Nella galleria oscura e contorta Thorn poté sollevare di poco il suo coltello, e il ringhiare del cane che lo stava assalendo fu ingigantito fino a ferire i timpani. Comunque, il coltello fece effetto prima delle zanne dell’animale, e con un guaito irato il cane arretrò… non c’era spazio per voltarsi.
Dal rumore delle zampe sulla roccia, Thorn concluse che l’animale doveva essersi ritirato fino all’ingresso della gelleria. Abbandonò la posizione contratta che lo aveva portato ad addossarsi alla parete rocciosa, si distese in una posizione calcolata per riposare gambe e braccia, e considerò la sua situazione.
Certo, e ora se ne rendeva conto, era stata una pazzia entrare in quella galleria senza accendere il fuoco per assicurarsi di poter ritornare a una posizione nella quale avrebbe potuto usare la fionda. Ma scendendo nella gola, non aveva visto alcun segno dei diavoli, e senza dubbio era stato necessario visitare nuovamente la caverna per vedere se Thorn III possedeva altro cibo, armi, o abiti di ricambio. La necessità del cibo era assoluta, e il giorno prima lui e Darkington erano ritornati dalla caccia a mani vuote.
Si domandò se Darkington avrebbe tentato di salvarlo. Era difficile, dato che l’ometto non sarebbe ritornato dal suo giro di caccia che verso sera. Con l’avvicinarsi della notte, ben difficilmente l’ometto avrebbe rischiato la vita avventurandosi nella gola per salvare un uomo che egli riteneva più o meno pazzo. Perché Thorn aveva cercato di dirgli troppo sui mondi delle probabilità alternate nelle quali la civiltà non era perita. Darkington aveva lasciato perdere quelli che lui definiva “sogni”, e Thorn aveva taciuto, non prima di rendersi conto che così facendo perdeva tutta la fiducia dell’altro.
Inoltre, Darkington era un po’ pazzo a sua volta. Lunghi anni di vita solitaria vevano causato delle abitudini ormai fisse. La sua fame di compagnia era diventata praticamente un desiderio idealizzato, e l’apparizione di un vero compagno sembrava averlo messo in grave disagio, visto che la cosa richiedeva una complessa operazione di riadattamento. Essere confinato in una landa selvaggia, e ritornare poi alla civiltà era una cosa. Ma sapere che la civiltà è morta e che di fronte si stendono soltanto secoli oscuri e selvaggi, nei quali altre creature occuperanno il centro del palcoscenico cosmico, rende l’uomo un animale del tutto diverso.
Qualcosa premeva contro il fianco di Thorn. Piegando la sua mano sinistra in un’angolazione scomodissima… la mano destra stringeva ancora il coltello… spostò la sacca e ne estrasse l’oggetto che provocava fastidio. Era l’enigmatica sfera che era rimasta con lui durante tutti i suoi passaggi tra i mondi. Irato, la gettò via. Aveva sprecato abbastanza tempo a cercare di scoprire la natura e lo scopo della cosa. Era inutile come… come quegli scheletri di pigliastelle che sorgevano là fuori.
Sentì che la sfera risaliva un po’ la galleria, poi tornava indietro rotolando per qualche metro, e si fermava.
Evidentemente anche i suoi guardiani sentirono, perché si udì un confuso concerto di miagolii e di guaiti, che non furono emessi all’unisono, ma in una strana mescolanza alternata di scatti e di pause che ricordava un discorso. Un paio di volte tra i miagolii gli sembrò di distinguere qualche parola umana, sebbene distorta dalle gole feline e canine. Non era piacevole essere intrappolato nel fondo di una galleria e doversi domandare che cosa stessero dicendo gatti e cani, parlando di lui nella loro lingua semicomprensibile.
E poi, pianissimo, Thorn credette che qualcuno chiamasse il suo nome.
