IL CONTE DI CARMAGNOLA

IL CONTE DI CARMAGNOLA

Alessandro Manzoni

IL CONTE DI CARMAGNOLA

TRAGEDIA

AL SIGNOR

CARLO CLAUDIO FAURIEL

IN ATTESTATO

DI CORDIALE E RIVERENTE AMICIZIA

L’AUTORE


PREFAZIONE

Pubblicando un’opera d’immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare il lettore con una lunga esposizione de’ princìpi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d’un dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltrediché, ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l’intento dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se l’autore l’abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto l’universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de’ più piccoli mali che possano accadere in questo mondo.

Tra i vari espedienti che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de’ più ingegnosi è quello d’avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute egualmente come infallibili. Applicando quest’uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l’esempio. Questi comandi che rendono difficile l’arte più di quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d’un lavoro poetico; quand’anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s’espone sempre l’apologista de’ suoi propri versi.

Ma poiché la quistione delle due unità di tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far parola della presente qualsisia tragedia: e poiché queste unità, malgrado gli argomenti a mio credere inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi tenute per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di riprenderne brevemente l’esame. Mi studierò per altro di fare piuttosto una picciola appendice, che una ripetizione degli scritti che le hanno già combattute.

I. L’unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell’arte, né connaturali all’indole del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L’unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L’unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotele,([1]) il quale, come benissimo osserva il signor Schlegel,([2]) non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un’idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento.

Quando poi vennero quelli che, non badando all’autorità, domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione d’un’azione, diventa per lui inverisimile che le diverse parti di questa avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui sa di non essersi mosso di luogo, e d’avere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì come parte dell’azione; quando è, per così dire, una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere in lui dalle relazioni dell’azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle che le varie parti dell’azione hanno tra di loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dell’azione, l’argomento in favore delle unità svanisce.

II. Queste regole non sono in analogia con gli altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti s’ammettono nella tragedia come verisimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse s’applicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità; il principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que’ fatti soli che s’accordano con la presenza dello spettatore, dimanieraché possano parergli fatti reali. Se uno dicesse, per esempio: que’ due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come se credessero d’esser soli, distruggono ogni illusione, perché io sento d’esser loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d’una moltitudine; gli farebbe precisamente la stessa obiezione che i critici fanno alle tragedie dove sono trascurate le due unità. A quest’uomo non si può dare che una risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità. Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e non si sia imposto all’arte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe altro, se non che per questi casi non ci era un periodo d’Aristotele.

III. Se poi queste regole si confrontano con l’esperienza, la gran prova che non sono necessarie alla illusione è, che il popolo si trova nello stato d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni giorno e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poiché non conoscendo esso la distinzione dei diversi generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell’arte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.

Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare qual caso si sia fatto di queste regole ne’ teatri colti delle diverse nazioni, troviamo che nel greco non sono mai state stabilite per principio, e che s’è fatto contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli più celebri, quelli che sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e l’unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi, quando vi fu messa in pratica da Mairet con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità deva sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente senza esame.

IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perché, senza parlare di qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che l’unità di tempo non è osservata né pretesa nel suo stretto senso, cioè nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l’a étendue jusqu’à vingt-quatre heures.( [3] ) Con una tale transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere l’irragionevolezza della regola, e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacché si potrà ben discutere con chi è di parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si può mai dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste regole; ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la durée fictive de l’action pût se borner au temps du spectacle; mais c’est être ennemi des arts, et du plaisir qu’ils causent, que de leur imposer des lois qu’ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à condition qu’ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre est l’extension feinte et supposée du temps réel de l’action théâtrale.( [4] ) Ma le licenze felici sono parole senza senso in letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano un’idea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui metaforicamente rinchiudono una contradizione. Si chiama ordinariamente licenza ciò che si fa contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in questo senso licenze felici, perché tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello che la natura delle cose richieda. Si è trasportata questa espressione nella grammatica, e vi sta bene; perché le regole grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de’ critici, trovate, non fatte; e quindi la trasgressione di esse non può esser altro che infelice. — Ma perché queste riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta l’errore. Quando s’abbraccia un’opinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perché la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro l’erroneità della opinione, bisogna indicare dove sta l’equivoco.

V. Finalmente queste regole impediscono molte bellezze, e producono molti inconvenienti.

Non discenderò a dimostrare con esempi la prima parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più di una volta. E la cosa resulta tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione d’alcune tragedie inglesi e tedesche, che i sostenitori stessi delle regole sono costretti a riconoscerla. Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo a una imitazione ben altrimenti varia e forte: non negano le bellezze ottenute a scapito delle regole; ma affermano che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacché per ottenerle bisogna cadere nell’inverosimile. Ora, ammettendo l’obiezione, è chiaro che l’inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire che alla rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura incapace di quel grado di perfezione, a cui può arrivare la tragedia, quando non si consideri che come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo genere di tragedia: e nell’alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o ciò che forma l’essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno d’ogni altro quei critici i quali sono sempre di parere che le tragedie greche non siano mai state superate dai moderni, e che producano il sommo effetto poetico, quantunque non servano più che alla lettura. Non ho inteso con ciò di concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla recita: ma da una conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.

