe. Ma troppo tardi.

— Non sono un Grande Mago — dissi. — Terzo livello. Secondo, forse. Non di più. Ciascuno ha i propri limiti. Si campasse pure mille anni, non si riuscirebbe comunque a superarli.

— Scusami, non volevo offenderti — disse Sveta con aria smarrita. Abbassò la mano che stringeva la sigaretta.

— Lascia perdere. Non c'è niente per cui io mi debba offendere. Sai perché gli agenti delle Tenebre fanno famiglia così spesso tra di loro, mentre noi preferiamo cercare mogli e mariti tra gli uomini? Sopportano più facilmente la disparità e la concorrenza continua.

— Uomo e Altro: la disparità in questo caso è ancora maggiore.

— Ma non ha valore. Siamo due specie differenti. Quindi non ha assolutamente alcun valore.

— Scusami, voglio che tu lo sappia. — Svetlana diede un lungo tiro alla sigaretta. — Non era nelle mie intenzioni che la faccenda si spingesse tanto in là. Aspettavo che tu scendessi, che vedessi, che t'ingelosissi.

— Perdonami, ma davvero non sapevo di dovermi ingelosire — dichiarai con sincerità.

— Ma poi non so come tutto ha cominciato a girare. Non sono più stata capace di fermarmi.

— Ma io capisco perfettamente, Sveta. È tutto a posto.

Mi guardò incredula. — A posto?

— Ma certo. A chi non succede? La Guardia è un'unica grande, solida famiglia. Con tutte le conseguenze che ne derivano.

— Che razza di animale — sospirò Svetlana. — Anton, se ora tu potessi vederti dall'esterno!

— Sveta, sei venuta a fare pace? — domandai. — Ecco, allora facciamo pace. È tutto a posto. Non è successo niente. È la vita, e nella vita capita di tutto.

Balzò in piedi di scatto e per un attimo mi trapassò con uno sguardo di ghiaccio. Io strizzai ripetutamente gli occhi, smarrito.

— Idiota — sbottò Svetlana, e rientrò in casa.

Cosa si aspettava, dunque? Offese, accuse, tristezza?

D'altra parte, tutto ciò non aveva importanza. Cosa stava aspettando Geser? Cosa sarebbe cambiato, se io avessi abbandonato il ruolo dell'amante sfigato di Sveta? Qualcun altro avrebbe occupato il mio posto? O per lei era già venuto il momento di restare sola, sola con il proprio grande destino?

L'obiettivo. Dovevo riuscire a sapere qual era l'obiettivo di Geser.

Con uno strattone mi alzai dalla sdraio e rientrai. Mi imbattei immediatamente in Ol'ga. Era sola nel salotto. Se ne stava davanti alle bacheche con le spade e reggeva sulle braccia tese una sciabola lunga e sottile. Non la guardava come si guarda un giocattolo d'antiquariato. Anche Tigrotto probabilmente contemplava le proprie spade nello stesso modo. Ma nel suo caso l'amore per le armi antiche era astratto. Per Ol'ga no.

Quando Geser per amore di lei venne a vivere e a lavorare in Russia, tra l'altro, quelle spade potevano ancora essere in uso.

Novant'anni fa, quando Ol'ga fu privata di tutti i diritti, si combatteva ormai in tutt'altra maniera.

L'ex Grande Maga. L'ex Grande Obiettivo. Novant'anni.

— Dopotutto è andata come previsto — dissi.

Ol'ga sobbalzò e si girò.

— Da soli non si sconfiggono le Tenebre. Bisogna che gli uomini si elevino. Che diventino buoni e gentili, laboriosi e intelligenti. Che ogni Altro veda soltanto la Luce.

— Ne sei certo — disse Ol'ga — o l'hai solo indovinato?

— L'ho indovinato.

— Bene. Cos'altro?

— Dove hai sbagliato. Ol'ga?

— Sono scesa a un compromesso. Un piccolo compromesso con le Tenebre. E come risultato abbiamo perso.

— Perso? Noi sopravviviamo sempre. Ci adattiamo, aderiamo, ci immedesimiamo. E ritorniamo a lottare come prima. Solo gli uomini perdono.

— Le ritirate sono inevitabili. — Ol'ga strinse con leggerezza uno spadone e lo agitò sopra la testa. — Non assomiglio a un elicottero?

— Assomigli a una donna che agita una spada. Ol'ga, davvero non impariamo niente?

— Impariamo eccome. Stavolta tutto andrà ben diversamente. Anton.

— Di nuovo una rivoluzione?

— No. Non volevamo nemmeno la prima. Tutto doveva svolgersi praticamente senza spargimenti di sangue. Lo sai: noi vinciamo solo tramite gli uomini. Tramite la loro illuminazione, attraverso l'elevazione dello spirito. Il comunismo era un sistema meravigliosamente architettato, ed è soltanto colpa mia se non si è realizzato.

— Caspita! Perché non sei ancora finita nel Crepuscolo, se la colpa è tua?

— Ma perché tutto era concordato. Ogni passo approvato. Persino quell'infausto compromesso, persino quello sembrava ammissibile.

— E adesso ci sarà un nuovo tentativo di cambiare gli uomini?

— Immediato.

— Perché qui? — domandai. — Perché un'altra volta qui?

— Qui dove?

— In Russia! Quante cose ancora dovrà sopportare?

— Quante saranno necessarie.

— Di nuovo, allora: perché qui?

Ol'ga sospirò, e con un movimento leggero rinfoderò la spada. La rimise nell'espositore.

— Perché, ragazzo mio, in questo campo si può ancora ottenere qualcosa. L'Europa, gli Stati Uniti sono paesi su cui si è già lavorato. In cui è già stato provato tutto il possibile. Qualcosa ancora viene fatto. Ma ormai sono scivolati nel torpore, si stanno addormentando. Un florido pensionato con i calzoncini corti e una videocamera: ecco cosa sono i prosperi paesi occidentali. È sui giovani che si deve sperimentare. La Russia, l'Asia e il mondo arabo sono le teste di ponte del giorno d'oggi. E non fare quella faccia scandalizzata, io amo la nostra patria non meno di te! Per lei ho versato più sangue di quanto non ne scorra nelle tue vene. Cerca di capire, Anton: il campo di battaglia è il mondo intero. Lo sai meglio di me.

— Battaglia contro le Tenebre, non contro gli uomini!

— Sì, contro le Tenebre. Ma potremo vincere solo fondando una società perfetta. Un mondo in cui regnino l'amore, la bontà, la giustizia. Il lavoro dei Guardiani non consiste solo nella cattura di maghi psicopatici per le strade e nel rilascio delle licenze ai vampiri! Tutte queste inezie occupano tempo ed energie, ma sono secondarie quanto il calore che sviluppano le lampadine. Le lampadine devono fare luce, non scaldare. Noi dobbiamo cambiare l'umanità. Ecco l'obiettivo. Ecco la strada per la vittoria!

— Ol'ga, questo lo capisco.

— Ottimo. Allora cerca di capire anche ciò che non viene detto direttamente. Stiamo lottando da millenni. E per tutto questo tempo abbiamo tentato di deviare il corso della storia. Di fondare un mondo nuovo.

— Il "meraviglioso mondo nuovo"…

— Non fare dell'ironia. Qualcosa in fondo siamo riusciti a ottenere. Attraverso il sangue, attraverso le sofferenze il mondo è pur diventato più umano. Ma un reale, autentico rivolgimento è necessario.

— Il comunismo fu un'idea nostra?

— No, ma la supportammo. Sembrava abbastanza attraente.

— E adesso cosa succederà?

— Lo vedrai. — Ol'ga sorrise. Amichevolmente, con sincerità. — Andrà tutto bene, Anton. Credimi.

— Io devo sapere.

— No. Puoi stare tranquillo, non è in programma alcuna rivoluzione. Niente gulag, fucilazioni, tribunali. Non ripeteremo i vecchi errori.

— Ma ne faremo di nuovi.

— Anton! — alzò la voce. — Ma come ti permetti? Noi abbiamo ottime probabilità di vincere, e il nostro paese di ottenere pace, serenità e prosperità! Mettersi alla guida dell'umanità. Sconfiggere le Tenebre. Dodici anni di preparazione, Anton. E non ci ha lavorato solo Geser, ma tutta la direzione centrale.

— Cosa?

— Sì. O pensavi che tutto fosse fatto a casaccio?

Ero sbalordito.

— Avete seguito Svetlana per dodici anni?

— Certo che no. È stato elaborato un nuovo modello sociale. Si sono effettuate prove su determinati elementi del piano. Nemmeno io sono al corrente di tutti i dettagli. Da allora Geser ha atteso che i partecipanti al piano si ritrovassero tutti insieme nello spazio e nel tempo.

— Chi precisamente? Svetlana e l'Inquisitore?

Per un attimo le si contrassero le pupille. Capii che avevo indovinato. In parte.

— Chi altri? Quale ruolo mi è stato assegnato? E tu cosa dovrai fare?

— Lo saprai quando sarà il momento.

— Ol'ga, finora l'intromissione della magia nella vita umana non ha mai condotto al Bene.

— Gli assiomi scolastici non servono. — Aveva cominciato ad accalorarsi sul serio. — Non crederti più intelligente degli altri. Non ci stiamo preparando a usare la magia. Calmati e rilassati.

Annuii. — Va bene. Hai esposto il tuo punto di vista. Con cui io non concordo.

— Ufficialmente?

— No. In via privata. E come persona privata mi ritengo in diritto di oppormi.

— A chi? A Geser? — Gli occhi le si fecero tondi e gli angoli delle labbra si sollevarono in un sorriso. — Anton!

Mi voltai e uscii.

Sì, era ridicolo.

Sì, assurdo.

Non era semplicemente un'azione caotica, quella condotta da Geser e Ol'ga. Non era semplicemente il tentativo di ripetere un esperimento sociale non riuscito. Ma un'operazione elaborata, da tempo pianificata, in cui avevo avuto la sfortuna di impegolarmi.

Approvata dalla direzione centrale.

Approvata dalla Luce.

Perché mi agitavo? Non avevo alcun diritto di farlo. E assolutamente nessuna possibilità. Ci si poteva confortare con il proverbio sul granello di sabbia nel meccanismo di un orologio, ma io adesso ero un granello tra le macine di un mulino.

E, ciò che era più triste, tra macine amichevoli e sollecite. Nessuno mi avrebbe inseguito, nessuno si sarebbe battuto contro di me. Mi avrebbero semplicemente impedito di commettere certe stupidaggini, da cui non sarei riuscito in ogni caso a ricavare alcun utile.

Perché allora sentivo dentro di me un dolore così insopportabile?

Me ne stavo in piedi sul terrazzo, i pugni stretti con rabbia impotente, quando una mano si posò sulla mia spalla.

— Sembra che tu abbia chiarito certe cose, Anton.

Lanciai uno sguardo a Semën e annuii.

— È penoso?

— Sì — ammisi.

— Ricorda solo questo, per favore: tu non sei un granello di sabbia. Nessun uomo è un granello di sabbia. Tanto più un Altro.

— Quanto bisogna vivere per indovinare i pensieri in questa maniera?

— Cento anni, Anton.

— Allora Geser può leggere in ciascuno di noi come in un libro aperto.

— Certamente.

— Quindi devo disimparare a pensare — dissi.

— Prima però bisogna imparare. Sai che in città c'è stata un po' di confusione?

— Quando?

— Un quarto d'ora fa. È già tutto finito.

— Cos'è successo?

— Dal Capo è arrivato un corriere, proveniente da qualche parte all'Est. Le Forze delle Tenebre hanno cercato di annientarlo. Sotto gli occhi del Capo. — Semën sogghignò.

— È guerra!

— No, era nel loro diritto. Il corriere è arrivato illegalmente.

Mi guardai intorno. Nessuno sembrava affrettarsi. Nessuno accendeva la macchina né raccoglieva le proprie cose. Ignat e Il'ja erano di nuovo alla griglia.

— Non dobbiamo tornare?

— No. Il Capo ha fatto da solo. C'è stato un piccolo scontro senza vittime. Hanno assunto il corriere nella nostra Guardia e gli agenti delle Tenebre sono stati costretti a ritirarsi a mani vuote. Solo il ristorante ne ha un po' sofferto.

— Quale ristorante?

— Quello in cui il Capo ha incontrato il corriere — spiegò pazientemente Semën. — Ci hanno autorizzati a proseguire la vacanza.

Guardai il cielo. Era azzurro, accecante, gonfio di calore.

— Sai, non so perché, ma non ho più voglia di riposarmi. Torno a Mosca. Non credo che nessuno si offenderà.

— No di certo.

Semën tirò fuori le sigarette e si mise a fumare. E buttò lì con noncuranza: — Al tuo posto cercherei di sapere cos'ha portato di preciso il corriere dall'Oriente. Forse è la tua buona occasione.

Scoppiai in una risata amara. — Le Forze delle Tenebre non sono riuscite a saperlo, e tu mi proponi di frugare nella cassaforte del Capo?

— Non sono riusciti a impossessarsene, qualunque cosa fosse. Naturalmente non hai il diritto di impadronirti del carico, né tanto meno di toccarlo. Quanto a scoprire di cosa si tratta, invece…

— Grazie. Grazie davvero.

Semën annuì, accettando i miei ringraziamenti senza falsa modestia.

— Regoleremo i conti nel Crepuscolo. Sai, anch'io mi sono stancato di fare vacanza. Dopo pranzo prendo la moto di Tigrotto e me ne torno in città. Vuoi uno strappo?

— Sì.

Mi vergognavo. Forse solo gli Altri possono provare questo sentimento in tutta la sua pienezza. Lo concepiamo ogni volta che ci vengono incontro, quando ci fanno un regalo immeritato, a cui, tuttavia, non abbiamo la forza di rinunciare.

Non potevo fermarmi più a lungo. Non potevo in nessun modo. Vedere Svetlana, Ol'ga, Ignat. Ascoltare la loro verità.

La mia verità resterà sempre con me.

— Sai guidare la moto? — domandai, cambiando goffamente discorso.

— Ho partecipato alla prima Parigi-Dakar. Su, aiutiamo i ragazzi.

Guardai tetro Ignat. Era intento a spaccare la legna e maneggiava l'accetta con virtuosismo. A ogni colpo si fermava un istante e gettava un rapido sguardo sui presenti facendo ballare i bicipiti.

Si amava da impazzire. Amava anche il resto del mondo, per la verità. Ma se stesso prima d'ogni altra cosa.

