Nel diciottesimo secolo visse in Francia un uomo, tra le figure più geniali e scellerate di quell’epoca non povera di geniali e scellerate figure. Qui sarà raccontata la sua storia. Si chiamava Jean-Baptiste Grenouille, e se il suo nome, contrariamente al nome di altri mostri geniali quali de Sade, Saint-Just, Fouché, Bonaparte ecc, oggi è caduto nell’oblio, non è certo perché Grenouille stesse indietro a questi più noti figli delle tenebre per spavalderia, disprezzo degli altri, immoralità, empietà insomma, bensì perché il suo genio e unica ambizione rimase in un territorio che nella storia non lascia traccia: nel fugace regno degli odori.
Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone; le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate sia d’inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri, e così non v’era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo.
E naturalmente il puzzo più grande era a Parigi, perché Parigi era la più grande città della Francia. E all’interno di Parigi c’era poi un luogo dove il puzzo regnava più che mai infernale, tra Rue aux Fers e Rue de la Ferronnerie, e cioé il Cimetière des Innocents. Per ottocento anni si erano portati qui i morti dell’ospedale Hôtel-Dieu e delle parrocchie circostanti; per ottocento anni, giorno dopo giorno, dozzine di cadaveri erano stati portati qui coi carri e rovesciati in lunghe fosse; per ottocento anni in cripte e ossari si erano accumulati, strato su strato, ossa e ossicini. E solo più tardi, alla vigilia della Rivoluzione Francese, quando alcune fosse di cadaveri smottarono pericolosamente e il puzzo del cimitero straripante indusse i vicini non più a semplici proteste, bensì a vere e proprie insurrezioni, il cimitero fu definitivamente chiuso e abbandonato, e milioni di ossa e di teschi furono gettati a palate nelle catacombe di Montmartre, e al suo posto sorse una piazza con un mercato alimentare.
Qui dunque, nel luogo più puzzolente di tutto il regno, il 17 luglio 1738 nacque Jean-Baptiste Grenouille. Era uno dei giorni più caldi dell’anno. La calura pesava come piombo sul cimitero e spingeva i miasmi della putrefazione, un misto di meloni marci e di corno bruciato, nei vicoli circostanti. La madre di Grenouille, quando le presero le doglie, si trovava all’esterno di un bugigattolo di pescivendolo in Rue aux Fers e stava squamando dei pesci bianchi che aveva appena sventrato. I pesci, pescati presumibilmente nella Senna la mattina stessa, puzzavano già tanto che il loro odore copriva l’odore dei cadaveri. Ma la madre di Grenouille non percepiva né l’odore dei pesci né quello dei cadaveri, perché il suo naso era in larghissima misura insensibile agli odori e a parte questo il suo corpo era dolorante, e il dolore soffocava ogni capacità di ricevere impressioni dall’esterno. Voleva una cosa sola, che il dolore finisse, voleva liquidare il più presto possibile quel parto disgustoso. Era il suo quinto. I quattro precedenti li aveva sbrigati fuori del bugigattolo di pescivendolo e tutti e quattro i bambini erano nati morti o mezzo morti, perché la carne sanguinolenta che usciva da lei non era molto diversa dalle interiora del pesce là sul banco, e la sera tutto insieme veniva spalato via e trascinato col carro al cimitero o giù al fiume. Così sarebbe andata anche oggi, e la madre di Grenouille — che era ancora una giovane donna, giusto sui venticinque, che era ancora molto carina e aveva ancora quasi tutti i denti in bocca e un po’ di capelli in testa, e tranne la gotta e la sifilide e una leggera tisi non aveva nessuna malattia grave; che sperava ancora di vivere a lungo, forse cinque o dieci anni, e forse persino di arrivare a sposarsi e avere figli veri come moglie rispettabile di un artigiano vedovo o qualcosa di simile — la madre di Grenouille avrebbe voluto che tutto fosse già passato. E quando cominciarono le doglie, si accucciò sotto il banco da macello e partorì là, come le quattro volte precedenti, e con il coltello da pescivendolo troncò il cordone ombelicale alla cosa appena nata. Ma subito dopo, a causa della calura e del puzzo, che lei non percepiva in quanto tali, bensì soltanto come qualcosa di insopportabile, che la stordiva — come un campo di gigli o una camera angusta in cui ci siano troppi narcisi — perse i sensi, si rovesciò su un fianco, scivolò da sotto il banco in mezzo alla strada e là giacque, con il coltello in mano.
Grida, un gran correre di gente, la folla in cerchio con tanto d’occhi, si chiama la polizia. La donna con il coltello in mano è ancora là sulla strada, a poco a poco ritorna in sé.
Che cosa le è successo?
«Niente.»
Che cosa fa con il coltello?
«Niente.»
Da dove viene il sangue che ha sulle gonne?
«Dai pesci.»
La donna si alza, getta via il coltello e va a lavarsi.
In quel momento, inaspettatamente, là sotto il banco la cosa appena nata comincia a urlare. Vanno a vedere, sotto uno sciame di mosche e fra interiora e teste di pesci troncate scoprono il neonato, lo tirano fuori. Lo consegnano d’ufficio a una balia, la madre è arrestata. E poiché è rea confessa, e ammette senz’altro che avrebbe di certo lasciato crepar quella cosa, come del resto ha già fatto con le quattro precedenti, le fanno il processo, la condannano per infanticidio plurimo e qualche settimana dopo le tagliano la testa in Place de Grève.
A questo punto il bambino aveva già cambiato balia tre volte. Nessuna voleva tenerlo più di qualche giorno. Era troppo vorace, dicevano, succhiava per due, sottraeva il latte agli altri poppanti e con ciò il sostentamento a loro, le balie, dal momento che un solo poppante non poteva costituire un allattamento redditizio. L’ufficiale di polizia competente, un certo La Fosse, si stancò ben presto della faccenda, e aveva già l’intenzione di far portare il bambino al luogo di raccolta per trovatelli e orfani nella periferica Rue Saint-Antoine, da dove ogni giorno partivano trasporti di bambini diretti al Grande Brefotrofio statale di Rouen. Ma poiché questi trasporti erano eseguiti da facchini per mezzo di gerle di vimini in cui per motivi di funzionalità si ficcavano fino a quattro lattanti alla volta; poiché di conseguenza il tasso di mortalità per strada era straordinariamente alto; poiché per questo motivo gli uomini con le gerle erano tenuti a trasportare soltanto lattanti "battezzati e soltanto quelli muniti di una regolare bolla di trasporto, che doveva essere poi timbrata a Rouen; poiché il piccolo Grenouille non era stato battezzato, né ancora possedeva un nome che si potesse registrare come prescritto sulla bolla di trasporto, poiché infine sarebbe stato un po’ sconveniente per la polizia deporre in incognito un bambino davanti alla porta del luogo di raccolta — sola cosa che avrebbe reso superfluo l’adempimento delle restanti formalità… — per una serie di difficoltà di natura burocratica e tecnico-amministrativa dunque, che sembravano sorgere per il trasferimento del neonato, e poiché anche il tempo stringeva, l’ufficiale di polizia La Fosse pensò bene di desistere dal suo intendimento d’origine e diede ordine di consegnare il fanciullo a qualche istituto religioso, affinché là lo battezzassero e decidessero della sua sorte. Riuscirono a liberarsi di lui al convento di Saint-Merri, in Rue Saint-Martin. Là il bambino ricevette il battesimo e il nome di Jean-Baptiste. E giacché il priore quel giorno era di buon umore e i suoi fondi per la beneficenza non erano ancora esauriti, anziché spedire il bambino a Rouen si decise di nutrirlo e allevarlo a spese del convento. A tal fine lo consegnarono in Rue Saint-Denis a una balia di nome Jeanne Bussie, che fu ricompensata per le sue fatiche con tre franchi la settimana fino a nuovo ordine.
Qualche settimana dopo, la balia Jeanne Bussie era davanti alla porta del convento di Saint-Merri con un canestro infilato al braccio, e quando padre Terrier, un monaco cinquantenne, calvo, che emanava un lieve odore d’aceto, le aprì la porta, disse: «Ecco qua!» e depose il canestro sulla soglia.
«Che cos’è?» chiese Terrier, e si chinò sul cesto e lo annusò, poiché sperava che contenesse qualcosa di commestibile.
«Il bastardo dell’infanticida di Rue aux Fers!»
Il frate frugò col dito nel canestro e scoprì la faccia del lattante che dormiva.
«Ha un bell’aspetto. Roseo e ben nutrito.»
«Perché si è ingozzato a mie spese. Perché mi ha prosciugata fino all’osso. Ma adesso basta. Adesso potete continuare a nutrirlo con latte di capra, pappe, succo di rape. Fa fuori tutto, il bastardo!»
Padre Terrier era un uomo alla buona. Di sua competenza erano l’amministrazione dei fondi per beneficenza del convento e la distribuzione del denaro a poveri e bisognosi, e per questo si aspettava che gli dicessero grazie e poi smettessero d’importunarlo. Dettagli tecnici gli erano invisi, perché dettagli significavano sempre difficoltà, e difficoltà significavano un disturbo della sua pace interiore, e questo non poteva sopportarlo. Si arrabbiò già per aver aperto la porta. Desiderava che questa persona si prendesse il suo canestro e andasse a casa e lo lasciasse in pace coi suoi problemi di lattanti. Si rizzò lentamente e aspirò in una sola volta il profumo di latte e di cacio e di lana di pecora che emanava dalla balia. Era un profumo gradevole.
«Io non capisco che cosa vuoi. Proprio non capisco dove vuoi andare a parare. Posso soltanto supporre che a questo lattante non farebbe affatto male stare attaccato al tuo petto ancora per un bel pezzo.»
«A lui no», strepitò la balia di rimando. «ma a me sì. Dieci libbre ho perso, eppure ho mangiato per tre. E per che cosa? Per tre franchi la settimana!»
«Ah, capisco», disse Terrier con un certo sollievo, «adesso mi è chiaro: dunque si tratta ancora di soldi.»
«No!» disse la balia.
«Ma certo! Sempre si tratta di soldi. Quando bussano a questa porta, si tratta di soldi. Ogni tanto vorrei venire ad aprire e che qui davanti ci fosse una persona con cui si trattasse di qualcos’altro. Qualcuno per esempio che portasse un piccolo presente. Per esempio un po’ di frutta o un po’ di noci. D’autunno ci sono una quantità di cose che si potrebbero portare. Fiori, magari. O solo che venisse qualcuno e dicesse cordialmente: ’Lode a Dio, padre Terrier, le auguro una buona giornata!’ Ma è una cosa che non mi capiterà probabilmente mai più. Se non è un mendicante, è un commerciante, e se non è un commerciante, è un artigiano, e se non chiede l’elemosina, presenta però un conto. Non posso neanche più farmi vedere per strada. Quando vado in strada, dopo tre passi sono assediato da individui che vogliono denaro!»
«Non io», disse la balia.
«Ti dirò comunque una cosa: non sei la sola balia nel circondario. Ci sono centinaia di madri adottive di prim’ordine che per tre franchi la settimana si faranno in quattro per attaccarsi al petto questo grazioso lattante o per somministrargli pappe, succhi o qualsiasi altro cibo…»
«Allora datelo a una di queste!»
«… D’altra parte non è giusto sbattere un bambino di qua e di là in questo modo. Chissà se crescerebbe così bene con un latte diverso dal tuo. È abituato al profumo del tuo petto, sappilo, e al battito del tuo cuore.»
E di nuovo inspirò a fondo il caldo odore che diffondeva la balia e poi, quando si accorse che le sue parole non le avevano fatto nessuna impressione, disse:
«Adesso prendi il bambino e portalo a casa! Parlerò della faccenda col priore. Gli proporrò di darti quattro franchi la settimana per l’avvenire».
«No», disse la balia.
«E va bene, allora: cinque!»
«No.»
«Ma quanto vuoi ancora?» la sgridò Terrier. «Cinque franchi sono un mucchio di soldi per il compito insignificante di allattare un neonato!»
«Non voglio affatto soldi», disse la balia. «Voglio togliermi di torno il bastardo.»
«E perché mai, cara la mia donna?» disse Terrier, e armeggiò di nuovo con le dita nel canestro. «È proprio un bimbo graziosissimo. È tutto roseo, non piange, dorme tranquillo ed è battezzato.»
«È posseduto dal demonio.»
Terrier tolse di scatto le dita dal canestro.
«Impossibile! È assolutamente impossibile che un lattante sia posseduto dal demonio. Un lattante non è un uomo, bensì un embrione di uomo, e possiede un’anima ancora incompleta. Di conseguenza non è interessante per il demonio. Parla già forse? Ha le convulsioni? Sposta oggetti nella stanza? Ha un cattivo odore?»
«Non ha nessun odore», disse la balia.
«Ecco, vedi? Questo è un segno inequivocabile. Se fosse posseduto dal demonio, dovrebbe puzzare.»
E per tranquillizzare la balia e nel contempo dar prova del proprio coraggio, Terrier sollevò il canestro e se lo mise sotto il naso.
«Non sento niente di particolare», disse, dopo aver annusato per un momento, «proprio niente di particolare. A ogni modo mi sembra che dalle fasce provenga un certo odore.» E le tese il canestro, perché lei gli desse una conferma.
«Non è questo», disse la balia, brusca, e allontanò il canestro da sé. «Non intendo parlare di quello che c’è nelle fasce. I suoi escrementi hanno un buon odore. È lui, il bastardo, che non ha odore.»
«Perché è sano», gridò Terrier, «perché è sano, ecco perché non ha odore! Soltanto i bambini malati hanno odore, questo si sa. Com’è noto, i bambini che hanno il vaiolo sanno di sterco di cavallo, quelli che hanno la scarlattina di mele vecchie, e i bambini tisici sanno di cipolla. Lui non ha malanni, ecco che cosa non ha. Perché dovrebbe puzzare? Puzzano i tuoi figli?»
«No», disse la balia. «I miei figli hanno l’odore che tutti i bambini devono avere.»
Terrier ridepose il canestro a terra con cautela, poiché sentiva salire in lui le prime ondate di rabbia per la caparbietà di quella persona. Non era da escludersi che, nel seguito della disputa, avesse bisogno di tutte e due le braccia per gesticolare più liberamente e non voleva con questo danneggiare il lattante. Per il momento incrociò le mani dietro la schiena, protese il suo ventre a punta verso la balia e chiese, severo: «Dunque tu affermi di sapere che odore dovrebbe avere un bambino, che comunque è pur sempre — questo vorrei ricordartelo, tanto più quando è battezzato — una creatura di Dio?»
«Sì», disse la balia.
«E affermi inoltre che, qualora non avesse l’odore che tu pensi dovrebbe avere — tu, la balia Jeanne Bussie di Rue Saint-Denis! — significherebbe che è un figlio del diavolo?»
Protese in avanti la mano sinistra che teneva dietro la schiena e in gesto di minaccia le portò davanti al viso l’indice curvo, come un punto di domanda. La balia rifletté. Non le andava bene che tutt’a un tratto la conversazione si trasformasse in un interrogatorio teologico, nel quale lei non poteva che soccombere.
«Come non detto», rispose evasiva. «Che la faccenda abbia o no a che fare col diavolo deve deciderlo lei, padre Terrier, non è di mia competenza. Io so soltanto una cosa: che questo lattante mi fa ribrezzo, perché non ha l’odore che i bambini devono avere.»
«Ecco», disse Terrier soddisfatto, e lasciò ricadere il braccio. «Questa storia del diavolo lasciamola perdere. Bene. Ma adesso dimmi, per favore: che odore ha un lattante, quando ha l’odore che tu ritieni debba avere? Eh?»
«Un odore buono», disse la balia.
«Che cosa significa ’buono’?» la investì Terrier gridando. «Tante cose hanno un buon odore. Un mazzolino di lavanda ha un buon odore. Il lesso ha un buon odore. I giardini d’Arabia hanno un buon odore. Che odore ha un lattante, voglio sapere!»
La balia esitò. Sapeva bene che odore avevano i lattanti, lo sapeva benissimo, ne aveva nutriti, curati, cullati, baciati già a dozzine… di notte poteva trovarli a naso, l’odore del lattante l’aveva chiaro anche adesso nel naso. Ma non l’aveva mai definito con parole.
«Allora?» tuonò Terrier, e fece schioccare con impazienza la punta delle dita.
«Dunque», cominciò la balia, «non è molto facile dirlo, perché… perché non hanno lo stesso odore dappertutto, benché dappertutto abbiano un buon odore, padre, capisce, prendiamo i piedi ad esempio, lì hanno un odore come di pietra calda liscia… no, piuttosto di ricotta… oppure di burro, di burro fresco, sì, proprio così, sanno di burro fresco. E i loro corpi hanno l’odore di… di una galletta quando è inzuppata nel latte. E la testa, in alto, dietro, dove i capelli fanno la rosa, qui, guardi, padre, dove lei non ne ha più…» e toccò la pelata di Terrier, che per un attimo era rimasto senza parole di fronte a quel mare di stupidità in dettagli e aveva chinato docilmente la testa «…qui, proprio qui, hanno l’odore migliore. Qui hanno un odore di caramello, così dolce, così squisito. Lei non può immaginare, padre! Una volta sentito quest’odore, bisogna amarli, che siano figli propri o di altri. E questo è l’odore che devono avere i neonati, questo e nessun altro. E se non hanno quest’odore, se sulla testa non hanno nessun odore, ancor meno dell’aria fresca, come questo qui, il bastardo, allora… Può spiegarsela come vuole, padre, ma io», e incrociò decisa le braccia sotto il petto e gettò uno sguardo talmente nauseato sul canestro ai suoi piedi, come se contenesse rospi, «io, Jeanne Bussie, questo qui non me lo riporto più a casa!»
Padre Terrier rialzò il capo lentamente e si passò un paio di volte il dito sulla pelata come per sistemarsi i capelli, si mise il dito sotto il naso come casualmente e annusò pensieroso.
«Un odore di caramello…» disse, e cercò di riprendere il suo tono severo… «Caramello! Che ne sai tu del caramello? Ne hai forse mai mangiato?»
«Non proprio», rispose la balia. «Ma una volta sono stata in un grande albergo in Rue Saint-Honoré e sono stata a guardare come si faceva, con zucchero fuso e crema di latte. Aveva un odore così buono che non l’ho più dimenticato.»
«Già, già. D’accordo», disse Terrier, e tolse il dito dal naso. «Ora taci, per favore! Per me è oltremodo stancante intrattenermi ulteriormente con te a questo livello. Prendo atto che tu rifiuti, quali che siano le ragioni, di continuare a nutrire il lattante Jean-Baptiste Grenouille che ti è stato affidato, e con ciò lo restituisci al suo tutore provvisorio, il convento di Saint-Merri. Trovo il fatto spiacevole, ma non posso farci niente. Sei licenziata.»
Dopodiché prese il canestro, inspirò a fondo ancora una volta il caldo odore di latte e di lana che si andava dileguando e chiuse la porta con il chiavistello. Quindi si recò nel suo studiolo.
Padre Terrier era un uomo colto. Non soltanto aveva studiato teologia, aveva anche letto i filosofi e si occupava, tra l’altro, di botanica e di alchimia. Aveva una certa considerazione del proprio spirito critico. Di sicuro non sarebbe arrivato al punto, come facevano alcuni, di mettere in dubbio i miracoli, gli oracoli o la veridicità dei testi della Sacra Scrittura, anche se tutte queste cose in realtà non erano spiegabili soltanto con la ragione, anzi spesso la contraddicevano decisamente. Preferiva non immischiarsi in problemi di questo genere, gli risultavano troppo sgradevoli e l’avrebbero soltanto gettato nella più penosa incertezza e inquietudine laddove, proprio per far uso della sua ragione, aveva bisogno di certezza e di quiete. Ma quello che combatteva in assoluto erano le fantasticherie superstiziose della gente semplice: stregoneria e cartomanzia, uso di amuleti, malocchio, scongiuri, magie di luna piena e quant’altro riuscivano a escogitare… Era ben deprimente constatare come simili usanze pagane non fossero ancora state sradicate dopo il solido insediamento, più che millenario, della religione cristiana! Anche la maggior parte dei casi di cosiddetta ossessione diabolica e lega satanica a un più attento esame si rivelavano una commedia spettacolare della superstizione. Certo, proprio negare l’esistenza di Satana, dubitare del suo potere… Terrier non voleva arrivare a tanto; a dirimere questi problemi, che toccavano i cardini della teologia, erano chiamate ben altre istanze, non un semplice, umile frate. D’altra parte era evidente che, se una persona semplice come quella balia affermava di aver scoperto uno spirito diabolico, mai e poi mai il diavolo poteva averci le mani in pasta. Proprio il fatto che lei credesse di averlo scoperto dimostrava con certezza che lì non c’era niente di diabolico da scoprire, perché il diavolo non era poi così sciocco da farsi smascherare dalla balia Jeanne Bussie. E per di più con il naso! Con l’organo primitivo dell’olfatto, il più volgare dei sensi! Come se l’inferno sapesse di zolfo e il paradiso di incenso e mirra! La peggiore delle superstizioni, come nella preistoria più oscura e più pagana, quando gli uomini vivevano ancora come bestie, quando non possedevano ancora una vista acuta, non conoscevano il colore, ma credevano di poter annusare il sangue, pensavano di distinguere al fiuto l’amico dal nemico, di essere fiutati da cannibali giganteschi e da lupi mannari e di essere riconosciuti all’odore da Erinni, e portavano ai loro dèi mostruosi olocausti puzzolenti e fumanti. Spaventoso! «Il matto vede col naso» più che con gli occhi, e probabilmente la luce della ragione concessa da Dio ha dovuto brillare per altri mille anni prima che gli ultimi residui della fede primitiva fossero dissipati.
«Ahimé, e questo povero piccolo! Questa creatura innocente! Sta nel suo canestro ed è assopito, senza presentimento alcuno dei disgustosi sospetti che sorgono contro di lui. Tu non avresti l’odore che i bambini devono avere, osa affermare quell’insolente. Ebbene, che cosa ne diciamo? Cicci cicci!»
E fece dondolare pian piano il canestro sulle ginocchia, accarezzò il lattante sulla testa col dito e di tanto in tanto diceva «cicci cicci», espressione che riteneva tenera e di effetto calmante sui bambini. «Dovresti avere un odore di caramello, che assurdità, cicci cicci!»
Poco dopo tirò indietro il dito, se lo mise sotto il naso, fiutò, ma non sentì altro se non l’odore dei crauti che aveva mangiato a mezzogiorno.
Esitò un attimo, si guardò attorno per vedere se nessuno lo osservava, sollevò il canestro e vi affondò dentro il grosso naso. Si chinò sulla testa del lattante finché la rada peluria rossiccia del bimbo gli solleticò le narici e annusò, aspettandosi di aspirare qualche odore. Non sapeva bene che odore dovesse avere la testa di un lattante. Naturalmente non di caramello, questo era certo, infatti il caramello era zucchero fuso, e come poteva un lattante, che fino allora aveva inghiottito solo latte, sapere di zucchero fuso? Di latte poteva sapere, di latte di balia. Di capelli poteva sapere, di pelle e di capelli, e forse di un leggero sudore infantile. E Terrier annusò e si preparò a sentire odore di pelle, di capelli e di un leggero sudore infantile. Ma non sentì niente. Con tutta la buona volontà, niente. Probabilmente un lattante non ha odore, pensò, sarà così. Un lattante, se è tenuto pulito, non ha per l’appunto odore, così come non parla, non corre o non scrive. Queste cose vengono soltanto con l’età. In verità l’uomo comincia ad avere un odore soltanto nel periodo della pubertà. Così è, e non altrimenti. Non scrive forse Orazio: «Sa di capro il giovinetto, la vergine in boccio profuma come bianco narciso…»? E i Romani se ne intendevano! L’odore dell’uomo è sempre un odore carnale, quindi un odore peccaminoso. E dunque che odore dovrebbe avere un lattante, che non conosce il peccato carnale neanche per sogno? Che odore dovrebbe avere? Cicci cicci? Proprio nessuno!
Si rimise il cesto sulle ginocchia e lo fece dondolare lievemente. Il bambino continuava a dormire sodo. Il suo pugno destro sporgeva da sotto la coperta, piccolo e rosso, e talvolta, di scatto, batteva contro la guancia in modo commovente. Terrier sorrise e d’un tratto si sentì in uno stato d’animo molto gradevole. Per un momento si concesse la fantasia di essere il padre del bambino. Non si era fatto frate, era un normale cittadino, un onesto artigiano magari, aveva sposato una donna con un caldo odore di lana e di latte, e con lei aveva generato un figlio e ora lo faceva dondolare sulle ginocchia, suo figlio, cicci cicci cicci… Provava un senso di benessere a questo pensiero. Era un pensiero così ammodo. Un padre che fa dondolare suo figlio sulle ginocchia, cicci cicci, era un’immagine vecchia come il mondo e tuttavia sempre nuova e giusta finché il mondo fosse esistito, ah sì! Terrier sentì che gli si scaldava il cuore e che stava diventando sentimentale.
In quel momento il bambino si svegliò. Si svegliò dapprima con il naso. Il piccolo naso si mosse, si tese verso l’alto e fiutò. Inspirò l’aria e la soffiò fuori a piccoli colpi, come avviene con uno starnuto incompleto. Poi il naso si arricciò e il bambino aprì gli occhi. Gli occhi erano di colore indeterminato, tra il grigio-ostrica, e il bianco-crema opalino, ricoperti da una specie di membrana ed evidentemente ancora non molto adatti alla vista. Terrier aveva l’impressione che non lo vedessero affatto. Ben diverso era il naso. Mentre gli occhi scialbi del bambino sbirciavano nel vago, il naso sembrava puntare verso una meta precisa e Terrier aveva la stranissima sensazione che questa meta fosse lui stesso, la sua persona. Le minuscole pinne nasali attorno ai due minuscoli fori in mezzo al viso del bambino si dilatavano come fiori in sboccio. O piuttosto come le cupole di quelle piccole piante carnivore che tenevano nell’orto botanico del re. E come da queste, dalle pinne nasali del bambino sembrava fuoriuscire un risucchio inquietante. Per Terrier era come se il bambino lo vedesse con le sue narici, come se lo guardasse attento e inquisitore in modo più penetrante di quanto avrebbe potuto fare con gli occhi, come se con il naso divorasse qualcosa che proveniva da lui, Terrier, e che lui non poteva trattenere né nascondere… Quel bambino senza odore lo stava annusando spudoratamente, così era! Lo fiutava! E d’un tratto Terrier si sentì puzzare, di sudore e di aceto, di crauti e di vestiti non lavati. Si sentì nudo e brutto, come fissato da qualcuno che, per parte sua, non rivelava nulla di sé. Era come se il bambino penetrasse con l’olfatto anche attraverso la sua pelle, fin nel suo intimo più profondo. I suoi sentimenti più teneri, i suoi pensieri più turpi erano nudi davanti a quel piccolo, avido naso, che non era ancora un vero e proprio naso, bensì soltanto un accenno, un minuscolo organo con buchi che si arricciava, si gonfiava e vibrava di continuo. Terrier rabbrividì. Si sentiva nauseato. Per parte sua storse il naso come di fronte a qualcosa di maleodorante, con cui non voleva aver nulla a che fare. Sparita l’idea familiare che si trattasse della propria carne e sangue. Svanito l’idillio sentimentale di padre e figlio e madre calda di odori. Come strappato quel velo di penseri piacevolmente avvolgenti fantasticati attorno al bambino e a se stesso: sulle sue ginocchia giaceva un essere estraneo, freddo, un animale ostile, e se lui non avesse avuto un carattere così posato e governato dal timor di Dio e da un giudizio razionale, in un accesso di disgusto l’avrebbe scagliato lontano da sé come un ragno.
Di colpo Terrier si alzò e depose il canestro sul tavolo. Voleva liberarsi della cosa, il più in fretta possibile, ora, subito.