Gl’inconvenienti che nascono dall’astringersi alle due unità, e specialmente a quella di luogo, sono ugualmente confessati dai critici. Anzi non par credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste regole, siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine d’ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet d’Emilie, et qu’Auguste vienne dans ce mêne cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela est peu naturel. La sconvenienza è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il le faut.( [5] )

Forse si è qui eccessivamente ciarlato su una questione già così bene sciolta, e che a molti può parer troppo frivola. Rammenterò a questi ciò che disse molto sensatamente in un caso consimile un noto scrittore: Il n’y a pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s’y point tromper, s’il est possible.([6]) E del rimanente, credo che una tale questione abbia il suo lato importante. L’errore solo è frivolo in ogni senso. Tutto ciò che ha relazione con l’arti della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. L’arte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati: essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa indifferente. Ed è certo che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione, deve alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la sua influenza.

Quest’ultime riflessioni conducono a una questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt’altro che sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il Pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet, e di G. G. Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali: l’altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l’arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in generale. Mi pare che siano stati tratti in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d’interesse e immune dagl’inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall’essergli contrario. Al presente saggio di componimento drammatico, m’ero proposto d’unire un discorso su tale argomento. Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito d’annunziarlo; perché mi pare cosa sconveniente il manifestare una opinione contraria all’opinione ragionata d’uomini di prim’ordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza prometterle almeno([7]).

Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione.([8]) Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva d’una gran parte dell’effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.

Premetto alla tragedia alcune notizie storiche sul personaggio e sui fatti che sono l’argomento di essa, pensando che chiunque si risolve a leggere un componimento misto d’invenzione e di verità storica, ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere ciò che vi è conservato di avvenimenti reali.

NOTIZIE STORICHE

Francesco di Bartolommeo Bussone, contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che gli è rimasto nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli, che ne scrisse la vita nella Biografia Piemontese, crede che sia stato verso il 1390. Mentre ancor giovinetto pascolava delle pecore, l’aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui alla guerra. Egli lo seguì volentieri, e si mise con esso al soldo di Facino Cane, celebre condottiero.

Qui la storia del Carmagnola comincia ad esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa se non i fatti principali, e particolarmente quelli che sono accennati o rappresentati nella tragedia. Alcuni di essi sono raccontati così diversamente dagli storici, che è impossibile formarsene e darne una opinione, certa e unica. Tra le relazioni spesso varie, e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi sono parse più verosimili, o sulle quali gli scrittori vanno più d’accordo.

Alla morte di Giovanni Maria Visconti Duca di Milano (1412), il di lui fratello Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del Ducato. Ma questo Stato, ingrandito dal loro padre Giovanni Galeazzo, s’era sfasciato nella minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo. Molte città s’erano ribellate, alcune erano tornate in potere de’ loro antichi signori, d’altre s’erano fatti padroni i condottieri stessi delle truppe ducali. Facino Cane uno di questi, il quale di Tortona, Vercelli ed altre città s’era formato un piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria fu ucciso da’ congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute da lui, e de’ suoi militi.

Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva già un comando. Questo esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò il figlio naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il quale se n’era impadronito, e lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase ucciso.

Il Carmagnola si segnalò tanto in questa impresa, che fu nominato condottiero dal Duca.

Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in poco tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita o per semplice cessione di quelli che le avevano occupate: il terrore che già ispirava il nome del nuovo condottiero sarà probabilmente stato il motivo di queste transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo, che nel 1412 era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva nel 1424 venti città «acquistate» a, per servirmi delle parole di Pietro Verri, «colle nozze della infelice Duchessa,([9]) e colla fede e col valore del Conte Francesco». Venne il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnovo; sposò Antonietta Visconti parente di esso, non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il palazzo chiamato ancora del Broletto.

L’alta fama dell’esimio condottiero, l’entusiasmo de’ soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza forse de suoi servizi, gli alienarono l’animo del Duca. I nemici del Conte, tra i quali il Bigli, storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano, fomentarono i sospetti e l’avversione del loro signore. Il Conte fu spedito governatore a Genova, e levato così dalla direzione della milizia. Aveva conservato il comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo rinunziasse. Il Carmagnola rispose pregandolo che non volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi: e ben s’accorse, dice il Bigli,([10]) che questo era un consiglio de’ suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero ridotto a condizione privata. Non ottenendo risposta né alle lagnanze, né alla domanda espressa d’essere licenziato dal servizio, il Conte si risolvette di recarsi in persona a parlare col principe. Questo dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi annunziare al Duca, ebbe in risposta ch’era impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette, dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti con sé, inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio di non arrivarlo.