— Ma sì, aiutiamoli — concordai. Alzai una mano e lanciai attraverso il Crepuscolo il segno della triplice lama. Alcuni ceppi si frantumarono in ciocchi ben tagliati. Ignat, che proprio in quel momento aveva alzato l'accetta per sferrare il colpo successivo, perse l'equilibrio e per poco non cadde. Si voltò.

Beninteso, la traccia del mio colpo era rimasta impressa nello spazio. Il Crepuscolo risuonava, assorbendo avidamente l'energia.

— Anton, perché l'hai fatto? — mi chiese Ignat in tono leggermente offeso. — Perché? Non è per niente sportivo, così!

— Però è efficace — risposi io scendendo dal terrazzo. — C'è altra legna da spaccare?

— Ma va' a quel paese. — Ignat si chinò a raccogliere i ciocchi. — In questo modo andrà a finire che arrostiremo gli spiedini a colpi di fireball.

Non mi sentivo per niente in colpa, ma mi misi lo stesso ad aiutarlo. La legna era stata spaccata con cura, sui tagli luccicava dorata la resina d'ambra. Tanta bellezza nella legna da ardere faceva pers no pietà.

Poi gettai uno sguardo alla villa e vidi Ol'ga affacciata a una finestra del pianterreno.

Aveva osservato con grande serietà la mia sortita. Troppa serietà.

Agitai la mano verso di lei.

Capitolo 5

Tigrotto aveva una bella moto, ammesso che in generale sia possibile applicare un aggettivo tanto impreciso a una Harley. Anche dovesse trattarsi del modello più semplice: in ogni caso, esistono le Harley-Davidson, e poi tutte le altre moto.

Perché Tigrotto la possedesse non mi era chiaro: a giudicare da tutto, veniva usata una p due volte l'anno. Probabilmente per lo stesso motivo per cui possedeva quell'enorme villa, dove trascorreva i giorni di festa. Comunque sìa. arrivammo in città che non erano ancora le due del pomeriggio.

Semën guidava magistralmente il pesante motociclo. Io non ci sarei mai riuscito, nemmeno attivando le "abilità estreme" stoccate in memoria e dando una scorsa alle linee direttrici della realtà. Sarei potuto andare quasi alla stessa velocità solo consumando una cospicua parte della forza disponibile. Semën invece si limitava a guidare, e tutta la sua superiorità nei confronti di un motociclista umano stava forse soltanto nella maggior esperienza.

Persino a cento chilometri all'ora l'aria restava rovente. Il vento sferzava le guance come un asciugamano ruvido e bollente. Proprio come se stessimo correndo attraverso una caldaia infinita, ricoperta d'asfalto, piena di macchine in lento e stentato movimento, ormai arrostite dal sole. Tre volte temetti che avremmo finito per investire un'auto o qualche pilastro capitatoci di fronte.

Difficilmente ci saremmo fracassati a morte: i ragazzi l'avrebbero percepito, sarebbero arrivati e ci avrebbero ricomposti. Ma non sarebbe stato lo stesso molto piacevole.

Arrivammo a destinazione senza problemi. Una volta superata la circonvallazione, Semën usò la magia cinque volte, ma solo per sviare l'attenzione dei vigili.

Non mi domandò l'indirizzo, benché non fosse mai venuto a casa mia. Si fermò davanti al portone e spense il motore. Un gruppetto di adolescenti si stava ingozzando di birra da due soldi nel campo giochi lì di fianco. I ragazzi fissarono la motocicletta e ammutolirono. È bello, nella vita, avere sogni tanto chiari e semplici: la birra, le pasticche in discoteca, una ragazza che ci stia e una Harley sotto il sedere.

— È da molto tempo che ti capita di avere visioni premonitrici? — mi domandò Semën.

Trasalii. Non mi ero mai dilungato in modo particolare sulle mie premonizioni.

— Abbastanza.

Semën annuì. Guardò in alto, verso le mie finestre. Cosa avesse provocato quella domanda, non lo chiarì.

— Vuoi che salga con te?

— Senti, non sono mica una ragazza che dev'essere accompagnata fino alla porta…

Lui ridacchiò: — Non confondermi con Ignat. Va bene. Fa' attenzione.

— A cosa?

— A tutto, ovviamente.

Il motore ruggì. Semën scosse la testa. — Qualcosa si sta muovendo, Anton. Si avvicina. Fa' attenzione.

Schizzò via, provocando urla d'approvazione da parte dei ragazzi, e si infilò con facilità nello stretto varco tra una Volga parcheggiata e una Zigulenok in lento transito. Lo seguii con lo sguardo scuotendo la testa. Senza bisogno di alcuna preveggenza, avrei detto che Semën avrebbe scorrazzato per Mosca tutto il giorno, poi si sarebbe unito a qualche banda di rocker, fraternizzando con loro nel giro di un quarto d'ora e dando vita a una quantità di leggende su un certo vecchio motociclista pazzo.

Fa' attenzione…

A cosa?

E, soprattutto, perché?

Digitai senza farci nemmeno caso il codice d'ingresso, aprii il portone e chiamai l'ascensore. Appena quel mattino c'erano stati il riposo, gli amici, la pace.

Tutto ciò proseguiva, solo io non c'ero più.

Dicono che, quando un mago della Luce crolla, la sua caduta sia preceduta da "bagliori" simili a quelli che gli epilettici vedono prima di una crisi. Un impiego sconsiderato della forza, come per esempio sterminare le mosche a colpi di fireball o tagliare la legna con sortilegi da combattimento. Litigi con i propri cari. Dissapori repentini con certi amici e un'altrettanto repentina cordialità con certi altri. Tutto ciò è notorio, e noi tutti sappiamo come si conclude il crollo di un agente della Luce.

Fa' attenzione…

Giunsi alla porta di casa e tirai fuori le chiavi.

La porta era aperta.

I miei genitori avevano una copia delle mie chiavi. Ma non sarebbero mai venuti a trovarmi da Saratov senza avvertirmi. E poi avrei percepito il loro arrivo.

Un semplice delinquente umano non sarebbe mai riuscito a irrompere nel mio appartamento: il più semplice segno sull'uscio sarebbe bastato a fermarlo. E c'erano barriere anche per gli Altri. Naturalmente il loro superamento era una questione di forza. Ma i sistemi di sorveglianza sarebbero in ogni caso dovuti scattare!

Restai fermo a osservare attraverso la stretta fessura tra la porta e lo stipite. Una fessura che non avrebbe dovuto esserci. Guardai attraverso il Crepuscolo, ma non vidi nulla.

Non avevo armi con me. La pistola era nell'appartamento. La decina di amuleti da combattimento pure.

Potevo agire secondo le istruzioni. Qualora venisse rilevata un'intrusione da parte di estranei all'interno di un'abitazione posta sotto tutela magica, al lavoratore della Guardia della Notte è fatto obbligo di informare l'operatore di servizio e il responsabile, poi…

Mi bastò pensare che avrei dovuto chiamare Geser, impegnato solo due ore prima a disperdere l'intera Guardia del Giorno, per farmi passare la voglia di seguire le istruzioni. Piegai le dita, preparandomi a lanciare un rapido sortilegio congelante. Probabilmente avevo in mente il gesto spettacolare di Semën.

Fa' attenzione…

Spinsi la porta ed entrai nel mio appartamento, così rapidamente trasformato in un luogo estraneo.

E compresi subito chi poteva avere forze sufficienti, pieni poteri e, più banalmente, la sfacciataggine di venire a casa mia senza essere stato invitato.

— Buongiorno, Capo! — dissi prima ancora di buttare l'occhio nello studio.

In un certo senso non mi ero sbagliato.

Seduto in poltrona accanto alla finestra, Zavulon sollevò stupito le sopracciglia. Mise da parte la rivista che stava leggendo. Inforcò con grande cura gli occhiali dalla sottile montatura dorata. E solo allora rispose: — Buongiorno, Anton. Sai, mi piacerebbe molto scoprire di essere il tuo capo.

Sorrideva. Il mago delle Tenebre fuori categoria, il vertice moscovita della Guardia del Giorno. Come d'abitudine, indossava un inappuntabile completo nero e una camicia grigio chiaro. Magro. I capelli corti. Età indecifrabile.

— Mi sono sbagliato — dissi. — Cosa ci fai, qui?

Zavulon alzò le spalle. — Prendi l'amuleto. È da qualche parte sul tavolo. Lo percepisco.

Andai al tavolo, aprii il cassetto e ne tirai fuori un medaglione d'osso, legato a una catenella di rame. Lo strinsi nel pugno e sentii che cominciava a scaldarsi.

— Zavulon, non hai alcun potere su di me.

Il mago delle Tenebre annuì. — Bene. Non voglio che tu abbia il minimo dubbio circa la tua incolumità personale.

— Cosa ci fai nella casa di un agente della Luce, Zavulon? Ho il diritto di rivolgermi al Tribunale.

— Lo so. — Zavulon allargò le braccia. — So tutto. Sono in torto. Sono uno sciocco. Espongo al pericolo me stesso e la Guardia del Giorno. Ma non sono venuto a trovarti da nemico.

Restai zitto.

— Sì, per i dispositivi di sorveglianza puoi evitare di preoccuparti — buttò lì con noncuranza. — Per i vostri, come per quelli che ha installato l'Inquisizione. Mi sono permesso — diciamo così — di addormentarli. Tutto ciò che ci diremo resterà per sempre tra noi.

— A un uomo non credere che per metà, a un agente della Luce per un quarto, a un agente delle Tenebre per niente — borbottai.

— Certo. Hai tutto il diritto di non credermi. Persino l'obbligo! Ma io ti chiedo di ascoltarmi. — Di colpo Zavulon fece un sorriso sorprendentemente schietto e conciliante. — Dopotutto sei un agente della Luce. Sei obbligato a prestare aiuto. A chiunque te lo chieda, persino a me. E io te lo chiedo.

Vacillando andai a sedermi sul divanetto. La mia casa è la mia fortezza: ero quasi giunto a crederlo, durante gli anni di lavoro nella Guardia.

— Per cominciare: come sei entrato? — domandai.

— Per cominciare: ho preso un comunissimo grimaldello, ma…

— Zavulon, sai di cosa parlo. Le barriere di segnalazione possono essere distrutte, ma non ingannate. Sarebbero dovute scattare in presenza di un'intrusione.

Il mago delle Tenebre sospirò. — Mi ha aiutato Kostja. Gli hai dato tu il permesso di entrare.

— Contavo su di lui come su un amico. Benché vampiro.

— Ma lui è davvero tuo amico. — Zavulon sorrise. — E vuole aiutarti.

— A modo suo.

— A modo nostro. Anton, sono venuto a casa tua, ma non mi sto preparando a causare danni. Non ho letto i documenti di servizio che conservi qui. Non ho lasciato segni spia. Sono venuto per parlare.

— Parla.

— Abbiamo entrambi lo stesso problema, Anton. E oggi ha raggiunto dimensioni critiche.

Avevo capito, già dal momento in cui avevo visto Zavulon, su cosa si sarebbe diretta la conversazione. Perciò annuii appena.

— Hai capito. Molto bene. — Il mago delle Tenebre si sporse in avanti e sospirò. — Non mi faccio illusioni, Anton. Noi vediamo il mondo in maniera differente. E altrettanto diversamente concepiamo il dovere. Ma persino in una situazione del genere esistono punti di intersezione. Noi Forze delle Tenebre ci meritiamo qualche rimprovero, dal vostro punto di vista. Talvolta agiamo in modo non univoco. E. per via della nostra natura, trattiamo gli uomini con minore cura. Sì, tutto questo è vero. Tuttavia nessuno, ti prego di notare, ha mai potuto accusarci di aver tentato un'interferenza globale nei destini dell'umanità! Da quando abbiamo stipulato il Patto, noi viviamo la nostra vita e vorremmo che voi faceste altrettanto.

— Nessuno vi ha accusati — replicai. — Perché il tempo, per quanto la si rigiri, lavora per voi.

Zavulon chiese: — E questo cosa significa? Che forse siamo più vicini agli uomini? O forse che abbiamo ragione? Ma lasciamo perdere queste dispute infinite. Ti ripeto le mie parole: noi rispettiamo il Patto. E sovente ci atteniamo a esso assai più scrupolosamente delle Forze della Luce.

Un artificio retorico usuale. All'inizio si ammette una certa colpa comune. Poi con dolcezza si accusa il proprio interlocutore di una colpa altrettanto comune. Rimproverare paternamente e subito lasciar correre: dimentichiamo!

E solo allora passare all'essenziale.

— Suvvia, parliamo della cosa fondamentale. — Zavulon si fece più serio. — Nel corso dell'ultimo secolo, per tre volte le Forze della Luce hanno condotto esperimenti globali. La rivoluzione russa, la seconda guerra mondiale. E adesso di nuovo. Con lo stesso, identico copione.

— Non capisco di cosa stai parlando — dissi. Cominciai a provare un'angoscia dolorosa al petto.

— Davvero? Mi spiego. Vengono elaborati modelli sociali che — pur tramite straordinari sovvertimenti e un enorme spargimento di sangue — porteranno l'umanità, o una parte significativa di essa, alla società perfetta. Perfetta dal vostro punto di vista, non discuto! Assolutamente. Ognuno ha il diritto di sognare. Ma il vostro cammino è veramente brutale… — Di nuovo quel sorriso afflitto. — Ci accusate di atrocità, certo, e non senza motivo, ma cos'è un bambino ucciso in una messa nera in confronto a un qualsiasi lager nazista per bambini? Anche il nazismo è stato un vostro prodotto. Anche in quel caso, sfuggito al controllo. Prima l'internazionalismo e il comunismo: un fallimento. Poi il nazionalsocialismo. Ancora un errore? Allora li avete fatti scontrare e siete stati a sorvegliare il risultato. Avete tirato un sospiro, cancellato tutto e ricominciato a fare esperimenti.

— Gli errori sono dovuti ai vostri interventi.

— Certo! Ma anche noi possediamo l'istinto di conservazione! Noi non costruiamo modelli sociali sulla base della nostra etica. Perché dunque dovremmo permettere i vostri progetti?

Non dissi niente.

Zavulon era visibilmente soddisfatto. — Così stanno le cose, Anton. Possiamo anche essere nemici. E lo siamo effettivamente. Quest'inverno ci hai procurato fastidi piuttosto seri. In primavera mi hai di nuovo tagliato la strada. Hai annientato due collaboratori della Guardia del Giorno. Sì, certo, l'Inquisizione ha riconosciuto che le tue azioni sono state compiute per autodifesa ed estrema necessità ma, credimi, per me non è stato affatto piacevole. Cos'è il capo di un'organizzazione, se non riesce a difendere i propri collaboratori? Dunque, siamo nemici. Ma ora si è verificata una situazione unica nel suo genere. Un altro esperimento. In cui tu sei indirettamente implicato.