E in quel momento il bambino cominciò a urlare. Strinse gli occhi, spalancò la sua gola rossa e diede uno strillo così acuto e ripugnante che a Terrier si gelò il sangue nelle vene. Scosse il canestro con il braccio teso e gridò «cicci cicci» per far smettere il bambino, ma quello urlò ancora più forte e diventò tutto blu in faccia, e sembrava che stesse per scoppiare dalle urla.
Via! pensò Terrier, bisogna mandar via all’istante questo… stava per dire «demonio» e fece uno sforzo, e si frenò… via questo mostro, questo bambino insopportabile! Ma dove? Conosceva dozzine di balie e di orfanotrofi nel quartiere, ma erano tutti troppo vicini a lui, erano giusto a un passo, bisognava mandare quella cosa più lontano, così lontano da non sentirne più parlare, così lontano che non potessero riportarla ogni momento davanti alla porta, se possibile in un altro distretto, sull’altra riva ancora meglio, e meglio di tutto extra muros, in Faubourg Saint-Antoine, ecco! là doveva andare il marmocchio strillante, lontano, verso est, al di là della Bastiglia, dove di notte chiudevano le porte.
E sollevò la sua sottana, afferrò il canestro urlante e corse via, corse attraverso il labirinto di vicoli fino a Rue du Faubourg Saint-Antoine, risalì la Senna verso est, fuori della città, sempre più fuori, percorse Rue de Charonne sino alla fine, dove, nei pressi del monastero di Madeleine de Trenelle, aveva l’indirizzo di una certa Madame Gaillard, la quale accettava bambini a pensione di qualsiasi età e di qualsiasi specie finché c’era qualcuno che pagasse per loro, e là consegnò il neonato sempre urlante versando l’anticipo di un anno e poi volò di nuovo verso la città, e, arrivato al convento, gettò a terra i propri vestiti come se fossero sudici, si lavò dalla testa ai piedi e s’infilò a letto nella sua stanza dove si fece ripetutamente il segno della croce, pregò a lungo e infine, sollevato, si addormentò.
Madame Gaillard, sebbene non avesse neppure trent’anni, aveva già vissuto la propria vita. Esteriormente dimostrava l’età che in realtà aveva, e nello stesso tempo due, tre, cento volte di più, proprio come la mummia di una ragazza; ma interiormente era già morta da tempo. Quando era bambina suo padre le aveva dato un colpo sulla fronte con l’attizzatoio, poco più su della radice del naso, e da allora lei aveva perso l’olfatto e qualsiasi senso di calore umano e di freddezza umana e soprattutto qualsiasi passione. Quell’unico colpo l’aveva resa estranea alla tenerezza come all’avversione, estranea alla gioia come alla disperazione. In seguito, quando andò a letto con un uomo, non provò nulla, e nulla provò quando partorì i propri figli. Non portò il lutto per quelli che le morirono e non si rallegrò per quelli che le restarono. Quando il marito la picchiava non si scomponeva, e non provò nessun sollievo quando lui morì di colera all’Hôtel-Dieu. Le uniche due sensazioni che conosceva erano un lievissimo offuscamento dell’animo quando si avvicinava l’emicrania mensile, e un lievissimo rasserenamento dell’animo quando l’emicrania se ne andava. Per il resto questa donna insensibile non provava nulla.
D’altra parte… e forse proprio a causa della sua totale mancanza di emozioni, Madame Gaillard possedeva un senso spietato dell’ordine e della giustizia. Non prediligeva nessuno dei bambini a lei affidati e non ne trascurava nessuno. Somministrava tre pasti al giorno e non un solo boccone di più. Cambiava le fasce ai piccoli tre volte al giorno e solo fino a quando compivano due anni. Dopo questo termine, chi continuava a farsela addosso riceveva un ceffone senza alcun rimprovero e un pasto in meno. Madame Gaillard spendeva la metà esatta della retta per i suoi pupilli, e teneva per sé l’altra metà esatta. Nei tempi buoni non cercava di aumentare il suo guadagno, ma nei tempi duri non lasciava perdere neppure un soldo, neanche quando si trattava di vita o di morte. Diversamente il mestiere non sarebbe più stato redditizio. Aveva bisogno di denaro. Aveva fatto i suoi conti con precisione estrema. Da vecchia voleva assicurarsi un vitalizio e inoltre avere abbastanza da potersi permettere di morire in casa, anziché crepare all’Hôtel-Dieu come suo marito. Anche la morte di lui non le aveva fatto né caldo né freddo. Ma aveva orrore di quella morte pubblica, assieme a centinaia di estranei. Voleva potersi permettere una morte privata, e per questo le occorreva tutto il margine di guadagno proveniente dalla retta. C’era l’inverno, è vero, e in quel periodo su due dozzine di piccoli pensionanti ne morivano tre o quattro. Tuttavia anche così se la cavava sempre molto meglio della maggior parte delle altre madri adottive, e il suo reddito superava di gran lunga quello dei grandi brefotrofi statali o religiosi, la cui percentuale di perdite spesso ammontava a nove decimi. Poi c’era anche molto ricambio. Ogni anno Parigi produceva più di diecimila nuovi trovatelli, bastardi e orfani. In tal modo era possibile consolarsi di più d’un ammanco.
Per il piccolo Grenouille l’istituto di Madame Gaillard fu una benedizione. Probabilmente non sarebbe riuscito a sopravvivere da nessun’altra parte. Ma lì, accanto a quella donna dal cuore sterile, crebbe bene. Era dotato di una costituzione robusta. Chi, come lui, era sopravvissuto alla propria nascita fra i rifiuti non si lasciava più strappare dal mondo così facilmente. Poteva nutrirsi per giorni con zuppe acquose, si sosteneva con il latte più magro, tollerava la verdura più appassita e la carne più guasta. Nel corso della sua infanzia sopravvisse al morbillo, alla dissenteria, alla varicella, al colera, a una caduta di sei metri in un pozzo e a un’ustione al petto con acqua bollente. Ne riportò comunque cicatrici, screpolature e croste e un piede leggermente deforme che lo faceva zoppicare, tuttavia visse. Era tenace come un batterio resistente e parco come una zecca, che se ne sta quieta su un albero e sopravvive con una minuscola goccia di sangue succhiata anni prima. Per il suo corpo aveva bisogno di un minimo di cibo e di abiti. Per la sua anima non aveva bisogno di nulla. Sicurezza, dedizione, tenerezza, amore — o comunque si chiamino tutte quelle cose che si presume occorrano a un bambino — al bambino Grenouille non erano affatto necessari. O piuttosto, ci sembra, lui stesso aveva fatto in modo che non gli fossero necessari per riuscire a vivere, fin dal primo momento. Il grido dopo la sua nascita, il grido emesso sotto il banco da macello, con il quale aveva dato notizia di sé e aveva portato sua madre al patibolo, non era stato un grido istintivo di pietà e d’amore. Era stato un grido ben meditato, si potrebbe quasi dire lungamente meditato, con cui il neonato si era pronunciato contro l’amore e tuttavia per la vita. Nelle circostanze in questione quest’ultima era possibile anche senza l’amore, e se il bambino avesse preteso entrambi, senz’altro avrebbe fatto ben presto una fine miseranda. Allora avrebbe certo potuto cogliere al volo anche la seconda possibilità che gli si offriva, avrebbe potuto tacere e scegliere la via diretta dalla nascita alla morte senza deviare per la vita, e con ciò avrebbe risparmiato una quantità di sciagure al mondo e a se stesso. Ma per uscire di scena così discretamente avrebbe dovuto avere un minimo di gentilezza innata, cosa che Grenouille non possedeva. Fin dall’inizio fu un mostro. Si decise a favore della vita per puro dispetto e per pura malvagità.
Naturalmente non decise come decide un adulto, che per scegliere fra varie opzioni usa la sua più o meno grande ragionevolezza ed esperienza. Ma decise al modo di un vegetale, così come un fagiolo gettato via decide se deve germogliare o se è meglio lasciar perdere.
Oppure come quella zecca sull’albero, cui la vita non ha altro da offrire se non un continuo sopravvivere. La zecca piccola e brutta, che modella il suo corpo grigio-piombo come una palla, per offrire al mondo esterno la minima superficie possibile; che rende la sua pelle compatta e dura per non lasciar fuoriuscire nulla, per non lasciar traspirare nemmeno una minima parte di sé. La zecca che diventa piccolissima e insignificante, perché nessuno la veda e la calpesti. La zecca solitaria, che, raccolta in sé, sta rannicchiata sul suo albero, cieca, sorda e muta e si limita a fiutare, a fiutare per anni, a distanza di miglia, il sangue di animali di passaggio che con le proprie forze non raggiungerà mai. La zecca potrebbe lasciarsi cadere. Potrebbe lasciarsi cadere a terra nel bosco, con le sue sei minuscole zampette potrebbe strisciare qua e là per un paio di millimetri e poi aspettare la morte sotto le foglie, non sarebbe una gran perdita per lei, Dio sa che non lo sarebbe. Ma la zecca, testarda, ostinata e ripugnante, sta rannicchiata e vive e aspetta. Aspetta, finché il caso estremamente improbabile le porta il sangue sotto forma di un animale direttamente sotto l’albero. E soltanto allora abbandona il suo ritegno, si lascia cadere, e si aggrappa e scava e si attacca con unghie e denti alla carne altrui…
Una simile zecca era il bambino Grenouille. Viveva come incapsulato in sé e aspettava tempi migliori. Al mondo non dava nulla se non i suoi escrementi; non un sorriso, non un grido, non un guizzo degli occhi, neppure un proprio odore. Qualsiasi altra donna avrebbe scacciato questo bambino mostruoso. Non così Madame Gaillard. Infatti non sentiva che lui non aveva odore, e non si aspettava da lui nessun moto dell’anima, perché la sua stessa anima era sigillata.
Gli altri bambini invece avvertirono subito che in Grenouille c’era qualcosa che non andava. Fin dal primo giorno il nuovo arrivato sembrò loro sospetto. Evitarono la cesta in cui giaceva e accostarono l’uno all’altro i telai dei loro letti, come se la stanza fosse diventata più fredda. La notte, talvolta, i più piccoli strillavano: avevano l’impressione che una corrente d’aria fosse passata per la camera. Altri sognavano che qualcosa togliesse loro il respiro. Una volta i più grandi si riunirono e cercarono di soffocarlo. Ammucchiarono vestiti, coperte e paglia sulla sua faccia e caricarono il tutto con mattoni. La mattina seguente, quando Madame Gaillard lo liberò, lui era pesto, malconcio e blu, ma non morto. Ci provarono ancora un paio di volte, ma inutilmente. Strozzarlo addirittura, stringendolo al collo con le loro stesse mani, o tappargli la bocca o il naso, sarebbe stato un metodo più sicuro, ma non osarono. Non volevano toccarlo. Provavano ripugnanza di fronte a lui come di fronte a un grosso ragno, che non si ha il coraggio di schiacciare con le proprie mani.
Quando fu più grande, rinunciarono ai tentati omicidi. Si erano convinti che non c’era modo di eliminarlo. Si limitarono a sfuggirlo, a stargli lontani, a evitare qualsiasi contatto con lui. Non lo odiavano. Non erano neppure gelosi o invidiosi del suo cibo. In casa Gaillard non ci sarebbe stata la minima ragione per coltivare sentimenti simili. Semplicemente li disturbava il fatto che lui esistesse. Non riuscivano a sentire il suo odore. Avevano paura di lui.
Ciò nonostante, da un punto di vista obiettivo, in lui non c’era proprio nulla che suscitasse paura. Quando crebbe, non era particolarmente alto, non forte, brutto sì, tuttavia non così brutto da doverne provare spavento. Non era aggressivo, non falso, non subdolo, non provocava. Preferiva stare per conto proprio. Anche la sua intelligenza sembrava essere tutt’altro che temibile. Soltanto a tre anni cominciò a reggersi su tutte e due le gambe, a quattro disse la sua prima parola, era la parola «pesci», che in un momento di eccitazione improvvisa gli uscì fuori come l’eco di un ricordo, mentre da lontano un venditore di pesci risaliva Rue de Charonne e annunciava gridando la sua merce. Le parole che mise fuori in seguito furono «pelargonio», «caprile», «cavolo verzotto» e «Jacqueslorreur», quest’ultima il nome di un aiuto-giardiniere della vicina opera pia Filles de la Croix, il quale all’occasione sbrigava i lavori più rozzi e più pesanti per Madame Gaillard e si distingueva per non essersi mai lavato una volta in vita sua. Con i verbi, gli aggettivi e le particelle espletive aveva qualche difficoltà. Eccetto «sì» e «no» — che del resto pronunciò molto tardi — cacciava fuori soltanto sostantivi, anzi in verità soltanto nomi propri di oggetti concreti, piante, animali e persone, e anche allora solo quando questi oggetti, piante, animali o persone lo sconvolgevano all’improvviso con il loro odore.
Nel sole di marzo, mentre era seduto su una catasta di ceppi di faggio che scricchiolavano per il caldo, avvenne che egli pronunciasse per la prima volta la parola «legno». Aveva già visto il legno centinaia di volte, aveva sentito la parola centinaia di volte. La capiva anche, infatti d’inverno era stato mandato fuori spesso a prendere legna. Ma il legno come oggetto non gli era mai sembrato così interessante da darsi la pena di pronunciarne il nome. Ciò avvenne soltanto quel giorno di marzo, mentre era seduto sulla catasta. La catasta era ammucchiata a strati, come una panca, sul lato sud del capannone di Madame Gaillard, sotto un tetto sporgente. I ceppi più alti emanavano un odore dolce di bruciaticcio, dal fondo della catasta saliva un profumo di muschio, e dalla parete d’abete del capannone si diffondeva nel tepore un profumo di resina sbriciolata.
Grenouille era seduto sulla catasta con le gambe allungate, la schiena appoggiata contro la parete del capannone, aveva chiuso gli occhi e non si muoveva. Non vedeva nulla, non sentiva e non provava nulla. Si limitava soltanto ad annusare il profumo del legno che saliva attorno a lui e stagnava sotto il tetto come sotto una cappa. Bevve questo profumo, vi annegò dentro, se ne impregnò fino all’ultimo e al più interno dei pori, divenne legno lui stesso, giacque sulla catasta come un pupazzo di legno, come un Pinocchio, come morto, finché dopo lungo tempo, forse non prima di una mezz’ora, pronunciò a fatica la parola «legno». Come se si fosse riempito di legno fin sopra le orecchie, come se il legno gli arrivasse già fino al collo, come se avesse il ventre, la gola, il naso traboccanti di legno, così vomitò fuori la parola. E questa lo riportò in sé, lo salvò, poco prima che la presenza schiacciante del legno, con il suo profumo, potesse soffocarlo. Si alzò a fatica, scivolò giù dalla catasta, e si allontanò vacillando come su gambe di legno. Per giorni e giorni fu preso totalmente dall’intensa esperienza olfattiva, e quando il ricordo saliva in lui con troppa prepotenza, borbottava fra sé e sé «legno, legno», a mo’ di scongiuro.
Così imparò a parlare. Con le parole che non indicavano un oggetto dotato di odore, quindi con concetti astratti, soprattutto di natura etica e morale, aveva le difficoltà maggiori. Non riusciva a ritenerle, le scambiava tra loro, persino da adulto le usò malvolentieri e spesso in modo sbagliato: diritto, coscienza, Dio, gioia, responsabilità, umiltà, gratitudine ecc, tutto ciò che queste parole dovevano esprimere per lui era e restò oscuro.
D’altro canto la lingua corrente ben presto non sarebbe più bastata a definire tutto ciò che aveva immagazzinato sotto forma di concetti olfattori. Presto riconobbe all’odore non soltanto il legno, bensì diverse specie di legno, legno d’acero, legno di quercia, legno di pino, legno d’olmo, legno di pero, legno vecchio, giovane, putrido, marcio, muscoso, persino singoli ceppi di legno, frammenti e schegge di legno: e all’odore ne percepiva le diversità con una chiarezza che altri non sarebbero mai riusciti ad avere con gli occhi. Similmente avveniva con altre cose. Che quella bevanda bianca che Madame Gaillard somministrava ogni mattina ai suoi pupilli venisse comunque chiamata latte, quando per la sensibilità di Grenouille ogni mattina aveva un odore e un sapore del tutto diversi, a seconda che fosse più o meno calda, a seconda della mucca da cui proveniva, di quello che la mucca aveva mangiato, della crema che vi era stata lasciata e così via… che il fumo, una struttura olfattiva in cui si riflettevano centinaia di singoli aromi, che di minuto in minuto, anzi di secondo in secondo si trasformava in un miscuglio nuovo, come il fumo del fuoco, possedesse appunto soltanto quell’unico nome «fumo»… che la terra, il paese, l’aria, che a ogni passo e a ogni respiro erano colmi di un odore diverso e quindi animati da un’identità diversa, potessero essere definiti soltanto da quelle tre grossolane parole… tutte queste disparità grottesche tra la ricchezza del mondo percepito con l’olfatto e la povertà del linguaggio facevano sì che il ragazzo Grenouille dubitasse del senso del linguaggio in genere, e si rassegnasse a farne uso soltanto quando i rapporti con altri esseri umani lo rendevano indispensabile.
A sei anni aveva già una percezione totale del suo ambiente dal punto di vista olfattivo. In casa di Madame Gaillard non c’era oggetto, a nord di Rue de Charonne non c’era luogo, né persona, né pietra, albero, cespuglio o steccato, né pezzo di terra così piccolo che non conoscesse e riconoscesse all’olfatto e che non custodisse per sempre nella memoria con la sua particolare unicità. Aveva collezionato diecimila, centomila odori peculiari e specifici, e li teneva a sua disposizione, con tale chiarezza, quando lo desiderava, che non soltanto li ricordava quando li percepiva di nuovo, ma li sentiva concretamente ogni volta che li ricordava; anzi, più ancora, sapeva persino combinarli tra loro soltanto con la fantasia, e in tal modo creava dentro di sé odori che nel mondo reale non esistevano. Era come se possedesse un gigantesco vocabolario di odori appresi automaticamente che lo metteva in grado di formare, quasi a suo piacere, una quantità di proposizioni olfattive nuove; e questo a un’età in cui altri bambini, con le parole inculcate in loro a fatica, balbettavano le prime frasi convenzionali, del tutto inadeguate a descrivere il mondo. Tutt’al più il suo talento si poteva paragonare a quello di un bambino-prodigio in fatto di musica, che avesse carpito alle melodie e alle armonie l’alfabeto dei singoli toni e ora componesse da sé melodie e armonie del tutto nuove… naturalmente con la differenza che l’alfabeto degli odori era di gran lunga più vasto e più differenziato di quello dei toni, e inoltre con la differenza che l’attività creativa del bambino-prodigio Grenouille si svolgeva soltanto dentro di lui e non poteva essere percepita da altri che da lui stesso.
Nei confronti del mondo esterno divenne sempre più chiuso. Di preferenza andava a passeggiare da solo verso nord, in Faubourg Saint-Antoine, attraverso orti, vigneti, prati. Talvolta la sera non tornava a casa, restava assente per giorni. Sopportava il castigo previsto, col bastone, senza manifestare dolore. Il divieto di uscire, la privazione di cibo, il lavoro assegnato per punizione non modificavano affatto il suo comportamento. Una sporadica frequenza di un anno e mezzo alla scuola parrocchiale di Notre-Dame de Bon Secours non provocò alcun visibile effetto. Imparò a sillabare un poco e a scrivere il proprio nome, nient’altro. Il suo insegnante lo giudicò deficiente.
Madame Gaillard invece si accorse che il ragazzo possedeva determinate capacità e caratteristiche che erano molto insolite, per non dire soprannaturali: ad esempio la paura infantile del buio e della notte sembrava essergli totalmente estranea. Si poteva sempre mandarlo a fare una commissione in cantina, dove gli altri bambini si azzardavano a scendere a malapena con una lampada, oppure fuori fino al capannone a prender legna quand’era buio pesto. E mai Grenouille aveva con sé un lume e tuttavia si orientava, e portava subito ciò che gli era richiesto, senza prendere la cosa sbagliata, senza inciampare o rovesciare qualcosa. Ma ancor più straordinario era il fatto che lui, come Madame Gaillard pensava di aver appurato, riusciva a vedere attraverso la materia, la carta, il legno, persino attraverso le pareti di muro pieno e le porte chiuse. Sapeva quanti e quali allievi si trovassero nel dormitorio senza esservi entrato. E sapeva che nel cavolfiore c’era un bruco prima ancora che l’aprissero. E una volta, dopo che lei aveva nascosto i soldi così bene da non riuscire più a ritrovarli (perché cambiava i suoi nascondigli), senza cercare neppure un secondo lui le indicò un posto dietro la trave del camino ed ecco, erano proprio là! Sapeva persino leggere nel futuro, ad esempio quando annunciava la visita di una persona molto prima del suo arrivo, oppure sapeva pronosticare immancabilmente l’avvicinarsi di un temporale prima ancora che in cielo si vedesse la più piccola nuvola. Il fatto che lui ovviamente non vedesse tutte queste cose, non le vedesse con gli occhi, ma le fiutasse con il suo naso sempre più raffinato e preciso nel cogliere gli odori — il bruco nel cavolo, i soldi dietro la trave, le persone attraverso le pareti e a una distanza di parecchi tratti di strada — Madame Gaillard non l’avrebbe immaginato neppure in sogno, anche se quel colpo con l’attizzatoio avesse lasciato intatto il suo nervo olfattorio. Era convinta che il ragazzo — deficiente o no — fosse dotato della seconda vista. E poiché sapeva che i veggenti portano sventura e morte, Grenouille divenne per lei una presenza inquietante. Ancor più inquietante, addirittura intollerabile, le era il pensiero di vivere sotto lo stesso tetto con qualcuno che aveva il dono di vedere il denaro nascosto con cura attraverso pareti e travi. Dopo aver scoperto questa capacità spaventosa di Grenouille cercò di liberarsi di lui, e fu una fortuna che all’incirca nello stesso periodo — Grenouille aveva otto anni — il convento di Saint-Merri sospendesse i suoi pagamenti annuali senza dichiararne i motivi. Madame non chiese nulla. Aspettò per decoro ancora una settimana, e poiché il denaro dovuto continuava a non arrivare, prese per mano il ragazzo e si recò con lui in città.
In Rue de la Mortellerie, accanto al fiume, conosceva un conciatore di nome Grimal, che notoriamente aveva bisogno di manodopera giovane: non di apprendisti o garzoni regolari, bensì di braccianti a poco prezzo. In quell’attività c’erano appunto lavori — spolpare pelli di animali in decomposizione, mescolare liquidi di concia e coloranti, preparare cortecce da concia corrosive — talmente pericolosi per la vita, che un padrone conscio delle proprie responsabilità possibilmente non impiegava per questi i suoi aiutanti qualificati, bensì marmaglia disoccupata, vagabondi o appunto bambini abbandonati dei quali in caso di dubbio nessuno più chiedeva notizia. Naturalmente Madame Gaillard sapeva che, a giudizio d’uomo, Grenouille non aveva nessuna possibilità di sopravvivere nella conceria di Grimal. Ma non era il tipo di donna da preoccuparsene. Il suo dovere lo aveva pur fatto. Il rapporto d’assistenza era terminato. Come sarebbe stato l’avvenire del ragazzo non la riguardava. Se sopravviveva, bene, se moriva, bene ugualmente… l’importante era che tutto avvenisse in modo lecito. E quindi si fece attestare per iscritto la consegna del ragazzo da Monsieur Grimal, dal canto suo firmò la ricevuta di quindici franchi di provvigione e ritornò verso casa in Rue de Charonne. Non avvertiva neppure un’ombra di rimorso. Al contrario, riteneva di aver agito non soltanto in modo lecito, ma anche giusto, poiché la permanenza di un bambino per cui nessuno pagava avrebbe gravato necessariamente sugli altri bambini, o addirittura su di lei, e avrebbe potuto compromettere l’avvenire degli altri piccoli pensionanti o addirittura il suo futuro personale, e cioé la sua morte privata, appartata, l’unica cosa che desiderasse ancora nella vita.
Dal momento che a questo punto della storia lasciamo Madame Gaillard e anche più tardi non la incontreremo più, descriveremo in poche frasi la fine dei suoi giorni. Sebbene già da bambina fosse interiormente morta, per sua disgrazia Madame divenne molto, molto vecchia. Nell’anno 1782, a quasi settant’anni, lasciò il suo mestiere, si assicurò un vitalizio, come si era prefissa, si ritirò nella sua casetta e aspettò la morte. Ma la morte non venne. In sua vece venne qualcosa che nessuno al mondo avrebbe potuto prevedere e che nel paese non s’era mai avuto, e cioé una rivoluzione, vale a dire una rapidissima trasformazione di tutti i rapporti sociali, morali e trascendentali. In un primo tempo questa rivoluzione non ebbe ripercussioni sul destino personale di Madame Gaillard. Ma in seguito — lei aveva ormai quasi ottant’anni — dall’oggi al domani risultò che colui che le passava il vitalizio dovette emigrare, fu espropriato e i suoi beni furono venduti all’asta a un fabbricante di pantaloni. Per un certo tempo sembrò che neanche questo mutamento provocasse conseguenze fatali per Madame Gaillard, perché il fabbricante di pantaloni continuò a pagare puntualmente la rendita. Ma poi venne il giorno in cui lei ricevette il denaro non più in moneta sonante, bensì sotto forma di foglietti di carta stampata, e questo fu l’inizio della sua fine materiale.
Nel giro di due anni la rendita non bastò più neppure a pagare la legna da ardere. Madame si vide costretta a vendere la sua casa a un prezzo ridicolmente basso, perché d’un tratto oltre a lei c’erano altre migliaia di persone costrette ugualmente a vendere la loro casa. E di nuovo, come controvalore, ricevette soltanto quegli stupidi foglietti, che di nuovo due anni dopo non valevano più nulla, e nell’anno 1797 — ormai si avviava ai novanta — aveva già perso tutto il suo patrimonio, accumulato a fatica con un lavoro secolare, e prese dimora in una minuscola camera ammobiliata in Rue des Coquilles. E soltanto allora, con dieci, vent’anni di ritardo, venne la morte, e venne sotto forma di una lunga e complessa malattia tumorale, che prese Madame alla gola e la privò prima dell’appetito e poi della voce, dimodoché, quando fu trasportata all’Hôtel-Dieu, non poté spendere neppure una parola per sollevare obiezione. Là la portarono nella stessa sala, affollata da centinaia di persone in fin di vita, in cui già era morto suo marito, la misero in un letto assieme ad altre cinque vecchie donne del tutto estranee, dove giacque a corpo a corpo con le altre, e là la lasciarono a morire per tre settimane, sotto gli occhi di tutti. Poi misero il suo corpo in un sacco che fu ricucito, alle quattro del mattino lo gettarono su un carro da trasporto insieme con altri cinquanta cadaveri, e al fievole tintinnio di una campanella lo portarono al nuovo cimitero di Clamert, a un miglio di distanza dalla porte della città, e là l’adagiarono in una fossa comune per l’estremo riposo, sotto uno spesso strato di calce viva.
Questo avvenne nell’anno 1799. Grazie a Dio, in quel giorno dell’anno 1747, quando Madame tornò a casa e abbandonò il ragazzo Grenouille e la nostra storia, non sospettò nulla di questo destino incombente su di lei. Avrebbe potuto perdere la fede nella giustizia, e quindi nell’unico concetto della vita a lei comprensibile.