Andò il Carmagnola in Piemonte, dove abboccatosi con Amedeo duca di Savoia suo natural principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo; poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso. Filippo confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanese.([11])

Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno 23 di febbraio del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio della repubblica con 300 lance.([12])

I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice contro il Duca Filippo, chiedevano l’alleanza dei Veneziani: il Duca instava presso di essi perché volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca d’ammazzare il Carmagnola, purché gli fosse concesso di ritornare a casa. La trama fu sventata, e levò ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe. Il Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra. Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola: questo consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini e con altri Stati d’Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il giorno 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di terra della repubblica; e il 15 gli fu dato dal doge il bastone e lo stendardo di capitano, all’altare di san Marco.

Trascorrerò più rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla tragedia.

«Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.»([13]) Papa Martino V s’intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.

Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise per la prima volta in uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un doppio recinto di carri, sopra ognuno de’ quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli fatti, e dopo la presa d’alcune terre, s’accampò sotto il castello di Maclodio, ch’era difeso da una guarnigione duchesca.

Comandavano nel campo del Duca quattro insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò Piccinino.([14]) Essendo nata discordia tra di loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava l’ingegno. Questo storico osserva che il supremo comando dato al Malatesti non bastò a levar di mezzo la rivalità de’ condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d’ubbidire al Carmagnola, benché avesse sotto di sé condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.

Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale nemico, e cavarne profitto. Attaccò Maclodio, in vicinanza del quale era il campo duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata a guisa d’argine: e tra le paludi s’alzavano qua e là delle macchie poste su un terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati, e si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo sono poco meno. Ma l’opinione che pare più comune, è che il Pergola e il Torello, sospettando d’agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la volessero a ogni costo. Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu pienamente sconfitto. Appena il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu assalito a destra e a sinistra dall’imboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso anche lui; gli altri quattro, chi in una maniera, chi nell’altra, si sottrassero.

Un figlio del Pergola si trovò tra i prigionieri.

La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri. I commissari veneti, che seguivano l’esercito, ne fecero delle lagnanze col Conte; il quale domandò a qualcheduno de’ suoi cosa fosse avvenuto de’ prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi in libertà, meno un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati, secondo l’uso.([15])

Uno storico che non solo scriveva in que’ tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest’uso militare d’allora. Egli l’attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di sentirsi gridare dai popoli: alla zappa i soldati.([16])

I Signori veneti furono punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione. Infatti, prendendo al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il rischioso impegno d’opporsi a un’usanza così utile e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi d’ogni appoggio. Avevano bensì ragione di pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s’accorda solamente a una causa che si abbraccia per entusiasmo o per dovere. Non trovo però che dopo le prime osservazioni de’ commissari, la Signoria abbia fatte col Carmagnola altre lagnanze su questo fatto: non si parla anzi che d’onori e di ricompense.

Nell’aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca un’altra di quelle solite paci.

La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in Soncino per il Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al Carmagnola. Questo ci andò con una parte dell’esercito, e cadde in un agguato, dove lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi lui a stento.

Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani, capitano dell’armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca. Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare il Carmagnola, lo rattennero dal venire in aiuto all’armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di terra sulle navi del Duca. Quando il Carmagnola s’avvide dell’inganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era vicino all’altra riva. L’armata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa fuggì in una barchetta.

Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento. Gli storici che non hanno preso il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che d’essersi lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da principio, e irresoluta nella battaglia.([17]) Fu bandito, e gli furono confiscati i beni; «e al capitano generale (Carmagnola), per imputazione di non aver dato favore all’armata, con lettere del Senato fu scritta una lieve riprensione».([18])

Il giorno 18 d’ottobre, il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de’ suoi condottieri, di sorprender Cremona. Questo riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette abbandonare l’impresa, e ritornare al campo.

Il Carmagnola non credette a proposito d’andar col grosso dell’esercito a sostenere quest’impresa; e mi par cosa strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria. La resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perché il generale non si sia ostinato a combattere una città che sperava d’occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacché non si sa vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito della quale non fu d’alcun vantaggio per il nemico.

Ma la Signoria, risoluta, secondo l’espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta né più sicura, che d’invitarlo a Venezia col pretesto di consultarlo sulla pace. Ci andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a lui, e al Gonzaga che l’accompagnava. Tutti gli storici, anche veneziani, sono d’accordo in questo; pare anzi che raccontino con un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava prudenza e virtù politica. Arrivato a Venezia, «gli furono mandati incontro otto gentiluomini, avanti ch’egli smontasse a casa sua, che l’accompagnarono a San Marco».([19]) Entrato che fu nel palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col doge. Fu arrestato nel palazzo, e condotto in prigione. Fu esaminato da una Giunta, alla quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il giorno 5 di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e decapitato. La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo alcuni) si trovavano allora in Venezia.

Nulla d’autentico si ha sull’innocenza o sulla reità di questo grand’uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani, che volevano scrivere e viver tranquilli, l’avrebbero trovato colpevole. Essi esprimono quest’opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adoprato è l’infamissimo primo, quello che non prova nulla.

Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere improbabile. Né i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento pattuito; né da altra parte s’è saputo mai nulla d’un tale trattato. Quest’accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia del generale ogni evento infelice. Si badi inoltre all’essere il Conte andato a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi all’aver sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia d’ingratitudine e d’ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi alla crudele precauzione di mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in quanto s’adoprava con uno che non era veneziano, e non poteva aver partigiani nel popolo; si badi finalmente al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l’uno e l’altro ripugnano alla supposizione d’un trattato di questa sorte tra di loro. Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco, anzi di lasciarsi battere, non s’accordano con l’animo impetuoso, attivo, avido di gloria del Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo conosceva meglio d’ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo offeso non poteva mai venire in mente a quell’uomo che aveva esperimentate le retribuzioni di Filippo beneficato.

Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia d’un’opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere; ed ecco ciò che n’ho potuto raccogliere.

Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine del Carmagnola, soggiunge: «Dissesi che questo hanno fatto perché egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che s’intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte, capitano d’un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perché par pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milano.»([20])

E il Poggio: «Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti.»([21])

Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così: «Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro.»

Senza dar molto peso a quest’ultima congettura, mi pare che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell’amor proprio, bastino, per que’ tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all’indole e all’interesse dell’uomo a cui fu imputato.

Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch’io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una giusta sentenza. Questo è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui voluto informarsi esattamente de’ fatti sui quali andava stabilita. Ecco le sue parole: «O foss’egli allontanato, per una ripugnanza dell’animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss’egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427... Il seguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poiché trascurò tutte le occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che, venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia... come reo di alto tradimento.» Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d’un uomo in giudizio segreto di que’ tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l’iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a’ suoi lettori. In quanto al fatto de’ prigionieri, ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perché si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un’usanza comune.

La sorte del Carmagnola fece un gran rumore in tutta l’Italia; e pare che in particolare i Piemontesi la sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.

Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d’un loro agente di Milano, il quale era venuto a sapere «che un Carlo Giuffredo Piemontese che si trovava fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotto».([22])

Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d’Italia, che lo considerava più specialmente come suo.

A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s’è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l’aver supposto accaduto in Venezia l’attentato contra la vita del Carmagnola, quando in vece accadde in Treviso.

IL CONTE DI CARMAGNOLA

TRAGEDIA

*

PERSONAGGI STORICI

Il Conte di Carmagnola.

Antonietta Visconti, sua moglie.

Una loro Figlia, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde.

Francesco Foscari, Doge di Venezia.

Condottieri al soldo dei Veneziani:

Giovanni Francesco Gonzaga,

Paolo Francesco Orsini,

Nicolò Da Tolentino,

C ondottieri al soldo del Duca di Milano:

Carlo Malatesti,

Angelo Della Pergola,

Guido Torello,

Nicolò Piccinino, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome di Fortebraccio,

Francesco Sforza,

Pergola Figlio.

PERSONAGGI IDEALI

MARCO, Senatore Veneziano.

MARINO, uno de’ Capi del Consiglio dei Dieci.

PRIMO COMMISSARIO veneto nel campo.

SECONDO COMMISSARIO.

UN SOLDATO Del CONTE.

UN SOLDATO prigioniero.

senatori, condottieri, soldati, prigionieri, guardie

ATTO PRIMO

SCENA I

Sala del Senato, in Venezia.

IL DOGE e SENATORI seduti.

IL DOGE

È giunto il fin de’ lunghi dubbi, è giunto,

nobiluomini, il dì che statuito

fu a risolver da voi. Su questa lega,

a cui Firenze con sì caldi preghi

incontro il Duca di Milan c’invita, 5

oggi il partito si porrà. Ma pria,

se alcuno è qui cui non sia noto ancora

che vile opra di tenebre e di sangue

sugli occhi nostri fu tentata, in questa

stessa Venezia, inviolato asilo 10

di giustizia e di pace, odami: al nostro

deliberar rileva assai che’ alcuno

qui non l’ignori. Un fuoruscito al Conte

di Carmagnola insidiò la vita;

fallito è il colpo, e l’assassino è in ceppi. 15

Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo

ei l’ha nomato, ed è... quel Duca istesso

di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora

a chieder pace, a cui più nulla preme

che la nostra amistà. Tale arra intanto 20

ei ci dà della sua. Taccio la vile

perfidia della trama, e l’onta aperta

che in un nostro soldato a noi vien fatta.

Due sole cose avverto: egli odia dunque

veracemente il Conte; ella è fra loro 25

chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto

tra lor d’eterna inimicizia un patto.

L’odia... e lo teme: ei sa che il può dal trono

quella mano sbalzar che in trono il pose;

e disperando che più a lungo in questa 30

inonorata, improvida, tradita

pace restar noi consentiamo, ei sente

che sia per noi quest’uom; questo tra i primi

guerrier d’Italia il primo, e, ciò che meno

forse non è, delle sue forze istrutto 35

come dell’arti sue; questo che il lato

saprà tosto trovargli ove più certa,

e più mortal sia la ferita. Ei volle

spezzar quest’arme in nostra mano; e noi

adoperiamla, e tosto. Onde possiamo 40

un più fedele e saggio avviso in questo,

che dal Conte aspettarci? Io l’invitai;

piacevi udirlo?