— Non so di cosa tu stia parlando.

Zavulon scoppiò a ridere. Alzò le mani. — Anton, non voglio estorcerti alcun segreto. E non mi metterò a fare domande. Non ti chiederò niente. Ascolta ciò che ho da raccontarti. Poi me ne andrò.

All'improvviso ricordai che l'inverno precedente, sul tetto di quel palazzo, Alisa, la streghetta, aveva fatto uso del proprio diritto d'interferenza. Però in modo molto debole, tanto che mi aveva solo spinto a dire la verità. E quella verità aveva spinto il piccolo Egor dalla parte delle Tenebre.

Perché succedeva questo?

Perché la Luce agiva tramite la menzogna e le Tenebre tramite la verità? Perché la nostra verità si rivelava tanto impotente, quanto la menzogna era efficace? E perché le Tenebre utilizzavano benissimo la verità per edificare il Male? Era nella natura di chi? Nostra o degli uomini?

— Svetlana è una maga straordinaria — disse Zavulon — ma il suo futuro non è la direzione della Guardia della Notte. Si preparano a usarla per un solo e unico scopo. Per la stessa missione che Ol'ga non ha portato a compimento. Sai che stamattina in città ha fatto irruzione un corriere proveniente da Samarcanda?

— Lo so — ammisi, chissà perché.

— Ma io posso dirti cos'ha portato con sé. Vuoi saperlo?

Strinsi le labbra.

— Vuoi. — Zavulon fece un cenno con il capo. — Il corriere ha portato un pezzetto di gesso.

Agli agenti delle Tenebre non credere mai. Eppure, non so perché, mi parve che non stesse mentendo.

— Un minuscolo pezzo di gesso. — Il mago delle Tenebre sorrise. — Lo si può usare a scuola, per scrivere sulla lavagna. O per disegnare sull'asfalto. O per sfregare la punta della stecca da biliardo. Tutte queste cose si possono fare con la stessa facilità con cui si schiacciano le noci. Ma se una Grande Maga prende in mano questo gessetto… Dev'essere necessariamente Grande, chiunque altro non avrebbe forze sufficienti. E dev'essere necessariamente femmina: in mani maschili rimarrebbe un semplice gessetto. Per giunta, la Maga deve appartenere alla Luce. Per le Forze delle Tenebre resta un oggetto inutilizzabile.

Era una mia impressione, o aveva fatto un sospiro? Rimasi in silenzio.

— Un minuscolo pezzo di gesso. — Zavulon si abbandonò sulla poltrona e cominciò a dondolarsi avanti e indietro. — Ed è già tutto consumato: le dita sottili di certe bellissime fanciulle, nei cui occhi ardeva una fiamma lucente, l'hanno afferrato più di una volta. L'hanno impiegato e la terra ha sobbalzato, si sono dissolti i confini dei regni, sono sorti imperi, pastori sono diventati profeti, falegnami sono diventati dei, trovatelli sono stati incoronati re, sergenti sono assurti al rango di imperatori, seminaristi mancati e pittori senza talento si sono trasformati in tiranni. Un piccolo mozzicone di gesso. Niente di più.

Zavulon si alzò e allargò le braccia. — Questo è tutto ciò che volevo dirti, mio caro nemico. Il resto lo capirai da solo. Se vorrai, naturalmente.

— Zavulon. — Aprii il pugno e guardai l'amuleto. — Tu sei frutto delle Tenebre.

— Certo. Ma solo di quelle Tenebre che erano in me. Di quelle che io stesso ho scelto.

— Persino la tua verità porta il Male.

— A chi lo porta? Alla Guardia della Notte? Ovvio. Agli uomini? Permettimi di dissentire.

Si diresse verso la porta.

— Zavulon — lo chiamai ancora. — Ho visto il tuo vero volto. So chi sei e cosa sei.

Il mago delle Tenebre rimase rigido. Poi si girò lentamente e si passò una mano sul viso. La deformazione durò un attimo. Le squame scintillarono debolmente al posto della pelle, gli occhi divennero fessure sottili.

L'oscurità si dileguò.

— Sì, certo. Mi hai visto. — Zavulon era tornato al proprio aspetto umano. — Ma io ho visto te. E ti dirò francamente che non eri certo un candido angelo con la spada splendente. Tutto dipende dal punto d'osservazione. Addio, Anton. Credimi, un giorno ti annienterò con grande piacere. Ma ora ti auguro di avere successo. Con tutto il cuore.

Uscì. La porta sbatte dietro di lui.

In quel momento, come se si fosse svegliato solo allora, dal Crepuscolo il segno di guardia emise uno strillo. La maschera coreana appesa al muro si deformò. Un lampo d'ira balenò negli intagli dei suoi occhi, la bocca digrignò i denti.

Guardiani…

Feci tacere il segno con due movimenti della mano e alla maschera lanciai il freeze che avevo tenuto in serbo. Così che anche quel sortilegio alla fine mi tornò utile.

— Un gessetto — dissi.

Ne avevo sentito vagamente parlare. Molto tempo addietro. Qualche frase lasciata cadere da un insegnante durante la lezione, una chiacchierata in compagnia, certi racconti tra cadetti… Proprio un gessetto…

Mi alzai dal divano e sollevai la mano. Gettai l'amuleto per terra.

— Geser! — gridai attraverso il Crepuscolo. — Geser, rispondimi!

L'ombra si levò verso di me dal pavimento, si avvinghiò al mio corpo e mi inghiottì. La luce si offuscò, la stanza cominciò a ondeggiare, le sagome dei mobili si confusero. Scese un silenzio insopportabile. L'afa si dileguò. Ero immobile, a braccia aperte, e il Crepuscolo beveva con avidità le mie forze.

— Geser, invoco il tuo nome!

Filamenti di una nebbia grigia fluttuavano attraverso la stanza. Non m'importava niente che qualcun altro potesse udire il mio grido.

— Geser, mio istruttore, t'invoco. Rispondi!

Da molto lontano un'ombra invisibile emise un sospiro. — Ti sento, Anton.

— Rispondimi!

— Su cosa vuoi che ti risponda?

— Zavulon mentiva?

— No.

— Fermatevi, Geser!

— È tardi, Anton. Tutto procede come previsto. Abbi fiducia in me.

— Fermatevi, Geser!

— Non hai il diritto di pretendere nulla.

— Invece sì! Se noi siamo parte della Luce, se portiamo il Bene, allora ne ho il diritto!

Tacque. Pensai addirittura che il Capo avesse deciso di non parlarmi più del tutto.

— Va bene. Ti aspetto tra un'ora al Parabar.

— Dove?

— Al bar dei paracadutisti. Metrò Turgenevskaja. Dietro l'ex ufficio centrale delle Poste.

Di nuovo cadde il silenzio.

Arretrai di un passo e uscii dal Crepuscolo. Un posto singolare, per incontrarsi. Era stato lì che Geser si era scontrato con i Guardiani del Giorno? No, era successo in un ristorante.

Bene, al Parabar, al Rosie o allo Chance… non aveva importanza. Fosse pure il bar dei paracadutisti, degli yuppy o dei gay.

Ma dovevo assolutamente sapere un'altra cosa, prima di incontrare Geser.

Presi il cellulare e composi il numero di Svetlana. Rispose subito.

— Ciao — dissi semplicemente. — Sei ancora in campagna?

— No. — Sembrava confusa dal mio tono intraprendente. — Sto tornando in città.

— Con chi?

Si impappinò. — Con Ignat.

— Bene — dissi con sincerità. — Senti, non sai nulla a proposito del gesso?

— A proposito di che?

Il suo sconcerto era evidente.

— Dei poteri magici del gesso. Non ti hanno istruito sulla sua applicazione nella magia?

— No. Anton, stai bene?

— Altroché.

— È successo qualcosa?

Il tipico modo di fare delle donne: ripetere ogni domanda in due o tre varianti.

— Niente di particolare.

— Vuoi… — Si confuse. — Vuoi che chieda a Ol'ga?

— Anche lei è lì con voi?

— Sì, siamo in tre.

— Non è necessario. Grazie.

— Anton…

— Cosa c'è, Sveta?

Andai al tavolo e aprii il cassetto in cui conservavo tutti gli oggetti magici. Diedi un'occhiata ai cristalli opachi, al bastone grossolanamente intagliato (all'epoca volevo ancora diventare un mago da combattimento). Richiusi il cassetto.

— Perdonami.

— Non hai motivo di chiedere perdono.

— Vuoi che venga a casa tua?

— Siete lontani?

— A metà strada.

— Allora non è possibile. Ho un appuntamento importante. Ti richiamo più tardi. — Chiusi la comunicazione e sorrisi.

La verità può essere cattiva e menzognera in molti casi. Per esempio se la si dice soltanto a metà. Se si dice che non si ha voglia di parlare, ma non si spiega il perché.

Mi si conceda di compiere il Bene tramite il Male. Non ho nient'altro a disposizione.

In ogni caso perlustrai l'appartamento, controllai in camera da letto, in bagno, in cucina. Per quanto mi era dato di percepire, davvero Zavulon non aveva lasciato alcun "regalino".

Tornai nel mio studio, accesi il portatile, infilai il CD contenente il database della magia. Digitai la password e inserii la parola "gesso".

Non mi aspettavo alcun risultato particolare. Ciò che mi interessava sapere apparteneva a un livello di segretezza troppo elevato.

Nel database la parola "gesso" ricorreva tre volte.

Nel primo caso si faceva riferimento a una cava di gesso in cui, nel XV secolo, si tenne un duello tra due maghi di livello superiore, un agente della Luce e uno delle Tenebre. Morirono entrambi, per esaurimento delle forze, poiché non ce la fecero a uscire dal Crepuscolo alla fine del combattimento. Nei cinquecento anni successivi, in quella stessa zona morirono quasi tremila persone.

La seconda voce riguardava l'uso del gesso nella scrittura di segni magici e cerchi di difesa. In questo caso le informazioni erano molto più numerose. Lessi tutto in gran fretta. Niente di significativo. L'impiego del gesso non presentava alcun vantaggio particolare rispetto al carbone, alla matita, al sangue o ai colori a olio. Salvo forse per il fatto che si cancellava assai più facilmente.

Ma il terzo riferimento faceva capo alla sezione "Miti e dati non confermati". Ovviamente vi si trovava una gran quantità di scemenze, come l'uso dell'argento e dell'aglio contro i vampiri o le descrizioni di cerimonie e rituali inesistenti.

Ma mi era già capitato di verificare che tra i "miti" si potevano anche reperire notizie vere, sebbene dimenticate.

Il gesso veniva menzionato nell'articolo "Libri del Destino".

Ero arrivato a metà articolo, quando mi resi conto di aver fatto centro. L'informazione era liberamente consultabile, bene in vista, accessibile a qualsiasi mago alle prime armi, e reperibile forse anche nei repertori aperti agli uomini.

I Libri del Destino. Il gesso.

Tutto tornava.

Chiusi il file e spensi il computer. Restai seduto a morsicarmi le labbra. Guardai l'orologio.

Era ora che mi recassi sul luogo del nostro strano appuntamento.

Feci la doccia e mi cambiai. Presi con me il medaglione di Zavulon, il distintivo della Guardia della Notte e un dischetto da combattimento regalatomi da H'ja: un antico tondino di bronzo di dimensioni di poco superiori a quelle di una moneta. Non l'avevo mai usato.

Tirai fuori la pistola dal nascondiglio. Controllai il caricatore. Pallottole esplosive d'argento. Buone contro i mutantropi, di dubbia utilità contro i vampiri, assolutamente efficaci contro i maghi delle Tenebre.

Proprio come se mi stessi preparando a combattere, e non a incontrare il mio superiore.

Il cellulare si mise a squillare in tasca quando fui davanti alla porta.

— Anton?

— Sveta?

— Ol'ga ti vuole parlare, le passo il telefono.

— Va bene — dissi girando la chiave.

— Anton, ti amo tanto. Non fare stupidaggini, ti prego.

Proprio non riuscii a trovare una risposta. Ol'ga prese il telefonino.

— Anton. Voglio che tu sappia che tutto è già deciso. E tutto procede con grande rapidità.

— Stanotte — feci eco.

— Come fai a saperlo?

— Lo sento. Semplicemente lo sento. Per questo i Guardiani sono stati fatti allontanare dalla città, non è vero? E per questo Svetlana è stata portata a un opportuno stato emotivo.

— Cosa sai?

— Il Libro del Destino. Il gesso. Ormai ho capito tutto.

— Inutilmente — rispose brusca Ol'ga. — Anton, devi…

— Non devo niente a nessuno. Solo alla Luce che è in me.

Chiusi la comunicazione e spensi il cellulare. Basta. Geser poteva contattarmi anche senza mezzi tecnologici. Ol'ga avrebbe continuato con le sue esortazioni. Svetlana non avrebbe comunque capito cosa stavo facendo e perché.

"Se hai deciso di andare fino in fondo, allora vacci da solo. E non chiamare nessuno al tuo fianco."

— Siediti, Anton — disse Geser.

Il locale si rivelò davvero minuscolo. Sei o sette tavolini separati da tramezzi. Il banco del bar. Fumo. Un televisore acceso senza audio trasmetteva lanci col paracadute. Alle pareti, fotografie di soggetto analogo: corpi distesi in volo e disposti in brillanti combinazioni. Pochi avventori, forse per via dell'ora: troppo tarda per il pranzo, ancora lontana dal picco serale. Gettai uno sguardo ai tavolini. Boris Ignat'evič sedeva in un angolo.

Non era solo. Se ne stava davanti a un piatto di frutta, staccando pigramente i chicchi da un grappolo d'uva. Un po' di lato, a braccia conserte, era seduto un ragazzo alto e olivastro. I nostri sguardi si incrociarono e percepii una leggera ma sensibile pressione.

Era un Altro.

Per una manciata di secondi ci fissammo, aumentando gradualmente la spinta. Era dotato di considerevoli poteri, ma di scarsa esperienza. A un certo punto allentai la resistenza, schivai la sua sonda e, prima che il ragazzo riuscisse ad alzare le difese, lo scandagliai.

Un Altro. Un agente della Luce. Quarto livello.

Il ragazzo si piegò come per il dolore. Guardò Geser con gli occhi di un cane bastonato.