Al primo sguardo rivolto a Monsieur Grimal — no, alla prima inspirazione dell’aura olfattiva di Grimal — Grenouille seppe che alla minima insubordinazione quell’uomo avrebbe potuto picchiarlo a morte. La sua vita valeva esattamente tanto quanto il lavoro che lui era in grado di sbrigare, consisteva ormai soltanto nell’utilità che Grimal gli attribuiva. E così Grenouille si piegò, senza fare neppure per una volta un tentativo di ribellione. Da un giorno all’altro isolò di nuovo in sé tutta l’energia della sua ostinazione e della sua scontrosità, la usò soltanto per sopravvivere, alla maniera di una zecca, in quel periodo di anni bui che gli stava dinanzi: tenace, parco, senza dare nell’occhio, tenendo la fiamma della speranza di vivere bassa, ma ben protetta. Era un modello di arrendevolezza, di discrezione e di solerzia, eseguiva gli ordini alla lettera, si adattava a qualsiasi cibo. La sera si lasciava chiudere docilmente in una rimessa, costruita a fianco della conceria, in cui si custodivano gli attrezzi e si appendevano le pelli salate da trattare. Qui dormiva sulla nuda terra battuta. Durante il giorno lavorava finché c’era luce, d’inverno otto ore, d’estate quattordici, quindici, sedici ore: spolpava le pelli che puzzavano in modo bestiale, le metteva a bagno, le privava dei peli, le calcinava, le trattava con acidi, le batteva, le spalmava con la concia, spaccava la legna, scortecciava betulle e tassi, scendeva nelle fosse per conciare piene di vapori caustici, ammucchiava a strati una sopra l’altra pelli e cortecce come gli ordinavano i garzoni, vi spalmava sopra noci di galla schiacciate e ricopriva l’orribile catasta con rami di tasso e terra. Molto tempo dopo doveva dissotterrarla e togliere dalla fossa quei cadaveri di pelli ormai mummificati in cuoio conciato. Quando non sotterrava e dissotterrava le pelli, trasportava l’acqua. Per mesi portò su acqua dal fiume, ogni volta due secchi, centinaia di secchi al giorno, perché il mestiere richiedeva enormi quantità d’acqua per lavare, per ammorbidire, per bollire e per colorare. Per mesi non ebbe più una sola fibra asciutta in corpo dal gran portare acqua, la sera i suoi vestiti grondavano acqua e la sua pelle era fredda, molle e gonfia come cuoio lavato.
Dopo un anno di quest’esistenza più bestiale che umana si prese il carbonchio, una temuta malattia da conciatore che in genere ha un decorso mortale. Grimal aveva già rinunciato a lui e si guardava attorno per cercare un sostituto: non senza rimpianto del resto, perché non aveva mai avuto un lavorante modesto e redditizio come questo Grenouille. Ma contro ogni aspettativa Grenouille superò la malattia. Gli rimasero solo le cicatrici dei grandi carbonchi neri dietro le orecchie, sul collo e sulle guance, che lo sfigurarono e lo resero ancor più brutto di quanto già non fosse. Inoltre gli rimase — vantaggio incalcolabile — una resistenza al carbonchio, dimodoché da allora persino con le mani screpolate e sanguinanti poté spolpare le pelli più dure senza correre il rischio di infettarsi di nuovo. In questo si distingueva non soltanto dagli apprendisti e dai garzoni, ma anche dai suoi potenziali successori. E poiché adesso non era più tanto facile come un tempo sostituirlo, il valore del suo lavoro aumentò, e con esso il valore della sua vita. D’un tratto non fu più costretto a dormire sulla nuda terra, ma ebbe il permesso di costruirsi una lettiera di legno e ricevette della paglia da ammucchiarvi sopra e una coperta personale. Per dormire non lo rinchiudevano più. Il cibo era sufficiente. Grimal non lo teneva più come un animale qualsiasi, bensì come un animale domestico utile.
Quando compì dodici anni, Grimal gli concesse mezza giornata di libertà la domenica, e a tredici persino nei giorni feriali, la sera dopo il lavoro, ebbe il permesso di assentarsi per un’ora e di fare quello che voleva. Aveva vinto, poiché viveva, e possedeva una porzione di libertà, che bastava per continuare a vivere. I tempi in cui il problema era superare l’inverno erano passati. Grenouille, la zecca, si ridestò. Fiutò l’arrivo di tempi nuovi. Fu preso dal piacere della caccia. Dinanzi a lui si apriva l’area olfattiva più grande del mondo: la città di Parigi.
Era come nel paese di Bengodi. Già solo i quartieri confinanti di Saint-Jacques-de-la-Boucherie e di Saint-Eustache erano un paese di Bengodi. Nei lontani vicoli di Rue Saint-Denis e di Rue Saint-Martin, gli uomini vivevano così stretti l’uno all’altro, le case erano così pigiate l’una contro l’altra, alte cinque, sei piani, che non si vedeva il cielo, e giù a terra l’aria stagnava come in canali umidi, piena di odori. Si mescolavano odori di uomini e di animali, esalazioni di cibi e malattie, d’acqua e pietra e cenere e cuoio, di sapone e pane appena sfornato e uova fatte bollire in aceto, di pasta e ottone lucidato, di salvia e birra e lacrime, di grasso e paglia umida o asciutta. Migliaia e migliaia di odori si condensavano in una poltiglia invisibile che riempiva i buchi dei vicoli, e al disopra dei tetti si dileguava di rado, giù a terra mai. Le persone che vivevano lì non sentivano nessun odore particolare in questa poltiglia; era pur nata da loro e li aveva impregnati di continuo, era come un vestito caldo portato a lungo di cui non si sente più l’odore e che non si avverte più sulla pelle. Ma Grenouille sentiva tutti gli odori come per la prima volta. E non soltanto percepiva l’insieme di questo miscuglio di odori, ma lo suddivideva in modo analitico nelle sue minime e più indistinte parti e particelle. Il suo naso raffinato sbrogliava quel groviglio di esalazioni e di fetori in singoli fili di odori fondamentali che non si potevano scomporre ulteriormente. Per lui era un indicibile divertimento dipanare questi fili e avvolgerli sul fuso.
Spesso stava immobile, appoggiato al muro di una casa o addossato a un angolo buio, a occhi chiusi, la bocca semiaperta e le narici dilatate, muto come un pesce predatore in un corso d’acqua grande e oscuro dal lento fluire. E quando infine un alito di vento gli portava davanti l’estremo di un esile filo di aroma, allora lo ghermiva e non lo lasciava più andare, non annusava altro se non quest’unico odore, lo teneva stretto, lo risucchiava in sé e in sé lo custodiva per sempre. Poteva essere un odore che conosceva da tempo, oppure una sua variante, ma poteva anche essere del tutto nuovo, senza nessuna somiglianza o quasi con tutto ciò che aveva annusato fino allora e tanto meno visto: l’odore della seta stirata, ad esempio, l’odore di un infuso di timo, l’odore di un pezzo di broccato ricamato d’argento, l’odore del tappo di una bottiglia di vino raro, l’odore di un pettine di tartaruga. Grenouille rincorreva questi odori a lui ancora sconosciuti, li inseguiva con la passione e la perseveranza di un pescatore con la lenza e li accumulava in sé.
Quando aveva annusato a sazietà la grassa poltiglia dei vicoli, andava in una zona più ariosa, dove gli odori erano più rarefatti, si mescolavano al vento e si diffondevano, quasi come un profumo: e cioé nella piazza dei mercati generali, dove di sera negli odori continuava a vivere il giorno, invisibile, ma così evidente, come se là tra la folla si affrettassero ancora su e giù i mercanti, come se ci fossero ancora i panieri stracolmi di verdure e di uova, le botti piene di vino e di aceto, i sacchi di spezie, patate e farina, le casse di chiodi e di viti, i banchi della carne, i banchi pieni di stoffe e stoviglie e suole da scarpe e tutte le altre cento cose che si vendevano di giorno… tutto quel viavai era presente fino al minimo particolare nell’aria che si era lasciato dietro. Grenouille vedeva tutto il mercato con l’olfatto, se così si può dire. E con l’olfatto lo vedeva più precisamente di quanto altri avrebbero potuto vederlo con gli occhi, giacché lo percepiva in un secondo tempo e quindi in modo più elevato: come essenza, come lo spirito di qualcosa che c’era stato, qualcosa di non turbato dagli attributi usuali del presente quali il rumore, i suoni striduli, la promiscuità disgustosa degli uomini in carne e ossa.
Oppure si recava nel luogo in cui avevano decapitato sua madre, in Place de Grève, che andava a lambire il fiume come una grossa lingua. Qui, ancorate a riva oppure ormeggiate ai pali, c’erano le navi, e sapevano di carbone e grano e fieno e cime umide.
E da ovest, da quell’unica pista tagliata dal fiume attraverso la città, veniva una grande corrente d’aria e portava gli odori del paese, dei prati vicini a Neuilly, dei boschi tra Saint-Germain e Versailles, delle città più lontane come Rouen o Caen e talvolta persino del mare. Il mare aveva l’odore di una vela gonfia di vento in cui rimaneva un sentore d’acqua, di sale e di un sole freddo. Aveva un odore semplice, il mare, ma nello stesso tempo così vasto e unico nel suo genere, che Grenouille esitava a suddividerlo in odore di pesce, di sale, di acqua, di alga, di fresco e così via. Preferiva lasciare intatto l’odore del mare, lo custodiva intero nella memoria e lo godeva indiviso. L’odore del mare gli piaceva tanto che avrebbe desiderato una volta averlo puro, non mescolato e in quantità tale da potersene ubriacare. E in seguito, quando apprese dai racconti com’era grande il mare e come si poteva percorrerlo con navi per giorni interi senza vedere terra, nulla gli fu più gradito che immaginare di trovarsi su una di quelle navi, molto in alto nella coffa dell’albero più a prua, e di volare attraverso l’odore senza fine del mare, che in realtà non era più un odore, ma un respiro, un espirare, la fine di tutti gli odori, e gli pareva di dissolversi, in questo respiro, dal piacere. Ma era destino che non si arrivasse a tanto, perché Grenouille, che stava sulla riva in Place de Grève, espirando e inspirando più volte il soffio leggero del vento marino che gli passava sotto il naso, non avrebbe mai visto in tutta la vita il mare, il vero mare, il grande oceano che si stendeva a occidente, e non avrebbe mai potuto confondersi con quell’odore.
In breve tempo aveva annusato così a fondo il quartiere tra Saint-Eustache e l’Hôtel de Ville, che ci si orientava anche nella più buia delle notti. E quindi ampliò il suo terreno di caccia, dapprima a ovest, in Faubourg Saint-Honoré, poi in Rue Saint-Antoine su fino alla Bastiglia, e infine persino sulla riva opposta del fiume, nel quartiere della Sorbona e in Faubourg Saint-Germain, dove abitavano i ricchi. Dalle inferriate delle porte carraie veniva l’odore dei sedili in pelle delle carrozze e della cipria delle parrucche dei paggi, e al di sopra delle alte mura si diffondeva dai giardini il profumo della ginestra e delle rose e dei ligustri appena potati. Fu anche qui che Grenouille per la prima volta annusò profumi nel vero senso della parola: semplice acqua di lavanda o di rose, con cui in occasione delle feste si alimentavano le fontane a zampillo dei giardini, ma anche aromi più pregiati e più complessi, di tintura di muschio mista a olio di neroli e tuberosa, giunchiglia, gelsomino o cannella, che di sera le carrozze eleganti si lasciavano dietro come una pesante scia. Grenouille registrava questi aromi così come registrava odori profani, con curiosità, ma senza particolare ammirazione. Certo, si accorgeva che il profumo aveva lo scopo di creare un effetto inebriante e avvincente, e riconosceva la bontà delle singole essenze di cui erano composti i profumi. Ma nell’insieme gli sembravano piuttosto rozzi e grossolani, più raffazzonati che non combinati, e sapeva che sarebbe stato in grado di produrre profumi buoni ben diversi, se solo avesse potuto disporre degli stessi elementi.
Molti di questi elementi li conosceva già dalle bancarelle di fiori e spezie del mercato; altri gli risultavano nuovi, e questi ultimi li filtrava dalle miscele di aromi e li custodiva senza nome nella memoria: ambra, zibetto, patchouli, sandalo, bergamotto, vetiver, opoponaco, benzoino, fior di luppolo, castoreo…
Non era schizzinoso. Tra quello che comunemente era definito un buono o un cattivo odore non faceva distinzioni, non ancora. Era avido. L’unico scopo delle sue battute era quello di possedere tutto ciò che il mondo aveva da offrire in odori, e l’unica condizione era che gli odori fossero nuovi. L’odore di un cavallo sudato per lui era come l’odore delicato e acerbo delle gemme di rosa in fioritura, il puzzo acre di una cimice equivaleva all’odore di vitello lardellato che usciva dalle cucine dei signori. Divorava tutto, risucchiava tutto dentro di sé. E anche nella sintetizzante cucina di odori della sua fantasia, nella quale combinava di continuo aromi nuovi, non regnava ancora un principio estetico. Erano bizzarrie, che creava e ben presto distruggeva, come un bambino che gioca con i cubetti per costruzioni, ricco di inventiva e distruttivo, senza un principio creativo riconoscibile.
Il 1° settembre 1753, l’anniversario dell’avvento al trono del re, la città di Parigi allestì i fuochi d’artificio sul Pont Royal. Non furono spettacolari come i fuochi d’artificio per la festa dello sposalizio del re o come i leggendari fuochi d’artificio in occasione della nascita del Delfino, ma furono pur sempre fuochi d’artificio molto imponenti. Agli alberi delle navi avevano fissato girandole d’oro a forma di sole. Dal ponte, i cosiddetti tori di fuoco riversavano nel fiume una pioggia di stelle ardenti. E mentre ovunque in un fragore assordante scoppiavano petardi e sul selciato guizzavano mortaretti, razzi salivano al cielo e dipingevano gigli bianchi sul firmamento nero. Una moltitudine di migliaia di teste, raccolte sia sul ponte sia sulle banchine delle due rive del fiume, accompagnava lo spettacolo con entusiasti ah e oh e bravo e persino con evviva… sebbene il re fosse salito al trono ben trentotto anni prima e avesse superato da tempo l’apice della sua popolarità. Tale era il potere dei fuochi d’artificio.
Grenouille stava muto all’ombra del Pavillon de Flore, sulla riva destra, di fronte al Pont Royal. Non muoveva neppure le mani per applaudire, non guardava neppure i razzi che salivano al cielo. Era venuto perché credeva di poter fiutare qualcosa di nuovo, ma ben presto fu chiaro che, dal punto di vista olfattivo, i fuochi d’artificio non avevano niente da offrire. Tutto ciò che in abbondanza e con spreco sfavillava e sprizzava ed esplodeva e fischiava si lasciava dietro un odore estremamente uniforme misto di zolfo, olio e salnitro.
Era già in procinto di abbandonare quel pubblico spettacolo per tornarsene a casa lungo la galleria del Louvre, quando il vento gli portò qualcosa, un’inezia, appena avvertibile, un frammento, un atomo di odore, no, ancor meno: piuttosto il presentimento di un odore che non un odore vero e proprio — ma nello stesso tempo anche il sicuro presentimento di qualcosa di mai annusato. Ritornò verso il muro, chiuse gli occhi e dilatò le narici. L’odore era così straordinariamente delicato e fine che Grenouille non riusciva a trattenerlo, di continuo esso si sottraeva alla sua percezione, era sovrastato dal fumo polveroso dei petardi, bloccato dalle esalazioni della folla, smembrato e annientato dagli altri mille odori della città. Ma poi, d’un tratto, eccolo di nuovo, una lieve esalazione soltanto, da annusare per un breve secondo come splendida traccia… e subito dopo svaniva. Grenouille era in preda a tormenti. Per la prima volta non era soltanto il suo carattere avido a subire un’offesa, era proprio il suo cuore a soffrire. Aveva la strana impressione che quell’odore fosse la chiave per classificare tutti gli altri odori, che non si capisse nulla degli odori senza aver conosciuto quello, e che lui, Grenouille, avrebbe sprecato la sua vita, se non fosse riuscito a possedere quell’odore unico. Doveva averlo, non per amore del mero possesso, bensì per la pace del suo animo.
Stava quasi male per l’eccitazione. Non era ancora riuscito a scoprire neppure la direzione da cui veniva l’odore. Talvolta, prima che un minimo soffio gli alitasse incontro, passavano minuti, e ogni volta era sopraffatto dall’orribile angoscia di averlo perso per sempre. Infine lo salvò l’estrema speranza che l’odore arrivasse dall’altra riva del fiume, da qualche luogo in direzione sud-est.
Si staccò dal muro del Pavillon de Flore, s’immerse tra la folla e si fece strada attraverso il ponte. Ogni due passi si fermava, si alzava sulle punte dei piedi per poter annusare oltre le teste delle persone, dapprima non sentiva nulla, tanto era agitato, poi percepiva finalmente qualcosa, fiutava l’odore, anche più forte di prima, capiva di essere sulla strada giusta, s’immergeva di nuovo, di nuovo si seppelliva tra la moltitudine di curiosi e di pirotecnici che tenevano sempre le fiaccole vicine alle micce dei razzi, perdeva il suo odore nel fumo acre della polvere, era colto dal panico, di continuo urtava qualcuno e dava spintoni e s’immergeva di nuovo tra la folla: dopo minuti interminabili raggiunse l’altra riva. l’Hôtel de Mailly, il Quai Malaquest, lo sbocco di Rue de Seine…
Qui si fermò, si concentrò e annusò. Eccolo. Lo teneva stretto. Come un nastro, l’aroma si srotolava giù per Rue de Seine, inconfondibilmente chiaro e tuttavia sempre molto delicato e molto fine. Grenouille sentì che gli batteva il cuore, e seppe che non era lo sforzo della corsa a farlo battere, bensì la sua eccitata impotenza in presenza di quell’odore. Tentò di ricordare qualcosa che gli si potesse paragonare, e dovette scartare tutti i paragoni. Quell’odore aveva in sé una freschezza: ma non la freschezza dei limoncelli o delle arance amare, non la freschezza della mirra o della scorza di cannella o della menta verde o delle betulle o della canfora o degli aghi di pino, non quella della pioggia di maggio o del vento gelido o dell’acqua di fonte… e nello stesso tempo aveva un calore: ma non come il bergamotto, il cipresso o il muschio, non come il gelsomino o il narciso, non come il legno di rosa e non come l’iris… Quell’odore era un miscuglio di fugace e di intenso, no, non un miscuglio, un tutto unico, e inoltre era debole e lieve e tuttavia forte e deciso, come una pezza di sottile seta cangiante… ma no, neppure come seta, bensì come un latte dolcissimo, in cui il biscotto si scioglie… cose che con tutta la buona volontà possibile non andavano d’accordo: latte e seta! Indescrivibile, quell’odore, indescrivibile, impossibile classificarlo in qualche modo, in realtà non poteva esistere. E tuttavia era là, nella sua splendida naturalezza. Grenouille lo seguì, con il cuore che batteva ansioso, poiché sentiva che non era lui a seguire il profumo, bensì il profumo ad averlo catturato, e ora lo attirava irresistibilmente a sé.
Risalì Rue de Seine. Per strada non c’era nessuno. Le case erano vuote e silenziose. La gente era giù al fiume nei pressi dei fuochi d’artificio. Nessun odore umano febbrile disturbava la quiete, nessun puzzo acre di polvere. La strada sapeva dei consueti odori d’acqua, di escrementi, di ratti e di scarti di verdura. Ma al di sopra fluttuava, tenue e chiaro, il nastro che guidava Grenouille. Dopo pochi passi, la scarsa luce notturna del cielo fu inghiottita dalle case alte, e Grenouille proseguì al buio. Non aveva bisogno di vedere nulla. L’odore lo conduceva con sicurezza.
Dopo cinquanta metri piegò a destra in Rue des Marais, un vicolo se possibile ancora più buio, largo appena una spanna. Stranamente l’odore non divenne molto più intenso. Divenne soltanto più puro, e per questo, per la sua purezza in continuo aumento, acquisì una forza d’attrazione sempre maggiore. Grenouille camminava senza volontà propria. A un certo punto l’odore lo portò decisamente a destra, apparentemente al centro del muro di una casa. Si aprì un passaggio basso, che conduceva nel cortile interno. Come un sonnambulo, Grenouille entrò nel passaggio, attraversò il cortile interno, svoltò un angolo e arrivò in un secondo cortile interno più piccolo, finalmente illuminato: il luogo era un quadrato grande soltanto qualche passo. Dal muro sporgeva una tettoia di legno obliqua. Sotto la tettoia, su un tavolo, era appiccicata una candela. Una fanciulla era seduta a questo tavolo e puliva mirabelle. Prendeva i frutti da un canestro alla sua sinistra, li privava del gambo e del nocciolo con un coltello e li gettava in un secchio. Poteva avere tredici o quattordici anni. Grenouille si fermò. Capì subito qual era la fonte dell’odore che aveva annusato per più di mezzo miglio fino all’altra riva del fiume: non questo sudicio cortile interno, non le mirabelle. La fonte era la fanciulla.
Per un attimo fu talmente confuso che credette realmente di non aver mai visto in vita sua una cosa bella come quella fanciulla. Tuttavia vedeva solo il suo contorno da dietro, contro la candela. Naturalmente pensò di non aver mai sentito un odore così buono. Ma poiché conosceva gli odori umani a migliaia, odori di uomini, di donne, di bambini, non riusciva a comprendere come un essere umano potesse emanare un odore tanto squisito. In genere le persone avevano odori insulsi o miserabili. I bambini avevano un odore insipido, gli uomini un odore di orina, di sudore acre e di formaggio, le donne di grasso rancido e di pesce in via di decomposizione. Di nessunissimo interesse, del tutto ripugnanti erano gli odori delle persone. E dunque, per la prima volta in vita sua, Grenouille non si fidò del suo naso e dovette chiamare in aiuto gli occhi per credere a quello che stava annusando. Ma la confusione dei suoi sensi non durò a lungo. In realtà gli servì soltanto un attimo per accertarsi con i suoi occhi, dopo di che si abbandonò senza riserva alcuna alle percezioni del suo senso olfattivo. E annusò che era una persona, annusò il sudore delle sue ascelle, il grasso dei suoi capelli, l’odore di pesce del suo sesso; annusò tutto col massimo piacere. Il suo sudore aveva un profumo fresco come la brezza del mare, il sebo dei suoi capelli dolce come olio di noce, il suo sesso come un mazzo di ninfee bianche, la pelle come fiori d’albicocco… e l’insieme di tutte queste componenti dava un profumo così ricco, così equilibrato, così affascinante, che tutto ciò che Grenouille aveva annusato fino allora in fatto di profumi, anche tutto ciò che per gioco aveva creato dentro di sé come costruzioni olfattive, d’un tratto divenne puro nonsenso. Centinaia di migliaia di odori sembravano non valere più nulla di fronte a quest’unico odore. Questo solo era il principio superiore secondo il quale si dovevano classificare gli altri profumi. Era la pura bellezza.
Per Grenouille era chiaro che senza il possesso di quel profumo la sua vita non aveva più alcun senso. Doveva conoscerlo fin nei minimi dettagli, fin nell’ultima e più minuta delle sue particelle: ricordarlo soltanto nel suo insieme non gli bastava. Voleva imprimere come con un marchio questo profumo da apoteosi nel caos della sua anima nera, analizzarlo con la massima esattezza e da allora in poi pensare, vivere, annusare soltanto secondo le strutture interne di questa formula magica.
Si avviò lentamente verso la fanciulla, sempre più vicino, finché, sotto la tettoia, si fermò a un passo dalle sue spalle. Lei non lo udì.
Aveva capelli rossi e portava un vestito grigio senza maniche. Le sue braccia erano di un bianco candido, e le mani erano gialle per il succo delle mirabelle tagliate. Grenouille stava curvo sopra di lei e aspirava il suo odore ora totalmente puro, così come saliva dalla sua nuca, dai suoi capelli, dalla scollatura del suo vestito, e lo lasciava scorrere dentro di sé come una lieve brezza. Non si era mai sentito così bene. Ma la fanciulla provò una sensazione di freddo.
Non vedeva Grenouille. Ma fu colta da un senso d’angoscia, da uno strano brivido, come avviene d’un tratto quando si è assaliti da una vecchia paura dimenticata. Era come se una corrente fredda le stesse alle spalle, come se qualcuno avesse aperto con una spinta una porta che conduca in un’enorme cantina fredda. E mise da parte il suo coltello da cucina, strinse le braccia al petto e si girò.
Quando lo vide, s’irrigidì a tal punto per lo spavento da dargli tutto il tempo di metterle le mani attorno al collo. Lei non tentò neppure di gridare, restò immobile, non fece un movimento di difesa. Da parte sua lui non la guardò. Non vide il suo bel viso cosparso di lentiggini, la bocca rossa, i grandi occhi verdi brillanti, poiché teneva i propri occhi ben chiusi mentre la strozzava, e la sua sola preoccupazione era quella di non perdere neppure la minima parte dell’odore di lei.
Quando l’ebbe uccisa, la depose a terra tra i noccioli delle mirabelle, le strappò il vestito e il flusso di profumo divenne una marea, che lo sommerse con la sua fragranza. Affondò il viso nella sua pelle e passò le sue narici dilatate dal ventre al petto, al collo, sul suo viso e tra i capelli e di nuovo sul ventre, poi giù fino al suo sesso, sulle sue cosce, sulle sue gambe bianche. S’imbevve di lei dalla testa ai piedi, raccolse gli ultimi resti del suo odore sul mento, nell’ombelico e tra le pieghe dell’incavo del gomito.
Quando l’ebbe annusata fino allo sfinimento, restò accovacciato accanto a lei ancora un momento per riprendersi, perché era stracolmo di lei. Non voleva sprecare nulla del suo odore. Prima doveva bloccare i suoi compartimenti interni. Poi si alzò e spense con un soffio la candela.
A quell’ora le prime persone che rincasavano risalivano Rue de Seine cantando e lanciando evviva. Grenouille si lasciò guidare dal naso fin sul vicolo e attraversò Rue des Petits Augustins, una parallela di Rue de Seine che portava al fiume. Poco dopo scoprirono la morta. Ci fu un gran clamore. Si accesero fiaccole. Arrivò la guardia. Grenouille era da tempo sull’altra riva.
Quella notte la sua rimessa gli sembrò un palazzo e il suo tavolaccio un letto a baldacchino. In vita sua fino allora non aveva mai saputo che cosa fosse la felicità. Tutt’al più conosceva stati molto rari di ottusa contentezza. Ma ora tremava di felicità, la sua beatitudine era tale che non riusciva a dormire. Gli sembrava di essere nato per la seconda volta, no, non per la seconda, per la prima volta, poiché finora aveva vissuto un’esistenza puramente animale, con una conoscenza estremamente nebulosa del suo sé. Ma con oggi gli sembrava di sapere finalmente chi era in realtà, e cioé null’altro che un genio; e che la sua vita avesse senso e scopo e fine e un destino più alto, vale a dire niente di meno che rivoluzionare il mondo degli odori; e che lui solo al mondo avesse i mezzi per farlo, e cioé il suo raffinatissimo naso, la sua prodigiosa memoria e, cosa più importante di tutte, l’odore-modello di questa fanciulla di Rue des Marais, nel quale, come in una formula magica, era contenuto tutto ciò che costituiva un grande aroma, un profumo: delicatezza, vigore, durata, varietà e una spaventosa, irresistibile bellezza. Aveva trovato la bussola per dirigere la sua vita futura. E come tutti i mostri geniali, ai quali un evento esterno lascia un solco dritto nel caos a spirale delle loro anime, Grenouille non si discostò più da ciò che credeva di aver individuato come direzione del suo destino. Adesso gli era chiaro il motivo per cui era attaccato così tenacemente e rabbiosamente alla vita: doveva essere un creatore di profumi. E non uno qualsiasi, bensì il più grande profumiere di tutti i tempi.