(segni di adesione)

S’introduca il Conte.

SCENA II

IL CONTE, e detti.

IL DOGE

Conte di Carmagnola, oggi la prima

occasion s’affaccia in che di voi 45

si valga la Repubblica, e vi mostri

in che conto vi tiene: in grave affare

grave consiglio ci abbisogna. Intanto

tutto per bocca mia questo Senato

si rallegra con voi da sì nefando 50

periglio uscito; e protestiam che a noi

fatta è l’offesa, e che sul vostro capo

or più che mai fia steso il nostro scudo,

scudo di vigilanza e di vendetta.

IL CONTE

Serenissimo Doge, ancor null’altro 55

io per questa ospital terra, che ardisco

nomar mia patria, potei far che voti.

Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,

pur or sottratta al macchinar de’ vili,

questa che nulla or fa che giorno a giorno 60

aggiungere in silenzio, e che guardarsi

tristamente, tirarla in luce ancora,

e spenderla per voi, ma di tal modo,

che dir si possa un dì, che in loco indegno

vostr’alta cortesia posta non era. 65

IL DOGE

Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,

ci promettiam da voi. Per or ci giovi

soltanto il vostro senno. In suo soccorso

contro il Visconte l’armi nostre implora

già da lungo Firenze. Il vostro avviso 70

nella bilancia che teniam librata

non farà piccol peso.

IL CONTE

E senno e braccio

e quanto io sono è cosa vostra: e certo

se mai fu caso in cui sperar m’attenti

che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo. 75

E lo darò: ma pria mi sia concesso

di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,

un cor che agogna sol d’esser ben noto.

IL DOGE

Dite: a questa adunanza indifferente

cosa che a cor vi stia giunger non puote. 80

IL CONTE

Serenissimo Doge, Senatori;

io sono al punto in cui non posso a voi

esser grato e fedel, s’io non divengo

nemico all’uom che mio signor fu un tempo.

S’io credessi che ad esso il più sottile 85

vincolo di dover mi leghi ancora,

l’ombra onorata delle vostre insegne

fuggir vorrei, viver nell’ozio oscuro

vorrei, prima che romperlo, e me stesso

far vile agli occhi miei. Dubbio veruno 90

sul partito che presi in cor non sento,

perch’egli è giusto ed onorato: il solo

timor mi pesa del giudizio altrui.

Oh! beato colui cui la fortuna

così distinte in suo cammin presenta 95

le vie del biasmo e dell’onor, ch’ei puote

correr certo del plauso, e non dar mai

passo ove trovi a malignar l’intento

sguardo del suo nemico. Un altro campo

correr degg’io, dove in periglio sono 100

di riportar, forza è pur dirlo, il brutto

nome d’ingrato, l’insoffribil nome

di traditor. So che de’ grandi è l’uso

valersi d’opra ch’essi stiman rea,

e profondere a quel che l’ha compita 105

premi e disprezzo, il so; ma io non sono

nato a questo; e il maggior, premio che bramo,

il solo, egli è la vostra stima, e quella

d’ogni cortese; e, arditamente il dico,

sento di meritarla. Attesto il vostro 110

sapiente giudizio, o Senatori,

che d’ogni obbligo sciolto inverso il Duca

mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno

de’ benefizi che tra noi son corsi

pareggiar le ragioni, è noto al mondo 115

qual rimarrebbe il debitor dei due.

Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca

fin che fui seco, e nol lasciai che quando

ei mi v’astrinse. Ei mi balzò dal grado

col mio sangue acquistato: invan tentai 120

al mio signor lagnarmi. I miei nemici

fatto avean siepe intorno al trono: allora

m’accorsi alfin che la mia vita anch’essa

stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.

Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo, 125

per nobil causa, e con onor, non preso

nella rete de’ vili. Io lo lasciai,

e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora

ei mi tese un agguato. Ora a costui

più nulla io deggio; di nemico aperto 130

nemico aperto io sono. All’util vostro

io servirò, ma franco e in mio proposto

deliberato, come quei ch’è certo

che giusta cosa imprende.

IL DOGE

E tal vi tiene

questo Senato: già tra il Duca e voi 135

ha giudicato irrevocabilmente

Italia tutta. Egli la vostra fede

ha liberata, a voi l’ha resa intatta,

qual gliela deste il primo giorno. È nostra

or questa fede; e noi saprem tenerne 140

ben altro conto. Or d’essa un primo pegno

il vostro schietto consigliar ci sia.

IL CONTE

Lieto son io che un tal consiglio io possa

darvi senza esitanza. Io tengo al tutto

necessaria la guerra, e della guerra, 145

se oltre il presente è mai concesso all’uomo

cosa certa veder, certo l’evento;

tanto più, quanto fien l’indugi meno.