Geser ci presentò: — Anton Gorodeckij, Altro, Guardiano della Notte a Mosca. Ališer Ganiev, Altro, da poco Guardiano della Notte a Mosca.

Era il corriere.

Gli porsi la mano e abbassai la difesa.

— Sei un agente della Luce, secondo livello — disse Ališer guardandomi negli occhi. Fece un inchino.

Scossi la testa e lo corressi: — Terzo.

Di nuovo il ragazzo guardò Geser. Stavolta con aria non colpevole, ma stupita.

— Secondo — confermò il Capo. — Sei al culmine della tua forma, Anton. Sono molto contento per te. Siediti, parliamo. Ališer, fa' attenzione.

Mi sedetti di fronte al Capo.

— Sai perché ho fissato l'appuntamento proprio qui? — domandò Geser. — Prendi un po' d'uva. È saporita.

— Come faccio a saperlo? Magari perché qui hanno l'uva più saporita di tutta Mosca.

Geser si mise a ridere.

— Bravo! Be', non è questo. La frutta l'abbiamo presa al mercato.

— Allora perché il posto è piacevole.

Il Capo alzò le spalle. — Non è niente di particolare. Una saletta. Oltre quella porta ci trovi un tavolo da biliardo e un altro paio di tavolini.

— Allora lei si lancia di nascosto col paracadute, Capo.

— Sono vent'anni che non lo faccio — ribatté Geser come se niente fosse. — Caro Anton, sono venuto qui a mangiare uno spezzatino con patate e un po' di uva soltanto per mostrarti un microcosmo. Una società piccola piccola. Rilassati, sta' comodo. Ališer, va' a prendere un boccale di birra per Anton! Guardati intorno, soldato. Guarda le facce. Ascolta le chiacchiere. Inspira l'aria.

Girai la testa e mi spostai sull'orlo della panca per riuscire a dare almeno un'occhiata agli astanti. Ališer si trovava già al banco, in attesa della mia birra. I clienti del Parabar avevano facce strane. C'era qualcosa di impercettibile che li faceva somigliare tutti. Sguardi e movimenti caratteristici. Niente di che. solo un marchio invisibile.

— Un collettivo — disse il Capo — è un microcosmo. Avrei potuto farti questo discorso allo Chance, il gay-club, o al ristorante dell'Unione degli Scrittori, o ancora in una bettola vicino a qualche fabbrica. Non è importante. La cosa essenziale è che vi si formi proprio un collettivo ristretto e chiuso, in un modo o nell'altro isolato dalla società. Non un McDonald's, non un ristorante chic, ma un circolo, palese o nascosto. Sai perché? Noi siamo così. È un modello della nostra Guardia.

Io guardavo in silenzio: un ragazzo con le stampelle si accostò al tavolo vicino, ignorò l'esortazione a sedersi e, appoggiandosi al tramezzo, cominciò a raccontare qualcosa. La musica copriva le parole, ma potevo assimilarne il senso generale attraverso il Crepuscolo. Il paracadute non si era aperto completamente. Era atterrato con quello di riserva. Aveva riportato un bel po' di fratture. Per sei mesi non avrebbe più potuto lanciarsi!

— Qui la compagnia è particolarmente significativa — proseguì senza fretta il Capo. — Rischio. Sensazioni forti. Indecifrabilità da parte degli altri. Slang. Problemi assolutamente incomprensibili per la gente comune. E, già che ci siamo, traumi ricorrenti e morte. Ti piace qui?

Ci pensai e risposi: — No. Qui bisogna essere del gruppo. O non venirci per niente.

— Ma certo. Con qualsiasi microcosmo del genere è interessante entrare in contatto la prima volta. Dopodiché o accetti le sue regole ed entri nella sua piccola società, o vieni rigettato. È così, e noi Altri non facciamo in alcun modo eccezione. Nella sostanza. Ciascun Altro, prendendo coscienza della propria natura, si trova davanti a una scelta. O entra nella Guardia della propria parte, diventando un soldato, un combattente e, inevitabilmente, un condannato a morte, oppure continua a condurre un'esistenza quasi umana, senza sviluppare in modo particolare i poteri magici, sfruttando tutta una serie di vantaggi propri degli Altri, ma assaggiando appieno anche i difetti di questo tipo d'esistenza. La cosa più spiacevole è quando si sbaglia la scelta iniziale. Quando, per questo o quel motivo, l'Altro non ha più voglia di accettare le leggi della Guardia. Ma lasciare la nostra struttura è quasi impossibile. Ecco. Anton, dimmi: potresti esistere fuori della Guardia?

Di certo il Capo non indulge mai a discorsi astratti.

— Forse no — riconobbi. — Sarebbe difficile o praticamente impossibile, per me, trattenermi nei limiti di ciò che è consentito a un mago della Luce ordinario.

— Fuori della Guardia, invece, non potresti giustificare l'uso dei poteri magici con gli interessi della lotta contro le Tenebre. Non è così?

— Sì.

— Ecco dove sta tutta la difficoltà, Anton, tutto il guaio. — Il Capo fece un sospiro. — Ališer, non startene lì impalato.

Comandava il ragazzo letteralmente a bacchetta. Ma ne indovinavo le ragioni senza sforzo: il corriere aveva ottenuto a furia di preghiere un posto nella Guardia di Mosca e adesso ne assaporava le ineluttabili conseguenze.

— La tua birra, agente Anton. — Con un lieve cenno della testa il ragazzo posò il boccale davanti a me.

Presi la birra in silenzio. Quel giovane mago di talento non aveva alcuna colpa. Avremmo sicuramente potuto fare amicizia. Ma in quel momento ero in collera anche con lui: Ališer aveva portato a Mosca ciò che avrebbe separato per sempre me e Svetlana.

— Cosa faremo, Anton? — chiese il Capo.

— Qual è il problema, in sostanza? — risposi, guardandolo con gli occhi devoti di un vecchio sanbernardo.

— Svetlana. Stai agendo contro la sua missione.

— Certo.

— Anton, si tratta di verità elementari. Di assiomi. Non hai il diritto di fare obiezioni contro la politica della Guardia sulla base dei tuoi interessi personali.

— Cosa c'entrano i miei interessi personali? — ribattei con sincero stupore. — Ritengo che tutta l'operazione che si sta preparando sia immorale. Non porterà alcun vantaggio agli uomini. In un modo o nell'altro tutti i tentativi di mutare radicalmente la società umana sono falliti.

— Presto o tardi ci riusciremo. Nota bene: non ci provo nemmeno ad affermare che questa volta ci aspetta il successo. Ma le probabilità non sono mai state così elevate.

— Non ci credo.

— Puoi presentare ricorso alla direzione centrale.

— Faranno in tempo a esaminarlo prima del giorno in cui Svetlana prenderà in mano il gessetto e aprirà il Libro del Destino?

Il Capo chiuse gli occhi. Sospirò. — No. Non faranno in tempo. Tutto avverrà stanotte, non appena scatterà il nostro turno. Soddisfatto?

— Boris Ignat'evič. — Usai di proposito il nome con cui l'avevo conosciuto la prima volta. — Mi ascolti. La prego. Un tempo lei ha lasciato la patria ed è venuto in Russia. Non per gli interessi della Luce, né per la carriera. Per Ol'ga. So qualcosa del suo passato. Gli odi, gli amori, i tradimenti, le generosità. Deve, può capirmi.

Non sapevo cosa aspettarmi. Quale risposta: se un volgersi altrove dello sguardo o la promessa a denti stretti di revocare l'azione.

— Ti capisco alla perfezione, Anton. — Il Capo annuì. — Tu non ti immagini nemmeno quanto. Proprio per questo l'azione proseguirà.

— Ma perché?

— Perché, ragazzo mio, esiste una certa cosa: il destino. E nulla è più potente. Alcuni sono predestinati a cambiare il mondo. Ad altri ciò non è concesso. Alcuni sono predestinati a scuotere gli stati, altri a reggere i fili delle marionette da dietro le quinte, con le mani sporche di gesso. Anton, credimi, so quello che faccio. Credimi.

— No.

Mi alzai, lasciando sul tavolo la birra intatta, con la copertura di schiuma semisvanita. Ališer guardò Geser con aria interrogativa, come se fosse pronto a fermarmi.

— Hai il diritto di fare ciò che vuoi — disse il Capo. — La Luce è in te, ma alle spalle hai il Crepuscolo. Sai cosa provoca un mago infedele. E sai che io sono pronto e tenuto a venirti in aiuto.

— Geser, mio istruttore, grazie per tutto ciò che mi hai insegnato. — Mi inchinai, richiamando gli sguardi curiosi dei paracadutisti. — Non mi considero più in diritto di aspettarmi il tuo aiuto. Hai tutta la mia gratitudine.

— Sei libero da ogni obbligo nei miei confronti — rispose pacatamente Geser. — Agisci come ti ordina il tuo destino.

Era tutto. Aveva rinnegato con facilità l'ex allievo. Del resto, quanti altri allievi simili aveva conosciuto, che non avevano preso coscienza dei fini superiori e dei sacri ideali? Centinaia, migliaia.

— Addio, Geser — dissi. Guardai Ališer. — Buona fortuna, nuovo Guardiano.

Il ragazzo mi fissò con disapprovazione. — Se mi è concesso parlare…

— Di' pure — risposi.

— Se fossi in te non avrei tutta questa fretta, agente Anton.

— Ho indugiato sin troppo a lungo, agente Ališer. — Sorrisi. Nella Guardia mi ero abituato a considerarmi uno dei maghi più giovani, ma tutto passa. Per quel novellino io costituivo già un'autorità. Per il momento. — Un giorno anche tu sentirai il tempo frusciare e scorrerti tra le dita come sabbia. Allora ricordati di me. Buona fortuna.

Capitolo 6

Canicola.

Me ne stavo andando per il Vecchio Arbat. Ritrattisti, suonatori di musica stereotipata, venditori di souvenir tutti uguali, stranieri con l'identico interesse standard negli occhi, moscoviti in preda all'abituale irritazione che passavano di corsa davanti allo sfondo di matriosche…

Scuotervi?

Tenere un piccolo spettacolo?

Fare il giocoliere con i fulmini? Fare il mangiafuoco con fiamme vere? Far sì che il lastricato si aprisse e ne sgorgasse una fontana d'acqua minerale? Guarire una decina di mendicanti storpi? Sfamare i bambini abbandonati che sciamavano tutt'intorno con dolci creati dal nulla?

E perché?

Mi avrebbero buttato una manciata spiccioli, in cambio di fireball che servivano a colpire le forze del Male. La fontana di acqua minerale si sarebbe rivelata una conduttura bucata della rete idrica. I mendicanti storpi sarebbero risultati più sani e ricchi della maggior parte dei passanti. I bambini abbandonati se la sarebbero data a gambe, perché da tempo avevano imparato che non esistono dolci gratis.

Sì, capivo Geser e tutti i maghi superiori, che da migliaia di anni lottavano contro le Tenebre. Non si può vivere in eterno con la sensazione della propria impotenza. Non si può restare in eterno in trincea: tutto ciò uccide un esercito più delle pallottole nemiche.

Ma cosa c'entravo io?

Era davvero necessario fare del mio amore un vessillo di vittoria?

Sapevo cosa Geser si stesse preparando a fare, o meglio, cosa avrebbe fatto Svetlana su suo ordine. Capivo cosa ne sarebbe risultato, riuscivo persino a immaginarmelo: tramite qualche cavillo del Patto, si sarebbe giustificata l'interferenza nel Libro del Destino. Disponevo di informazioni circa il momento dell'azione. Le uniche cose che non riuscivo a figurarmi erano il luogo e l'oggetto dell'operazione. E questo era fatale.

Avevo il tempo di rivolgermi con una preghiera a Zavulon.

E poi, dritto nel Crepuscolo.

Ero arrivato a metà dell'Arbat. quando captai un leggero, appena percettibile spostamento della forza. Proprio di fianco a me qualcuno stava usando i poteri magici. Debolmente, ma…

Le Tenebre!

Qualsiasi cosa pensassi di Geser, per quanto avessi da discutere, restavo pur sempre un Guardiano della Notte.

Portai la mano all'amuleto che avevo in tasca, chiamai la mia ombra ed entrai nel Crepuscolo.

Ah, com'era tutto in stato d'abbandono!

Da tempo non giravo per il centro di Mosca nel Crepuscolo.

Muschio blu ricopriva ogni cosa come un tappeto. I filamenti che si dondolavano lentamente creavano un'illusione di acqua ondeggiante. Dei cerchi si staccavano da me e si allargavano tutt'intorno; il muschio assorbiva le mie emozioni e cercava di strisciare via. Ma le piccole monellerie del Crepuscolo in quel momento non mi interessavano.

Non ero l'unico, in quello spazio grigio, sotto quel cielo senza sole.

Guardai per un istante la ragazza ferma di spalle davanti a me. Percepii il sorriso cattivo sul suo volto. Un sorriso indegno di un mago della Luce. "Debolmente" un cavolo!

Un'interferenza di terzo grado?

Ahi ahi ahi!

"È una cosa seria, ragazzina. È talmente seria da far pensare che tu sia impazzita. Terzo grado. Non è assolutamente nelle tue forze: stai usando l'amuleto di qualcun altro. Proverò a vederci chiaro con le mie forze."

Mi avvicinai. La ragazza non sentì i miei passi sul morbido tappeto di muschio blu. Le ombre indistinte degli uomini scivolavano tutt'intorno e lei era troppo concentrata.

— Anton Gorodeckij, Guardiano della Notte — dissi. — Alisa Donnikova, la dichiaro in arresto.

La streghetta cacciò un urlo e si girò. Stringeva nella mano un amuleto, un prisma di cristallo attraverso cui, fino a un attimo prima, aveva puntato lo sguardo sui passanti. Prima cercò istintivamente di nascondere l'amuleto, poi tentò di fissarmi attraverso il prisma. Le afferrai il braccio e la fermai. Restammo per un secondo immobili l'uno di fronte all'altra; intensificando lentamente la spinta, le rovesciai il pugno. Una scena simile tra un maschio e una femmina umani sarebbe parsa piuttosto vergognosa. Nel caso di noi Altri, le fonti della forza fisica non stanno né nell'appartenenza sessuale né tanto meno in una muscolatura gonfiata. La forza è intorno a noi: nel Crepuscolo, nelle persone che ci circondano. Non sapevo quanta forza Alisa poteva estrarre dal mondo circostante; forse anche più di me.