Quella stessa notte, prima da sveglio e poi in sogno, passò in rassegna l’immenso campo di rovine dei suoi ricordi. Analizzò i milioni e milioni di elementi costruttivi aromatici e diede loro una classificazione sistematica: buono con buono, cattivo con cattivo, raffinato con raffinato, rozzo con rozzo, puzzo con puzzo, ambrosio con ambrosio. Nel corso della settimana successiva questa classificazione divenne sempre più minuziosa, il catalogo degli aromi sempre più ricco e più differenziato, la gerarchia sempre più chiara. E ben presto poté cominciare a erigere le prime metodiche costruzioni olfattive: case, muri, gradini, torri, cantine, camere, stanze segrete… una cittadella interna fatta delle più deliziose composizioni di aromi, che si ampliava di giorno in giorno, che si abbelliva di giorno in giorno, costruita alla perfezione.
Che l’inizio di questa magnificenza fosse stato segnato da un delitto gli era del tutto indifferente, se mai ne era conscio. Già non riusciva più a ricordare l’immagine della fanciulla di Rue des Marais, il suo viso, il suo corpo. Ma di lei aveva serbato la parte migliore e l’aveva fatta propria: il principio del suo profumo.
A quel tempo a Parigi c’erano almeno una dozzina di profumieri. Sei di loro vivevano sulla riva destra, sei sulla riva sinistra e uno proprio nel mezzo, e cioé sul Pont au Change, che collegava la riva destra con l’Ile de la Cité. Su questo ponte avevano costruito da entrambi i lati case a quattro piani, così fitte che attraversandolo non si riusciva a vedere il fiume in nessun punto, e si aveva invece l’impressione di trovarsi in una strada del tutto normale, con solide fondamenta e per di più estremamente elegante. In effetti il Pont au Change era considerato un centro commerciale tra i più raffinati della città. Qui si trovavano i negozi più rinomati, qui c’erano gli orafi, gli ebanisti, i migliori produttori di parrucche e di borse, i fabbricanti di biancheria intima e delle calze più fini, corniciai, venditori di stivali da cavallerizzo, ricamatori di spalline, fonditori di bottoni d’oro e banchieri. E qui c’erano anche il negozio e l’abitazione del profumiere e guantaio Giuseppe Baldini. Sopra la sua vetrina si stendeva un lussuoso baldacchino laccato di verde, e lì accanto era appeso lo stemma di Baldini, tutto in oro, un flacone d’oro dal quale usciva un mazzo di fiori d’oro, e davanti alla porta c’era un tappeto rosso, che ugualmente riportava lo stemma di Baldini sotto forma di ricamo in oro. Quando si apriva la porta, risuonava un carillon persiano, e due aironi d’argento cominciavano a sprizzare dai becchi acqua di viole in una coppa dorata, anch’essa con la forma a flacone dello stemma di Baldini.
Poi, dietro al banco in legno di bosso chiaro, c’era Baldini in persona, vecchio e rigido come una colonna, in parrucca incipriata d’argento e giacca blu gallonata d’oro. Una nuvola d’acqua di frangipani, con cui si spruzzava tutte le mattine, lo avvolgeva in modo quasi visibile e spostava la sua figura in una vaga lontananza. Nella sua immobilità sembrava l’inventario di se stesso. Solo quando risuonava il carillon e gli aironi cominciavano a sprizzare — entrambe le cose non avvenivano molto di frequente — d’un tratto la vita si risvegliava in lui, la sua figura si ammorbidiva, diventava piccola e irrequieta e volava fuori, tra ripetuti inchini, da dietro il banco, talmente in fretta che la nuvola d’acqua di frangipani riusciva a malapena a seguirlo, per pregare i clienti di accomodarsi e di assistere all’esibizione dei profumi e dei cosmetici più pregiati.
Baldini ne aveva a migliaia. La sua offerta partiva dalle essences absolues, da olii di fiori, tinture, estratti, secrezioni, balsami, resine e altre droghe in forma secca, fluida o cerosa, passava a diverse pomate, paste, ciprie, saponi, creme, sachets, bandoline, brillantine, creme da barba, gocce antiverruca e finti nei, per finire con acque da bagno, lozioni, sali profumati, aceti da toilette e una serie infinita di profumi veri e propri. Ma Baldini non si accontentava di questi prodotti della cosmesi tradizionale. La sua ambizione consisteva nel radunare nel suo negozio tutto ciò che in genere emanava un profumo o che in qualche modo serviva al profumo. E così, accanto alle pasticche, ai coni e ai nastri d’incenso, si trovavano anche tutte le spezie possibili, dai semi d’anice alla scorza di cannella, sciroppi, liquori e distillati di frutta, vini di Cipro, Malaga e Corinto, miele, caffè, tè, frutta secca e candita, fichi, caramelle, cioccolato, marroni, persino capperi, cetrioli e cipolle in salamoia e tonno marinato. E poi ancora ceralacca odorosa, carta da lettera profumata, inchiostro per lettere d’amore all’olio di rose, cartelle da scrivania di pelle spagnola, portapenne in legno di sandalo bianco, cassettine e cassapanche in legno di cedro, pot-pourri e coppe per petali di fiori, incensieri d’ottone, flaconi e vasetti di cristallo con tappi d’ambra molata, guanti profumati, fazzoletti, cuscinetti per aghi da cucito imbottiti di fiori di macis e tappeti impregnati di aroma di muschio, che potevano riempire una stanza di profumo per più di cent’anni.
Naturalmente tutte queste merci non avevano posto nel lussuoso negozio che si affacciava sulla strada (o sul ponte), e così, in mancanza di una cantina, non soltanto il solaio della casa, ma tutto il primo e il secondo piano come pure quasi tutte le stanze del piano terra che davano sul fiume dovevano servire da magazzino. Di conseguenza, in casa Baldini regnava un indescrivibile caos di odori. Tanto era scelta la qualità dei singoli prodotti — Baldini acquistava infatti soltanto merci di primissima qualità — altrettanto intollerabile era la consonanza olfattiva dei medesimi, simile a un’orchestra composta da mille membri, in cui ciascun musicista suoni fortissimo una diversa melodia. Baldini stesso e i suoi impiegati erano divenuti insensibili a questo caos come certi vecchi direttori d’orchestra, i quali appunto sono tutti duri d’orecchio, e anche sua moglie, che abitava al terzo piano e lo difendeva strenuamente da un’ulteriore avanzata delle merci, non percepiva quasi più la moltitudine di odori come un disturbo. Non così avveniva al cliente che entrava per la prima volta nel negozio di Baldini. Il miscuglio di profumi che vi regnava lo colpiva come un pugno in faccia, lo esaltava o lo stordiva a seconda della sua costituzione, e comunque confondeva i suoi sensi al punto che spesso non ricordava neppure più la ragione per cui era entrato. I fattorini dimenticavano le ordinazioni. Signori dall’aspetto imponente si sentivano poco bene. E più di una signora era colta da un attacco a metà di isteria e a metà di claustrofobia, perdeva i sensi e tornava in sé soltanto con un potentissimo sale aromatico di olio di garofano, ammoniaca e alcool canforato.
In simili circostanze non c’era proprio da meravigliarsi che il carillon persiano davanti alla porta del negozio di Baldini risuonasse sempre più di rado e che sempre più di rado gli aironi d’argento sprizzassero acqua di viole.
«Chénier!» gridò Baldini da dietro il banco, dove era rimasto seduto per ore rigido come una colonna fissando la porta, «si metta la parrucca!» E tra barili d’olio d’oliva e prosciutti di Bayonne pendenti dal soffitto comparve Chénier, il garzone di Baldini, un po’ più giovane di quest’ultimo ma anche lui già anziano, e avanzò verso il reparto più elegante del negozio. Tolse la parrucca dalla tasca della giacca e se la calcò in testa. «Esce, signor Baldini?»
«No», disse Baldini, «mi ritiro per qualche ora nel mio studio e desidero non essere disturbato per nessun motivo.»
«Ah, capisco! Sta per creare un nuovo profumo.»
BALDINI È così. Servirà a profumare una pelle spagnola per il conte Verhamont. Vuole qualcosa di totalmente nuovo. Qualcosa come… come… credo si chiamasse «Amore e psiche» quello che voleva, e sembra che provenga da quel… quel guastamestieri di Rue Saint-André des Àrts, quel… quel…
CHÉNIER Pélissier.
BALDINI Già. Pélissier. Giusto. Così si chiama il guastamestieri. «Amore e psiche» di Pélissier. Lo conosce?
CHÉNIER Ma sì. Certo. Adesso lo si sente dappertutto. Lo si sente a ogni angolo di strada. Ma se vuole il mio parere: niente di speciale! Non si può comunque paragonare a quello che comporrà lei, signor Baldini.
BALDINI Naturalmente no.
CHÉNIER È un profumo estremamente comune, questo «Amore e psiche».
BALDINI Volgare?
CHÉNIER Proprio volgare. Come tutto quello che fa Pélissier. Credo che contenga olio di limoncello.
BALDINI Davvero? E che altro?
CHÉNIER Essenza di fiori d’arancio, forse. E forse tintura di rosmarino. Ma non posso dirlo con certezza.
BALDINI Mi è anche del tutto indifferente.
CHÉNIER Naturalmente.
BALDINI Me ne infischio di quello che ha diluito nel suo profumo quel guastamestieri di Pélissier. E neppure me ne lascerò ispirare!
CHÉNIER In questo ha ragione, Monsieur.
BALDINI Come sa, non mi lascio mai ispirare. Come sa, elaboro io stesso i miei profumi.
CHÉNIER Lo so, Monsieur.
BALDINI Li produco soltanto da me!
CHÉNIER Lo so.
BALDINI E sto meditando di creare qualcosa per il conte Verhamont che faccia davvero furore.
CHÉNIER Di questo sono convinto, signor Baldini.
BALDINI Si occupi del negozio. Ho bisogno di quiete. Tenga tutti alla larga da me, Chénier…
E con ciò si allontanò strascicando i piedi, non più statuario, bensì, come si conveniva alla sua età, curvo, quasi come se l’avessero picchiato, e salì lentamente la scala fino al primo piano, dove si trovava il suo studio.
Chérnier prese posto dietro il banco, assunse esattamente la stessa posizione del suo padrone in precedenza, e si mise a fissare la porta. Sapeva che cosa sarebbe successo nelle prossime ore: in negozio assolutamente niente, e su nello studio di Baldini la solita catastrofe. Baldini si sarebbe tolto la giacca blu, impregnata d’acqua di frangipani, si sarebbe seduto allo scrittoio e avrebbe atteso un’ispirazione. Quest’ispirazione non sarebbe venuta. Si sarebbe diretto rapidamente verso l’armadio che conteneva centinaia di bottigliette di campioni e avrebbe miscelato qualcosa a casaccio. La miscela non sarebbe riuscita. Lui avrebbe imprecato, avrebbe aperto la finestra e gettato la miscela giù nel fiume. Ne avrebbe provata un’altra, anche quella non sarebbe riuscita, avrebbe gridato e si sarebbe infuriato, e in quella stanza che già emanava un odore stordente avrebbe avuto una crisi di pianto. Verso le sette di sera sarebbe sceso in uno stato pietoso, tremante e piangente, e avrebbe detto: «Chénier, non ho più naso, non riesco a creare il profumo, non posso consegnare la pelle spagnola per il conte, sono perduto, sono morto dentro, voglio morire, la prego, Chénier, mi aiuti a morire!» E Chénier avrebbe proposto di mandare a prendere da Pélisser una boccetta di «Amore e psiche», e Baldini avrebbe acconsentito a condizione che nessuno venisse a sapere di questa vergogna. Chénier avrebbe giurato, e la notte in segreto avrebbero trattato la pelle per il conte Verhamont con il profumo altrui. Così sarebbe andata e non altrimenti, e Chénier desiderava soltanto che tutta quella commedia fosse già finita. Baldini non era più un grande profumiere. Sì, un tempo, da giovane, trenta, quarant’anni prima, aveva creato «Rosa del sud» e «Bouquet galante di Baldini», due profumi veramente riusciti, ai quali doveva il suo patrimonio. Ma adesso era vecchio e logoro, non conosceva più le mode del tempo e i nuovi gusti della gente, e quando comunque riusciva a raffazzonare un profumo suo, era roba completamente fuori moda e invendibile, che l’anno dopo diluivano dieci volte tanto e smerciavano come additivo per l’acqua delle fontane a zampillo. Peccato per lui, pensò Chénier, esaminando nello specchio la posizione della propria parrucca, peccato per il vecchio Baldini, peccato per il suo bel negozio, perché lo manderà in rovina; e peccato per me, perché quando l’avrà rovinato io sarò troppo vecchio per rilevarlo…
In effetti Baldini si era tolto la giacca profumata, ma soltanto per una vecchia consuetudine. Già da tempo non lo disturbava più sentire l’aroma dell’acqua di frangipani, già da decenni se lo portava in giro e non lo avvertiva nemmeno più. Aveva anche chiuso a chiave la porta dello studio e aveva preteso di essere lasciato in pace, ma non si era seduto allo scrittoio per meditare e attendere un’ispirazione, poiché sapeva molto meglio di Chénier che non avrebbe avuto ispirazione alcuna; in verità non ne aveva mai avute. Era, sì, vecchio e logoro, questo era vero, e non era più un grande profumiere; ma sapeva di non esserlo mai stato in vita sua. «Rosa del sud» l’aveva ereditato da suo padre e la ricetta del «Bouquet galante di Baldini» l’aveva acquistata da un droghiere genovese di passaggio. Gli altri suoi profumi erano miscele arcinote. Non aveva mai inventato niente. Non era un inventore. Era un fabbricante coscienzioso di aromi sperimentati, era come un cuoco, che con la pratica e con buone ricette fa una grande cucina, e tuttavia non ha mai inventato un piatto suo. Tutte quelle buffonate del laboratorio, dello sperimentare e dell’ispirazione e del fare in segreto le recitava soltanto perché questo faceva parte dell’immagine professionale di un maître parfumeur e gantier. Un profumiere era un mezzo alchimista che faceva miracoli, questo voleva la gente… e va bene! Che la sua arte fosse un mestiere come qualsiasi altro lo sapeva lui solo, e questo era il suo motivo d’orgoglio. Non voleva affatto essere un inventore. L’invenzione gli era molto sospetta, poiché significava sempre l’infrazione di una regola. Non si sognava neanche d’inventare un nuovo profumo per il conte Verhamont. Né certo la sera si sarebbe lasciato convincere da Chénier a procurarsi «Amore e psiche» da Pélissier. L’aveva già. Eccolo lì: sullo scrittoio davanti alla finestra, in un flaconcino di vetro con il tappo smerigliato. L’aveva acquistato già da qualche giorno. Naturalmente non di persona. Non poteva certo andare di persona da Pélissier e acquistare un profumo! Ma tramite un mediatore, il quale a sua volta tramite un mediatore… Bisognava essere prudenti. Infatti Baldini non voleva usare il profumo soltanto per la pelle spagnola, per quella non sarebbe neppure bastata la scarsa quantità. Aveva in mente qualcosa di peggio: voleva copiarlo.
Del resto non era una cosa proibita. Era soltanto oltremodo sconveniente. Imitare in segreto il profumo di un concorrente e venderlo sotto il proprio nome era sconveniente fuor di misura. Ma ancor più sconveniente era lasciarsi cogliere in fallo, e per questo Chénier non doveva saperne nulla, perché Chénier era ciarliero.
Ah, che brutto che un uomo dabbene si vedesse costretto a prendere vie così traverse! Che brutto dover insudiciare la cosa più preziosa che si possedeva, il proprio onore, in modo così meschino! Ma che cosa poteva fare? Il conte Verhamont era pur sempre un cliente che lui non poteva assolutamente permettersi di perdere. Già non aveva quasi più clienti. Anzi, doveva di nuovo rincorrere la clientela come nei primi anni venti, quando era all’inizio della sua carriera e girava per le strade con la cassetta appesa al collo. Dio sa che lui, Giuseppe Baldini, titolare del più grande negozio di sostanze aromatiche di Parigi, in ottima posizione, finanziariamente se la sarebbe cavata ancora, a girare di casa in casa con la valigetta in mano. Ma ciò non gli piaceva affatto, poiché da un bel pezzo aveva superato i sessanta e odiava aspettare in anticamere fredde ed esibire a vecchie marchese acqua di millefiori o aceto dei quattro ladri, oppure propinar loro un unguento per l’emicrania. Inoltre in quelle anticamere c’era una concorrenza assolutamente disgustosa. Ad esempio c’era quell’arrivista, Brouet di Rue Dauphine, che pretendeva di avere la più grande serie di pomate d’Europa; oppure Calteau di Rue Mauconseil, che era riuscito a diventare il fornitore di corte della contessa d’Artois; o questo Antoine Pélissier, di Rue Saint-André des Arts, del tutto imprevedibile, che a ogni saison lanciava un nuovo profumo di cui tutti andavano matti.
Un simile profumo di Pélissier poteva gettare tutto il mercato nel caos. Se un anno era di moda la lozione ungherese — e di conseguenza Baldini si era rifornito di lavanda, bergamotto e rosmarino, per soddisfare la richiesta — ecco che Pélissier veniva fuori con «Air de Musc», un profumo al muschio ultrapesante. D’un tratto ognuno doveva per forza emanare un odore estremamente intenso, e Baldini poteva utilizzare il suo rosmarino come lozione per capelli e la lavanda per imbottire sacchettini profumati. Se invece l’anno seguente Baldini aveva ordinato quantità adeguate di muschio, zibetto e castoreo, a Pélissier veniva in mente di creare un profumo chiamato «Fior di bosco», che subito diventava un successo. E alla fine, quando Baldini, dopo notti di ricerca o dopo aver offerto notevoli somme di denaro, riusciva a scoprire la composizione del «Fior di bosco», ecco che Pélissier veniva fuori di nuovo con profumi di successo come «Notti turche» o «Fragranza di Lisbona» oppure «Bouquet de la Cour» o sa il diavolo che altro ancora. In ogni caso quest’uomo, nella sua sfrenata creatività, era un pericolo per tutta la professione. Ci si augurava un ritorno alla rigidità del vecchio diritto delle corporazioni. Ci si augurava che venissero prese misure draconiane contro questo individuo che faceva di testa propria, questo inflazionatore di profumi. Bisognava togliergli la licenza, ingiungergli un solenne divieto di esercitare il mestiere… e comunque quel tipo avrebbe dovuto una buona volta fare un periodo di tirocinio! Questo Pélissier infatti non era certo un maestro profumiere e guantaio qualificato. Suo padre non era stato nient’altro che un fabbricante d’aceto, e fabbricante d’aceto era anche Pélissier, niente di più. E solo perché, quale fabbricante d’aceto, era autorizzato a maneggiare alcolici, si permetteva di fare irruzione nella categoria dei profumieri veri e propri e là di imperversare come una puzzola. Che bisogno c’era di un profumo nuovo a ogni saison? Era proprio necessario? Il pubblico era stato soddisfattissimo anche prima con acqua di viole e con semplici bouquet di fiori, che forse si potevano variare in minima parte ogni dieci anni. Per millenni gli uomini si erano accontentati di incenso e mirra, di pochi balsami, di olii e di erbe aromatiche fatte seccare. E anche quando avevano imparato a distillare con l’ampolla e l’alambicco, e a estrarre per mezzo del vapore il principio odoroso dalle erbe, dai fiori e dai vari legni sotto forma di olio essenziale, a torchiarlo con presse di legno di quercia dai semi, dai chicchi e dalle bucce di frutta, o a carpirlo ai petali dei fiori con grassi accuratamente filtrati, il numero di profumi era stato ancora moderato. Allora una figura come Pélissier sarebbe stata del tutto impensabile, perché allora già soltanto per fabbricare una semplice pomata occorrevano capacità che questo sofisticatore d’aceto non si sarebbe mai sognato d’avere. Non soltanto bisognava saper distillare, bisognava anche saper fare pomate ed essere a un tempo farmacista, alchimista e artigiano, mercante, umanista e giardiniere. Bisognava saper distinguere il grasso di reni di montone dal sego di bovino giovane e una violetta Vittoria da un’analoga violetta di Parma. Bisognava padroneggiare il latino. Bisognava sapere quando si deve raccogliere l’eliotropio e quando fiorisce il pelargonio e che il fiore del gelsomino al levar del sole perde il suo profumo. Ovviamente questo Pélissier non aveva la più pallida idea di cose simili. Probabilmente non aveva mai lasciato Parigi, in vita sua non aveva mai visto un gelsomino in fiore. Per non dire poi che possedeva soltanto un’ombra di quell’enorme, furfantesca abilità necessaria per strizzar fuori da centinaia di migliaia di gelsomini un piccolo grumo di concrète o un paio di gocce di essence absolue. Probabilmente conosceva soltanto questi, conosceva il gelsomino soltanto come liquido concentrato marrone scuro contenuto in una boccetta, che si trovava nella cassaforte accanto a molte altre boccette da cui lui attingeva per creare i suoi profumi alla moda. No, una figura come quel bellimbusto di Pélissier non si sarebbe retta in piedi nel buon tempo antico, quando le cose si facevano a regola d’arte. Per questo gli mancava tutto: carattere, formazione, modestia e il senso di subordinazione corporativa. I suoi successi nel campo dei profumi erano dovuti unicamente e soltanto a una scoperta, che il geniale Muzio Frangipane — un italiano, del resto! — aveva fatto già duecento anni prima e che consisteva in questo: le sostanze aromatiche sono solubili in alcool etilico. Frangipane, mescolando le sue polverine odorose con l’alcool e trasfondendo in tal modo il loro aroma in un liquido volatile, aveva liberato l’aroma dalla materia, aveva spiritualizzato l’aroma, aveva scoperto l’aroma come aroma puro, in breve: aveva creato il profumo. Che grande opera! Che impresa sensazionale! Davvero paragonabile soltanto alle conquiste più importanti dell’umanità, come l’invenzione della scrittura da parte degli Assiri, la geometria euclidea, le idee di Piatone e la trasformazione dell’uva in vino da parte dei Greci. Un’impresa proprio da Prometeo!
E tuttavia, come tutte le grandi imprese dello spirito danno non soltanto luce, ma anche ombra, e procurano all’umanità, oltre che bene, anche miserie e sciagure, purtroppo anche la meravigliosa scoperta di Frangipane ebbe nefaste conseguenze: poiché ora, dopo aver imparato a fissare in tinture l’essenza dei fiori e delle erbe, dei legni, delle resine e delle secrezioni animali e a travasarle in boccette, l’arte del comporre profumi era pian piano sfuggita ai pochi universalmente esperti del mestiere e rimaneva aperta ai ciarlatani, anche se erano dotati soltanto di un naso discretamente fine, come ad esempio quella puzzola di Pélissier. Senza curarsi di come avesse avuto origine il contenuto prodigioso delle sue boccette, lui poteva limitarsi a seguire i suoi ghiribizzi olfattivi e miscelare quel che gli veniva in mente al momento o che il pubblico al momento desiderava.
Certo che quel bastardo di Pélissier a trentacinque anni possedeva già un patrimonio superiore a quello che lui, Baldini, era riuscito infine ad accumulare nella terza età con duro e tenace lavoro. E quello di Pélissier aumentava di giorno in giorno, mentre quello di Baldini di giorno in giorno diminuiva. Nei tempi passati non sarebbe mai avvenuta una cosa del genere! Che un artigiano rispettabile e un commerçant arrivato dovesse lottare per la pura sopravvivenza, era cosa che datava soltanto da pochi decenni! E cioé da quando ovunque e in tutti i campi era scoppiata questa febbrile mania di rinnovamento, questo sfrenato impulso all’attivismo, questa furia di sperimentazione, questa megalomania nel commercio, nel traffico e nelle scienze!
Oppure la follia della velocità! A che scopo avere tutte quelle strade nuove che stavano costruendo ovunque, e i nuovi ponti? A che scopo? Che vantaggio c’era nel poter andare fino a Lione in una settimana? A chi poteva importare? O recarsi oltre Atlantico, in un mese raggiungere l’America a gran velocità… come se per millenni non si fosse sopravvissuti egregiamente senza questo continente. Che cosa aveva perso l’uomo civilizzato nella foresta vergine degli indiani o presso i negri? Andavano persino in Lapponia, su al nord, tra i ghiacci eterni, dove vivevano selvaggi che divoravano i pesci crudi. E volevano scoprire ancora un altro continente, che dicevano si trovasse nei mari del sud, dovunque fosse. E a che scopo questa follia? Perché anche gli altri si comportavano così, gli spagnoli, i maledetti inglesi, quegli impertinenti degli olandesi, con cui poi si era costretti ad azzuffarsi, cosa che non ci si poteva proprio permettere. Trecentomila lire costa una nave da guerra, bene, e in cinque minuti, con un solo colpo di cannone, è affondata, addio per sempre, pagata con le nostre tasche. La decima parte su tutte le entrate pretende ultimamente il signor ministro delle Finanze, e questo è rovinoso, anche quando non si paga questa quota, perché già solo l’atteggiamento mentale nel suo insieme è dannoso.
La sventura dell’uomo ha origine dal fatto che non vuole starsene quieto nella sua stanza, nel luogo che gli compete. Dice Pascal. Ma Pascal era stato un grand’uomo, un Frangipane dello spirito, un lavoratore di quelli giusti, e oggi uno così non è più consultato. Oggi leggono libri sediziosi di ugonotti o di inglesi. Oppure scrivono trattati o cosiddette grandi opere scientifiche, in cui mettono in dubbio tutto e tutti. Non c’è più niente che debba andar bene, ora d’un tratto deve cambiar tutto. Adesso in un bicchier d’acqua pare ci siano bestioline piccolissime, che prima non si vedevano; la sifilide sembra essere una malattia del tutto normale e non più una punizione del Signore; si dice che Dio abbia creato il mondo non più in sette giorni, bensì in milioni di anni, sempre che sia stato lui; i selvaggi sono esseri umani come noi; i nostri figli li educhiamo in modo sbagliato; e la terra non è più rotonda come è sempre stata, bensì appiattita sopra e sotto al pari di un melone… come se questo fosse importante! In ogni campo si chiede, si fruga, si indaga, si spia e si fanno esperimenti d’ogni genere. Non basta più dire di una cosa che cos’è e com’è… ora tutto dev’essere dimostrato, possibilmente con testimoni e con cifre e con certe prove ridicole. Questi Diderot e d’Alembert e Voltaire e Rousseau o comunque si chiamino tutti gli imbrattacarte — tra loro ci sono persino religiosi e signori della nobiltà! — sono proprio riusciti a contagiare tutta la società con la loro perfida inquietudine, con il loro puro e semplice desiderio di essere scontenti e di non essere soddisfatti di nulla al mondo, in breve con l’enorme caos che regna nelle loro teste!
Dovunque si guardasse, c’era un’agitazione febbrile. La gente leggeva libri, persino le donne. I preti stavano seduti al caffè. E se per caso la polizia faceva irruzione e ficcava in prigione uno di questi furfantoni, subito gli editori cominciavano a sbraitare e inoltravano petizioni, e i signori e le signore più importanti facevano valere la loro influenza finché, dopo un paio di settimane, o lo rimettevano in libertà o lo facevano trasferire all’estero, dove poi quello continuava a pontificare senza ritegno. Nei salotti ormai si discuteva soltanto di orbite cometarie e di spedizioni, della forza sviluppata da una leva e di Newton, di canalizzazione, di circolazione sanguigna e del diametro del globo terrestre.
E persino il re permetteva che gli esibissero un’assurdità che andava di moda, una specie di temporale artificiale chiamato elettricità: al cospetto di tutta la corte un uomo strofinava una bottiglia e si creavano scintille, e Sua Maestà, dicono, appariva profondamente impressionato. Impensabile che il suo bisnonno, quel Luigi davvero grande, sotto il cui regno felice Baldini aveva ancora avuto la fortuna di vivere per anni, avrebbe tollerato d’assistere a una dimostrazione così ridicola! Ma tale era lo spirito dei tempi nuovi, e non lasciava presagire niente di buono!