La sua reazione immediata fu un sorriso ironico, al pensiero di quanto fosse facile confondere il proprio nome con i suoni più impensati. Ma gradualmente l’inesplicabile suono cominciò a esercitare una sottile pressione sui suoi pensieri, conducendolo a meditazioni ingiustificabili nelle sue condizioni attuali.
Ma quali devono essere i pensieri di un uomo in trappola e condannato a morte sicura? Con una certa calma, Thorn si disse che quelli erano probabilmente i suoi ultimi ragionamenti logici. Certo, quando la morte si fosse avvicinata a sufficienza, la paura avrebbe potuto permettergli di fuggire in un altro corpo. Ma questo non era affatto certo, e neppure probabile. Si rese conto di un fatto: ogni cambiamento lo aveva portato in un mondo peggiore. E ora, presumibilmente, si trovava sul fondo, e come una forza che abbia raggiunto il nadir del suo ciclo di esaurimento, non avrebbe potuto risollevarsi senza l’influsso di un agente esterno.
Inoltre, non gli sorrideva l’idea di condannare un altro Thorn al suo destino, anche se temeva di poterlo fare, se ne avesse avuta la possibilità.
E nuovamente immaginò, come attraverso un velo di sogno, di udire qualcuno che chiamava il suo nome.
Si domandò cosa stesse accadendo agli altri Thorn, dai destini così mischiati. Thorn III nel Mondo II… era morto nell’istante del suo arrivo, o i Servitori avevano notato in tempo il mutamento di personalità, e avevano deciso di risparmiarlo? Thorn II nel Mondo I. Thorn I nel Mondo III. Era una specie di gioco pazzesco… un gioco escogitato da un dio pazzo e crudele.
Eppure cos’era l’intero universo, perlomeno, come si era rivelato finora a lui, se non una commedia pazza e crudele? Il mito dell’Alba della Civiltà era giusto… c’erano dei serpenti che insidiavano ogni radice dell’albero cosmico Yggdrasil. In tre giorni aveva visto tre mondi, e nessuno di essi era buono. Il Mondo III, distrutto dalla energia subtronica, gelido campo di battaglia di un’ultima disperata resistenza. Il Mondo II, oppresso da una tirannia paternalistica, soffocato dall’odio e dalla noia. Il Mondo I, una utopia in apparenza, ma mancante di un autentico valore intrinseco, niente affatto migliore degli altri… soltanto più fortunato.
Tre mondi sbagliati.
Sobbalzò. Gli sembrò che, con quest’ultimo pensiero, qualcosa di estraneo alla sua mente le si fosse attaccato nella maniera più intima immaginabile. Ebbe la stranissima sensazione di avere acquistato una nuova forza di pensiero, di non essere più legato a un ammasso di ossa e di pelle, ma di potersi librare al di sopra di esso, di potere allungare i suoi pensieri come tentacoli verso orizzonti nuovi e assolutamente sconosciuti.
Un debole rumore, verso l’imboccatura della galleria, riportò la sua mente alla situazione attuale. Forse era stato il rumore di zampe sulla roccia. Comunque, non si ripeté. Strinse forte il coltello. Forse un animale stava tentando un attacco di sorpresa. Se ci fosse stata la luce…
Una fiamma giallastra, del colore del fuoco che aveva immaginato, apparve senza preavviso a qualche metro di distanza, davanti a lui, proiettando un intricato disegno di luci e ombre sulle pareti irregolari della galleria. Illuminò i musi di un magro cane grigio e di un gatto nero che si stavano avvicinando silenziosamente, fianco a fianco. Per un istante gli animali furono gelati dalla sorpresa. Poi il cane indietreggiò disperatamente, emettendo un guaito di paura. Il gatto soffiò minacciosamente e osservò furioso la fiamma, come se cercasse disperatamente di scoprire il suo modus operandi.
Ma, seguendo il pensiero di Thorn, la fiamma avanzò e il gatto indietreggiò di fronte a essa. Dapprima si limitò a indietreggiare, guardando e soffiando. Poi si voltò e, rispondendo con un miagolio disperato al coro di guaiti e di miagolii che giungeva dall’imboccatura della galleria, scappò a gambe levate.