Ma io l'avevo sorpresa sul luogo del crimine. E nei paraggi potevano esserci altri Guardiani. La resistenza a un membro della Guardia avversa, che stesse ufficialmente procedendo all'arresto, comportava l'annientamento sul posto.

— Non oppongo resistenza — disse Alisa aprendo la mano. Il prisma cadde; il muschio fremette, cominciò a ribollire e lo avviluppò.

— Un prisma di forza? — domandai. — Alisa Donnikova, lei ha commesso un'interferenza di terzo grado.

— Quarto — si affrettò a rispondere,

Mi permisi di alzare le spalle. — Terzo, quarto… non importa. Ti aspetta comunque il Tribunale, Alisa. Sei fregata.

— Non ho fatto niente. — La strega cercava invano di apparire calma. — Dispongo di un permesso personale per il porto del prisma. Non l'ho attivato.

— Alisa, qualsiasi mago superiore può ricavare le informazioni da questa cosina.

Chinai il braccio, feci scostare il muschio e il prisma balzò nella mia mano. Era freddo, molto freddo.

— Persino io posso verificare la tua versione — dissi. — Alisa Donnikova, Altra, agente delle Tenebre, terzo livello di forza, lei è ufficialmente imputata di violazione del Patto. A causa del suo tentativo di resistenza, sarò costretto ad annientarla. Mani dietro la schiena.

La ragazza ubbidì. E cominciò a parlare, in fretta, cercando di essere persuasiva e mettendo nella voce tutta la sua abilità: — Aspetta. Anton, ti prego, ascoltami. Sì, ho provato il prisma, ma capisci, era la prima volta che mi affidavano un amuleto così potente! Anton, non sono una stupida: mettermi ad aggredire gli uomini nel bel mezzo di Mosca… perché mai avrei dovuto fare una cosa del genere? Anton, siamo entrambi Altri! Perché non risolviamo questa cosa in pace? Anton!

— Ma quale pace del cavolo? — le chiesi, infilandomi in tasca il prisma. — Andiamo…

— Anton, ti offro un'interferenza di terzo, quarto livello! Qualsiasi interferenza di terzo livello, compiuta negli interessi della Luce! Non il mio stupido gioco con il prisma, ma un'interferenza con tutti i requisiti!

Potevo capire la causa del suo panico. La faccenda sapeva di disincarnazione. Un Guardiano del Giorno che succhiava la vita dagli uomini per scopi personali era uno scandalo di dimensioni enormi! Avrebbero consegnato Alisa senza alcuna esitazione.

— Non hai il potere di chiedere simili compromessi. La direzione delle Tenebre ti sconfesserà.

— Zavulon mi giustificherà!

— Sì? — La sicurezza del suo tono mi confuse. Era forse l'amante di Zavulon? Sarebbe stato comunque sorprendente. — Alisa, una volta ho stretto con te un accordo pacifico…

— Certo, e io stessa avevo proposto di perdonare la tua interferenza.

— E come è andata a finire? — sorrisi. — Ti ricordi?

— Adesso la situazione è diversa, sono io ad aver violato la legge. — Alisa abbassò gli occhi. — Hai diritto al colpo di rimando. Non hai bisogno di un permesso per una magia della Luce di terzo livello? Per una qualsiasi magia della Luce? Potrai rimoralizzare una ventina di canaglie! Incenerire sul posto una decina di assassini! Scongiurare una catastrofe, produrre una diversione locale del tempo! Anton, davvero tutto questo non vale la mia stupida ragazzata? Guardati intorno: sono tutti vivi! Non ho fatto in tempo a combinare niente, avevo appena incominciato…

— Tutto ciò che dici può essere usato contro di te.

— Lo so, lo so!

Nei suoi occhi luccicavano le lacrime. E probabilmente non si trattava nemmeno di una simulazione. Sotto la sua essenza di strega, restava ancora una normalissima ragazza. Simpatica, terrorizzata, colta in fallo. E poi era davvero colpa sua. se aveva imboccato la strada delle Tenebre?

Sentii che il mio scudo emotivo si fletteva. Scossi la testa: — Non ti serve a nulla premere.

— Anton, ti prego, risolviamo la cosa in pace! Vuoi che mi procuri il diritto a un'interferenza di terzo grado?

Accidenti! Altro che bisogno. Qualsiasi mago della Luce sogna di ricevere carta bianca in questo modo! Sentirsi anche solo per un attimo un soldato con tutti i requisiti, e non un pidocchioso topo di trincea che fissa malinconicamente la bandiera bianca della tregua.

— Non hai alcun diritto di avanzare simili proposte — ribattei con fermezza.

— L'avrò! — Alisa scosse la testa e inspirò profondamente. — Zavulon! — chiamò.

Aspettai, stringendo in mano il piccolo disco dell'amuleto da combattimento.

— Ti invoco, Zavulon! — La sua voce si trasformò in uno strillo. Notai che le ombre dei passanti intorno a noi avevano cominciato a muoversi un po' più in fretta: gli uomini avvertivano un'inesplicabile angoscia e così acceleravano il passo.

Sarebbe di nuovo riuscita a far venire il capo degli agenti delle Tenebre?

Come quella volta, al ristorante Maharaja, quando Zavulon per poco non mi aveva ucciso con la Frusta di Shaab?

Ma non c'era riuscito. Aveva mancato il colpo.

Nonostante fosse stato Geser a organizzare quella provocazione, Zavulon era sembrato sinceramente convinto che io fossi colpevole dell'uccisione degli agenti delle Tenebre.

Aveva dunque altri piani, sul mio conto?

Oppure di nascosto, senza farsi notare, Geser era intervenuto a deviare il colpo?

Chissà. Come sempre, non disponevo di informazioni sufficienti per l'analisi. Avrei potuto formulare trentatré ipotesi, tutte in contraddizione l'una con l'altra.

Desideravo che Zavulon non rispondesse al richiamo. Così avrei trascinato Alisa fuori dal Crepuscolo, avrei chiamato il Capo o qualcuno degli agenti operativi, avrei consegnato quella stupida e ricevuto un premio a fine mese. Ma che premio avrei preso, adesso?

— Zavulon! — La sua voce esprimeva una preghiera accorata. — Zavulon!

Piangeva senza rendersene conto. Sotto i suoi occhi scorrevano due rivoli neri come l'inchiostro.

— È inutile — dissi. — Andiamo.

In quell'istante, a due metri da noi, si aprì il Portale delle Tenebre.

Inizialmente fummo investiti da un'ondata di gelo penetrante, tanto che ricordai persino con simpatia la calura del mondo degli uomini. Il muschio avvampò e si consumò lungo tutta la via. Non che Zavulon l'avesse bruciato di proposito: semplicemente, l'apertura del Portale aveva sparso così tanta forza, che il muschio non era stato in grado di assimilarla.

— Zavulon — sussurrò Alisa.

Un raggio violetto squassò il cielo.

La vampa mi accecò, strizzai gli occhi senza volerlo e quando di nuovo riuscii a guardare da quella parte, nella foschia grigia si librava una bolla nero-bluastra. Lentamente dalla bolla si districò qualcosa di ispido e squamoso, vagamente simile a un essere umano. Zavulon stava giungendo dal secondo o dal terzo strato del Crepuscolo, al cui confronto il tempo in cui ero immerso scorreva altrettanto lento di quello umano dal nostro punto di vista.

All'improvviso provai quel senso d'impotenza con cui in qualche modo mi ero da tempo riconciliato. Le possibilità di cui Zavulon o Geser disponevano tanto facilmente, nel mio caso non erano solo irraggiungibili, ma addirittura inconcepibili.

— Zavulon! — Sempre tenendo le mani dietro la schiena, Alisa si lanciò verso l'orribile mostro. Si strinse a lui e affondò il viso tra le sue squame spinose. — Aiutami, aiutami!

Naturalmente Zavulon non era apparso in sembianze demoniache allo scopo di impressionarmi. Se avesse conservato l'aspetto umano, non sarebbe riuscito a sopravvivere più di un minuto negli strati profondi del Crepuscolo. Così, invece, era probabilmente in grado di trascorrervi diverse ore, quando non addirittura diversi giorni.

Il mostro mi guardò con i suoi occhi stretti. Dalle sue fauci sgusciò fuori una grossa lingua biforcuta. La lingua lambì la testa di Alisa, lasciandole sui capelli gocce di bava bianca. Il mostro afferrò Alisa per il mento con la grinfia, le sollevò la testa con cura e i loro sguardi si incontrarono. Lo scambio d'informazioni fu rapidissimo.

— Stupida! — urlò il demone. La lingua si ritrasse nelle fauci, scivolando tra le zanne un attimo prima che queste si richiudessero con uno schiocco.

Sì. Niente diritto a un'interferenza di terzo livello, per me.

La corta coda del mostro scudisciò Alisa alle gambe, lacerò il suo abito di seta e la gettò per terra. Gli occhi del mostro divamparono: un bagliore azzurro avvolse la strega. La ragazza impietrì.

Niente aiuto ad Alisa.

— Posso effettuare l'arresto, Zavulon? — domandai.

Il mostro se ne stava fermo, dondolandosi appena sulle zampe ricurve. Gli artigli spuntavano dalle dita e si ritraevano ritmicamente. Poi fece un passo e si piazzò tra me e la ragazza.

— Chiedo di confermare la legittimità del fermo — dissi. — Altrimenti sarò costretto a chiamare aiuto.

Il demone cominciò a trasformarsi. Le proporzioni del corpo mutarono, le squame vennero riassorbite, la coda si infossò. Infine spuntarono i vestiti.

— Aspetta, Anton.

— Cosa dovrei aspettare?

Il volto del mago restava impenetrabile. Forse nelle sembianze di un demone provava molte più emozioni, oppure non riteneva necessario nasconderle.

— Confermo la promessa fatta da Alisa.

— Cosa?!

— Se alla faccenda non sarà dato corso ufficiale. La Guardia del Giorno accetterà ogni tua interferenza fino al terzo grado incluso.

Sembrava assolutamente serio.

Deglutii. Ricevere una promessa del genere dal capo della Guardia del Giorno…

— A un agente delle Tenebre non credere mai.

— Ogni interferenza fino al terzo grado incluso.

— Temi lo scandalo fino a questo punto? — domandai. — O la ragazza ti è per qualche motivo necessaria?

— Mi è necessaria. La amo.

— Non ci credo.

— In qualità di capo della Guardia del Giorno moscovita, agente Anton, chiedo di risolvere la faccenda con una riconciliazione. Ciò è possibile, poiché la mia assistita Alisa Donnikova non ha fatto in tempo ad arrecare alcun danno significativo agli uomini. Come risarcimento per il suo tentativo — Zavulon rimarcò in particolare quest'ultima parola — di compiere un atto di magia delle Tenebre di terzo grado, la Guardia del Giorno accetterà da parte tua qualsiasi atto di magia della Luce, fino al terzo grado incluso. Non chiedo che questo accordo resti segreto. Non introduco alcuna limitazione ai tuoi atti. Sottolineo che, per l'infrazione commessa, la guardiana Alisa subirà un severo castigo. Che le Tenebre siano testimoni delle mie parole.

Un tremito lievissimo. Un rimbombo sotterraneo, l'urlo di un uragano in avvicinamento. Una sferetta nera spuntò sulle palme delle mani di Zavulon e cominciò a vorticare.

— La parola a te — disse il mago.

Mi leccai le labbra e guardai la ragazza, inchiodata dal sortilegio. Una carogna, niente da dire. E avevo un conto personale da regolare con lei.

Era forse anche per questo che non volevo concludere la cosa con un compromesso? Non era solo per via della pericolosità di un accordo con le Tenebre? Usando il prisma di forza, Alisa aveva cercato di succhiare una parte dell'energia vitale dei passanti. Era una magia di terzo grado. Io avrei potuto compiere un'interferenza di terzo grado. E questo era molto, moltissimo. Di fatto, un influsso globale! Una città in cui per un intero giorno non sarebbe stato commesso alcun delitto. Un'invenzione geniale e univocamente buona. Quante volte, nella storia della Guardia della Notte, avevamo avuto bisogno del diritto a un'interferenza di terzo o quarto grado e, non disponendone, eravamo stati costretti ad agire a casaccio, angosciandoci poi nell'attesa della mossa di rimando!

Ora invece avrei disposto di un'interferenza di terzo grado praticamente gratis.

— Che la Luce sia testimone delle tue parole — dissi io. E allungai la mano verso Zavulon.

Non mi era mai successo di invocare a testimoni le forze primordiali. Sapevo soltanto che una cosa del genere non richiedeva alcuna formula magica speciale. Del resto, non era affatto garantito che la Luce si sarebbe mostrata indulgente verso i nostri affari.

Sul mio palmo divampò un petalo di fuoco bianco.

Zavulon fece una smorfia. Nel momento in cui suggellammo l'accordo con una stretta di mano, le Tenebre e la Luce si incontrarono tra le nostre due palme. Avvertii un dolore pungente, come se mi avessero trafitto la carne con un ago spuntato.

— L'accordo è concluso — disse il mago delle Tenebre. Il dolore aveva sfiorato anche lui.

— Speri di trarre vantaggio anche da questo? — domandai.

— Certamente. Spero sempre di trarre vantaggio da ogni cosa. Di solito mi riesce.

Per lo meno, Zavulon non provò una gioia evidente per l'accordo raggiunto. Per quanto facesse assegnamento sul buon esito della nostra intesa, non poteva essere affatto sicuro del successo.

— Sono riuscito a sapere cos'ha portato a Mosca dall'Oriente il corriere e perché.

Zavulon sorrise appena. — Splendido. La situazione mi inquieta e mi fa piacere sapere che adesso potrò condividere quest'inquietudine con altri.

— Zavulon! È mai successo che le due Guardie collaborassero? Sul serio, intendo, non semplicemente alla cattura di rinnegati e psicopatici…

— No. Qualsiasi collaborazione si risolverebbe nella sconfitta di una delle parti.

— Ne terrò conto.

— Tienine conto.

Ci scambiammo addirittura un garbato inchino. Come se non appartenessimo alle due Forze contrapposte: non un adepto della Luce e un servo delle Tenebre, ma due conoscenti in buoni rapporti.

Poi Zavulon si avvicinò al corpo immobile di Alisa, lo sollevò con agilità e se lo caricò sulle spalle. Mi aspettavo che sarebbero usciti dal Crepuscolo, invece, dopo avermi fatto dono di un sorriso accondiscendente, varcarono il Portale. Subito dopo, il passaggio cominciò a svanire. Io me ne andai nella direzione opposta.