Perché se già si poteva mettere in dubbio liberamente e nel più sfacciato dei modi l’autorità della chiesa di Dio; se si parlava della monarchia, non meno voluta da Dio, e della sacra persona del re, come se entrambe fossero soltanto le posizioni variabili di un intero catalogo di altre forme di governo che si potevano scegliere a proprio gusto; se infine si arrivava al punto, come in effetti avveniva, di considerare non indispensabile Dio stesso, l’Onnipotente, Lui in persona, e di affermare in tutta serietà che esistevano ordine, etica e felicità in terra indipendentemente da Lui, soltanto per moralità innata e per ragionevolezza degli uomini stessi… o Dio, o Dio!… allora certo non c’era da meravigliarsi se tutto andava a catafascio e i costumi si corrompevano e l’umanità attirava su di sé il castigo di Colui che sconfessava. Sarebbe finita male. La grande cometa del 1681, di cui si sono presi gioco, che hanno definito nient’altro che una massa di stelle, era pur stata un segnale d’ammonimento da parte di Dio, poiché aveva annunciato — ora lo si sapeva per certo — un secolo di disfacimento, di dissoluzione, di palude spirituale e politica e religiosa, che l’umanità stessa si era creata, nella quale essa stessa un giorno sarebbe sprofondata e nella quale sarebbero prosperati soltanto fiori palustri ambigui e puzzolenti come quel Pélissier!
Stava alla finestra, Baldini, il vecchio uomo, e guardava con occhi astiosi il sole che declinava sul fiume. Chiatte apparivano sotto di lui e scivolavano lente verso ovest, in direzione del Pont Neuf e del porto, passando davanti alle gallerie del Louvre. Qui non c’erano chiatte sospinte con pertiche controcorrente: quelle che dovevano risalire il fiume imboccavano il braccio d’acqua sull’altro lato dell’isola. Qui tutto scorreva via, le navi vuote e le navi cariche, le barche a remi e quelle piatte dei pescatori, l’acqua scura e sporca e quella increspata d’oro, ogni cosa scorreva, lenta, piana e inarrestabile. E quando Baldini guardava giù, proprio fino in fondo, lungo la parete della casa, sembrava che la corrente risucchiasse via anche le fondamenta del ponte su cui si trovava, e gli venivano le vertigini.
Era stato un errore comprare la casa sul ponte, e un doppio errore comprarne una situata sul lato ovest. Ora aveva sempre dinanzi agli occhi il fiume che scorreva, e gli sembrava di scorrere via assieme al fiume con la sua casa e la sua ricchezza acquisita in decine d’anni, e si sentiva troppo vecchio e troppo debole per opporsi ancora a quella corrente troppo forte. Talvolta, quando aveva da fare sulla riva sinistra, nel quartiere vicino alla Sorbona o a Saint-Sulpice, non passava attraverso l’isola e il Pont Saint-Michel, ma prendeva la via più lunga attraverso il Pont Neuf, perché su quel ponte non c’erano edifici. E poi si appoggiava al parapetto a est e guardava il fiume controcorrente, per vedere almeno una volta ogni cosa scorrere verso di lui; e per qualche istante godeva nel fantasticare che la direzione della sua vita si fosse invertita, che le sue finanze fossero floride, la famiglia prosperasse, le donne fossero conquistate da lui e che la sua esistenza, anziché defluire, si rinvigorisse sempre più.
Ma poi, se solo sollevava un poco lo sguardo, a poche centinaia di metri di distanza vedeva la sua casa cadente, alta e stretta sul Pont au Change, e vedeva la finestra del suo studio al primo piano e se stesso affacciato a quella finestra, si vedeva guardar giù verso il fiume e osservare l’acqua che scorreva via, come ora. E con questo il bel sogno era svanito, e Baldini, in piedi sul Pont Neuf, si girava, più depresso di prima, depresso come ora, nel momento in cui si staccava dalla finestra, andava verso il suo scrittoio e si metteva a sedere.
Davanti a lui c’era il flacone con il profumo di Pélissier. Il liquido scintillava bruno-dorato alla luce del sole, limpido, senza la minima torbidezza. Aveva un aspetto del tutto innocente, simile a tè chiaro… e tuttavia, oltre a quattro quinti di alcool, conteneva un quinto di una miscela misteriosa, che aveva il potere di mettere in agitazione un’intera città. A sua volta questa miscela poteva essere composta di tre oppure di trenta sostanze diverse, messe insieme in un rapporto molto preciso tra le infinite combinazioni possibili. Era l’anima del profumo — ammesso che si potesse parlare di anima di un profumo di quel gelido affarista che era Pélissier — e ora si trattava soltanto di trovare la sua composizione.
Baldini si soffiò il naso con cura e abbassò un poco la gelosia della finestra, perché la luce diretta del sole era nociva a qualsiasi sostanza aromatica e a qualsiasi soluzione olfattiva più concentrata. Prese dal cassetto dello scrittoio un fazzoletto pulito di pizzo bianco e lo spiegò. Poi aprì il flacone facendo ruotare leggermente il tappo. Durante quest’operazione tenne il capo ben fermo e strinse le pinne nasali, perché per nulla al mondo voleva provare una sensazione olfattiva anzitempo direttamente dalla bottiglietta. Il profumo si doveva annusare in uno spazio libero, aperto, mai concentrato. Sparse alcune gocce sul fazzoletto, l’agitò in aria per far evaporare l’alcool e quindi se lo mise sotto il naso. Con tre brevi, bruschi colpetti risucchiò il profumo come fosse una polvere, lo risoffiò fuori, si fece vento, inspirò ancora una volta in triplice cadenza, e alla fine tirò un respiro molto profondo, che poi emise lentamente e con più pause, quasi lo facesse scivolare su una lunga scala in orizzontale. Quindi gettò il fazzoletto sul tavolo e ricadde sulla poltrona appoggiandosi alla spalliera.
Il profumo era disgustosamente buono. Purtroppo quel miserabile di Pélissier era un esperto. Un maestro, maledizione, anche se non aveva mai studiato il mestiere! Baldini avrebbe voluto inventarlo lui, questo «Amore e psiche». Non era per niente ordinario. Era assolutamente classico, rotondo e armonico. E tuttavia seducentemente nuovo. Era fresco, ma non sconvolgente. Aveva un aroma di fiori senza essere sdolcinato. Aveva una sua profondità, una profondità stupefacente, perenne, voluttuosa, bruno-scura… e tuttavia non era per nulla sovraccarico o opprimente.
Baldini si alzò quasi con un senso di riverenza e accostò ancora una volta il fazzoletto al naso. «Meraviglioso, meraviglioso…» mormorò annusando avidamente, «ha un’impronta serena, è delicato, è come una melodia, mette subito di buon umore… Assurdo, buon umore!» E gettò con veemenza il fazzoletto sul tavolo, si girò e si diresse nell’angolo più recondito della stanza, come se si vergognasse del proprio entusiasmo.
Ridicolo! Lasciarsi trasportare a simili elogi. «Come una melodia. Sereno. Meraviglioso. Buon umore.» Sciocchezze. Sciocchezze infantili. Impressione del momento. Vecchio errore. Questione di temperamento. Probabilmente la sua parte d’eredità italiana. Non giudicare mentre stai annusando! Questa è la prima regola, Baldini, vecchio imbecille! Annusa, quando stai annusando, e giudica dopo aver annusato! «Amore e psiche» è un profumo non male. Un prodotto ben riuscito. Un raffazzonamento messo insieme con abilità. Per non dire un inganno. Del resto da un uomo come Pélissier non ci si poteva aspettare altro se non un inganno. Naturalmente un tipo come Pélissier non confezionava un profumo dozzinale. Il furfante abbagliava con sublime maestria, confondeva l’olfatto con un’armonia perfetta, un lupo in veste di pecora dell’arte olfattiva classica era quest’uomo, in una parola: uno scellerato dotato di talento. E questo era peggio di un guastamestieri dalla retta fede.
Ma tu, Baldini, non ti lascerai incantare. Soltanto per un attimo sei rimasto sorpreso dalla prima impressione di quel raffazzonamento. Ma chissà poi che odore avrà dopo un’ora, quando le sue sostanze più volatili si saranno dileguate e si manifesterà la sua struttura fondamentale? O che odore avrà stasera, quando si avvertiranno soltanto le sue componenti grevi, oscure, che ora dal punto di vista olfattivo sono come in penombra, avvolte da gradevoli veli di fiori? Aspetta, Baldini!
La seconda regola dice: il profumo vive nel tempo, ha la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia. È soltanto se emana un aroma ugualmente gradevole in tutte e tre queste età della vita, si può definire riuscito. Quante volte è già avvenuto che una miscela fatta da noi alla prima prova avesse un odore fresco e stupendo, dopo qualche tempo sapesse di frutta guasta e infine emanasse soltanto un disgustoso odore di zibetto puro, che abbiamo aggiunto in dose eccessiva? Attenzione soprattutto con lo zibetto! Una goccia di troppo provoca catastrofi. È una vecchia fonte di errori. Chissà… forse Pélissier ci ha messo troppo zibetto. Forse entro stasera del suo ambizioso «Amore e psiche» non resterà che un effluvio di piscio di gatto. Vedremo.
Annuseremo. Come una scure affilata suddivide il ceppo di legno in piccolissimi ciocchi, allo stesso modo il nostro naso sezionerà il suo profumo in ogni singola componente. Allora si vedrà che questo presunto magico aroma è stato creato col solito, ben noto sistema. Noi, Baldini, profumiere, scopriremo gli intrighi di Pélissier, miscelatore di aceto. Gli strapperemo la maschera da quella brutta faccia, e dimostreremo all’innovatore che cosa è in grado di fare il mestiere tradizionale. La sua miscela, il suo profumo alla moda, sarà riprodotta alla perfezione. Rinascerà tra le nostre mani, copiata così perfettamente, che nemmeno quel superficiale riuscirà più a distinguerla dalla propria. No! Non basta ancora! La miglioreremo! Gli indicheremo gli errori e li elimineremo; ce lo faremo battere di naso: sei un guastamestieri, Pélissier! Un puzzoncello! Un ultimo arrivato del mestiere, nient’altro!
Al lavoro ora, Baldini! Sotto col naso e annusa senza sentimentalismi! Scomponi il profumo secondo le regole dell’arte! Entro stasera devi essere in possesso della formula!
E si precipitò di nuovo verso lo scrittoio, prese carta, penna e un fazzoletto pulito, preparò tutto per bene e dette inizio al suo lavoro analitico. Avvenne, così, che fece passare rapidamente sotto il naso il fazzoletto imbevuto di profumo fresco e cercò di cogliere l’una o l’altra componente della nuvola aromatica che aleggiava nell’aria, senza lasciarsi troppo distrarre dalla complessa mescolanza di tutti gli elementi; per poi, tenendo il fazzoletto lontano da sé col braccio teso, annotare rapidamente il nome della componente che aveva scoperto e quindi farsi passare di nuovo il fazzoletto sotto il naso, ghermire il successivo alito di profumo e così via…
Lavorò ininterrottamente per due ore. E i suoi movimenti divennero sempre più febbrili, gli scarabocchi della sua penna sulla carta sempre più nervosi, e sempre maggiori le dosi di profumo che dal flacone spargeva sul fazzoletto, portandoselo poi al naso.
Ormai percepiva a stento qualcosa, da un pezzo era stordito dalle sostanze eteriche che inspirava, non riusciva neppure più a riconoscere quello che all’inizio della sua sperimentazione credeva di aver individuato con certezza. Sapeva che non aveva senso continuare ad annusare. Non sarebbe mai riuscito a scoprire come fosse composto questo profumo alla moda, quel giorno sicuramente non più, ma neppure l’indomani, quando il suo naso, a Dio piacendo, si fosse ristabilito. Non aveva mai imparato questo modo di annusare scomponendo i singoli elementi. Per lui era un lavoro infelice e odioso scindere un profumo, suddividere un tutto, una composizione più o meno buona, nei suoi elementi semplici. Non lo interessava. Non voleva più farlo. Tuttavia la sua mano continuava meccanicamente, con quel movimento aggraziato esercitato mille volte, a impregnare di profumo il fazzoletto, a scuoterlo e a farlo passare rapidamente davanti al viso, e a ogni passata inspirava meccanicamente una dose di aria pregna di profumo, per poi espirarla dopo averla trattenuta un attimo a regola d’arte. Sinché alla fine fu proprio il suo naso a liberarlo dal tormento, perché dall’interno si gonfiò per allergia e si chiuse da sé come se gli fosse stato applicato un tappo di cera. Ora non poteva più annusare, a stento riusciva a respirare. Il suo naso era definitivamente chiuso come per un forte raffreddore, e gli angoli dei suoi occhi si riempivano di piccole lacrime. Grazie a Dio! Ora poteva farla finita, con la coscienza a posto. Aveva fatto il suo dovere, con tutte le sue energie, secondo tutte le regole dell’arte, e aveva fallito, come tante altre volte. Ultra posse nemo obligatur. Fine. L’indomani mattina avrebbe mandato qualcuno da Pélissier a prendere una bottiglia grande di «Amore e psiche» per profumare la pelle spagnola per il conte Verhamont, come gli era stato commissionato. E poi avrebbe preso la sua valigetta contenente saponi fuori moda, sent-bon, pomate e sachets, e avrebbe fatto il solito giro dei salotti delle vecchie duchesse. E un giorno sarebbe morta l’ultima vecchia duchessa e con lei la sua ultima cliente. E allora anche lui sarebbe stato un vecchio e sarebbe stato costretto a vendere la sua casa, a Pélissier o a qualcun altro di questi ambiziosi mercanti, e forse ne avrebbe ancora ricavato qualche migliaio di lire. Avrebbe riempito una o due valigie e sarebbe partito per l’Italia con la sua vecchia moglie, se a quell’epoca fosse stata ancora in vita. E se fosse sopravvissuto al viaggio, si sarebbe comprato una casetta in campagna vicino a Messina, dove i prezzi erano bassi. E là sarebbe morto, Giuseppe Baldini, un tempo il più grande profumiere di Parigi, in povertà estrema, quando fosse piaciuto a Dio. Così dovevano andare le cose.
Tappò il flacone, depose la penna e si passò per l’ultima volta il fazzoletto imbevuto davanti al viso. Avvertì la frescura dell’alcool evaporato, null’altro. Poi il sole calò.
Baldini si alzò. Aprì le imposte e il suo corpo s’immerse fino alle ginocchia nella luce della sera e rosseggiò come una fiaccola incandescente che stia per spegnersi. Vide il bordo rosso-scuro del sole dietro al Louvre e i più tenui bagliori sui tetti d’ardesia della città. Sotto di lui il fiume scintillava come oro, le navi erano scomparse. E probabilmente si stava levando il vento, perché la superficie dell’acqua era battuta dalle raffiche che parevano incresparla di squame, e qua e là e sempre più vicino c’era un luccichio, come se un’enorme mano stesse spargendo sull’acqua milioni di luigi d’oro, e per un attimo sembrò che la corrente del fiume avesse cambiato direzione: scorreva verso Baldini, una fiumana scintillante d’oro puro.
Gli occhi di Baldini erano umidi e tristi. Per un attimo restò immobile e osservò lo splendido spettacolo. Poi, d’un tratto, spalancò la finestra, aprì le imposte e gettò fuori il flacone con il profumo di Pélissier, facendogli descrivere un ampio arco nell’aria. Lo vide piombare in acqua e lacerare per un attimo il tappeto scintillante.
Aria fresca affluì nella stanza. Baldini tirò il fiato e s’accorse che il suo naso si stava liberando. Poi richiuse la finestra. Quasi nello stesso momento calò la notte, tutt’a un tratto. L’immagine della città e del fiume scintillanti d’oro si fossilizzò in un profilo grigio-cenere. Di colpo nella stanza si era fatto buio. Baldini continuò a stare nella stessa posizione di prima e a guardare fisso oltre la finestra. «Non manderò nessuno domani da Pélissier», disse, e con entrambe le mani strinse forte la spalliera della sedia. «Non lo farò. Non farò neppure il mio giro per i salotti. Domani andrò invece dal notaio e venderò la mia casa e il mio negozio. Questo farò. E basta!»
Aveva assunto un’espressione caparbia da ragazzo, e a un tratto si sentì molto felice. Era di nuovo il Baldini di un tempo, giovane, coraggioso, e deciso come sempre a tener testa al destino… anche se tener testa in questo caso significava soltanto ritirarsi. E quand’anche! Non restava comunque altro da fare. Lo stupido tempo non lasciava altra scelta. Dio ci dà tempi buoni e cattivi, ma non vuole che in tempi cattivi ci lagniamo e ci lamentiamo, bensì che diamo prova di essere forti. E Lui aveva inviato un segnale. L’immagine illusoria della città dorata rosso-sangue era stata un ammonimento: agisci, Baldini, prima che sia troppo tardi! La tua casa è ancora solida, i tuoi magazzini sono ancora pieni, puoi ancora ottenere un buon prezzo per il tuo negozio che va declinando. Le decisioni stanno ancora a te. Invecchiare modestamente a Messina non è stato proprio lo scopo della tua vita… ma è pur sempre più onorevole e più gradito a Dio che non andare in rovina pomposamente a Parigi. Che i Brouet, i Calteau e i Pélissier trionfino tranquillamente. Giuseppe Baldini sgombra il campo. Ma lo fa di propria volontà e senza piegarsi!
Adesso era proprio fiero di sé. E infinitamente sollevato. Per la prima volta dopo anni non sentiva più sulla schiena il crampo del subalterno, che gli tendeva la nuca e gli aveva inarcato le spalle sempre più devotamente, e stava dritto senza sforzo, libero e leggero, ed era felice. Respirava col naso senza fatica. Percepiva distintamente il profumo di «Amore e psiche» che invadeva la stanza, ma non permetteva più che gli procurasse dolore. Baldini aveva cambiato vita e si sentiva meravigliosamente bene. Ora sarebbe salito da sua moglie e l’avrebbe messa a parte delle sue decisioni, poi si sarebbe recato in pellegrinaggio a Notre-Dame e avrebbe acceso una candela di ringraziamento a Dio per la benevola indicazione e per l’incredibile forza di carattere che Egli aveva concesso a lui, Giuseppe Baldini.
Con uno slancio quasi giovanile si gettò la parrucca sulla testa calva, s’infilò la giacca blu, afferrò il candeliere che stava sul tavolo e lasciò lo studio. Aveva appena acceso la candela con il lume di sego della tromba delle scale per farsi luce salendo alla sua abitazione, quando sentì suonare il campanello giù al piano terra. Non era il gradevole scampanellio persiano della porta del negozio, bensì il campanello tintinnante dell’ingresso di servizio, un rumore disgustoso che l’aveva sempre disturbato. Spesso aveva avuto intenzione di far togliere quell’aggeggio e di sostituirlo con una campanella più gradevole, ma poi gli era sempre dispiaciuto per la spesa e ora — gli venne in mente d’un tratto e rise sommessamente al pensiero — ora non aveva più importanza: avrebbe venduto il campanello importuno assieme alla casa. Che desse pur fastidio al suo successore!
Di nuovo il campanello tintinnò. Baldini tese l’orecchio verso il basso. Evidentemente Chénier aveva già lasciato il negozio. Anche la domestica non accennava a comparire. Quindi scese ad aprire lui stesso.
Tirò indietro il chiavistello, fece ruotare la porta pesante… e non vide nulla. L’oscurità inghiottiva totalmente la luce della candela. Poi, molto gradualmente, riuscì a distinguere una piccola figura, un bambino o un adolescente, che portava qualcosa sotto il braccio.
«Che cosa vuoi?»
«Vengo da parte di Maître Grimal, porto il capretto», disse la figura, e si avvicinò e porse a Baldini il braccio piegato con alcune pelli ammucchiate l’una sull’altra. Nel chiarore Baldini riconobbe il viso di un ragazzo che lo spiava con occhi ansiosi. Aveva un atteggiamento sottomesso. Era come se si nascondesse dietro al proprio braccio proteso, come uno che si aspetti d’essere picchiato. Era Grenouille.
Il capretto per la pelle spagnola! Baldini ricordò. Alcuni giorni prima aveva ordinato le pelli da Grimal, le più fini e morbide pelli lavabili per la cartella da scrittoio del conte Verhamont, quindici franchi al pezzo. Ma in realtà ora non aveva più bisogno di niente, poteva risparmiare il denaro. D’altra parte, se rimandava indietro il ragazzo così… chissà? avrebbe potuto dare un’impressione negativa, forse ci sarebbero stati pettegolezzi, sarebbero nate dicerie: Baldini era diventato inattendibile, Baldini non accettava più incarichi, non era più in grado di pagare… e una cosa simile non andava bene, no, no, perché una cosa simile abbassava il valore di vendita del negozio. Meglio accettare quelle inutili pelli di capra. Nessuno doveva venire a sapere nel momento sbagliato che Giuseppe Baldini aveva cambiato vita.
«Entra!»
Fece entrare il ragazzo e si avviarono verso il negozio, Baldini davanti con il candeliere, Grenouille dietro con le sue pelli. Era la prima volta che Grenouille entrava in una profumeria, un luogo in cui gli odori non erano accessori, ma costituivano in tutto e per tutto il centro dell’interesse. Naturalmente conosceva tutte le profumerie e le drogherie della città, per notti intere era stato a guardare la merce esposta, il naso premuto contro le fessure della porta. Conosceva tutti gli aromi trattati in questo negozio, e dentro di sé aveva immaginato spesso di combinarli in splendidi profumi. Quindi non lo aspettava nulla di nuovo. Ma così come un bambino dotato di talento musicale arde dal desiderio di vedere un’orchestra da vicino, oppure in chiesa di salire una volta fino al matroneo per vedere la tastiera nascosta dell’organo, allo stesso modo Grenouille ardeva dal desiderio di vedere una profumeria all’interno, e quando aveva appreso che si dovevano consegnare le pelli a Baldini, aveva fatto tutto il possibile per poter sbrigare lui questa commissione.
E ora si trovava nel negozio di Baldini, il luogo di Parigi che nello spazio più ristretto raccoglieva il maggior numero di aromi professionali. Non vedeva molto alla luce vacillante della candela, appena l’ombra del banco di vendita con la bilancia, i due aironi sopra la vaschetta, una poltrona per i clienti, gli scaffali scuri alle pareti, il rapido balenare degli utensili d’ottone e le etichette bianche sui recipienti di vetro e sui vasi; e non sentiva neppure più odore di quanto non avesse già sentito dalla strada. Ma avvertì subito la serietà che regnava in questi ambienti, si potrebbe quasi dire la sacra serietà, se la parola «sacro» avesse avuto qualche significato per Grenouille; avvertì la fredda serietà, la concretezza commerciale, l’asciutto senso degli affari che trasparivano da ogni mobile, da ogni utensile, dalle tinozze e dalle bottiglie e dai vasi. E mentre seguiva Baldini — all’ombra di Baldini, poiché Baldini non si curava di fargli luce — fu colto dal pensiero che il suo posto era qui e da nessun’altra parte, che qui sarebbe rimasto e da qui avrebbe scardinato il mondo.
Naturalmente questo pensiero era di una presunzione addirittura grottesca. Non c’era nulla, ma proprio assolutamente nulla che potesse far sperare a uno sconosciuto bracciante di conceria di origine dubbia, senza legami e senza protezione, senza la minima posizione corporativa, di installarsi nel più rinomato negozio di profumi di Parigi; tanto più che, come sappiamo, la cessazione d’attività del negozio era già decisa. Purtuttavia quella che si esprimeva nei pensieri immodesti di Grenouille non era neppure una speranza, bensì una certezza. Avrebbe lasciato questo negozio, ne era sicuro, soltanto per andare a prendere i suoi vestiti da Grimal, e poi non più. La zecca aveva fiutato il sangue. Per anni era stata immobile, incapsulata in sé, e aveva aspettato. Ora si sarebbe lasciata andare, nella buona e nella cattiva sorte, senza alcun rimedio. E per questo la sua certezza era assoluta.
Avevano attraversato il negozio. Baldini aprì la porta del locale posteriore situato verso il fiume, che fungeva in parte da bottega e da laboratorio, dove si facevano bollire i saponi e si rimestavano le pomate e si mescolavano i profumi in bottiglie panciute. «Qui!» disse Baldini, e indicò un grande tavolo davanti alla finestra, «mettile qui!»
Grenouille sbucò fuori dall’ombra di Baldini, depose le pelli sul tavolo, si ritrasse di nuovo rapidamente e si mise tra Baldini e la porta. Baldini rimase fermo ancora per un momento. Spostò appena la candela di fianco, per non far cadere sul tavolo gocce di cera, e fece passare il dorso del dito sulla parte liscia del cuoio. Poi capovolse la prima pelle e fece scorrere il dito sulla parte interna, vellutata, ruvida e morbida a un tempo. Era di una qualità molto buona, quel cuoio. Sembrava fatto apposta per una pelle spagnola. Durante l’asciugatura non si sarebbe deformato, ripassandolo a dovere con l’apposita stecca sarebbe ridiventato flessibile, se ne accorse subito, già soltanto pressandolo tra il pollice e l’indice; poteva assorbire profumo per cinque o dieci anni; la qualità era molto, molto buona: forse ne avrebbe fatto dei guanti, tre paia per sé e tre paia per sua moglie, per il viaggio a Messina.
Ritrasse la mano. Il tavolo da lavoro era commovente a vedersi, con tutti gli oggetti pronti: la bacinella di vetro per il bagno aromatico, la lastra di vetro per asciugare, i mortai per mescolare la tintura, il pestello, la spatola, il pennello, la stecca e le forbici. Era come se gli oggetti stessero dormendo soltanto perché era buio, e l’indomani si dovessero risvegliare. Doveva forse portare il tavolo con sé a Messina? E una parte dei suoi strumenti, soltanto i pezzi più importanti?… Si stava seduti molto comodi e si lavorava bene a quel tavolo. Era fatto di legno di quercia, compreso il piedistallo, ed era controventato di traverso, cosicché non vacillava e non dondolava per niente, quel tavolo, e né gli acidi, né l’olio, né i tagli di coltello riuscivano a rovinarlo: sarebbe costato un patrimonio portarlo a Messina! Anche con la nave! E dunque meglio venderlo, il tavolo, sarà venduto domani, e sarà ugualmente venduto tutto quello che c’è sopra, sotto e accanto! Perché lui, Baldini, aveva sì un cuore sentimentale, ma aveva anche un carattere forte, e per questo avrebbe portato a termine la sua decisione, per quanto gli costasse; con le lacrime agli occhi avrebbe venduto tutto, e nondimeno l’avrebbe fatto, perché sapeva che era giusto, aveva ricevuto un segnale.
Si girò per andarsene. Ed ecco lì, sulla porta, quel piccolo individuo ingobbito, del quale si era già quasi dimenticato. «È buono», disse Baldini. «Riferisci al padrone che il cuoio è buono. Passerò a pagarlo nei prossimi giorni.»
«Va bene», disse Grenouille, e rimase lì sbarrando la strada a Baldini, che si accingeva a lasciare la bottega. Baldini restò un po’ sorpreso, ma non sospettando nulla ritenne che il comportamento del ragazzo fosse dovuto non a sfacciataggine, bensì a timidezza.
«Che cosa c’è?» chiese. «Hai ancora qualcosa da dirmi? Ebbene? Parla!»
Grenouille stava in piedi un po’ curvo e osservava Baldini con quello sguardo che in apparenza tradiva ansietà, ma in realtà aveva origine da una vigile tensione.
«Voglio lavorare da lei, Maître Baldini. Voglio lavorare da lei, nel suo negozio.»
Queste parole furono dette non in tono di preghiera bensì in tono di pretesa, e in realtà non furono proprio dette, bensì cacciate fuori, sibilate alla maniera infida di un serpente. E di nuovo Baldini scambiò l’orgoglio smisurato di Grenouille per goffaggine fanciullesca. Gli sorrise amichevolemente. «Sei un apprendista conciatore, figlio mio», disse. «Io non ho modo di utilizzare un apprendista conciatore. Ho anche un socio, e non ho bisogno di un apprendista.»