La fiamma continuò ad avanzare, cambiando colore quando Thorn pensò alla luce del sole. E quando Thorn cominciò ad avanzare a sua volta, gli sembrò che la strada fosse molto più agevole.
La galleria diventava più alta, si allargava. Emerse nella caverna esterna e udì un ultimo rumore di zampe in fuga.
La fiamma, ora diventata bianca, si era fermata al centro della caverna. Mentre lui avanzava si sollevò per venirgli incontro, lo raggiunse… e nel palmo della mano di Thorn si trovò la grigia sfera, fredda e intatta, che lui aveva gettato via pochi minuti prima.
Ma non si trattava più di un oggetto esterno e separato. Era parte di lui, era sensibile a ogni mutamento di umore e di pensiero, era legata alla sua mente per mezzo di legami invisibili ma reali come nervi e muscoli. Non era una macchina controllata telepaticamente. Era un secondo corpo.
Sollievo, meraviglia, e consapevolezza esaltante del suo nuovo potere, lo resero debole. Per un istante tutto ondeggiò e si confuse, ma fu solo un istante… gli sembrò di suggere una vitalità inesauribile dalla sfera.
In lui sgorgò un fiotto di forza creativa, tanto forte da sembrare doloroso, come una fiamma improvvisamente esplosa nel suo cervello. Poteva fare tutto ciò che desiderava, andare dove voleva, creare tutto ciò che gli era necessario, creare la vita, cambiare il mondo, distruggerlo, se lo avesse desiderato.
E poi giunse la paura.
Paura che la cosa, obbedendo ai suoi pensieri, potesse obbedire anche a quelli stupiti, ignoranti e distruttivi. Non si potevano controllare a lungo i propri pensieri. Anche gli individui più equilibrati pensavano spesso al delitto, alla catastrofe, al suicidio…
Improvvisamente, la sfera gli apparve come un grigio globo fatto di minaccia.
E poi… dopotutto, non avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. A parte le altre limitazioni che la cosa poteva avere, rimaneva il fatto che i suoi pensieri erano limitati. Non avrebbe potuto fare cose che lui non riusciva a comprendere… per esempio, costruire un motore subtronico…
Oppure…
Per la prima volta, dopo essere emerso dalla galleria, cercò di pensare in maniera collettiva, servendosi non soltanto della superficie della sua mente.
Scoprì che i recessi della sua mente erano stranamente alterati. Il suo subcosciente non era più uno schermo opaco e impenetrabile. Poteva vedere in esso, come in un corridoio male illuminato, affondarvi, udire i pensieri che giungevano dalla parte opposta, i pensieri degli altri Thorn.
Uno di loro, sentì, stava istruendolo, affidandogli una… responsabilità.
Il messaggio riguardava argomenti che facevano tremare la mente. Sembrò avvolgere la sua personalità, la sua coscienza.
L’ultima scena che vide del Mondo III fu una parete di abeti oscuri e coperti di neve, incorniciata da una superficie rocciosa. Poi tutto fu oscurato, svanì, e lui si trovò in un’oscurità senza limiti dove i sensi comuni non esistevano e soltanto il pensiero… esso stesso divenuto un senso… aveva potere.
Era un’oscurità completamente estranea a lui, in cui non esistevano alto e basso, questo e quello, né qualsiasi altra situazione spaziale. Gli sembrò che ogni punto fosse adiacente a ogni altro punto, e così l’infinito era ovunque, e tutti i sentieri portavano ovunque, e solo il pensiero poteva imporre l’ordine, o differenziare. E l’oscurità non era dovuta alla mancanza di luce, ma era fatta di pensiero… percorsa da visioni spettrali, da reminiscenza, da percezioni.