Solo allora capii quant'ero esausto. Il Crepuscolo ama che lo si penetri, ma ancora di più ama che ci si agiti nel farlo.

Scelsi un posto poco frequentato e con uno scatto uscii dalla mia ombra.

Come al solito gli sguardi dei passanti piegarono di lato. Quante volte al giorno ci incontrate, uomini… Forze della Luce e delle Tenebre, maghi e mutantropi, streghe e guaritrici. Ci guardate, ma non ci potete vedere. Così sia anche per l'avvenire.

Noi possiamo vivere centinaia, persino migliaia di anni. È piuttosto difficile ucciderci. E i problemi di cui è fatta l'esistenza degli uomini sono per noi come il turbamento di un alunno di prima elementare di fronte ai trattini disegnati di sbieco sul quaderno.

Ma ogni cosa ha un rovescio. Io mi scambierei con voi, uomini. Prendetevi l'abilità di vedere l'ombra e di entrare nel Crepuscolo. Prendetevi la difesa della Guardia e la capacità di mutare la coscienza di chi vi circonda.

Datemi quella tranquillità di cui sono stato privato per sempre!

Qualcuno mi spinse. Un ragazzo robusto, dalla testa rasata, con un cellulare alla cintura e una catena d'oro al collo mi squadrò da capo a piedi con aria di disprezzo, mormorò qualcosa a denti stretti e si allontanò lungo la via con passo dondolante. L'amichetta, aggrappata alla sua mano, ne imitò senza troppo successo lo sguardo, del tipo che i teppistelli riservano ai "coglioni mosci".

Scoppiai a ridere di cuore.

Sì, dovevo proprio avere un bell'aspetto!

Impalato in mezzo alla strada, oltretutto, e apparentemente intento a fissare una bancarella di squallide statuette di bronzo, matriosche con le facce dei politici e oggetti d'artigianato contraffatti.

Ora avevo il diritto di scuotere l'intera via. Una rimoralizzazione globale, e la testa rasata sarebbe finita a lavorare come inserviente in un ospedale psichiatrico, la sua ragazza si sarebbe precipitata alla stazione e si sarebbe ricongiunta con la vecchia madre, felicemente abbandonata a vegetare chissà dove in provincia.

Che voglia di compiere il Bene, mi prudevano persino le mani!

Non potevo.

Che il cuore sia puro e le mani ardenti… ma la testa deve assolutamente mantenersi fredda.

Io ero un semplice, comunissimo Altro. Non avevo né avrei avuto la forza data a Geser o a Zavulon. Forse era questo il motivo per cui avevo un'opinione particolare su ciò che stava accadendo. E non potevo nemmeno usare quel regalo inaspettato, il diritto a una magia della Luce. Sarebbe stato comunque parte del gioco che si conduceva sopra la mia testa.

La mia possibilità stava nell'uscire dal gioco.

E sottrargli Svetlana.

Sì, rovinare con questo il piano a lungo preparato dalla Guardia della Notte! Sì, smettere di fare l'agente operativo! Trasformarmi in un mago della Luce ordinario, ridotto a usare le briciole della propria forza. E tutto questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, mi aspettava il Crepuscolo eterno.

Oggi, oggi a mezzanotte.

Dove? Chi? Quale Libro del Destino avrebbe aperto la maga? Come aveva detto Ol'ga, dodici anni era durata la preparazione del piano. Per dodici anni avevano cercato una Grande Maga, capace di prendere in mano il gessetto tenuto in serbo fino a quel momento. Basta!

Mi sarei messo a strillare per tutto l'Arbat, tanto ero stupido. Tuttavia il mio viso era lo stesso abbastanza eloquente.

Ma a che pro dar voce a ciò che già si esprimeva nella fisionomia?

I maghi superiori possono muovere in avanti in svariati modi. Nei loro giochi non esistono casualità. Ci sono le regine e ci sono i pedoni. Mancano solo le figure inutili!

Egor!

Il ragazzino scampato a una caccia illecita. Entrato nel Crepuscolo proprio per sottrarvisi, in uno stato d'animo tale da spingerlo verso la parte delle Tenebre. Il ragazzino il cui destino non era determinato, la cui aura ancora conservava la radiosità multicolore di un fanciullo. Sì: caso unico nel suo genere, ero rimasto stupito vedendolo per la prima volta.

Mi ero stupito e poi avevo dimenticato. Non appena avevo scoperto che le potenzialità del ragazzo erano state artificialmente maggiorate dal Capo: sia per sviare gli agenti delle Tenebre, sia perché Egor potesse tener testa ai vampiri.

Così per me Egor era rimasto un fallimento personale, poiché io per primo avevo riconosciuto in lui un Altro; una brava persona, quantunque per il momento solo umana. Nonché un futuro avversario nell'eterna lotta tra il Bene e il Male. Il ricordo del suo destino indeterminato era finito in un angolo remoto della mia memoria.

Egor poteva ancora diventare chiunque volesse. Il suo potenziale futuro era indefinito. Un libro aperto. Un Libro del Destino.

Ecco chi si sarebbe trovato di fronte a Svetlana, nel momento in cui lei avrebbe stretto in mano il gessetto. E vi si sarebbe messo volentieri, non appena Geser gli avesse spiegato in tono serio e ragionevole ciò che stava accadendo. Sapeva dare spiegazioni convincenti, il Capo della Guardia della Notte, il comandante delle Forze della Luce di Mosca, il Grande Mago antico. Geser avrebbe parlato di correzione degli errori. E sarebbe stata la verità. Avrebbe parlato del radioso futuro che si apriva di fronte a Egor. E anche questa — ecco qual era la questione — sarebbe stata verità! Le Forze delle Tenebre potevano avanzare centinaia di proteste: l'Inquisizione senza dubbio avrebbe tenuto in considerazione il fatto che, all'inizio, il ragazzo era rimasto vittima delle loro azioni.

A Svetlana sarebbe certamente stato detto che un insuccesso, nel caso di Egor, mi avrebbe distrutto. Che il ragazzo aveva sofferto molte cose, per il fatto che la Guardia era stata occupata nel salvataggio di lei.

Svetlana non avrebbe tentennato.

Avrebbe ascoltato tutto ciò che doveva fare.

Avrebbe toccato il pezzetto di gesso, un comunissimo gessetto, con cui si poteva disegnare sull'asfalto o scrivere 2+2=4 sulla lavagna.

E avrebbe cominciato a riempire lo spazio vuoto di un destino rimasto fino a quel momento indefinito.

Cosa si preparavano a fare di lui?

Chi sarebbe diventato?

Un leader? Il capo di nuovi partiti e nuove rivoluzioni? Il profeta di una religione non ancora creata?

Il pensatore che avrebbe fondato una nuova dottrina sociale? Un musicista, un poeta, uno scrittore la cui opera avrebbe cambiato la coscienza di milioni di persone?

Per quanti anni ancora, in futuro, si sarebbe protratto il lento piano delle Forze della Luce?

Sì, un Altro non può cambiare l'essenza che ha ricevuto dalla natura. Egor sarebbe stato un mago debolissimo. E tuttavia, grazie all'interferenza della Guardia, pur sempre un mago della Luce.

Ma per cambiare i destini dell'umanità, non era obbligatorio essere un Altro. Anzi, sarebbe addirittura stato d'impiccio. Molto meglio utilizzare il sostegno della Guardia e condurre, trascinare dietro di sé le masse umane, che tanto hanno bisogno della felicità da noi elaborata.

E lui le avrebbe trascinate. Non sapevo come, non sapevo dove, ma le avrebbe trascinate. Solo che anche le Forze delle Tenebre avrebbero fatto le proprie mosse. Ogni presidente ha il proprio killer. Ogni profeta ha mille interpreti pronti a pervertire l'essenza della religione, a sostituire il sacro fuoco con i roghi dell'Inquisizione. Ogni libro sarebbe prima o poi volato tra le fiamme, dalle sinfonie avrebbero tratto canzonette da bettola. Avrebbero trovato una salda base filosofica a qualsiasi turpitudine.

Sì, non avevamo imparato nulla. Probabilmente non ne avevamo voglia.

Ma almeno mi restava un po' di tempo. E il diritto di fare la mia mossa. L'unica.

Se solo avessi saputo quale.

Esortare Svetlana a non ascoltare Geser, a non lasciarsi coinvolgere nella magia superiore, a non dirigere il destino altrui?

E perché, poi? Non era forse giusto così? Si sarebbero corretti gli errori commessi, sarebbe cominciato un futuro di felicità per ogni uomo preso singolarmente e per l'umanità nella sua interezza. Io mi sarei liberato dal peso degli errori commessi, Svetlana dalla consapevolezza che il suo successo era costato l'altrui disgrazia. Sarebbe entrata nei ranghi delle Grandi Maghe. Qual era il prezzo dei miei dubbi confusi? E cosa nascondevano: una preoccupazione sincera o il vile interesse personale? Cos'era la Luce, cosa le Tenebre?

— Ehi, bello!

Il proprietario della bancarella davanti a cui mi ero fermato mi fissava. In modo non proprio cattivo, ma certo irritato.

— Vuoi comprare qualcosa?

— Ti sembro un idiota? — domandai.

— Eccome. O compri o ti levi di torno.

In un certo senso aveva ragione. Ma adesso ero pronto a contrattaccare. — Non sai quanto sei fortunato. Io attiro la folla, ti procuro i clienti.

Il commerciante aveva un aspetto pittoresco. Corpulento, paonazzo e con due braccia grassocce, su cui il grasso e i muscoli si muovevano in modo uniforme. Mi gettò uno sguardo di valutazione, evidentemente senza trovare in me nulla di minaccioso, e fece per lanciarmi una frecciata.

Poi, di colpo, sorrise. — Be', allora procurameli. Ma con un po' più di energia. Prova a inscenare un acquisto. Al limite, puoi anche far finta di darmi soldi.

Tutto questo era molto strano e inaspettato.

Sorrisi anch'io di rimando. — Vuoi che ti compri per davvero qualcosa?

— E perché? Questa è paccottiglia per turisti. — L'uomo smise di sorridere, ma la tensione e l'aggressività di prima non tornarono a dipingersi sulla sua faccia. — Fa un caldo della madonna, perdo le staffe con tutti. Se solo piovesse!

Guardai il cielo e alzai le spalle. Pareva che qualcosa stesse cambiando. Qualcosa si muoveva nell'azzurro terso di quel forno celeste.

— Credo che stia per succedere — annunciai.

— Sarebbe bello.

Scambiai con lui un cenno di saluto e mi immersi nel flusso della folla.

Anche se non sapevo cosa fare, ora almeno sapevo dove andare. E non era poco.

Capitolo 7

Le nostre forze sono in gran parte prese in prestito.

Gli agenti delle Tenebre le attingono dalle sofferenze altrui. Per loro è di gran lunga più semplice. Non è nemmeno necessario fare del male agli uomini. È sufficiente attendere. È sufficiente guardare attentamente tutt'intorno e aspirare, aspirare la sofferenza altrui, proprio come si sorbisce un cocktail con la cannuccia.

Anche noi potremmo farlo. Seppure in un modo un po' diverso. Possiamo assumere forza quando gli uomini stanno bene, quando sono felici.

C'è solo un piccolo dettaglio, che rende il processo praticabile da parte delle Forze delle Tenebre, mentre di fatto lo proibisce a noi. Felicità e dolore non sono affatto ai due poli opposti nella scala dei sentimenti umani. Altrimenti non esisterebbero la dolce malinconia e la gioia maligna. Si tratta di due processi paralleli, di due correnti paritarie di quella forza che agli Altri è concesso di percepire e utilizzare.

Quando un mago delle Tenebre beve la sofferenza altrui, essa aumenta.

Quando un mago della Luce afferra la gioia altrui, essa diminuisce.

Possiamo assimilare la forza in qualsiasi momento. E assai di rado ci permettiamo di farlo.

Quel giorno decisi che mi era permesso.

Ne presi un po' da una coppietta abbracciata davanti all'ingresso della metropolitana. Erano felici, molto felici, in quel momento. Tuttavia sentivo che si sarebbero separati per molto tempo e che la tristezza li avrebbe ineluttabilmente toccati. Decisi che avevo il diritto di farlo. La loro gioia era vivida e sfarzosa come un bouquet di rose rosse.

Un bambino mi passò accanto di corsa. Lo sfiorai: si sentiva bene, non avvertiva nemmeno quella calura opprimente e stava correndo a comprarsi un gelato. Si sarebbe ripreso in fretta. La sua forza era semplice e pura come i fiori di campo. Un mazzo di fiori di camomilla, strappati con le mie mani senza esitazione.

Vidi una vecchietta affacciata a una finestra. L'ombra della morte le era già in qualche modo accanto, e probabilmente lei stessa ne percepiva la presenza. Eppure sorrideva. Quel giorno il nipote era passato a trovarla. Più che altro per verificare se la nonna era ancora viva o se per caso, invece, aveva finalmente liberato il suo prezioso appartamento nel centro di Mosca. Questo lo capiva anche lei. Eppure era felice. Mi vergognai in maniera insopportabile, ma la sfiorai lo stesso e le presi un po' di forza. Un bouquet di erbe e foglie autunnali giallo-arancione prossime ad appassire…

Me ne andavo, come talvolta nei miei incubi notturni, in cui distribuivo felicità a destra e a manca. A tutti, e in modo che nessuno ne uscisse offeso. Solo che dietro di me stavolta si stendeva una scia di tutt'altro genere. Sorrisi che si spegnevano, rughe che di colpo solcavano la fronte, labbra morsicate all'improvviso.

Era evidente dove stavo andando.

Nessuna pattuglia di Guardiani del Giorno mi avrebbe fermato lungo il tragitto.

Del resto, anche gli agenti della Luce, vedendo ciò che stava succedendo, avrebbero taciuto.

Avrei fatto ciò che ritenevo necessario. Ciò che mi consideravo in diritto di compiere. Prendere in prestito. Rubare. E il modo in cui avrei agito con la forza ricevuta avrebbe determinato il mio destino.

Avrei regolato tutti i miei conti.

Oppure mi si sarebbe spalancato davanti il Crepuscolo.

Un mago della Luce, una volta cominciato ad attingere forza dagli uomini, si gioca tutto. E qui non funzionano le consuete contrattazioni tra le azioni delle Guardie. La quantità di Bene messo a frutto non è semplicemente tenuta a superare il Male provocato.

Non dovevo nutrire il minimo dubbio circa il fatto che stessi saldando i conti.