A che partito è il Duca? A mezzo è vinta

da lui Firenze; ma ferito e stanco 150

il vincitor; voti gli erari: oppressi

dal terror, dai tributi i cittadini

pregan dal ciel su l’armi loro istesse

le sconfitte e le fughe. Io li conosco,

e conoscer li deggio: a molti in mente 155

dura il pensier del glorioso, antico

viver civile; e subito uno sguardo

rivolgon di desio là dove appena

d’un qualunque avvenir si mostri un raggio,

frementi del presente e vergognosi. 160

Ei conosce il periglio; indi l’udite

mansueto parlarvi; indi vi chiede

tempo soltanto de sbranar la preda

che già tiensi tra l’ugne, e divorarla.

Fingiam che glielo diate: ecco mutata 165

la faccia delle cose; egli soggioga

senza dubbio Firenze; ecco satolle

le costui schiere col tesor de’ vinti,

e più folte e anelanti a nove imprese.

Qual prence allor dell’alleanza sua 170

far rifiuto oseria? Beato il primo

ch’ei chiamerebbe amico! Egli sicuro

consulterebbe e come e quando a voi

mover la guerra, a voi rimasti soli.

L’ira, che addoppia l’ardimento al prode 175

che si sente percosso, ei non la trova

che ne’ prosperi casi: impaziente

d’ogni dimora ove il guadagno è certo,

ma ne’ perigli irresoluto: a’ suoi

soldati ascoso, del pugnar non vuole 180

fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,

o nelle ville rintanato attende

a novellar di cacce e di banchetti,

a interrogar tremando un indovino.

Ora è il tempo di vincerlo: cogliete 185

questo momento: ardir prudenza or fia.

IL DOGE

Conte, su questo fedel vostro avviso

tosto il Senato prenderà partito;

ma il segua, o no, v’è grato; e vede in esso,

non men che il senno, il vostro amor per noi. 190

(parte il Conte)

SCENA III

IL DOGE, e SENATORI

IL DOGE

Dissimil certo da sì nobil voto

nessun s’aspetta il mio. Quando il consiglio

più generoso è il più sicuro, in forse

chi potria rimaner? Porgiam la mano

al fratello che implora: un sacro nodo 195

stringe i liberi Stati: hanno comuni

tra lor rischi e speranze; e treman tutti

dai fondamenti al rovinar d’un solo.

Provocator dei deboli, nemico

d’ognun che schiavo non gli sia, la pace 200

con tanta istanza a che ci chiede il Duca?

Perché il momento della guerra ei vuole

sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.

Il nostro egli è, se non ci falla il senno,

né l’animo. Ei ci vuole ad uno ad uno; 205

andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa

la prima volta che il Leon giacesse

al suon delle lusinghe addormentato.

No; fia tentato invan. Pongo il partito

che si stringa la lega, e che la guerra 210

tosto al Duca s’intimi, e delle nostre

genti da terra abbia il comando il Conte.

MARINO

Contro sì giusta e necessaria guerra

io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,

che il buon successo ad accertar si pensi. 215

La metà dell’impresa è nella scelta

del capitano. Io so che vanta il Conte

molti amici tra noi; ma d’una cosa

mi rendo certo, che nessun di questi

l’ama più della patria; e per me, quando 220

di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.

Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,

serenissimo Doge, oppormi a voi,

non è il duce costui quale il richiede

la gravità, l’onor di questo Stato. 225

Non cercherò perché lasciasse il Duca.

Ei fu l’offeso; e sia pur ver: l’offesa

è tal che accordo non può darsi; e questo

consento: io giuro nelle sue parole.

Ma queste sue parole importa assai 230

considerarle, perché tutto in esse

ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,

sì delicato e violento orgoglio,

o Senatori, non mi par che sia

minor pensier della guerra istessa. 235

Finor fu nostra cura il mantenerci

la riverenza de’ soggetti; or altro

studio far si dovria, come costui

riverir degnamente. E quando egli abbia

la man nell’elsa della nostra spada, 240

potrem noi dir d’aver creato un servo?

Dovrà por cura di piacergli ognuno

di noi? Se nasce un disparer, fia degno

che nell’arti di guerra il voler nostro

a quel d’un tanto condottier prevalga? 245

S’egli erra, e nostra è dell’error la pena,

ché invincibil nol credo, io vi domando

se fia concesso il farne lagno; e dove

si riscotan per questo onte e dispregi,

che far? soffrirli? Non v’aggrada, io stimo, 250

questo partito; risentirci? e dargli

occasion che, in mezzo all’opra, e nelle

più difficili strette ei ci abbandoni

sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,

forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli 255

quanto di noi pur sa, magnificando

la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

IL DOGE

Il Conte un prence abbandonò; ma quale?

un che da lui tenea lo Stato, e a cui

quindi ei minor non potea mai stimarsi; 260

un da pochi aggirato, e questi vili;

timido e stolto, che non seppe almeno

il buon consiglio tor della paura,

nasconderla nel core, e starsi all’erta;

ma che il colpo accennò pria di scagliarlo: 265

tale è il signor che inimicossi il Conte.

Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo

che gli somigli. Se destrier, correndo,

scosse una volta un furibondo e stolto

fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango; 270

non fia per questo che salirlo ancora

un cauto e franco cavalier non voglia.

MARINO

Poiché sì certo è di quest’uomo il Doge,

più non m’oppongo; e questo a lui sol chiedo:

vuolsi egli far mallevador del Conte? 275

IL DOGE

A sì preciso interrogar, preciso

risponderò: mallevador pel Conte,

né per altr’uom che sia, certo, io non entro;

dell’opre mie, de’ miei consigli il sono:

quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto 280

che guardia al Conte non si faccia, e a lui

si dia l’arbitrio dello Stato in mano?

Ei diritto, anderà; tale io diviso.

Ma s’ei si volge al rio sentier, ci manca

occhio che tosto ce ne faccia accorti, 285

e braccio che invisibile il raggiunga?

MARCO

Perché i princìpi di sì bella impresa

contristar con sospetti? E far disegni

di terrori e di pene, ove null’altro

che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio 290

che all’util suo sola una via gli è schiusa;

lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa

dee sovra ogni altra far per lui fidanza?

La gloria ond’egli è già coperto, e quella

a cui pur anco aspira; il generoso, 295

il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia

dall’altezza calar de’ suoi pensieri,

e riporsi tra i vili, esser non puote.

Or, se prudenza il vuol, vegli pur l’occhio;

ma dorma il cor nella fiducia; e poi 300

che in così giusta e grave causa, un tanto

dono ci manda Iddio; con quella fronte,

e con quel cor che si riceve un dono,

sia da noi ricevuto.

MOLTI SENATORI

Ai voti, ai voti!

IL DOGE

Si raccolgano i voti; e ognun rammenti 305

quanto rilevi che di qui non esca

motto di tal deliberar, né cenno

che presumer lo faccia. In questo Stato

pochi il segreto hanno tradito, e nullo

fu tra quei pochi che impunito andasse. 310

SCENA IV

Casa del Conte.

IL CONTE

Profugo, o condottiero. O come il vecchio

guerrier nell’ozio i giorni trar, vivendo

della gloria passata, in atto sempre

di render grazie e di pregar, protetto

dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi 315

e abbandonarmi; o ritornar sul campo,

sentir la vita, salutar di nuovo

la mia fortuna, delle trombe al suono

destarmi, comandar; questo è il momento

che ne decide. Eh! se Venezia in pace 320

riman, degg’io chiuso e celato ancora

in questo asilo rimaner, siccome

l’omicida nel tempio? E chi d’un regno

fece il destin, non potrà farsi il suo?

Non troverò tra tanti prenci, in questa 325

divisa Italia, un sol che la corona,

onde il vil capo di Filippo splende,

ardisca invidiar? che si ricordi

ch’io l’acquistai, che dalle man di dieci

tiranni io la strappai, ch’io la riposi 330

su quella fronte, ed or null’altro agogno

che ritorla all’ingrato, e farne un dono

a chi saprà del braccio mio valersi?

SCENA V

MARCO, e IL CONTE

IL CONTE

O dolce amico; ebben qual nova arrechi?

MARCO

La guerra è risoluta, e tu sei duce. 335

IL CONTE

Marco, ad impresa io non m’ accinsi mai

con maggior cor che a questa: una gran fede

poneste in me: ne sarò degno, il giuro.

Il giorno è questo che del viver mio

ferma il destin: poi che quest’alma terra 340

m’ha nel suo glorioso antico grembo

accolto, e dato di suo figlio il nome,

esserlo io vo’ per sempre; e questo brando

io consacro per sempre alla difesa

e alla grandezza sua.

MARCO

Dolce disegno! 345

non soffra il ciel che la fortuna il rompa...

o tu medesmo.

IL CONTE

Io? come?

MARCO

Al par di tutti

i generosi, che giovando altrui

nocquer sempre a sé stessi, e superate

tutte le vie delle più dure imprese, 350

caddero a un passo poi, che facilmente

l’ultimo de’ mortali avria varcato.

Credi ad un uom che t’ama: i più de’ nostri

ti sono amici; ma non tutti il sono.

Di più non dico, né mi lice; e forse 355

troppo già dissi. Ma la mia parola

nel fido orecchio dell’amico stia,

come nel tempio del mio cor, rinchiusa.

IL CONTE

Forse io l’ignoro? E forse ad uno ad uno

non so quai siano i miei nemici?

MARCO

E sai 360

chi te gli ha fatti? In pria l’esser tu tanto

maggior di loro, indi lo sprezzo aperto

che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno

non ti nocque finor; ma chi non puote

nocer col tempo? Tu non pensi ad essi, 365

se non allor che in tuo cammin li trovi;

ma pensan essi a te, più che non credi.

Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode

nell’odio. Or tu non irritarlo: cerca

di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio 370

di vili arti ch’io stesso a sdegno avrei,

io non ti do, né tal da me l’aspetti.