E poi, senza sorpresa e senza rendersi conto del passaggio, comprese di non essere più un solo Thorn, ma tre. Un Thorn che aveva vissuto tre vite… e il fatto che queste vite fossero state vissute contemporaneamente o secondo una sequenza non importava affatto. Un Thorn che aveva appreso la pazienza e la sopportazione e l’autosufficienza del selvaggio Mondo III, che aveva ben radicato nella mente il concetto secondo il quale l’uomo era un animale in competizione con altri animali, che tutte le aspirazioni umane erano cose vaghe, false e trascurabili… ma non necessariamente prive d’importanza… in un cosmo cieco e insensibile, e che perfino la morte e la scomparsa di ogni speranza umana erano cose di cui si poteva sorridere, combattendo contro di esse. Un Thorn che aveva visto e provato nel Mondo III il lato peggiore della crudeltà umana, che aveva ottenuto una terribile familiarità con le debolezze della natura umana, con la sua vile sottomissione alle pressioni sociali, con la sua capacità di suggestione, con la sua presunzione, la sua orribile adattabilità; un Thorn che si era immerso negli abissi dell’odio e del risentimento e dell’invidia e della paura, ma che si era in parte sollevato al di sopra di tutto questo e aveva scoperto l’umiltà, la comprensione, il sacrificio, la dedizione a una causa. Un Thorn che, nel troppo facile Mondo I, aveva imparato a servirsi dei pericolosi doni della libertà, a lottare contro la pericolosa tendenza umana di fare del male e di rammollirsi quando non ci sono rigidi controlli e avversità a controllare l’uomo, e sopportare la felicità e il successo senza guastarsi, a creare mete e scopi in un ambiente nel quale apparentemente non c’era posto per essi.
Tutto ciò faceva parte dell’esperienza di una sola mente. E non si contraddicevano tra loro. I tre Thorn non avevano attriti, né invidia, né senso di colpa. Ognuno portava il suo bagaglio di conoscenza che serviva a comprendere, a unire, a rendere più compatto il tutto in vista di una decisione futura. Eppure, non si udivano tre menti a colloquio, intente a discutere, magari a contrattare. C’era un solo Thorn, il quale, tranne che per il periodo dell’infanzia, prima della divisione, aveva vissuto tre vite.
Questo Thorn multiplo, sostenuto dal talismano, immerso nella tenebra priva di dimensioni al di là dello spazio e del tempo, capì che la sua personalità era diventata improvvisamente infinitamente più ricca e profonda, che fino ad allora aveva vissuto essendo per due terzi cieco e sordo, e che solo ora riusciva ad apprezzare la meravigliosa complessità della vita e il vero significato di tutto ciò che lui aveva provato.
E senza esitazione né perplessità, senza rendersi conto di obbedire alle pressioni di Thorn II, perché non esisteva più un singolo Thorn II, ricordò ciò che aveva detto dopo la morte Oktav all’interno della Blue Lorraine, sillaba dopo sillaba, e ricordò la responsabilità che gli era stata affidata dal veggente.
Pensò al primo passo… il ritrovamento del Motore della Probabilità… e sentì levarsi l’impulso del talismano, e si affidò alla sua guida.
In un istante sentì di attraversare una distanza infinita… e sentì anche che non c’era stato movimento alcuno, ma soltanto la crescente consapevolezza della vicinanza di una cosa. E poi…
L’oscurità pulsò e tremò di forza, una forza che sembrava scuotere i rami dell’albero del tempo, facendone cadere i mondi, come frutti maturi. Il vuoto fatto di pensiero tremava della terrificante forza creativa, come se quello fosse il punto in cui si trovava la matrice di tutte le realtà.
Thorn si rese conto della presenza di sette menti riunite intorno alla sorgente delle pulsazioni e dei tremiti. Menti familiarmente umane come la sua, ma che mancavano perfino della sua consapevolezza triplicata, che erano più ristrette e più paternalistiche perfino di quelle dei Servitori del Popolo del Mondo II. Menti ottenebrate dagli errori, dalle illusioni, dalla falsità. Menti orribili nella loro forza e nella loro ignoranza…
Poi avvertì il passaggio rapido di grandi immagini nel vuoto… immagini che erano registrate dalle sette menti, e che assorbivano completamente la loro attenzione, tanto da renderle inconsapevoli della sua presenza.