Innamorati, bambini, vecchi. Una compagnia intenta a bere birra presso un monumento. Temevo che la loro gioia fosse fasulla, invece si rivelò autentica. Così mi presi la loro forza.

Perdonatemi.

Avrei potuto scusarmi per tre volte con ciascuno. Pagare per ciò che avevo rubato. Ma si sarebbe trattato di una menzogna.

Mi stavo semplicemente battendo per il mio amore. In primo luogo. Nonché per voi, che presto sareste stati oggetto di una nuova, inaudita felicità.

Ma questa, a sua volta, si poteva definire la verità?

Dando battaglia per il proprio amore, si combatte davvero ogni volta per tutto il mondo?

Per tutto il mondo, non contro il mondo intero.

La forza!

La forza.

La forza?

Raccoglievo i suoi granelli, a volte con cura e attenzione, altre volte bruscamente e con noncuranza, perché la mano non tremasse, per non distogliere lo sguardo per la vergogna.

Forse per quel ragazzo la felicità era comunque un ospite raro?

Non lo sapevo.

La forza!

Privata del sorriso, quella donna avrebbe forse perso l'amore di qualcuno?

La forza.

Quell'uomo robusto, dal sorriso ironico, l'indomani sarebbe forse morto?

La forza.

Gli amuleti che avevo in tasca non mi avrebbero aiutato. Non ci sarebbe stata lotta. Non mi avrebbe aiutato il "culmine della forma" di cui aveva parlato il Capo. Tutto ciò era comunque poco. E il diritto a una libera interferenza di terzo grado, tanto generosamente concessomi da Zavulon, era un tranello. Non c'era il minimo dubbio. Lui aveva mosso la sua amica e manovrato le linee direttrici di probabilità in modo tale da farci incrociare, per potermi consegnare con espressione afflitta il proprio dono mortale. Io non potevo scrutare nel futuro tanto in profondità da evitare al mio Bene di convertirsi in Male.

Ma se non si hanno armi, le si prenda dalle mani del nemico.

La forza!

La forza.

La forza!

Se avessi conservato quel filo sottile che mi aveva legato a Geser, che aveva unito il giovane mago al suo istruttore, da tempo lui si sarebbe accorto di ciò che stava accadendo. Avrebbe percepito che mi stavo riempiendo di un'energia mostruosa, attinta a caso e per chissà quale motivo.

Cosa avrebbe fatto, allora?

Sarebbe stato assurdo cercare di fermare un mago avviato lungo quella strada.

Mi recai a piedi al Palazzo della Mostra Permanente. Sapevo dove si sarebbe svolto il tutto. Non esistono casualità, quando a dirigere gli eventi sono i maghi superiori. Lo sgraziato "casermone sulle zampe", la scatola di fiammiferi lì installata: Zavulon vi era stato sconfitto nel combattimento per Svetlana, Geser vi aveva scoperto il proprio protetto e l'aveva introdotto nell'Inquisizione, dopo avere nel frattempo addestrato Svetlana.

Quello era il centro di tutta la combinazione.

Per la terza volta.

Non avevo più fame né sete. Tuttavia mi fermai a bere un caffè. Non aveva sapore, come fosse stato completamente privo di caffeina. Le persone avevano cominciato a fare largo al mio passaggio, benché stessi ancora percorrendo il mondo normale. La tensione magica cresceva e si espandeva.

Non potevo nascondere il mio arrivo.

Ma nemmeno volevo avvicinarmi furtivamente, come per un agguato.

Una giovane incinta stava passando con fare cauto. Sussultai, quando vidi che sorrideva. Capii che anche il suo bambino non ancora nato stava sorridendo, al sicuro nel suo minuscolo mondo.

La loro forza era simile a una peonia rosa pallido, a un grosso fiore e a un bocciolo non ancora schiuso.

Dovevo raccogliere tutto ciò che mi veniva incontro lungo il cammino.

Senza esitazione, senza pietà.

Tutt'intorno stava succedendo qualcosa. Sembrava che la calura si fosse intensificata.

A quanto pareva, i maghi delle Tenebre e quelli della Luce non si erano prodigati inutilmente per giorni e giorni nel tentativo di dissipare l'arsura. Qualcosa sarebbe accaduto. Mi fermai, alzai la testa e fissai il cielo attraverso il Crepuscolo.

Turbini sottili, ritorti in spire.

Scintille all'orizzonte.

Foschia a sud-est.

Un'aureola intorno all'ago della torre di Ostankino.

Sarebbe stata una strana notte.

Sfiorai una ragazza di passaggio e mi presi la sua gioia ingenua perché il padre era tornato a casa sobrio.

Era proprio come un rametto di rosa selvatica, esile e spinoso.

Perdonatemi.

Quando arrivai al "casermone sulle zampe" erano quasi le undici di sera.

L'ultima persona che avevo sfiorato era un perdigiorno mezzo sbronzo, rannicchiato contro il muro in un androne. In quello stesso androne in cui avevo ucciso il primo agente delle Tenebre. Era praticamente incapace d'intendere e di volere. E felice.

Mi presi anche la sua forza. Un fiore di piantaggine, impolverato e coperto di sputi, una brutta candela color marroncino sporco.

Anche questa era forza.

Attraversai la strada e compresi che non ero solo. Richiamai l'ombra e sparii nel mondo del Crepuscolo.

L'edificio era circondato.

Si trattava dell'accerchiamento più strano che avessi mai visto. Agenti delle Tenebre e della Luce alla rinfusa. Vidi Semën, gli feci un cenno e ricevetti in risposta uno sguardo mite, di lieve rimprovero. Tigrotto, Orso, Il'ja, Ignat…

Quando li avevano convocati? Mentre io vagavo per la città, raccogliendo la forza? La vacanza non è riuscita, ragazzi.

E gli agenti delle Tenebre. Persino Alisa si trovava lì. Faceva paura guardarla: il suo viso somigliava a una maschera di carta sgualcita e poi lisciata. A quanto pareva, Zavulon non aveva mentito, quando aveva parlato di castigo. Accanto ad Alisa c'era Ališer: intercettando il suo sguardo, capii che i due si sarebbero affrontati in uno scontro mortale. Forse non subito. Ma l'avrebbero fatto immancabilmente. Feci un passo, cercando di varcare l'accerchiamento.

— La zona è chiusa — disse Ališer.

— La zona è chiusa — gli fece eco Alisa.

— Ho il diritto.

Avevo forza a sufficienza per passare anche senza permesso. Ormai solo i Grandi Maghi avrebbero potuto fermarmi, ma loro non si trovavano lì.

Nessuno cercò di fermarmi. Evidentemente Geser, Zavulon o entrambi i capi delle Guardie avevano dato ordine di avvertirmi soltanto.

— Buona fortuna — udii sussurrare alle mie spalle. Mi voltai e incrociai lo sguardo di Tigrotto. Le feci un cenno con la testa.

Attraversai la foschia grigiastra. Il terreno sotto i piedi sobbalzava sordamente: nel mondo del Crepuscolo persino il suolo e le ombre degli edifici umani reagivano alla magia.

Il portello sul tetto era spalancato. Nessuno si era preoccupato di ostacolarmi. La cosa più triste era che non sapevo se rallegrarmene o rammaricarmene.

Uscii dal Crepuscolo. Non serviva più, adesso.

Cominciai a salire su per la scaletta.

Per primo vidi Maksim.

Non era più lo stesso di un tempo: il mago della Luce spontaneo, il Selvaggio che per alcuni anni aveva ammazzato gli adepti delle Tenebre. Forse avevano lavorato su di lui. O forse era cambiato da solo. Ci sono persone da cui si riesce a ricavare torturatori perfetti.

Maksim aveva avuto fortuna. Era diventato anch'egli un torturatore. Un Inquisitore. Uno di quelli che stanno sopra la Luce e le Tenebre, che servono tutti e nessuno. Teneva le braccia incrociate sul petto e la testa leggermente china. Qualcosa in lui ricordava Zavulon, così come l'avevo visto la prima volta. Per altri versi ricordava Geser. Quando comparvi, Maksim sollevò un poco la testa. Mi sfiorò con uno sguardo trasparente e abbassò gli occhi.

Zavulon se ne stava immobile in disparte. Era avvolto in un sottile mantello e non mi rivolse la minima attenzione.

Sapeva che sarei arrivato.

Geser, Svetlana ed Egor reagirono alla mia apparizione più vivacemente.

— Infine sei venuto… — disse il Capo.

Annuii e guardai Svetlana. Indossava una lunga veste bianca e portava i capelli sciolti. Nella sua mano baluginava fiocamente un piccolo astuccio, identico a quelli in uso per le spille o i medaglioni; un astuccio di cuoio bianco.

— Sai tutto, vero, Anton? — gridò Egor.

Di tutti i presenti, quello felice era decisamente lui.

— Sì — risposi. Mi avvicinai e gli scompigliai i capelli.

La sua forza era simile a un giallo tarassaco.

Ecco, ora a quanto pareva avevo raccolto tutto il possibile.

— Anton, cosa ti prepari a fare? — chiese Geser.

Non gli risposi. Qualcosa mi aveva messo in allarme. Qualcosa non andava.

Ma certo! Chissà perché, mancava Ol'ga.

L'addestramento era già stato effettuato? Svetlana sapeva cosa l'aspettava?

— Un gessetto — dissi. — Un piccolo gesso, appuntito a entrambe le estremità. Può essere usato per scrivere su qualsiasi cosa. Per esempio, sul Libro del Destino. Cancellando le vecchie scritte, inserendone di nuove.

— Anton, non hai svelato nulla di inatteso ad alcuno dei presenti — disse pacatamente il Capo.

— Il permesso è accordato? — domandai.

Geser guardò Maksim. L'Inquisitore alzò la testa. Con voce sorda disse: — Il permesso è accordato.

— Obiezione da parte della Guardia del Giorno — annunciò Zavulon in tono annoiato.

— Obiezione respinta — replicò indifferente Maksim. Di nuovo lasciò cadere la testa sul petto.

— Una Grande Maga può prendere in mano il gessetto — dissi. — Ogni nuova riga nel Libro del Destino porterà via con sé una piccola parte della sua anima. La porterà via e la restituirà modificata. Il destino di un uomo può essere cambiato solo sacrificando la propria anima.

— Lo so — disse Sveta. Fece un sorriso. — Anton, perdonami. Credo che tutto ciò sia giusto. Sarà un vantaggio per tutti.

Negli occhi di Egor guizzò un lampo di diffidenza. Percepì che qualcosa non quadrava.

— Anton, sei un agente della Guardia — disse Geser. — Se hai qualche obiezione, puoi parlare.

Obiezioni? Su cosa, in sostanza? Sul fatto che Egor sarebbe diventato un mago della Luce anziché delle Tenebre? Che si sarebbe tentato, pur tra mille insuccessi, di portare il Bene tra gli uomini? Che Svetlana sarebbe diventata una Grande Maga?

A costo di sacrificare per questo tutto ciò che di umano Sveta ancora possedeva?

— Non dirò niente — dichiarai.

Era un'illusione, o davvero negli occhi del Capo era balenato lo stupore?

Difficile capire cosa pensava in realtà un mago superiore.

— Cominciamo — disse lui. — Svetlana, sai cosa devi fare.

— Sì. — Mi guardò. Mi allontanai di qualche passo. Geser fece altrettanto. Rimasero in due, Svetlana ed Egor. Ugualmente smarriti. Ugualmente tesi. Lanciai un'occhiata a Zavulon. Se ne stava in attesa. Lentamente Svetlana aprì l'astuccio — lo schiocco della chiusura risuonò come uno sparo — e, quasi facendosi violenza, ne estrasse il gessetto. Minuscolo. Davvero si era così consumato nel corso dei millenni, a mano a mano che la Luce tentava di cambiare i destini del mondo?

Geser sospirò.

Svetlana si accucciò e cominciò a tracciare un cerchio intorno a sé e al ragazzino.

Non avevo nulla da dire, nulla da fare.

Avevo raccolto talmente tanta forza, che adesso traboccavo.

Avevo il diritto di compiere il Bene.

Non bastava la semplice comprensione.

Cominciò a soffiare il vento. Timidamente, quasi con prudenza. Si placò.

Guardai in alto e sobbalzai. Stava succedendo qualcosa. Lì, nel mondo degli uomini, le nubi avevano coperto il cielo. Non mi ero nemmeno reso conto che fossero spuntate.

Svetlana terminò di disegnare il cerchio. Si rialzò.

Tentai di guardarla attraverso il Crepuscolo e subito distolsi gli occhi. Nella sua mano ardeva come un tizzone arroventato. Chissà se provava dolore.

— Si avvicina una tempesta — disse Zavulon da lontano. — Una vera tempesta, come non si vedeva da tempo.

Fece una risata.

Nessuno prestò attenzione alle sue parole. Tranne forse il vento, che si mise a soffiare con più convinzione e prese a intensificarsi sempre di più. Guardai in giù: per il momento, tutto era ancora tranquillo. Svetlana agitò il pezzo di gesso nell'aria, come abbozzando qualcosa di visibile solo a lei. Una sagoma rettangolare, con un disegno al suo interno.

Egor cominciò a gemere debolmente e rovesciò la testa all'indietro. Cercai di fare un passo e subito mi fermai. Una barriera invalicabile mi bloccava. Ma non sarebbe comunque servito a nulla.

Non era questo.

Quando non si sa come agire, non si deve prestare fede a nulla. Non alla mente fredda, non al cuore puro, non alle mani ardenti.

— Anton!

Mi voltai verso Geser. Il Capo sembrava preoccupato. — Non è una semplice tempesta, Anton. È un uragano. Ci saranno delle vittime.

— Le Forze delle Tenebre? — domandai semplicemente.

— No. Le forze elementari.

— Forse hanno alzato un po' troppo il gomito con il punto centrale della forza? — chiesi.

Il Capo non reagì alla mia presa in giro.

— Anton, che grado di magia ti è stato concesso?

Naturalmente sapeva della mia transazione con Zavulon.

— Terzo.

— Puoi fermare l'uragano — disse Geser. Era una semplice constatazione. — Tutto si risolverà in una pioggia torrenziale. Hai raccolto forza sufficiente.

Il vento riacquistò impeto. Ormai non si sarebbe più placato. Ci investiva e ci strattonava, quasi avesse deciso di strapparci dal tetto. Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia.

— Forse questa è l'ultima possibilità — aggiunse il Capo. — Ma spetta a te decidere.

Con un suono cristallino, intorno a lui spuntò uno scudo magnetico: era come se Geser fosse stato coperto con un sacco di cellofan. Non avevo ancora mai visto prendere simili misure di difesa contro una furia degli elementi tutto sommato ordinaria.