Ma tra la noncuranza e la servile

cautela avvi una via; v’ha una prudenza

anche pei cor più nobili e più schivi; 375

v’ha un’arte d’acquistar l’alme volgari,

senza discender fino ad esse: e questa

nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

IL CONTE

Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio

le mille volte a me medesmo io il diedi; 380

e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente;

e sempre appresi a danno mio che dove

semina l’ira, il pentimento miete.

Dura scola ed inutile! Alfin stanco

di far leggi a me stesso, e trasgredirle, 385

tra me fermai che, s’egli è mio destino

ch’io sia sempre in tai nodi avviluppato

che mestier faccia a distrigarli appunto

quella virtù che più mi manca, s’ella

è pur virtù; se è mio destin che un giorno 390

io sia colto in tai nodi, e vi perisca;

meglio è senza riguardi andargli incontro.

Io ne appello a te stesso: i buoni mai

non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.

E giurerei che un sol non è tra loro 395

cui tu degni, non dico accarezzarlo,

ma non dargli a veder che lo dispregi.

Rispondi.

MARCO

È ver: se v’ha mortal di cui

la sorte invidii, è sol colui che nacque

in luoghi e in tempi ov’uom potesse aperto 400

mostrar l’animo in fronte, e a quelle prove

solo trovarsi ove più forza è d’uopo

che accorgimento: quindi, ove convenga

simular, non ti faccia maraviglia

che poco esperto io sia. Pensa per altro 405

quanto più m’è concesso impunemente

fallire in ciò che a te; che poche vie

al pugnal d’un nemico offre il mio petto;

che me contra i privati odii assecura

la pubblica ragion; ch’io vesto il saio 410

stesso di quei che han la mia sorte in mano.

Ma tu stranier, tu condottiero al soldo

di togati signor, tu cui lo Stato

dà tante spade per salvarlo, e niuna

per salvar te... fa che gli amici tuoi 415

odan sol le tue lodi; e non dar loro

la trista cura di scolparti. Pensa

che felici non son, se tu nol sei.

Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,

che ancor più addentro nel tuo cor risoni? 420

Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia

a cui tu se’ sola speranza: il cielo

dié loro un’alma per sentir la gioia,

un’alma che sospira i dì sereni,

ma che nulla può far per conquistarli. 425

Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire

che il tuo destin ti porta; allor che il forte

ha detto: io voglio, ei sente esser più assai

signor di sé che non pensava in prima.

IL CONTE

Tu hai ragione. Il ciel si prende al certo 430

qualche cura di me, poiché m’ha dato

un tale amico. Ascolta; il buon successo

potrà, spero, placar chi mi disama:

tutto in letizia finirà. Tu intanto

se cosa odi di me che ti dispiaccia, 435

l’indole mia ne incolpa, un improvviso

impeto primo, ma non mai l’obblio

di tue parole.

MARCO

Or la mia gioia è intera.

Va, vinci, e torna. Oh come atteso e caro

verrà quel messo che la gloria tua 440

con la salute della patria annunzi!


FINE DELL’ATTO PRIMO


ATTO SECONDO

SCENA I

Parte, del campo ducale con tende.

MALATESTI e PERGOLA

PERGOLA

Sì, condottier; come ordinaste, in pronto

son le mie bande. A voi commise il Duca

l’arbitrio della guerra: io v’ho ubbidito,

ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,

non diam battaglia.

MALATESTI

Anzian d’anni e di fama, 5

o Pergola, qui siete; io sento il peso

del vostro voto; ma cangiar non posso

il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola

ci provoca ogni dì: quasi ad insulto

sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto: 10

e due partiti ci rimangon soli;

o lui cacciarne, o abbandonar la terra,

che saria danno e scorno.

PERGOLA

A pochi è dato,

a pochi egregi il dubitar di novo,

quando han già detto: ell’è così. S’io parlo 15

è che tale vi tengo. Italia forse

mai da’ barbari in poi non vide a fronte

due sì possenti eserciti: ma il nostro

l’ultimo sforzo è di Filippo. In ogni

fatto di guerra entra fortuna, e sempre 20

vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando

ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi

dargliene più ch’ella non chiede; e questo

esercito con cui tutto possiamo

salvar, ma che perduto in una volta 25

mai più rifar non si potria, non dèssi

come un dado gittarlo ad occhi chiusi,

avventurarlo in un sì piccol campo,

e in un campo mal noto, e quel che è peggio

noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto 30

argin divide le due schiere: a destra

e a sinistra paludi, in esse sparsi

i suoi drappelli; e noi fuori de’ nostri

alloggiamenti non teniamo un palmo

pur di terren. Credete ad un che l’arti 35

conosce di costui, che ha combattuto

al fianco suo: qui c’è un’insidia. Forse

la miglior via di guerreggiar quest’uomo

saria tenerlo a bada, aspettar tempo,

tanto che alcun dei duci ai quali è sopra 40

prendesse a noia il suo superbo impero;

e il fascio ch’egli or nella mano ha stretto

si rallentasse alfin. Pur, se a giornata

venir si deve, non è questo il loco:

usciam di qui, scegliamo un campo noi, 45

tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,

senza svantaggio almanco, si decida.


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