«Vuole che queste pelli di capra siano profumate, Maître Baldini? Queste pelli, che le ho portato, vuole che siano profumate?» bisbigliò Grenouille, come se non avesse tenuto affatto conto della risposta di Baldini.
«Infatti», disse Baldini.
«Con ’Amore e psiche’ di Pélissier?» chiese Grenouille, e s’ingobbì ancor di più.
A questo punto un leggero brivido attraversò il corpo di Baldini. Non perché si chiedesse come mai il ragazzo fosse così esperto, ma soltanto per aver sentito nominare quell’odiato profumo, che il giorno stesso non era riuscito a decifrare.
«Come ti può venire l’idea assurda che userei un profumo di altri per…»
«Ce l’ha addosso!» bisbigliò Grenouille. «Lo porta sulla fronte, e nella tasca destra della giacca ha un fazzoletto che ne è imbevuto. Non è buono, questo ’Amore e psiche’, è cattivo, contiene troppo bergamotto e troppo rosmarino e troppo poco olio di rose.»
«Ah, così», disse Baldini, totalmente sorpreso da quella virata del discorso nell’esattezza. «E che altro ancora?»
«Fiori d’arancio, limoncello, garofano, muschio, gelsomino, alcool etilico e qualche cosa di cui non conosco il nome, ecco, guardi! In quella bottiglia!» E indicò col dito nell’oscurità. Baldini spostò il candeliere nella direzione indicata, il suo sguardo seguì l’indice del ragazzo e cadde su una bottiglia nello scaffale, che era piena di un balsamo giallo-grigio.
«Storace?» chiese.
Grenouille annuì. «Sì. È questo che c’è dentro. Storace.» E poi si curvò, come fosse contratto da un crampo, e sussurrò almeno una dozzina di volte la parola «storace» fra sé e sé. «Storacestoracestoracestorace…»
Baldini avvicinò la candela a quel mucchietto umano che gracchiava «storace» e pensò: o è un invasato, o un imbroglione disonesto, o un grande artista. Infatti, che le sostanze citate nella giusta combinazione potessero dare come risultato «Amore e psiche» era senz’altro possibile; era addirittura probabile. Olio di rosa, fiore di garofano e storace: queste erano le tre componenti che il pomeriggio aveva cercato così disperatamente; ad esse si aggiungevano le altre sostanze della composizione — che anche lui credeva di avere individuato — come strati di una bella torta perfetta. Ora si trattava soltanto di trovare la proporzione esatta in cui bisognava combinarle. Per scoprirla lui, Baldini, avrebbe dovuto sperimentare per giorni, un lavoro orribile, quasi peggiore della semplice identificazione delle sostanze, poiché ora si trattava di misurare e di pesare e di annotare e inoltre di prestare un’attenzione diabolica, dato che la minima disattenzione — un tremito della pipetta, un errore nel computo delle gocce — avrebbe potuto rovinare tutto. E ogni tentativo fallito era tremendamente dispendioso. Ogni miscela rovinata costava un piccolo patrimonio… Voleva mettere alla prova quel piccolo essere umano, voleva chiedergli la formula esatta di «Amore e psiche». Se la sapeva, in grammi e gocce esatti, allora era chiaramente un imbroglione, che in qualche modo aveva ottenuto con la frode la ricetta da Pélissier, per procurarsi l’accesso e l’impiego presso Baldini. Ma se l’indovinava all’inarca, allora era un genio nel campo dell’olfatto, e in quanto tale stimolava l’interesse professionale di Baldini. Non che Baldini mettesse in dubbio la decisione presa di cedere il negozio! Non gl’importava del profumo di Pélissier in quanto tale. Anche se il ragazzo gliel’avesse procurato a litri, Baldini neanche per sogno avrebbe pensato di profumare con quello la pelle spagnola per il conte Verhamont, ma… Ma tuttavia uno non era stato profumiere per tutta la vita, non si era occupato per tutta la vita della combinazione degli aromi per poi perdere da un momento all’altro tutto il suo entusiasmo professionale! Ora gli interessava riuscire a strappare la formula di quel maledetto profumo e, più ancora, indagare sul talento di quel ragazzo inquietante che gli aveva letto un profumo sulla fronte. Voleva sapere che cosa c’era dietro. Era semplicemente curioso.
«Sembra che tu abbia un buon naso, giovanotto», disse quando Grenouille smise di gracchiare, e fece un passo indietro nel laboratorio per deporre con prudenza il candeliere sul tavolo da lavoro. «Senza dubbio un buon naso, ma…»
«Ho il miglior naso di Parigi, Maître Baldini», lo interruppe Grenouille con voce stridente. «Conosco tutti gli odori del mondo, tutti quelli che esistono a Parigi, tutti, solo che di alcuni non conosco il nome, ma posso imparare anche i nomi, tutti gli odori che hanno un nome, non sono molti, sono solo qualche migliaio, li imparerò tutti, non dimenticherò mai il nome del balsamo, storace, il balsamo si chiama storace, così si chiama, storace…»
«Taci!» gridò Baldini, «non interrompermi quando parlo! Sei impertinente e presuntuoso. Non c’è nessuno che conosca mille odori per nome. Persino io non ne conosco mille per nome, ma soltanto qualche centinaio, perché nel nostro mestiere ce n’è soltanto qualche centinaio, tutti gli altri non sono odori, ma puzze!»
Grenouille, che durante la sua lunga, erompente intromissione verbale si era quasi disteso in tutto il corpo, per un attimo nell’eccitazione aveva persino allargato le braccia in cerchio, quasi a indicare «tutto, tutto» ciò che conosceva, alla replica di Baldini in un attimo si ritrasse di nuovo in sé come un piccolo rospo nero e rimase fermo sulla soglia, in immobile attesa.
«Naturalmente da tempo mi è chiaro», proseguì Baldini, «che ’Amore e psiche’ è composto di storace, olio di rose e fiori di garofano, come pure di bergamotto e di estratto di rosmarino et cetera. Per scoprirlo occorre, come ho detto, soltanto un naso discretamente fine, e può essere senz’altro che Dio ti abbia concesso un naso discretamente fine, come l’ha concesso anche a molti, molti altri… soprattutto alla tua età. Tuttavia il profumiere», e qui Baldini sollevò l’indice e inarcò il petto in fuori, «il profumiere deve avere qualcosa di più di un naso discretamente fine. Deve avere un organo olfattorio addestrato in decine e decine d’anni, che operi senza lasciarsi corrompere, e che lo ponga in condizione di decifrare anche gli odori più complessi per natura e quantità, come pure di creare miscele aromatiche nuove e sconosciute. Un naso simile», e batté il proprio col dito, «non lo si ha, giovanotto! Un naso simile lo si conquista con perseveranza e con diligenza. Oppure sapresti dirmi di primo acchito la formula esatta di ’Amore e psiche’? Ebbene? La sapresti?»
Grenouille non rispose.
«Sapresti forse dirmela all’incirca?» chiese Baldini, e si chinò un poco in avanti, per vedere meglio quel rospo sulla porta, «soltanto così, a occhio e croce, approssimativamente? Ebbene? Parla, miglior naso di Parigi!»
Ma Grenouille taceva.
«Vedi?» disse Baldini, soddisfatto e deluso a un tempo, e si rialzò di nuovo, «non ne sei capace. Naturalmente no. E come potresti? Tu sei come uno che mangiando si accorge se nella zuppa c’è del cerfoglio o del prezzemolo. Bene… è già qualcosa. Ma sei ancora lontano dall’essere un cuoco per questo. In ogni arte e anche in ogni mestiere — ricordalo, prima di andartene! — il talento non vale nulla, la cosa più importante è l’esperienza, che si conquista con la modestia e con la diligenza.»
Prese il candeliere dal tavolo, quando la voce compressa di Grenouille strepitò dalla porta: «Non so che cosa sia una formula, Maître, questo non lo so, ma per il resto so tutto!»
«Una formula è l’alfa e l’omega di ogni profumo», replicò Baldini, severo, poiché ora voleva metter fine al discorso. «È l’indicazione precisa del rapporto in cui si devono miscelare i singoli ingredienti per creare un profumo desiderato, inconfondibile; questa è la formula. È la ricetta… se capisci meglio questa parola.»
«Formula, formula», gracchiò Grenouille, e la sua figura contro la porta s’ingrandì leggermente, «io non ho bisogno di una formula. Ho la ricetta nel naso. Devo miscelare gli ingredienti per lei, Maître, devo miscelarli, vuole?»
«Come?» gridò Baldini in tono piuttosto alto, e tese la candela dinanzi al viso dello gnomo. «Come, miscelarli?»
Per la prima volta Grenouille non indietreggiò. «Ma sono tutti qui, gli aromi che occorrono, sono tutti qui, in questa stanza», disse e indicò di nuovo nell’oscurità. «Ecco l’olio di rose! Ecco i fiori d’arancio! Ecco i fiori di garofano! Ecco il rosmarino!…»
«Certo che sono qui!» muggì Baldini. «Sono tutti qui! Ma ti ripeto, testa di legno, che non serve a niente, se non si ha la formula!»
«… Ecco il gelsomino! Ecco l’alcool etilico! Ecco il bergamotto! Ecco lo storace!» continuava a gracchiare Grenouille, e a ogni nome indicava un punto nella stanza, dov’era così buio che tutt’al più si poteva individuare l’ombra dello scaffale con le bottiglie.
«Tu vedi bene anche di notte, eh?» lo schernì Baldini. «Tu hai non soltanto il naso più fine, ma anche la vista più acuta di Parigi, no? Se hai anche orecchie discretamente buone, aprile, perché ti dico: sei un piccolo imbroglione. Probabilmente sei riuscito a carpire qualche notizia da Pélissier, hai saputo qualcosa spiando, non è vero? E credi di potermi abbindolare?»
Ora Grenouille si era disteso in tutto il corpo, stava per così dire contro la porta nella sua grandezza naturale, con le gambe leggermente divaricate e le braccia leggermente protese, dimodoché aveva l’aspetto di un ragno nero, aggrappato alla soglia e al riquadro della porta. «Mi dia dieci minuti», disse, parlando in modo piuttosto sciolto, «e le fabbricherò il profumo ’Amore e psiche’. Ora, subito, e qui in questa stanza. Maître, mi dia cinque minuti!»
«Credi che ti lascerò pasticciare nel mio laboratorio? Con essenze che valgono un patrimonio? Tu?»
«Sì», disse Grenouille.
«Bah!» esclamò Baldini, e buttò fuori tutto il fiato che aveva in una sola volta. Poi trasse un profondo respiro, guardò a lungo il ragnesco Grenouille e rifletté. In fondo è lo stesso, pensò, perché comunque domani sarà finito tutto. So per certo che non può fare quello che afferma di saper fare, non può assolutamente, perché in tal caso sarebbe ancora più grande del grande Frangipane. Ma perché non dovrei lasciare che mi dimostri quello che già so? Altrimenti forse un giorno a Messina — talvolta con l’età si diventa ben strani e ci si impunta sulle idee più assurde — potrebbe venirmi il pensiero di non aver riconosciuto in quanto tale un genio dell’olfatto, una creatura ampiamente beneficata dalla grazia di Dio, un bambino-prodigio… È del tutto escluso. Secondo quello che mi dice la ragione è escluso… ma esistono i miracoli, questo è certo. Ebbene, e se un giorno a Messina dovessi morire, e sul letto di morte mi venisse il pensiero: allora, quella sera a Parigi, hai chiuso gli occhi davanti a un miracolo? … Non sarebbe molto piacevole, Baldini! E anche se questo pazzo sperperasse poche gocce di olio di rose e di tintura di muschio, anche tu le avresti sperperate, se davvero il profumo di Pélissier ti avesse interessato ancora. E che cosa sono poi poche gocce — per quanto costose, molto, molto costose! — paragonate alla certezza del sapere e a una sera tranquilla della tua vita?
«Attento!» disse, con voce a bella posta severa, «attento! Io… come ti chiami, poi?»
«Grenouille», disse Grenouille. «Jean-Baptiste Grenouille.»
«Bene», disse Baldini. «Allora attento, Jean-Baptiste Grenouille! Ho riflettuto. Devi avere l’occasione, ora, subito, di provare quanto affermi. Per te sarà anche l’occasione di imparare, con un clamoroso fallimento, la virtù della modestia, la quale — alla tua giovane età forse ancora poco sviluppata, è scusabile — sarà un presupposto indispensabile per la tua successiva evoluzione come membro della tua corporazione e del tuo ceto, come marito, come suddito, come essere umano e come buon cristiano. Sono pronto a impartirti questa lezione a mie spese, perché per certe ragioni oggi ho voglia di essere generoso, e chissà, forse un giorno il ricordo di questa scena mi darà un po’ di serenità. Ma non credere di potermi abbindolare! Il naso di Giuseppe Baldini è vecchio ma fine, abbastanza fine da stabilire immediatamente anche la minima differenza tra la tua mistura e questo prodotto», e così dicendo tolse dalla tasca il suo fazzoletto imbevuto di «Amore e psiche» e lo agitò sotto il naso di Grenouille. «Avvicinati, miglior naso di Parigi! Avvicinati a questo tavolo e mostra quello che sai fare! Ma attento a non farmi cadere niente e a non gettarmi a terra qualcosa! Non toccarmi niente! Per prima cosa voglio far più luce. Dobbiamo avere una grande illuminazione per questo piccolo esperimento, non è vero?»
E con questo prese altri due candelieri, che si trovavano sul bordo del grande tavolo di quercia, e li accese. Li sistemò tutti e tre l’uno accanto all’altro, sul lato lungo posteriore del tavolo, spostò il cuoio di lato e liberò il centro del piano. Poi, con gesti calmi e veloci, prese gli strumenti che il lavoro richiedeva da un piccolo scaffale: la grossa bottiglia panciuta per le miscele, l’imbuto di vetro, la pipetta, il piccolo e il grande bicchiere graduato, e li depose con ordine davanti a sé sul piano di quercia.
Nel frattempo Grenouille si era staccato dal riquadro della porta. Già durante il pomposo discorso di Baldini aveva perso quel che di rigido, di teso e represso. Aveva sentito soltanto l’assenso, soltanto il sì, con l’intima felicità di un bambino che è riuscito a strappare una concessione e se ne infischia delle limitazioni, delle condizioni e degli ammonimenti morali che vi sono connessi. Mentre stava lì rilassato, per la prima volta più simile a un essere umano che a un animale, a subire il resto della loquacità di Baldini, sapeva di aver già vinto quest’uomo, che ora gli aveva ceduto.
Baldini si stava ancora dando da fare con i suoi candelieri sul tavolo, e già Grenouille era scivolato nella parte buia del laboratorio dove si trovavano gli scaffali con le preziose essenze, gli olii e le tinture e, seguendo il fiuto sicuro del proprio naso, aveva afferrato dalle mensole le bottigliette occorrenti. Erano nove di numero: essenza di fiori d’arancio, olio di limoncello, olio di garofano e olio di rose, estratto di gelsomino, di bergamotto e di rosmarino, tintura di muschio e balsamo di storace, che tolse rapidamente dallo scaffale e sistemò sul bordo del tavolo. Da ultimo tirò giù un pallone contenente alcool etilico ad alta gradazione. Poi si mise dietro a Baldini — che stava sempre sistemando i suoi recipienti per miscelare con misurata pedanteria, spostava un bicchiere un po’ più in là, un altro un po’ più in qua, perché ogni cosa avesse la sua giusta collocazione abituale e il candeliere offrisse le condizioni di luce più favorevoli — e attese, tremante d’impazienza, che il vecchio si allontanasse e gli facesse posto.
«Ecco!» disse Baldini alla fine, e si spostò di lato. «Qui è allineato tutto quello che ti occorre per il tuo… chiamiamolo amichevolmente ’esperimento’. Non rompermi niente, non versarmi niente. Perché ricordati: questi liquidi, che tu ora potrai maneggiare per cinque minuti, sono di una tale preziosità e rarità, che in vita tua non ti capiterà mai più di averli tra le mani in forma così concentrata!»
«Quanto devo fargliene, Maître?» chiese Grenouille.
«Fare cosa?» disse Baldini, che non aveva ancora finito il suo discorso.
«Quanto profumo?» gracchiò Grenouille. «Quanto ne vuole avere? Devo riempire questa grossa bottiglia fino all’orlo?» E indicò una bottiglia per miscele, che aveva una capienza di tre litri buoni.
«No, non devi!» gridò Baldini con orrore, e da lui gridava la paura, profondamente radicata e spontanea a un tempo, dello spreco delle sue sostanze. E subito dopo, come se si vergognasse di quel grido rivelatore, urlò: «E neppure devi interrompermi quando parlo!» per poi proseguire in tono più tranquillo, con la solita sfumatura ironica: «A che ci servono tre litri di un profumo che nessuno di noi due apprezza? In fondo basterebbe un mezzo misurino. Ma poiché quantità così piccole sono difficili da miscelare, ti permetterò di cominciare a riempire un terzo della bottiglia.»
«Bene», disse Grenouille. «Riempirò un terzo di questa bottiglia con ’Amore e psiche’. Ma, Maître Baldini, lo faccio a modo mio. Non so se sia il modo regolamentare, perché quello non lo conosco, ma lo faccio a modo mio.»
«Prego!» disse Baldini, il quale sapeva che in questo lavoro non esisteva il mio o il tuo, ma solo un modo, un unico modo possibile e giusto, che consisteva, conoscendo la formula e tenendo conto della relativa trasformazione nella quantità finale da ottenere, nel produrre un concentrato delle diverse essenze dosato con estrema esattezza, il quale poi si sarebbe spiritualizzato nel profumo finale con l’alcool, di nuovo in una proporzione esatta, oscillante per lo più tra uno a dieci e uno a venti. Un altro modo, lo sapeva, non c’era. E per questo dovette sembrargli quasi un miracolo quello che poi vide e che osservò dapprima con beffardo distacco, poi con perplessità e infine soltanto con inerme stupore. E la scena, si incise a tal punto nella sua memoria che non la dimenticò più sino alla fine dei suoi giorni.
Per prima cosa quel piccolo uomo stappò il pallone contenente l’alcool etilico. Fece una certa fatica a sollevare il pesante recipiente. Dovette alzarlo quasi fino al livello della testa, perché tale era l’altezza della bottiglia per le miscele su cui era appoggiato l’imbuto di vetro, nel quale, senza l’aiuto di un misurino, versò l’alcool direttamente dal pallone. Baldini rabbrividì di fronte a un tal cumulo di incapacità: non soltanto perché il ragazzo metteva a soqquadro l’ordine cosmico dei profumi, cominciando dal solvente senza avere ancora il concentrato da diluire… ma perché anche dal punto di vista fisico se la cavava a stento! Grenouille tremava per lo sforzo, e Baldini pensava a ogni istante che il pesante pallone si sarebbe rotto cadendo e avrebbe distrutto tutto quello che c’era sul tavolo. Le candele, pensò, per amor del cielo, le candele! Ci sarà un’esplosione, mi farà bruciare la casa!… E stava già per precipitarsi a strappare il pallone a quel pazzo, quando Grenouille stesso lo depose, lo appoggiò a terra sano e salvo e lo tappò di nuovo. Nella bottiglia per le miscele ondeggiava il liquido, limpido e trasparente: neanche una goccia era andata persa. Per un paio di minuti Grenouille riprese fiato, con un’espressione così contenta come se avesse già sbrigato la parte più pesante del lavoro. E in effetti in seguito procedette a una velocità tale che Baldini a stento riuscì a seguirlo con gli occhi, e meno che mai sarebbe riuscito a individuare un ordine o anche soltanto un qualche sviluppo regolare del procedimento.
Grenouille sceglieva apparentemente a caso tra la serie dei flaconi contenenti le essenze aromatiche, toglieva i tappi di vetro, teneva il contenuto per un attimo sotto il naso, poi versava da uno, faceva cadere una goccia da un altro, rovesciava nell’imbuto uno schizzo da un terzo flaconcino e così via. Pipetta, provetta, misurino, cucchiaino e bastoncino per miscelare — tutti gli strumenti che servono al profumiere per dominare il procedimento complicato della miscelatura — Grenouille non li toccò neppure una volta. Era come se stesse soltanto giocando, come un bambino che gira la paletta e rimesta e fa bollire un disgustoso decotto fatto d’acqua, erba e fango, e poi sostiene che si tratta di una zuppa. Sì, come un bambino, pensò Baldini; d’un tratto sembra proprio un bambino, nonostante le mani rozze, il viso pieno di cicatrici e di segni e il naso bitorzoluto tipico dei vecchi. L’ho creduto più adulto di quanto non sia, e adesso mi sembra più giovane, sembra che abbia tre o quattro anni: uno di quei piccoli ometti in embrione, chiusi, incomprensibili, cocciuti, i quali, presunti innocenti, pensano solo a se stessi, vogliono dominare dispoticamente tutto il mondo, e lo farebbero anche, se solo si lasciasse via libera alla loro megalomania anziché disciplinarli a poco a poco con le più severe misure educative e portarli all’esistenza autocontrollata dell’individuo adulto. Un simile bambino fanatico si nascondeva in quel piccolo uomo, chino sul tavolo con occhi brillanti e dimentico di tutto ciò che gli stava intorno, e palesemente anche del fatto che nel laboratorio c’era altro oltre a lui e alle bottigliette che avvicinava con rapida goffaggine all’imbuto per miscelare il suo folle intruglio, di cui poi con certezza assoluta avrebbe affermato — e credendoci anche! — che si trattava del sublime profumo «Amore e psiche». Baldini rabbrividiva, guardando alla luce vacillante della candela quell’essere umano che trafficava, così terribilmente assurdo e così terribilmente consapevole di sé: individui come lui — pensò, e per un attimo si sentì di nuovo triste, e miserabile e furioso come nel pomeriggio, quando aveva osservato la città rosseggiante nel tramonto — individui come lui non erano esistiti in passato; questo era un esemplare del tutto nuovo nel genere, che poteva nascere soltanto in quest’epoca decadente, corrotta… Ma doveva ricevere una lezione, quel ragazzo prepotente! L’avrebbe sistemato lui alla fine di quella ridicola esibizione, in modo tale che avrebbe dovuto strisciar via come quel mucchietto ingobbito del niente che era quando era venuto. Canaglia! Oggigiorno comunque non bisognava più impegolarsi con nessuno, perché il mondo era pieno di ridicole canaglie!
Baldini era così preso dalla sua intima indignazione e dal suo disgusto per i tempi, che non capì bene che cosa stava succedendo, quando Grenouille d’un tratto tappò tutti i flaconi, tolse l’imbuto dalla bottiglia della miscela, la prese per il collo, la tappò con il palmo della mano sinistra e la scosse energicamente. Soltanto dopo che la bottiglia fu agitata per aria più volte e il suo prezioso contenuto, come limonata, passò dal ventre al collo e viceversa, Baldini emise un grido di rabbia e di orrore. «Alt!» strillò. «Adesso basta! Smettila immediatamente! Basta! Metti subito la bottiglia sul tavolo e non toccare più niente, capisci? più niente! Devo essere stato pazzo già solo ad ascoltare il tuo discorso insensato. Il modo con cui tratti le cose, la tua rozzezza, la tua primitiva mancanza di buon senso mi dimostrano che sei un guastamestieri, un barbaro guastamestieri e per di più un moccioso miserabile e sfacciato. Tu non sei neppure capace di miscelare limonate, non sei neppure capace di vendere un semplicissimo succo di liquirizia, non parliamo poi di fare il profumiere! Sii lieto, sii grato e contento se il tuo padrone continua a lasciarti pasticciare con il liquido da concia! Non osare mai più, mi senti? non osare mai più metter piede sulla soglia di un profumiere!»
Così parlò Baldini. E mentre ancora stava parlando, la stanza attorno a lui era già piena dell’aroma di «Amore e psiche». Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi.
Grenouille aveva deposto la bottiglia, aveva tolto dal collo la mano bagnata di profumo e se l’era asciugata sul fondo della giacca. Uno, due passi indietro, e il goffo ripiegarsi del suo corpo sotto la predica di Baldini bastarono a rimuovere l’aria, dimodoché il nuovo profumo si diffuse tutt’attorno. Non occorreva altro. In verità Baldini continuava a imperversare, a strillare e a inveire; ma a ogni respiro l’ira che esternava trovava sempre meno giustificazione dentro di lui. Sentiva di essere battuto, per questo il suo discorso alla fine poté risolversi soltanto in una vuota enfasi. E quando tacque, quando ebbe taciuto per un momento, non ebbe più nemmeno bisogno di ascoltare l’osservazione di Grenouille: «È pronto». Lo sapeva comunque.
E tuttavia, sebbene nel frattempo l’aria greve di «Amore e psiche» gli fluttuasse attorno da ogni parte, si avvicinò al vecchio tavolo di quercia per eseguire una prova. Prese dalla tasca della giacca, dalla sinistra, un fazzoletto pulito di pizzo, bianco come la neve, lo spiegò e vi spruzzò sopra un paio di gocce prese con la pipetta lunga dalla bottiglia della miscela. Agitò il fazzoletto con il braccio teso per fargli prendere aria e quindi lo portò sotto il naso con il consueto movimento aggraziato, inspirando l’aroma a fondo. Mentre lo espirava a tratti, sedette su uno sgabello. Prima era diventato rosso scuro in viso per il suo scoppio d’ira… ora di botto era diventato tutto pallido. «Incredibile», mormorò sommesso tra sé e sé, «per Dio… incredibile.» E premette il naso più e più volte contro il fazzoletto, e annusava e scuoteva il capo e mormorava «incredibile». Era«Amore e psiche», senza il minimo dubbio «Amore e psiche», la geniale e odiosa miscela di profumo, copiata con tale precisione che neppure Pélissier in persona avrebbe potuto distinguerla dal proprio prodotto. «Incredibile…»
Piccolo e pallido, il grande Baldini sedeva sullo sgabello e aveva un aspetto ridicolo col suo fazzoletto in mano, che premeva contro il naso come una vergine raffreddata. Ora la lingua gli si era bloccata del tutto. Non diceva neppure più «incredibile», ma si limitava a emettere un monotono «ehm, ehm, ehm… ehm, ehm, ehm… ehm, ehm, ehm…» scuotendo pian piano la testa di continuo e fissando il contenuto della bottiglia con la miscela. Dopo un poco Grenouille si avvicinò e si accostò al tavolo senza far rumore, come un’ombra.
«Non è un buon profumo», disse, «è composto molto male, questo profumo.»
«Ehm, ehm, ehm», disse Baldini, e Grenouille proseguì:
«Se permette, Maître, voglio migliorarlo. Mi dia un minuto, e ne farò un profumo come si deve!»
«Ehm, ehm, ehm», disse Baldini, e annuì. Non perché fosse d’accordo, ma perché il suo stato d’animo era così inerme e apatico, che avrebbe detto «ehm, ehm, ehm» e avrebbe annuito a tutto e a tutti. E continuò ad annuire e a mormorare «ehm, ehm, ehm» e non accennò minimamente a intervenire anche quando Grenouille cominciò a miscelare per la seconda volta, versò una seconda volta l’alcool etilico dal pallone nella bottiglia, aggiungendolo al profumo che già vi era contenuto, e per la seconda volta versò nell’imbuto il contenuto dei flaconi in una successione e quantità apparentemente casuali. Soltanto verso la fine della procedura — questa volta Grenouille non scosse la bottiglia, ma la dondolò soltanto lievemente come un bicchiere di cognac, forse per riguardo alla sensibilità di Baldini, forse perché il contenuto stavolta gli sembrava più prezioso — soltanto allora dunque, quando il liquido già pronto ondeggiava nella bottiglia, Baldini si ridestò dal suo stato di stordimento e si alzò, pur con il fazzoletto sempre premuto sul naso, come se volesse armarsi contro un nuovo attacco al suo io.
«È pronto, Maître», disse Grenouille. «Adesso è un profumo proprio buono.»
«Già, già, bene, bene», replicò Baldini, e gli fece cenno con la mano libera di andarsene.