Svetlana continuava a disegnare il Libro del Destino. Il suo vestito ondeggiava al vento. Egor non si muoveva, se ne stava in piedi come inchiodato a un'invisibile croce. Forse non era già più in sé. Cosa accade a una persona, quando perde il suo vecchio destino e non ne ha ancora trovato uno nuovo?

— Geser, tu ti stai preparando a scatenare un tifone al cui confronto questa tempesta non è nulla! — gridai.

Il vento copriva le parole.

— È inevitabile — rispose lui. Aveva parlato in una specie di sussurro, ma ogni parola era risuonata in modo perfettamente chiaro. — Si sta già levando.

Il Libro del Destino divenne visibile anche nel mondo di qua. Ovviamente Svetlana non l'aveva disegnato in senso letterale, ma l'aveva estratto dagli strati più profondi del Crepuscolo. Ne aveva fatto una copia. Qualunque sua modifica si sarebbe riflessa sull'originale. Il Libro del Destino aveva l'aspetto di un modello, un plastico composto di linee infuocate, ardenti, sospese nell'aria. Toccandolo, le gocce di pioggia sfrigolavano.

Ora Svetlana avrebbe cominciato a cambiare il destino di Egor.

Poi, di lì a dieci anni, Egor avrebbe cambiato il destino del mondo.

Come sempre, per il Bene.

Come sempre, senza successo.

Barcollai. In un istante, in modo del tutto inaspettato, il vento si era tramutato in uragano. Tutt'intorno stava succedendo qualcosa di inimmaginabile. Vedevo le macchine fermarsi lungo il viale e stringersi contro il ciglio della strada, lontano dagli alberi.

Senza emettere alcun suono — l'urlo del vento copriva ogni altro fragore — un enorme cartellone pubblicitario si abbatté in mezzo all'incrocio. Alcune figure, che si erano attardate all'aperto, correvano verso le abitazioni, nella speranza di trovarvi riparo.

Svetlana si fermò. Il puntolino ardente bruciava nella sua mano.

— Anton!

Percepii appena la sua voce. — Anton, cosa devo fare? Dimmelo! Anton, devo compiere tutto questo?

Il cerchio di gesso la proteggeva — anche se non del tutto, perché per poco la veste non le si strappava di dosso — permettendole di tenersi in piedi.

Tutto sembrò scomparire. La guardavo, vedevo il gessetto ardente, pronto ormai a cambiare il destino. Svetlana attendeva una risposta, solo che io non avevo nulla da dirle. Nulla, perché io stesso non conoscevo la risposta.

Alzai le braccia verso il cielo infuriato e vidi comparire sulle mie mani i colori della forza.

— Credi di potercela fare? — domandò Zavulon. — La tempesta si è intensificata.

La sua voce spiccava sul fragore dell'uragano altrettanto nitida di quella del Capo.

Geser fece un sospiro.

Aprii le mani e le volsi verso il cielo. Lassù le stelle erano scomparse e solo le nubi si rincorrevano, tra i fulmini e gli scrosci di pioggia.

Si trattava di uno dei sortilegi più semplici. Uno dei primi che ci venivano insegnati.

La rimoralizzazione.

Senza alcuna precisazione.

— Non farlo! — gridò Geser. — Non osare!

Si spostò con uno scatto, coprendomi la vista di Egor e di Svetlana. Come se potesse così impedire il sortilegio. No, a quel punto non poteva più fermarlo.

Un raggio di luce invisibile agli umani sgorgò dalle mie mani. Tutti i granelli di forza che vi avevo spietatamente raccolto. La fiamma purpurea delle rose, il giallo delle erbe selvatiche, il rosa pallido delle peonie, il bianco della camomilla…

Zavulon rideva piano alle mie spalle.

Svetlana se ne stava ferma con il gesso stretto nella mano sopra il Libro del Destino.

Egor era immobile di fronte a lei, con le braccia distese.

Figure scolpite. La forza era nelle mie mani. Non ne avevo mai posseduto una quantità tale. Incontrollabile, traboccante, pronta a rovesciarsi su chiunque.

Sorrisi a Svetlana. E piano piano diressi verso il suo viso le mie palme, zampillanti di luce multicolore.

— No! — L'urlo di Zavulon non squarciò semplicemente il fragore dell'uragano: lo coprì. La vampa di un fulmine attraversò il cielo. Il capo degli agenti delle Tenebre si lanciò verso di me, ma Geser gli si mosse incontro. Non vidi la scena, la percepii. Il fulgore mi inondava il volto. Mi girava la testa. Non sentivo più il vento.

Era rimasto soltanto quell'arcobaleno infinito, in cui naufragavo.

Il vento imperversava tutt'intorno senza toccarmi. Guardai Svetlana: la parete invisibile che si era sempre frapposta tra noi stava crollando. Crollava, ma per chiuderci entrambi dentro una barriera. I capelli di Sveta si sparsero morbidamente tutt'intorno al suo viso.

— Hai consumato tutto per te?

— Sì — dissi.

— Tutto ciò che avevi accumulato?

Non ci credeva, non riusciva ancora a crederci. Sapeva qual è il prezzo per la forza presa in prestito.

— Fino all'ultima goccia! — risposi. Mi sentivo sollevato, incredibilmente leggero.

— Perché? — La maga allungò una mano. — Perché, Anton? Potevi fermare questa tempesta. Potevi rendere felici centinaia di persone. Come hai potuto… Tutto per te?

— Per non sbagliarmi — le spiegai. Era persino imbarazzante che una futura Grande Maga non afferrasse una simile piccolezza.

Per un secondo Svetlana tacque. Poi guardò il gessetto infuocato nella propria mano. — Cosa devo fare, Anton?

— Ormai hai aperto il Libro del Destino.

— Anton! Chi ha ragione? Tu o Geser?

Scossi la testa. — Devi scoprirlo da sola.

Svetlana si incupì. — E questo è tutto, Anton? Per questo ti sei impossessato di tanta forza altrui? Per questo hai usufruito della magia di terzo grado?

— Cerca di capire. — Non sapevo quanta fede si esprimeva nella mia voce. — A volte l'importante non è agire. A volte è essenziale l'inazione. Ci sono cose che devi risolvere da sola. Senza consigli. Né da parte mia né da parte di Geser, Zavulon, della Luce o delle Tenebre. Da sola.

Scrollò la testa. — No!

— Sì. Deciderai da sola. Nessuno ti toglierà questa responsabilità. E quale che sia la tua scelta, rimpiangerai sempre e comunque ciò che hai scartato.

— Ti amo, Anton!

— Lo so. Anch'io ti amo. Perciò non ti dirò nulla.

— E questo è il tuo amore?

— Sì.

— Ho bisogno di un consiglio! — gridò. — Anton, ho bisogno del tuo consiglio!

— Ognuno costruisce il proprio destino — dissi. Era persino un po' più di ciò che potevo dirle. — Decidi.

Il gessetto nella sua mano divampò come un sottile ago di fiamma, quando Svetlana si girò verso il Libro del Destino. Uno scatto… le pagine scricchiolarono.

La Luce e le Tenebre. Solo macchie sulle pagine del caso. Uno scatto. Un tratto di penna.

La corsa impetuosa delle righe infuocate.

Svetlana aprì la mano e il gessetto del destino cadde pesantemente ai suoi piedi, come fosse un proiettile di piombo. L'uragano l'avrebbe trascinato via, ma io riuscii a piegarmi e a raccoglierlo.

Il Libro del Destino cominciò a dissolversi.

Egor barcollò, si curvò e cadde su un fianco, ripiegando le ginocchia contro il petto. Si rattrappì come un povero piccolo fagotto.

La pioggia aveva ormai cancellato il cerchio bianco tracciato intorno a loro, così potei avvicinarmi. Mi chinai e lo tenni sollevato per le spalle.

— Non hai inserito nulla! — gridò Geser. — Svetlana, hai solo cancellato!

La maga si strinse nelle spalle. Si guardò intorno. Irrompendo oltre la barriera in dissoluzione, la pioggia le aveva inzuppato il vestito, l'aveva tramutato in un velo di mussola incapace di nascondere il corpo. Fino a un attimo prima Svetlana era stata una sacerdotessa dalla veste candida, ora invece si era trasformata in una ragazza infradiciata, ferma con le braccia abbassate al centro della tempesta.

— Questo era il tuo esame — disse Geser a mezza voce. — Ti sei lasciata sfuggire la tua occasione.

— Luminoso Geser, io non voglio servire nella Guardia — rispose la ragazza. — Chiedo perdono, Luminoso Geser. Ma non è la mia strada. Non è il mio destino.

Geser scosse tristemente la testa. Aveva smesso di guardare Zavulon. In pochi passi il mago delle Tenebre ci fu accanto.

— E questo è tutto? — chiese. Guardò me, Sveta, Egor. — Non siete riusciti a fare niente?

Volse lo sguardo verso l'Inquisitore. Questi alzò la testa e annuì.

Nessun altro gli rispose più.

Un sorriso obliquo comparve sul viso di Zavulon.

— Quanti sforzi, per finire con una farsa. Solo perché una ragazzetta isterica non ha voluto lasciare il proprio innamorato smidollato. Anton, mi hai deluso. Svetlana, mi hai dato motivo di gioia. Geser — il mago delle Tenebre guardò il Capo — congratulazioni per i tuoi ottimi collaboratori…

Alle sue spalle si aprì il Portale. Ridendo sommessamente, Zavulon si immerse in una nube nera.

Dal basso si levò un profondo sospiro. Sapevo cosa stava accadendo senza bisogno di guardare. Uno dopo l'altro gli agenti delle Tenebre uscirono dal Crepuscolo. Si precipitarono verso le proprie macchine parcheggiate intorno all'edificio, affrettandosi a spostarle lontano dagli alberi. Poi, curvandosi, corsero verso le case vicine.

Subito dopo furono gli agenti della Luce a lasciare l'accerchiamento. Solo alcuni, e per gli stessi semplici motivi, comprensibili e umani. Ma la maggior parte, intuii, rimase al suo posto, con lo sguardo rivolto verso l'alto, al tetto dell'edificio. Tigrotto, con un'espressione colpevole. Semën, con il sorriso cupo di chi ha visto ben altro che tempeste del genere. Ignat, con la sua immancabile, sincera compassione.

— Non ci sono riuscita — disse Svetlana. — Geser, chiedo perdono. Non ce l'ho fatta.

— Non avresti comunque potuto — risposi. — E nemmeno dovevi…

Aprii la mano e guardai il gessetto, che nel mio palmo si era ridotto a un semplice pezzettino di gesso, zuppo e appiccicoso. Appuntito a una delle due estremità. Spezzato all'altra.

— Avevi capito tutto da molto tempo? — mi chiese Geser. Si avvicinò e mi si sedette accanto. Il suo scudo si allargò sopra di noi e l'urlo dell'uragano cessò.

— No. Solo poco fa.

— Cosa sta succedendo? — esclamò Svetlana. — Anton, cosa sta succedendo?

Fu Geser a risponderle: — A ciascuno il proprio destino. A uno è dato di governare le vite altrui o di abbattere imperi. A un altro è dato semplicemente di vivere.

— Mentre la Guardia della Notte attendeva che tu agissi — chiarii — Ol'ga ha preso l'altra metà del gessetto e ha riscritto il destino di qualcuno. Così come voleva la Luce.

Geser sospirò. Allungò la mano e toccò Egor. Il ragazzino cominciò a muoversi e cercò di alzarsi.

— Piano, piano — disse il Capo in tono affettuoso. — È tutto finito.

Circondai con il braccio le spalle di Egor e gli feci posare la testa sulle mie ginocchia. Il ragazzino sì calmò di nuovo.

— Dimmi, perché? — domandai. — Se sapevi già tutto in anticipo?

— Persino a me non è dato di sapere ogni cosa.

— Perché?

— Perché tutto doveva avvenire naturalmente — rispose Geser con una lieve irritazione. — Solo così Zavulon avrebbe creduto a ciò che vedeva. Ai nostri piani e alla nostra disfatta.

— Questo non è tutto, Geser. — Lo guardai negli occhi. — Non è tutto!

— Va bene. Sì, avrei potuto farlo anche in un altro modo. Svetlana sarebbe diventata una Grande Maga. Contro il suo stesso desiderio. Egor, malgrado il debito della Guardia nei suoi confronti, si sarebbe tramutato in un nostro strumento.

Aspettai. Avevo una gran voglia di vedere se Geser avrebbe detto tutta la verità. Almeno per una volta.

— Sì, avrei potuto farlo anche così. — Il Capo sospirò. — Solo che, ragazzo mio… Tutto ciò che ho fatto nel corso del XX secolo, oltre che alla grande lotta tra la Luce e le Tenebre, era subordinato a un'altra causa… di nessun danno alla prima, beninteso…

All'improvviso provai pena per lui. Una pena insopportabile. Forse per la prima volta, nell'arco di un millennio, il Grande Mago, il Luminoso Geser, sterminatore di mostri e guardiano delle dominazioni, era costretto a dire la verità fino in fondo. Non bella e nobile come quella che era solito raccontare.

— Non è necessario, ho capito! — gridai.

Ma il Grande Mago scosse la testa.

— Tutto ciò che ho fatto… era subordinato anche a un altro fine. Costringere la direzione a revocare il castigo inflitto a Ol'ga. Restituirle tutte le sue forze e darle di nuovo la possibilità di prendere in mano il gesso del destino… Doveva diventare pari a me. Altrimenti il nostro amore sarebbe stato condannato a morire. E io la amo, Anton.

Svetlana si mise a ridere. Piano piano. Pensai che avrebbe dato uno schiaffo al Capo, ma evidentemente fino a quel momento non avevo capito proprio niente di lei. Si inginocchiò davanti a Geser e gli baciò la mano sinistra.

Il mago trasalì. Fu come se avesse perso le sue forze infinite: la cupola di difesa cominciò a tremolare e si sciolse. Di nuovo ci colpì l'urlo dell'uragano.

— E tenteremo di nuovo di cambiare il destino del mondo? — gli domandai. — Oltre alle nostre piccole faccende personali?

Il Capo annuì. E mi chiese: — La cosa non ti rallegra?

— No.

— Anton, sappi che non si può vincere su tutti i fronti. A me non è riuscito. E non riuscirà nemmeno a te.

— Lo so — dissi. — Certo che lo so, Geser. Ma ci si prova lo stesso.

Gennaio — agosto 1998

Mosca

FINE
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