E il torrente delle immagini continuò a scorrere.
Apparve il Mondo II. Per prima, la spoglia Sala dei Servitori, dove undici vecchi annuivano soddisfatti mentre i rapporti li rassicuravano sul perfetto svolgimento dell’invasione. Poi la visione si allargò, per mostrare sciami di soldati in equipaggiamento subtronico dirigersi verso la testa di ponte transtemporale della Croce d’Opale. Apparvero dei volti… dalle labbra tese, privi d’interesse, obbedienti, spaventati.
Per un istante si intravide il Mondo I… l’interno della Croce d’Opale diviso in sezioni come un formicaio, brulicante di uniformi nere. Rapidamente, come se i sette detestassero la vista del loro mondo prediletto così mal ridotto, l’immagine fu sostituita da una visione panoramica del Mondo III, che mostrò centinaia di chilometri deserti, interrotti soltanto dai cupi scheletri dei pigliastelle distrutti, lande desolate e, in rapida successione, immensi ghiacciai e fumanti vulcani.
Ma questo era soltanto l’inizio. Cominciarono ad apparire i frutti di precedenti divisioni temporali. C’era un mondo in cui dei mutanti telepatici combattevano contro i non-telepatici che avevano scoperto il sistema di schermare i propri pensieri. C’era un mondo in cui una gerarchia dalle vesti scarlatte amministrava una religione sostenuta dalla scienza, che teneva milioni di uomini in uno stato di servitù medievale. Un mondo nel quale una ristretta combriccola di telepatici dotati di poteri ipnotici trasmetteva pensieri nei quali tutti gli uomini credevano, e che regolavano il loro sistema di vita in una maniera assurda di sogno. Un mondo in cui la civiltà, ancora nell’era atomica, era divisa in piccoli staterelli feudali, eternamente in guerra, e il ricordo della legge, della fratellanza e della ricerca era tenuto in vita solo in pochi monasteri poveri e disarmati. Un altro mondo nell’era atomica, ancor più diviso, in cui ogni famiglia, o ogni gruppo, costituiva un microcosmo economicamente autosufficiente, e la civiltà era costituita solo di relazioni sociali e degli scambi di informazioni su questi microcosmi. Un mondo in cui gli uomini vivevano come parassiti a spese di una razza di umanoidi da essi creata… e un altro mondo in cui la relazione era rovesciata e gli umanoidi vivevano a spese degli uomini. Un mondo nel quale due grandi nazioni, dopo avere assorbito tutte le altre, proseguivano una dura guerra interminabile, incapaci di vincere o di essere sconfitte, eternamente spinte a nuovi sforzi nel timore che i passati sacrifici fossero stati sostenuti invano. Un mondo che era impegnato nella conquista dello spazio, e nel quale gli scontenti alzavano gli occhi al cielo, verso quella nuova frontiera. Un mondo in cui una nuova grande religione occupava la mente degli uomini, e strane cerimonie venivano eseguite sulle cime delle colline e nelle astronavi e i convertiti ridevano dell’odio, della miseria e della paura, e gli increduli scuotevano meravigliati il capo. Un mondo nel quale non esistevano città e si trovavano solo poche macchine elementari, e uomini dagli abiti semplici conducevano una vita appartata. Un mondo dalla popolazione scarsa concentrata in piccole città, i cui abitanti avevano l’aspetto grave e sicuro di coloro che ricominciano tutto da capo. Un mondo che era soltanto una seconda cintura di asteroidi… una catena di frammenti contorti che ruotavano intorno al sole.
“Abbiamo visto abbastanza!”
Thorn avvertì l’orrore e il senso di colpa non ammessa nel pensiero di Prim.