«Non vuole fare una prova?» gorgogliò ancora Grenouille. «Non vuole, Maître? Nemmeno una prova?»
«Più tardi, ora non ho voglia di fare una prova… ho altro per la testa. Va’, ora! Su!»
E prese uno dei candelieri e uscì dalla porta, attraversando il negozio. Grenouille lo seguì. Imboccarono il corridoio stretto che portava all’ingresso di servizio. Il vecchio camminò strascicando i piedi fino alla porta, tirò indietro il chiavistello e aprì. Si spostò di lato per far uscire il ragazzo.
«Ora posso lavorare da lei, Maître, posso?» chiese Grenouille, già sulla soglia, di nuovo curvo, di nuovo con occhi di vigile attesa.
«Non lo so», disse Baldini, «ci rifletterò. Va’!»
Ed ecco che Grenouille era sparito, in un attimo, inghiottito dall’oscurità. Baldini restò a guardare con gli occhi fissi nella notte. Con la mano destra teneva il candeliere, con la sinistra il fazzoletto, come uno che perda sangue dal naso, e tuttavia aveva soltanto paura. Rimise in fretta il chiavistello alla porta. Poi tolse quel fazzoletto protettivo dal volto, lo ripose in tasca, riattraversò il negozio e tornò nel laboratorio.
L’aroma era così divinamente buono, che Baldini di colpo si sentì salire le lacrime agli occhi. Non aveva bisogno di fare prove, si limitò a stare in piedi presso il tavolo da lavoro davanti alla bottiglia della miscela e a inspirare. Il profumo era meraviglioso. In confronto ad «Amore e psiche» era come una sinfonia paragonata allo strimpellare solitario di un violino. Ed era anche di più. Baldini chiuse gli occhi e sentì che i ricordi più sublimi si ridestavano dentro di lui. Si vide da giovane passeggiare la sera nei giardini di Napoli; si vide tra le braccia di una donna con riccioli neri e vide i contorni di un mazzo di rose sul davanzale della finestra, che oscillava alla brezza notturna; udì uccelli cantare qua e là e, da lontano, la musica di un’osteria del porto; udì un bisbigliare fitto fitto nell’orecchio, udì un «ti amo» e sentì che dalla gioia gli si rizzavano i peli, ora! ora, in questo istante! Aprì gli occhi e dette un gemito di piacere. Questo profumo non era un profumo come quelli conosciuti finora. Non era un aroma che migliorava l’odore personale, un sent-bon, un articolo da toilette. Era una cosa di specie totalmente nuova, che poteva creare da sé tutto un mondo, un mondo magico, ricco, e d’un tratto si dimenticavano le nauseanti miserie di quaggiù e ci si sentiva così ricchi, così pieni di benessere, così liberi, così buoni…
I peli dritti sul braccio di Baldini si distesero, e una seducente pace dell’animo s’impossessò di lui. Prese la pelle, il capretto che si trovava al margine del tavolo, prese un coltello e la tagliò. Poi mise i pezzi nella bacinella di vetro e li bagnò con il nuovo profumo. Ricoprì la bacinella con una lastra di vetro e versò il resto del profumo in due bottigliette, che provvide di etichette, su cui scrisse il nome «Nuit napolitaine». Poi spense la luce e salì di sopra.
Alla moglie durante la cena non disse nulla. Soprattutto non disse nulla della sacrosanta decisione che aveva preso nel pomeriggio. Anche la moglie non disse nulla, poiché si accorse che lui era sereno, e quindi era molto contenta. Baldini non si recò neppure più a Notre-Dame, a ringraziare Dio per la sua forza di carattere. Sì, quel giorno dimenticò persino, per la prima volta, di recitare le preghiere della sera.
Il mattino seguente si recò difilato da Grimal. Per prima cosa pagò il capretto, e persino a prezzo pieno, senza brontolare e senza minimamente tirare sul prezzo. Poi invitò Grimal a bere una bottiglia di vino bianco alla Tour d’Argent e ottenne da lui, contrattando, l’apprendista Grenouille. Ovviamente non rivelò i motivi per cui lo voleva, per i quali gli serviva. Inventò qualcosa circa un grosso ordine di pelli profumate, per far fronte al quale gli serviva un avventizio non qualificato. Gli occorreva un ragazzo di poche pretese che facesse per lui i lavori più semplici, tagliasse le pelli e così via. Ordinò un’altra bottiglia di vino e offrì venti lire a compenso del fastidio che causava a Grimal con la perdita di Grenouille. Venti lire erano una somma enorme. Grimal si dichiarò subito d’accordo. Si diressero alla conceria dove Grenouille stranamente era già pronto con il suo fagotto, Baldini pagò le venti lire e prese subito il ragazzo con sé, conscio di aver concluso il miglior affare della sua vita.
Grimal, che a sua volta era convinto di aver concluso il miglior affare della sua vita, tornò alla Tour d’Argent, bevve altre due bottiglie di vino, verso mezzogiorno si trasferì al Lion d’Or sull’altra riva e là si ubriacò in modo così sfrenato che, quando a tarda sera volle trasferirsi di nuovo alla Tour d’Argent, confuse Rue Geoffroi l’Anier con Rue des Nonaindières e quindi, anziché sbucare direttamente sul Pont Marie, come aveva sperato, si ritrovò misteriosamente sul Quai des Ormes, da dove piombò lungo disteso e a faccia avanti nell’acqua come in un soffice letto. Morì sull’istante. Fu il fiume che impiegò ancora un certo tempo per trascinarlo via dalla riva poco profonda e portarlo, passando accanto alle chiatte ormeggiate, nella corrente di mezzo più forte, e soltanto nelle prime ore del mattino il conciatore Grimal, o piuttosto il suo cadavere intriso d’acqua, si diresse galleggiando a valle, verso ovest.
Quando passò sotto il Pont au Change, senza far rumore, senza urtare contro i piloni, venti metri sopra di lui Jean-Baptiste Grenouille stava andando a letto. Un tavolaccio era stato sistemato per lui nell’angolo di fondo del laboratorio di Baldini, e ora ne prese possesso, mentre il suo padrone d’un tempo stava galleggiando lungo disteso giù per la fredda Senna. Si appallottolò piacevolmente e si fece piccolo come una zecca. Con il primo sonno s’immerse sempre più e sempre più a fondo in se stesso, e fece un ingresso trionfale nella sua cittadella interna, sull’alto della quale sognò una festa vittoriosa di odori, un’orgia gigantesca con vapori d’incenso ed esalazioni di mirra, in onore di se stesso.
Con l’acquisizione di Grenouille ebbe inizio l’ascesa della Casa Giuseppe Baldini a una considerazione nazionale, anzi europea. Nel negozio sul Pont au Change il carillon persiano non aveva più pace, e gli aironi d’argento non smettevano mai di sprizzare acqua di viole.
Già la prima sera Grenouille dovette preparare un grosso pallone di «Nuit napolitaine», di cui nel corso del giorno seguente furono venduti più di ottanta flaconi. La fama del profumo si diffuse con frenetica rapidità. A Chénier vennero gli occhi vitrei dal gran contar denari e la schiena dolorante dai profondi inchini che era costretto a fare, perché in negozio comparivano importanti e importantissime personalità, o per lo meno i servitori di importanti e importantissime personalità. E una volta addirittura la porta si spalancò all’improvviso, sicché produsse un forte tintinnio, ed entrò il lacché del conte d’Argenson, e urlò, come sanno urlare soltanto i lacché, che voleva cinque bottiglie del nuovo profumo, e in seguito Chénier continuò a tremare per un quarto d’ora dal timore reverenziale, perché il conte d’Argenson era intendente e ministro della Guerra di Sua Maestà ed era l’uomo più potente di Parigi.
Mentre Chénier in negozio subiva da solo l’assalto dei clienti, Baldini si era chiuso in laboratorio con il suo nuovo apprendista. Di fronte a Chénier giustificò questa circostanza con una fantastica teoria, che definì «divisione del lavoro e razionalizzazione». Per anni, spiegò, aveva tollerato con pazienza che Pélissier e altri figuri suoi pari, sprezzanti della corporazione, gli avessero alienato la clientela e rovinato gli affari. Ma ora la sua longanimità era agli sgoccioli. Ora avrebbe accettato la sfida e restituito i colpi a questi insolenti parvenu, e proprio con i mezzi usati da loro stessi: a ogni saison, ogni mese, e se necessario anche ogni settimana, avrebbe detto la sua con profumi nuovi, e che profumi! Avrebbe lavorato con tutta la sua vena creativa. E per questo era necessario che lui — aiutato soltanto dal suo assistente non qualificato — si occupasse solo ed esclusivamente della produzione dei profumi, mentre Chénier doveva dedicarsi esclusivamente alla vendita. Con questo metodo moderno avrebbero aperto un capitolo nuovo nella storia dei profumi, avrebbero spazzato via la concorrenza e sarebbero diventati incommensurabilmente ricchi: sì, usava consapevolmente ed espressamente il plurale, perché meditava di dividere queste incommensurabili ricchezze in una certa percentuale con il suo fidato garzone.
Ancora pochi giorni prima Chénier avrebbe interpretato discorsi simili da parte del suo principale come il segnale di una incipiente follia senile. «Adesso è maturo per la Charité», avrebbe pensato, «adesso non ci vorrà più molto perché deponga il pestello definitivamente.» Ma ora non lo pensava più. Non aveva più il tempo di pensarlo, aveva semplicemente troppo da fare. Aveva talmente da fare, che la sera dallo sfinimento riusciva a malapena a vuotare la cassa traboccante e a prendersi la sua parte. Non aveva il minimo dubbio che tutto fosse regolare, quando Baldini usciva quasi ogni giorno dal laboratorio con un nuovo aroma.
E che aromi erano! Non soltanto profumi di grande, grandissima scuola, ma anche creme e ciprie, saponi, lozioni per capelli, lavande, olii… Tutto ciò che doveva avere un profumo ora ne aveva uno nuovo, e diverso e più splendido di prima. E su tutto, ma proprio su tutto, perfino sui nuovi nastri profumati per capelli, creati un giorno dal ghiribizzo fantastico di Baldini, il pubblico si gettava come stregato, e i prezzi non avevano alcuna importanza. Tutto quello che Baldini produceva diventava un successo. E il successo era così sconvolgente, che Chénier lo accettava come un evento naturale e non indagava oltre sulle sue origini. Che il nuovo apprendista — quello gnomo maldestro che si era installato nel laboratorio come un cane e che talvolta, quando il principale usciva, si poteva vedere sullo sfondo mentre lavava recipienti di vetro e puliva mortai — che quella nullità d’uomo potesse in qualche modo aver qualcosa a che fare con la favolosa prosperità degli affari, Chénier non l’avrebbe creduto neppure se gliel’avessero detto in modo esplicito.
Naturalmente lo gnomo aveva tutto a che fare con quella. Tutto ciò che Baldini portava in negozio e consegnava a Chénier da vendere era solo una minima parte di quello che Grenouille miscelava dietro le porte chiuse. Baldini non riusciva più a seguire il proprio olfatto. Talvolta era un vero e proprio tormento operare una scelta tra le meraviglie che Grenouille creava. Questo apprendista stregone avrebbe potuto rifornire di ricette tutti i profumieri di Francia senza ripetersi, senza produrre una sola volta qualcosa di inferiore o di medio. O meglio, avrebbe potuto rifornirli ma non di ricette, cioé di formule, perché Grenouille per il momento componeva i suoi profumi ancora nel modo caotico e totalmente privo di professionalità che Baldini ben conosceva, vale a dire mescolando a mano libera gli ingredienti in un caos apparentemente selvaggio. Per poter almeno capire quel lavoro folle, se non per controllarlo, Baldini un giorno pretese che Grenouille si servisse della bilancia, del misurino e della pipetta per preparare le sue miscele, anche se non lo riteneva necessario; e che inoltre si abituasse a usare l’alcool etilico non come sostanza aromatica, bensì come solvente, da aggiungersi soltanto in un secondo tempo; e che per l’amor di Dio facesse il piacere di lavorare lentamente, con calma e lentamente, come si conveniva a un artigiano.
Grenouille lo fece. E per la prima volta Baldini fu in grado di seguire e di documentare i singoli maneggi dello stregone. Con carta e penna sedette accanto a Grenouille e annotò, sempre invitandolo alla lentezza, quanti grammi di questo, quante misure di quello, quante gocce di un terzo ingrediente emigravano nella bottiglia della miscela. In questo modo singolare, cioé analizzando a posteriori un procedimento proprio con quei mezzi senza la cui utilizzazione precedente in realtà esso non avrebbe potuto aver luogo, Baldini alla fine riuscì a entrare in possesso della sintetica prescrizione. Come Grenouille senza quest’ultima fosse in grado di preparare i suoi profumi, continuava a restare un enigma per Baldini, o piuttosto un miracolo, ma per lo meno ora aveva ridotto il miracolo in una formula, e con ciò aveva in qualche modo soddisfatto il suo spirito assetato di regole e aveva salvato la sua immagine del mondo dei profumi dal collasso totale.
A poco a poco riuscì a strappare a Grenouille la preparazione delle ricette di tutti i profumi che questi aveva inventato fino allora, e infine gli vietò persino di prepararne di nuovi senza che lui, Baldini, fosse presente con penna e carta a osservare il processo con occhi d’Argo e a documentarlo passo per passo. I suoi appunti, ben presto molte dozzine di formule, li trascrisse poi a fatica in bella calligrafia su due diversi libriccini; uno lo chiuse a chiave nella sua cassaforte a prova di fuoco, l’altro lo portò sempre con sé, anche di notte quando andava a dormire. Questo gli diede sicurezza. Infatti adesso, se voleva, era in grado di compiere da sé i miracoli di Grenouille, quei miracoli che l’avevano scosso profondamente quando ne aveva fatto esperienza la prima volta. Con la sua raccolta di formule scritte credeva di poter scongiurare il tremendo caos creativo che sgorgava dall’intimo del suo apprendista. Anche il fatto di prender parte ai riti creativi non più soltanto con sciocco stupore, bensì osservando e registrando, ebbe un effetto tranquillizzante su Baldini e rafforzò la sua fiducia in se stesso. Dopo un certo tempo ebbe persino la sensazione di contribuire in modo fondamentale alla riuscita dei sublimi aromi. E subito dopo averli registrati nel suo libretto e quando li custodiva in cassaforte, o ben stretti sul proprio petto, non dubitava più che fossero in tutto e per tutto suoi. Ma anche Grenouille fu avvantaggiato dal procedimentodisciplinare impostogli da Baldini. In verità avrebbe anche potuto farne a meno. Non occorreva mai che consultasse una vecchia formula per ricostruire un profumo dopo settimane o mesi, perché non dimenticava gli odori. Ma con l’uso obbligatorio del misurino e della bilancia imparò il linguaggio dell’arte profumiera, e sentì per istinto che la conoscenza di questo linguaggio avrebbe potuto essergli utile. In poche settimane Grenouille non soltanto imparò i nomi di tutte le sostanze odorose del laboratorio di Baldini, ma fu anche in grado di scrivere da sé la formula dei suoi profumi e viceversa di trasformare formule e indicazioni non sue in profumi e in altri prodotti profumati. E più ancora! Dopo aver imparato a esprimere in grammi e gocce le sue idee in fatto di profumi, non gli servì neppure più la fase sperimentale intermedia. Quando Baldini lo incaricava di inventare un nuovo aroma, sia per creare un profumo da fazzoletto, sia per un sachet, sia per un belletto, Grenouille non poneva più mano a flaconi e a polverine, ma si limitava a sedersi al tavolo e a scrivere la formula direttamente. Aveva imparato ad ampliare il percorso dalla sua rappresentazione olfattiva interna al profumo finito aggirando la fabbricazione della formula. Per lui era soltanto un tragitto più lungo. Ma agli occhi del mondo, cioé agli occhi di Baldini, era un progresso. I miracoli di Grenouille restavano gli stessi. Ma le ricette che ora li corredavano facevano sì che il procedimento non incutesse più paura, e questo era un vantaggio. Quanto più Grenouille dominava le mosse e i procedimenti del mestiere, quanto più sapeva esprimersi normalmente nel linguaggio convenzionale dell’arte profumiera, tanto meno il padrone lo temeva e sospettava di lui. Ben presto Baldini lo considerò senz’altro ancora un individuo dotato di un olfatto non comune, ma non più un novello Frangipane o addirittura un inquietante stregone, e a Grenouille andava bene così. La regola del mestiere era per lui un piacevole camuffamento. Tranquillizzava persino Baldini con il suo procedimento esemplare che consisteva nel pesare gli ingredienti, nell’agitare la bottiglia della miscela e nel tamponare i fazzoletti bianchi per le prove. Era già quasi in grado di agitare questi ultimi con gesti aggraziati, di farli passare sotto il naso elegantemente come il padrone. E talvolta, a intervalli ben meditati, commetteva errori, fatti in modo che Baldini fosse costretto a notarli: dimenticava di filtrare, orientava la bilancia in modo sbagliato, annotava in una formula una percentuale assurdamente alta di tintura di ambra… e si lasciava rinfacciare l’errore, per poi a bella posta correggerlo. In tal modo riusciva a cullare Baldini nell’illusione che alla fin fine tutto andasse come doveva. Non voleva certo spaventare il vecchio. Anzi, voleva davvero imparare da lui. Non la miscela dei profumi, non la giusta composizione di un aroma, naturalmente no! In questo campo nessuno al mondo avrebbe potuto insegnargli qualche cosa, e anche gli ingredienti presenti nel negozio di Baldini non sarebbero mai bastati a realizzare le sue idee di un profumo veramente importante. Quello che poteva realizzare da Baldini in fatto di odori erano passatempi, paragonati agli odori che portava dentro di sé e che pensava di creare un giorno. Ma per questo, lo sapeva, gli occorrevano due presupposti indispensabili: uno era la copertura di un’esistenza borghese, o per lo meno della categoria dei garzoni, al cui riparo egli avrebbe potuto indulgere alle proprie passioni e perseguire indisturbato i suoi scopi. L’altro era la conoscenza di quei procedimenti artigianali con cui si potevano produrre, isolare, concentrare e conservare le sostanze aromatiche, e soltanto allora disporne per un uso più nobile. Infatti Grenouille possedeva sì il naso migliore del mondo, sia dal punto di vista analitico sia da un punto di vista profetico, ma non possedeva ancora la capacità di impadronirsi degli odori in concreto.
E così si lasciò istruire di buon grado nell’arte di far bollire il sapone fatto di grasso di maiale, di cucire guanti di pelle lavabile, di mescolare ciprie fatte di farina di frumento e di mandorle pestate e di radici di viole polverizzate. Arrotolò candele profumate fatte di carbone vegetale, salnitro e segatura di legno di sandalo. Confezionò pasticche orientali pressando insieme mirra, resina di benzoino e polvere d’ambra. Impastò incenso, gommalacca, vetiver e cannella per farne palline da bruciare. Setacciò e schiacciò con la spatola Poudre Impériale fatta di foglie di rosa, fiori di lavanda e corteccia di cascarilla triturati. Mescolò belletti, bianchi e azzurro-vena, e confezionò matite grasse, rosso-carminio, per le labbra. Elaborò la più fine polvere per unghie e gessi dentari dal sapore di menta. Mescolò liquidi per arricciare le parrucche e gocce antiverruca per i calli, sbiancalentiggini per la pelle ed estratto di belladonna per gli occhi, balsamo di cantaride per i signori e aceto igienico per le signore… La fabbricazione di tutte le acquette e polverine, degli articoli da toilette e di bellezza, ma anche di misture di tè e di spezie, di liquori, di marinate e simili, in breve, tutto ciò che Baldini aveva da insegnargli con la sua vasta cultura tradizionale, Grenouille lo imparò, in verità senza particolare interesse, ma anche senza lamentarsi e con successo.
Dimostrò invece un particolare interesse quando Baldini lo istruì nella fabbricazione delle tinture, degli estratti e delle essenze. Non si stancava mai di schiacciare noccioli di mandorle amare nel torchio a vite o di pestare semi di abelmosco o di triturare con la mezzaluna grassi gnocchi d’ambra grigia oppure di grattugiare radici di viole, per poi macerare i frammenti in alcool della miglior qualità. Imparò a conoscere l’uso dell’imbuto separatore, con cui si scindeva l’olio puro delle bucce di limone pressato dal torbido liquido residuo. Imparò a far seccare erbe e fiori stesi su reti in luoghi caldi e ombrosi, e a conservare le foglie fruscianti in recipienti e cassapanche sigillati con la cera. Imparò l’arte di depurare le pomate, di preparare gli infusi, filtrarli, concentrarli, chiarificarli e rettificarli.
Certo il laboratorio di Baldini non era adatto a produrre olii di fiori e di erbe in grande stile. Del resto a Parigi sarebbe stato quasi impossibile trovare le quantità necessarie di piante fresche. Tuttavia all’occasione, quando al mercato si potevano trovare a poco prezzo rosmarino fresco, salvia, menta o semi d’anice oppure quando arrivava una partita più grossa di bulbi di iris o di radici di valeriana, di cumino, di noce moscata o fiori di garofano secchi, la vena d’alchimista di Baldini si metteva a pulsare, e lui tirava fuori il suo alambicco grande, una tinozza di rame per distillare sulla quale era applicato un recipiente condensatore — un cosiddetto alambicco a testa di moro, come annunciava con orgoglio Baldini — con cui già quarant’anni prima aveva distillato lavanda all’aperto, sulle pendici meridionali della Liguria e sulle alture del Luberon. E mentre Grenouille sminuzzava il prodotto da distillare, Baldini con fretta febbrile — dato che la rapida elaborazione era l’alfa e l’omega del mestiere — accendeva un focolare coperto, sul quale collocava un paiolo di rame riempito di una buona quantità d’acqua. Gettava lì dentro le parti vegetali, tappava sul manicotto il doppio imbuto a testa di moro e vi collegava due tubicini per l’acqua che affluiva e che defluiva. Questa raffinata struttura per il raffreddamento dell’acqua, spiegava Baldini, l’aveva installata lui stesso soltanto in un secondo momento, perché ovviamente a suo tempo all’aperto avevano raffreddato l’acqua unicamente facendo vento. Poi soffiava sul fuoco per ravvivarlo.
A poco a poco il liquido nel paiolo cominciava a gorgogliare. E dopo un po’, prima pian piano a gocce, poi in rivoletti sottili come fili, il distillato scorreva dalla terza canna della testa di moro in una bottiglia fiorentina che Baldini vi aveva messo sotto. Dapprima aveva un aspetto del tutto insignificante, come una zuppa acquosa e torbida. Ma a poco a poco, soprattutto quando la bottiglia piena era stata spostata di fianco a riposare e sostituita da un’altra, la broda si scindeva in due liquidi diversi: sotto restava l’acqua di fiori o di erbe, sopra galleggiava uno spesso strato d’olio. Facendo scolare con cautela, attraverso il collo a beccuccio della bottiglia fiorentina, l’acqua di fiori che ora aveva un aroma delicato, restava indietro l’olio puro, l’essenza, l’anima della pianta dal profumo intenso.
Grenouille era affascinato da questo processo. Se mai qualcosa nella vita aveva suscitato entusiasmo in lui — certo non un entusiasmo visibile dall’esterno, bensì nascosto, come se ardesse a fiamma fredda — era proprio questo procedimento, di carpire alle cose la loro anima odorosa con il fuoco, l’acqua, il vapore e un’apparecchiatura inventata. Quest’anima odorosa, l’olio essenziale, era appunto la parte migliore delle cose, l’unica che destasse il suo interesse. Gli insulsi residui: fiori, foglie, buccia, frutto, colore, bellezza, vivezza e tutto ciò che di superfluo poteva ancora esserci, lo lasciavano indifferente. Non erano che involucri e zavorra. Cose da buttare.
Di tanto in tanto, quando il distillato era diventato trasparente come acqua, toglievano l’alambicco dal fuoco, lo aprivano e rovesciavano la roba stracotta, che aveva un aspetto floscio e smorto di paglia inzuppata, di ossa sbiancate d’uccellini, di verdura bollita troppo a lungo, era scialba e fibrosa, poltigliosa, a stento riconoscibile per quel che era in origine, disgustosamente cadaverica, ed era quasi totalmente depauperata del proprio odore. La gettavano fuori della finestra nel fiume. Poi si rifornivano di altri vegetali freschi, aggiungevano acqua e rimettevano l’alambicco sul focolare. E di nuovo il paiolo cominciava a gorgogliare, e di nuovo l’umore vitale dei vegetali scorreva nelle bottiglie fiorentine. Questo durava spesso tutta la notte. Baldini sorvegliava il fuoco, Grenouille teneva d’occhio le bottiglie, altro non c’era da fare nel periodo intercorrente tra i mutamenti.
Sedevano su sgabelli attorno al fuoco, in balia della pesante tinozza, affascinati entrambi, sia pure per ragioni molto diverse. Baldini si godeva il calore del fuoco e il rosso guizzante delle fiamme e del rame, amava il crepitio del legno che ardeva e il gorgoglio dell’alambicco, perché tutto era come un tempo. Allora sì che c’era da entusiasmarsi! Andava in negozio a prendere una bottiglia di vino, perché il calore gli metteva sete, e bere il vino, anche questo era come una volta. E poi cominciava a raccontare storie di un tempo, non finiva mai. Della guerra di successione spagnola al cui esito aveva contribuito in misura decisiva combattendo contro gli austriaci; dei camisardi, assieme ai quali aveva reso le Cevenne un luogo insicuro; della figlia di un ugonotto nell’Esterel che, inebriata dal profumo della lavanda, aveva ceduto alla sua volontà; dell’incendio di un bosco, che era stato lì lì per provocare e che poi si sarebbe certo esteso a tutta la Provenza, sicuro come due più due fanno quattro, perché c’era un forte mistral; e raccontava ancora e sempre della distillazione, all’aperto, di notte, alla luce della luna, con il vino e con il canto delle cicale, e di un’essenza di lavanda che aveva fabbricato in quell’occasione, così fine e intensa che gliel’avevano pagata a peso in argento; del suo apprendistato a Genova, dei suoi anni di peregrinazioni e della città di Grasse, in cui c’erano tanti profumieri quanti calzolai altrove, e alcuni di loro erano così ricchi che vivevano come principi, in case splendide con giardini e terrazze ombreggiate e sale da pranzo rivestite di legno, nelle quali mangiavano in piatti di porcellana con posate d’oro, e così via…
Simili storie raccontava il vecchio Baldini, e ci beveva sopra del vino, e il vino e il calore del fuoco e l’entusiasmo per le sue storie gli infuocavano le guance. Ma Grenouille, che sedeva un po’ più nell’ombra, non stava affatto a sentire. Non lo interessavano le vecchie storie, lo interessava soltanto il nuovo procedimento. Fissava ininterrottamente il cannello in cima all’alambicco, da cui defluiva il distillato in un rivolo sottile. E mentre lo fissava, fantasticava di essere lui stesso una sorta d’alambicco, nel quale c’era un gorgoglio come in questo, e dal quale sgorgava un distillato come questo, solo che era migliore, più nuovo, più insolito, un distillato di quelle piante raffinate che aveva coltivato nel proprio animo, che fiorivano in lui, di cui lui solo aveva sentito l’odore, e che con il loro profumo straordinario avrebbero potuto trasformare il mondo in un fragrante giardino dell’Eden, nel quale per lui l’esistenza dal punto di vista olfattivo sarebbe stata in un certo modo tollerabile. Essere un grande alambicco, che inondasse tutto il mondo con il suo distillato autoprodotto, era il sogno cui Grenouille si abbandonava.
Ma mentre Baldini, acceso dal vino, eccedeva sempre più nelle storie di un tempo, e si lasciava trascinare sempre più dai propri entusiasmi, Grenouille lasciò ben presto da parte le sue bizzarre fantasticherie. Per prima cosa si tolse dalla testa la figurazione del grande alambicco, e rifletté invece su come avrebbe potuto utilizzare le conoscenze acquisite di recente per fini più concreti.