Le immagini svanirono, e intorno ci fu soltanto il vuoto oscuro. In questa oscurità il pensiero di Prim sfrecciò fiero, cupo, mostruoso. Era evidente che quel breve intervallo aveva fatto ritornare tutte le sue doti di egotismo.
“Il nostro errore è evidente ma può essere corretto. I nostri pensieri… o i pensieri di alcuni tra noi… non hanno reso sufficientemente chiaro al Motore della Probabilità che, nei riguardi dei mondi sbagliati, volevano una distruzione assoluta, e non un semplice passaggio a un altro piano di realtà. Il nostro prossimo passo è ovvio Sekond?”
“Distruggerli! Tutti, tranne il mondo centrale” pulsò immediatamente l’altro pensiero.
“Ters?”
“Distruggerli!”
“Kart?”
“Prima il mondo invasore. Ma anche tutti gli altri. Presto!”
“Kant?”
“Potrebbe essere meglio… No! Distruggerli!”
Con un senso di orrore e repulsione, Thorn comprese che quelle menti erano assolutamente incapaci di affrontare un ragionamento obiettivo. Erano così fanaticamente convinti della giustezza delle loro precedenti decisioni e dell’indesiderabilità dei mondi alternati, che non riuscivano affatto a vedere gli evidenti successi ottenuti da alcuni di quei mondi… né a capire che la distruzione di una cintura di asteroidi senza vita era un gesto privo di significato. Vedevano gli altri mondi come un’orribile deviazione dal loro adorato mondo centrale. Le loro reazioni erano avventate e isteriche come quelle di un assassino, il quale, dopo avere passato un’ora cercando di eliminare ogni possibile traccia, si guarda intorno per l’ultima volta, e vede che la sua vittima si muove debolmente.
Thorn radunò la sua forza di volontà, per l’atto che sapeva di dovere compiere.
“Sikst?”
“Sì, distruggerli!”
“Septem?”
“Distruggerli!”
“Okt…”
Ma prima che Prim potesse ricordare che non c’era più un Oktav, prima che potesse unirsi agli altri per pensare la distruzione, prima che l’oscurità potesse ribollire di una nuova forza, Thorn lanciò il suo richiamo.
“Chiunque voi siate, chiunque possiate essere, oh, voi che lo avete creato, qui si trova il Divisore del Tempo, qui si trova il Motore della Probabilità!”
Il pensiero lo indebolì, come se avesse urlato a pieni polmoni. Non si era reso conto del fatto che gli altri avevano pensato piano, nell’equivalente di mormorii sommessi.
Istantaneamente Prim e gli altri furono intorno a lui, soffocando i suoi pensieri, strangolando la sua mente, pensando la sua distruzione come quella degli altri mondi.
L’oscurità fu sconvolta da una tempesta, nella quale anche la forza del Motore della Probabilità sembrò sopraffatta. Come un fulmine dalle molte ramificazioni, giunse l’immagine di correnti del tempo squarciate e lacerate… della divisione del Mondo I e del Mondo II… della scomparsa del ponte d’invasione…
Ma Thorn continuò a lanciare il suo richiamo. E gli sembrò di sentire che gli otto talismani e il motore centrale si univano a esso.
La sua mente cominciò a soffocare. La sua consapevolezza a svanire.
Tutta la realtà sembrò tremare sull’orlo che divideva l’essere dal non essere.
Poi, senza preavviso, la tempesta cessò, e ci fu solo una grande calma, un immenso silenzio, che avrebbe potuto giungere dalla fine dell’eternità, e avrebbe potuto essere sempre stato presente.
La reverenza gelò i loro pensieri. Erano come ragazzini entrati di nascosto in una cattedrale alla vista improvvisa del sacerdote.
Ciò che si trovava davanti a loro non diede alcun segno della sua identità. Ma essi capirono.
Poi la cosa cominciò a pensare.
Grandi pensieri dei quali essi poterono capire solo le parti più superficiali.
Ma ciò che capirono era semplice e chiaro.