Non ci volle molto perché diventasse uno specialista nel campo della distillazione. Scoprì — e in questo il suo naso lo aiutò più che non il meccanismo delle regole di Baldini — che il calore del fuoco esercitava un’influenza decisiva sulla buona riuscita del distillato. Ogni pianta, ogni fiore, ogni sorta di legno e ogni frutto oleoso richiedevano una procedura specifica. Ora occorreva che si sviluppasse un vapore molto intenso, ora bastava che la sostanza ribollisse moderatamente, e molti fiori davano il meglio di sé soltanto facendoli scaldare a fuoco molto basso.
Ugualmente importante era la depurazione. La lavanda e la menta si potevano distillare a mazzetti interi. Altri vegetali dovevano essere sezionati, sfogliati, tritati, grattugiati, pestati, o persino trattati come il mosto, prima di essere messi nel paiolo di rame. Ma alcuni non si potevano distillare affatto, e questo esasperava al massimo Grenouille.
Dopo aver visto con quanta sicurezza Grenouille maneggiava l’apparecchiatura, Baldini gli aveva lasciato mano libera con l’alambicco, e Grenouille aveva utilizzato ampiamente questa libertà. Mentre di giorno miscelava profumi e preparava altri prodotti aromatici e speziati, di notte s’impegnava unicamente nell’arte misteriosa del distillare. Era sua intenzione produrre sostanze odorose totalmente nuove, e con esse poter fabbricare almeno alcuni dei profumi che portava dentro di sé. In un primo tempo ebbe persino piccoli successi. Riuscì a produrre un olio di fiori d’ortica e di semi di nasturzio e un’acqua ottenuta dalla corteccia fresca di arbusto di sambuco e di rami di tasso. In realtà il profumo dei distillati era piuttosto dissimile da quello delle sostanze di partenza, tuttavia era sempre abbastanza interessante da servire a elaborazioni successive. Però c’erano sostanze con le quali il procedimento falliva totalmente. Ad esempio Grenouille cercò di distillare l’odore di vetro, l’odore fresco e argilloso del vetro liscio, che le persone normali non percepivano affatto. Si procurò vetro da finestra e vetro da bottiglie, e lo trattò in grossi pezzi, in schegge, in frammenti, sotto forma di polvere… senza il minimo risultato. Distillò l’ottone, la porcellana e la pelle, granaglie e ciottoli. Distillò terra pura. Sangue e legno e pesci freschi. Anche i suoi capelli. Alla fine distillò persino l’acqua, l’acqua della Senna, il cui odore particolare gli sembrò degno d’essere conservato. Con l’aiuto dell’alambicco, credeva di poter estrarre da queste sostanze il loro aroma caratteristi co, come si poteva fare con il timo, la lavanda e i semi di cumino. Ma non sapeva che la distillazione non è altro che un processo di separazione delle sostanze miste nelle loro singole componenti volatili e meno volatili, e che per la profumeria è utile solo in quanto l’olio essenziale volatile di certi vegetali può essere isolato dai loro residui privi di aroma o con poco aroma. In sostanze nelle quali questo olio essenziale si perde, il processo di distillazione ovviamente non ha alcun senso. Per noi uomini d’oggi, esperti nel campo della fisica, tutto ciò è di un’evidenza immediata. Ma per Grenouille questo riconoscimento fu il risultato, raggiunto con fatica, di una lunga catena di tentativi deludenti. Per mesi e mesi, notte dopo notte era rimasto seduto accanto all’alambicco e aveva cercato in ogni modo possibile, tramite la distillazione, di produrre profumi radicalmente nuovi, profumi che, in forma concreta, non s’erano ancora mai sentiti al mondo. E non ne aveva ricavato nulla, eccetto un paio di ridicoli olii vegetali. Dal pozzo profondo, incommensurabilmente ricco della sua immaginazione non aveva estratto una sola goccia di essenza odorosa in concreto, non era riuscito a realizzare neppure un atomo di tutto ciò che gli era aleggiato dinanzi in fatto di odori.
Quando si convinse del suo fallimento, sospese le ricerche e si ammalò con pericolo della vita.
Gli venne una febbre alta, che nei primi giorni fu accompagnata da essudazioni, e in seguito, quando i pori della pelle non bastarono più, produsse innumerevoli pustole. Il corpo di Grenouille era disseminato di queste vescichette rosse. Molte scoppiarono e riversarono il loro contenuto acquoso, per poi riempirsi di nuovo. Altre s’ingrandirono in veri e propri foruncoli rossi, si enfiarono ed esplosero come crateri e sputarono fuori pus denso e sangue frammisto a muco giallo. Dopo qualche tempo Grenouille aveva l’aspetto di un martire lapidato dall’interno, con centinaia di ferite purulente.
A questo punto Baldini ovviamente si preoccupò. Per lui sarebbe stato molto spiacevole perdere il suo prezioso apprendista proprio in un momento in cui si accingeva a estendere i suoi affari oltre i confini della capitale, anzi persino di tutto il paese. Infatti era sempre più frequente che non soltanto dalla provincia, ma anche dalle corti straniere arrivassero ordinazioni di quei profumi nuovi che facevano impazzire Parigi; e Baldini accarezzava l’idea di fondare una filiale in Faubourg Saint-Antoine per soddisfare questa domanda, una vera e propria piccola manifattura, da dove i profumi più richiesti, miscelati en gros e confezionati en gros in graziosi flaconcini, imballati da graziose giovanette, sarebbero stati spediti in Olanda, in Inghilterra e in Alemagna. Per un maestro residente a Parigi un’impresa di questo genere non era proprio legale, ma ultimamente Baldini disponeva di protezioni in alto loco, i suoi profumi raffinati gliele avevano procurate non soltanto presso l’intendente, ma anche presso importanti personalità quali l’appaltatore del dazio di Parigi e un membro del gabinetto reale delle Finanze, nonché promotore di imprese economicamente fiorenti, qual era il signor Feydeau de Brou. Questi l’aveva fatto sperare persino nel privilegio del re, la cosa migliore che ci si potesse augurare: sarebbe stato una specie di lasciapassare per eludere qualsiasi ingerenza statale e corporativa, la fine di tutte le preoccupazioni professionali e una garanzia perenne di benessere sicuro e incontestato.
E poi c’era anche un altro progetto che Baldini covava, una sorta di progetto preferenziale opposto a quello della manifattura in Faubourg Saint-Antoine, che avrebbe prodotto, se non articoli di massa, cose che in molti potevano acquistare: voleva creare profumi personali per un numero scelto di clienti d’alto, altissimo rango — o piuttosto voleva farli creare — profumi che, come vestiti tagliati su misura, si adattassero a una persona sola, potessero essere usati soltanto da questa persona e portassero il suo illustre nome. Immaginava un «Parfum de la Marquise de Cernay», un «Parfum de la Maréchale de Villars», un «Parfum du Duc d’Aiguillon» e così via. Sognava un «Parfum de Madame la Marquise de Pompadour», e persino un «Parfum de Sa Majesté le Roi», in un flacone d’agata preziosamente smerigliato, incastonato in oro cesellato, con il nome «Giuseppe Baldini, profumiere», nascosto, inciso sul lato interno del supporto. Il nome del re e il suo stesso nome uniti sul medesimo oggetto. Simili splendide fantasticherie era arrivato a immaginare Baldini! E ora Grenouille si era ammalato. Quando Grimal, Dio l’abbia in gloria, aveva giurato che Grenouille non aveva mai niente, che sopportava tutto, che era refrattario persino alla peste nera. Di punto in bianco era mortalmente malato! E se fosse morto? Orrore! Con lui sarebbero morti gli splendidi progetti della manifattura, delle graziose giovanette, del privilegio e del profumo del re.
Quindi Baldini decise di non lasciare nulla di intentato per salvare la preziosa vita del suo apprendista. Predispose un trasferimento dal tavolaccio del laboratorio in un letto pulito al piano superiore. Fece rivestire il letto di damasco. Aiutò con le sue mani a portar su il malato per la scala stretta e ripida, sebbene provasse un indicibile disgusto per le pustole e i foruncoli purulenti. Ordinò alla moglie di far bollire brodo di pollo con vino. Mandò a chiamare il medico più rinomato del quartiere, un certo Procopio, che fu costretto a pagare in anticipo — venti franchi! — soltanto perché quello si prendesse il disturbo di venire.
Il dottore venne, sollevò il lenzuolo con le dita affusolate, diede solo un’occhiata al corpo di Grenouille, che in verità sembrava come fracassato da mille pallottole, e lasciò la stanza senza neppure aver aperto la borsa che il suo assistente gli portava sempre dietro. Il caso, cominciò a dire a Baldini, era chiarissimo. Si trattava di una varietà sifilitica di vaiolo nero mista a morbillo suppurativo in stadio ultimo. Quindi un trattamento non era più necessario, poiché non era più possibile eseguire un salasso regolamentare su quel corpo in disfacimento, più simile a un cadavere che non a un organismo vivente. E sebbene non si avvertisse ancora il puzzo pestilenziale tipico del decorso della malattia — il che certo stupiva e dal punto di vista strettamente scientifico rappresentava una piccola anomalia — non poteva sussistere il minimo dubbio sul decesso del paziente entro le successive quarantotto ore, quant’è vero che lui si chiamava dottor Procopio. Detto questo, si fece dare altri venti franchi per aver concluso la visita e fatto la prognosi — cinque franchi erano restituibili nel caso che gli avessero lasciato il cadavere, con quella sintomatologia tradizionale, a scopi dimostrativi — e si congedò.
Baldini era fuori di sé. Si lamentava e urlava di disperazione. Si mordeva le mani dalla rabbia per la propria sorte. Ancora una volta i progetti del suo grande, immenso successo erano distrutti poco prima di arrivare alla meta. A suo tempo i colpevoli erano stati Pélissier e i suoi complici, con la loro inventiva. E ora questo ragazzo, con il suo fondo inesauribile di odori nuovi, questo piccolo mascalzone che valeva tant’oro quanto pesava, proprio adesso, nel momento dell’ascesa professionale, doveva prendersi il vaiolo sifilitico e il morbillo suppurativo in stadio ultimo! Proprio adesso! Perché non fra due anni? Perché non fra un anno? Fino allora avrebbe potuto sfruttarlo come una miniera d’argento, come un asino d’oro. Ma no! Moriva adesso, sacramento di un dio, fra quarantotto ore!
Per un breve istante Baldini si cullò nel pensiero di recarsi in pellegrinaggio a Notre-Dame, di accendere una candela e impetrare dalla Sacra Madre di Dio la guarigione per Grenouille. Ma poi lasciò cadere il pensiero, perché il tempo era troppo poco. Corse a prendere inchiostro e carta e allontanò la moglie dalla stanza del malato. Voleva vegliarlo lui stesso. Poi prese posto su una sedia accanto al letto, con i fogli per prendere appunti sulle ginocchia, la penna intinta d’inchiostro in mano, e cercò di carpire a Grenouille una confessione in tema di profumi. Non voleva certo, per l’amor di Dio, portarsi via zitto zitto i tesori che aveva dentro di sé! Piuttosto adesso, nelle sue ultime ore, doveva lasciare un testamento a mani fidate, affinché i posteri non fossero defraudati dei profumi migliori di tutti i tempi! Lui, Baldini, avrebbe conservato fedelmente questo testamento, questo canone formale dei profumi più sublimi mai sentiti al mondo, e l’avrebbe fatto prosperare. Avrebbe annesso gloria immortale al nome di Grenouille, sì, avrebbe deposto, — e qui lo giurò per tutti i santi — il migliore di questi profumi ai piedi del re in persona, in un flacone d’agata incastonato in oro cesellato e con incisa la dedica: «Da Jean-Baptiste Grenouille, profumiere in Parigi». Così disse o, meglio, così bisbigliò Baldini all’orecchio di Grenouille, scongiurando, supplicando, adulandolo senza tregua.
Ma era tutto inutile. Di sé Grenouille non dava altro se non secrezione acquosa e pus sanguinolento. Giaceva muto nel damasco e si liberava di questi umori disgustosi, ma non della più insignificante formula di un profumo. Baldini, avrebbe voluto strozzarlo, colpirlo a morte avrebbe voluto, avrebbe proprio avuto voglia di far uscire a forza di botte i preziosi segreti dal corpo morente, se avesse avuto una speranza di successo… e se la cosa non fosse stata in così lampante contraddizione con la sua concezione cristiana dell’amor del prossimo.
E così continuò a mormorare con voce flautata nei toni più dolci, e ad accarezzare il malato e a tamponare con pezze umide — per quanto gli costasse uno sforzo atroce — quella fronte bagnata di sudore e quei vulcani in eruzione che erano le sue ferite, e lo imboccò con cucchiaiate di vino, per indurre la sua lingua a parlare, tutta la notte… invano. All’alba rinunciò. Si gettò esausto in una poltrona all’altro capo della stanza e si mise a fissare, neppure più furibondo, bensì ormai soltanto in preda a una quieta rassegnazione, il piccolo corpo morente di Grenouille là sul letto, che non poteva né salvare né derubare, da cui non poteva ricavare più nulla per sé: era soltanto costretto ad assistere inattivo al suo sfacelo, come un capitano assiste all’affondamento della nave che porta con sé nel profondo tutte le sue ricchezze.
A un tratto le labbra del malato si aprirono, e con una voce che per limpidità e fermezza lasciava presagire ben poco l’imminente decesso, chiese: «Dica, Maître: esistono altri mezzi, oltre alla torchiatura e alla distillazione, per estrarre l’aroma da una sostanza?»
Baldini, pensando che la voce fosse scaturita dalla propria immaginazione o dall’al di là, rispose meccanicamente: «Sì, esistono».
«Quali?» si sentì chiedere dal letto. Baldini spalancò gli occhi stanchi. Grenouille giaceva immobile sul cuscino. Aveva forse parlato il suo «cadavere»?
«Quali?» sentì chiedere di nuovo, e questa volta Baldini individuò il movimento sulle labbra di Grenouille. «Ora è finita», pensò, «ora se ne va, questo è il delirio della febbre o l’agonia della morte.» E si alzò, si avvicinò al letto e si chinò sul malato. Questi aveva aperto gli occhi e guardava Baldini con lo stesso sguardo stranamente vigile con cui l’aveva fissato al primo incontro.
«Quali?» chiese.
Allora il cuore di Baldini ebbe un sussulto — non voleva negare a un morente l’ultima volontà — e rispose: «Ne esistono tre, figlio mio: l’enfleurage à chaud, l’enfleurage à froid e l’enfleurage à l’huile. Sotto molti aspetti sono superiori alla distillazione, e si usano per ottenere i migliori tra tutti i profumi: quello del gelsomino, della rosa e dei fiori d’arancio».
«Dove?» chiese Grenouille.
«Nel sud», rispose Baldini. «Soprattutto nella città di Grasse.»
«Bene», disse Grenouille.
E con ciò chiuse gli occhi. Baldini si rialzò lentamente. Era molto depresso. Raccolse qua e là i fogli per gli appunti, sui quali non aveva scritto una sola riga, e soffiò sulla candela per spegnerla. Fuori già albeggiava. Era stanco morto. Sarebbe stato meglio chiamare un prete, pensò. Poi si fece un rapido segno di croce con la destra e uscì.
Ma Grenouille era tutt’altro che morto. Si limitò a dormire sodo e a sognare profondamente, e ritrasse i suoi umori dentro di sé. Le vesciche cominciavano già a seccarsi sulla sua pelle, i crateri purulenti si asciugavano, le sue ferite già si stavano chiudendo. Nel giro di una settimana era guarito.
Avrebbe preferito recarsi subito al sud, dove si potevano imparare le nuove tecniche di cui gli aveva parlato il vecchio. Ma naturalmente non c’era neppure da pensarci. Era pur sempre soltanto un apprendista, cioé un niente. In realtà, gli spiegò Baldini — dopo aver superato la gioia iniziale per la risurrezione di Grenouille — in realtà era ancora meno di un niente, perché un apprendista regolare doveva avere un’origine senza macchia, cioé esser nato da un matrimonio, avere una parentela adeguata al proprio rango e un contratto d’apprendistato, tutte cose che Grenouille non possedeva. Tuttavia se lui, Baldini, un giorno avesse voluto fornirgli un diploma di garzone, ciò sarebbe avvenuto soltanto in considerazione del talento non comune di Grenouille nonché di un suo comportamento futuro ineccepibile, e dell’infinita generosità sua, di Baldini, che mai riusciva a rinnegare anche se spesso ne aveva avuto danno.
Naturalmente per adempiere questa generosa promessa occorreva ancora un po’ di tempo, cioé tre anni giusti. In questo periodo Baldini, con l’aiuto di Grenouille, realizzò i suoi sogni ambiziosi. Fondò la manifattura in Faubourg Saint-Antoine, s’impose a corte con i suoi profumi esclusivi, ottenne il privilegio del re. I suoi raffinati prodotti aromatici furono venduti fino a Pietroburgo, a Palermo, a Copenaghen. Persino a Costantinopoli, dove sa Dio se non avevano essenze a sufficienza, si ricercava la nota pregna di muschio di uno dei suoi profumi. Negli uffici eleganti della City di Londra, come alla corte di Parma, aleggiava il profumo di Baldini, lo stesso avveniva nel castello di Varsavia e nel palazzetto del conte von Lippe-Detmold nel luogo medesimo. Dopo essersi già rassegnato a trascorrere la vecchiaia a Messina povero in canna, Baldini a settant’anni era diventato incontestabilmente il profumiere più importante d’Europa e uno dei cittadini più ricchi di Parigi.
All’inizio dell’anno 1756 — nel frattempo aveva acquistato la casa accanto alla sua sul Pont au Change, esclusivamente a uso d’abitazione, perché adesso la vecchia dimora era letteralmente piena fino al tetto di sostanze aromatiche e di spezie — comunicò a Grenouille che era finalmente disposto a concedergli il diploma di garzone, ma solo a tre condizioni: in primo luogo, in futuro non avrebbe dovuto produrre per conto proprio nessuno dei profumi nati sotto il tetto di Baldini, né rivelare la loro formula a terzi; in secondo luogo, avrebbe dovuto lasciare Parigi e non rimettervi più piede finché Baldini fosse stato vivo; e, in terzo luogo, avrebbe dovuto mantenere il più rigoroso silenzio sulle prime due condizioni. Doveva giurare tutto questo su tutti i santi, sulla povera anima di sua madre e sul suo onore.
Grenouille, che non aveva onore né credeva nei santi o nella povera anima di sua madre, giurò. Avrebbe giurato tutto. Avrebbe accettato qualsiasi condizione di Baldini, perché voleva ottenere quel ridicolo diploma di garzone che gli avrebbe permesso di vivere senza dar nell’occhio, di viaggiare tranquillo e di trovare un impiego. Il resto gli era indifferente. E poi, quali erano mai queste condizioni? Non metter più piede a Parigi? Non aveva bisogno di Parigi! La conosceva fino all’ultimo angolo puzzolente, la portava con sé dovunque andasse, possedeva Parigi, da anni. Non fabbricare nessuno dei profumi di successo di Baldini, non rivelare nessuna formula? Come se non avesse potuto inventarne altre mille, altrettanto buone o migliori, se solo avesse voluto! Ma non l’avrebbe certo fatto. Non intendeva davvero entrare in concorrenza con Baldini o con qualche altro profumiere di città. Non mirava a diventare ricco con la sua arte, non voleva neppure vivere della sua arte, se era possibile vivere diversamente. Voleva esternare ciò che aveva dentro di sé, nient’altro, il suo sé, che per lui valeva molto più di tutto quello che poteva offrire il mondo circostante. E quindi le condizioni di Baldini per Grenouille non erano condizioni.
Se ne andò in primavera, un giorno di maggio, la mattina presto. Da Baldini aveva ricevuto un piccolo zaino, una seconda camicia, due paia di calze, una grossa salsiccia, una coperta da cavallo e venticinque franchi. Era molto più di quanto fosse obbligato a dare, disse Baldini, tanto più che Grenouille non aveva pagato un soldo per il costo del tirocinio, per l’istruzione accurata di cui aveva beneficiato. Per obbligo avrebbe dovuto dargli due franchi di congedo, per il resto proprio niente. Tuttavia non poteva rinnegare la propria generosità, come pure la profonda simpatia che nel corso degli anni aveva accumulato nel cuore per il buon Jean-Baptiste. Gli augurava molta fortuna per il suo viaggio e lo esortava ancora una volta insistentemente a non dimenticare il suo giuramento. Con questo lo accompagnò alla porta dell’ingresso di servizio, dove un tempo lo aveva ricevuto, e lo congedò.
Non gli diede la mano, la sua simpatia non si era spinta fino a tal punto. Non gli avrebbe mai dato la mano. In genere aveva sempre evitato di toccarlo, per una sorta di sacro disgusto, come se, toccandolo, potesse correre il rischio di contagiarsi, di contaminarsi. Si limitò a dirgli un breve addio. E Grenouille rispose con un cenno e si curvò e si allontanò. La strada era deserta.
Baldini continuò a guardarlo, mentre scendeva giù per il ponte e attraversava l’isola, piccolo, curvo, con lo zaino sulle spalle come una gobba, da dietro simile a un vecchio. In fondo, accanto al palazzo del Parlamento, dove la strada faceva una curva, lo perse di vista e si sentì straordinariamente sollevato.
Quel tipo non gli era mai piaciuto, mai, ora poteva finalmente confessarselo. Per tutto il tempo in cui l’aveva alloggiato sotto il suo tetto e l’aveva sfruttato, non si era mai sentito a suo agio. Si era sentito come uno incensurato che per la prima volta fa una cosa proibita, gioca un gioco con mezzi illeciti. Certo, il rischio che il suo trucco venisse scoperto era stato minimo e la sua prospettiva di successo enorme; ma altrettanto gli erano pesati il nervosismo e la cattiva coscienza. In effetti in tutti quegli anni non c’era stato giorno in cui non fosse stato perseguitato dall’idea sgradevole che in qualche modo avrebbe dovuto pagare per essersi messo con quell’individuo. Se soltanto mi andasse bene! aveva cominciato a pregare con ansia fra sé e sé, se solo riuscissi a mietere il successo di questa rischiosa avventura, senza per questo pagarne le conseguenze! Se solo riuscissi! In verità non è giusto quello che faccio, ma Dio chiuderà un occhio, certo che lo farà! Nel corso della mia vita mi ha punito spesso abbastanza duramente, senza nessun motivo, dunque sarebbe soltanto giusto, se Lui ora si mostrasse conciliante. In che cosa consiste poi la mia colpa, posto che esista? Tutt’al più in questo, che agisco un po’ al di fuori del regolamento della corporazione, sfruttando il meraviglioso talento di un individuo non qualificato e spacciando la sua abilità per la mia. Tutt’al più in questo, che ho deviato un poco dalla via dell’onestà artigianale. Tutt’al più in questo, che oggi faccio quello che solo ieri condannavo. Ma è poi un delitto? Alcuni imbrogliano per tutta la vita. Io ho soltanto barato un poco per qualche anno. E soltanto perché il caso mi ha offerto un’occasione unica. Forse non è stato neppure il caso, forse è stato Dio stesso a mandarmi in casa lo stregone, per ricompensarmi del periodo d’umiliazione subito a causa di Pélissier e dei suoi complici. Forse il decreto divino non è diretto affatto a me, bensì contro Pélissier! Sarebbe ben possibile! E come potrebbe altrimenti Dio punire Pélissier, se non innalzando me? Di conseguenza la mia fortuna sarebbe lo strumento della giustizia divina, e come tale non soltanto potrei, ma dovrei accettarla, senza vergogna e senza il minimo rimorso…
Questo aveva spesso pensato Baldini negli anni trascorsi, la mattina, quando scendeva la scala stretta che portava al negozio; la sera, quando saliva con il contenuto della cassa e contava nella cassaforte le pesanti monete d’oro e d’argento; e la notte, quando giaceva accanto allo scheletro ronfante di sua moglie e non riusciva a dormire per l’ansia che gli causava la sua fortuna.
Ma ora, finalmente, aveva chiuso con i pensieri sinistri. L’ospite inquietante se n’era andato e non sarebbe tornato mai più. Ma la ricchezza restava, ed era certa per tutto l’avvenire. Baldini si portò la mano al petto e attraverso la stoffa della giacca sentì il libriccino sul cuore. Seicento formule vi erano annotate, più di quanto avrebbero mai potuto realizzare generazioni intere di profumieri. Se oggi avesse perduto tutto, soltanto con questo meraviglioso libriccino entro il termine di un anno avrebbe potuto essere di nuovo un uomo ricco. Davvero, che cosa poteva pretendere di più?
Il sole del mattino gli cadeva sul viso dai frontoni delle case dirimpetto, giallo e caldo. Baldini continuava a guardare verso sud la strada che scendeva in direzione del palazzo del Parlamento — era semplicemente troppo bello che di Grenouille non ci fosse più traccia! — e con un sentimento traboccante di gratitudine decise di recarsi il giorno stesso in pellegrinaggio a Notre-Dame, di gettare nella cassetta delle elemosine una moneta d’oro, di accendere tre candele e di ringraziare in ginocchio il Signore per averlo colmato di tanta fortuna e per avergli risparmiato la vendetta.
Ma stupidamente qualcosa intralciò di nuovo i suoi piani, perché al pomeriggio, proprio quando stava per incamminarsi verso la chiesa, si sparse la voce che gli inglesi avevano dichiarato guerra alla Francia. In verità la notizia in sé e per sé non era affatto preoccupante. Ma poiché Baldini giusto in quei giorni stava per inviare a Londra una spedizione di profumi, rimandò la visita a Notre-Dame e si recò invece in città per raccogliere informazioni, e successivamente si diresse alla sua manifattura in Faubourg Saint-Antoine per annullare come prima cosa la spedizione a Londra. La notte poi, a letto, poco prima di addormentarsi, ebbe un’idea geniale: in considerazione degli imminenti conflitti bellici per le colonie del nuovo mondo, avrebbe lanciato un profumo dal nome «Prestige du Québec», un eroico profumo alla resina il cui successo — su questo non c’era dubbio — l’avrebbe compensato ampiamente del mancato affare con l’Inghilterra. Con questo dolce pensiero nella sua sciocca, vecchia testa, che adagiò con sollievo sul cuscino, sotto il quale si avvertiva la gradevole pressione del libriccino di formule, Maître Baldini si addormentò e non si risvegliò mai più in vita sua.
Durante la notte infatti avvenne una piccola catastrofe, la quale, con il debito ritardo, provocò un editto da parte del re, che a poco a poco si demolissero tutte le case su tutti i ponti della città di Parigi: senza apparente motivo, il lato ovest del Pont au Change crollò tra il terzo e il quarto pilone. Due case precipitarono nel fiume, in modo così totale e improvviso, che nessuno degli abitanti poté essere salvato. Fortunatamente si trattava solo di due persone, e cioé di Giuseppe Baldini e di sua moglie Teresa. Gli impiegati se n’erano andati, con o senza permesso, in libera uscita. Chénier, che soltanto nelle prime ore del mattino era tornato a casa leggermente brillo — o piuttosto voleva tornare a casa, perché appunto la casa non c’era più — subì un tracollo nervoso. Per trent’anni si era cullato nella speranza di essere nominato erede nel testamento di Baldini, che non aveva figli né parenti. E ora, di colpo, tutta l’eredità era svanita, tutto, casa, affari, materie prime, laboratorio, Baldini stesso… persino il testamento, che forse gli avrebbe dato ancora una speranza di entrare in possesso della manifattura!
Nulla fu trovato, non i cadaveri, non la cassaforte, non il libriccino con le seicento formule. L’unica cosa che restò di Giuseppe Baldini, il più grande profumiere d’Europa, fu un sentore molto complesso di muschio, cannella, aceto, lavanda e mille altre sostanze, che fluttuò ancora per parecchie settimane sopra la Senna, da Parigi fino a Le Havre.