LIBRO PRIMO La notte nera

1 Viaggiare nel tempo

Esistono tre dimensioni dello spazio attraverso cui ognuno può muoversi liberamente. Il tempo è semplicemente una quarta dimensione, identica alle altre in ogni sua caratteristica, tranne il fatto che la nostra coscienza è obbligata a percorrerla a un’andatura regolare, come la punta del mio pennino sulla pagina.

Nel corso dei miei studi sulle proprietà peculiari della luce, avevo ipotizzato che se soltanto fosse stato possibile piegare le quattro dimensioni dello spazio e del tempo, per esempio scambiando la lunghezza con la durata, allora sarebbe stato possibile percorrere le vie della storia con la stessa facilità con cui si poteva prendere una carrozza per andare nel West End.

La plattnerite inserita nelle componenti della macchina del tempo era la chiave del funzionamento di quest’ultima, giacché le consentiva di ruotare in maniera del tutto insolita, in una nuova configurazione della struttura spazio-temporale. Di conseguenza, chi avesse assistito alla partenza della macchina del tempo, com’era il caso dello Scrittore, l’avrebbe vista roteare vertiginosamente prima di scomparire dalla storia, mentre il conducente, ovvero io stesso, provava un inevitabile senso di vertigine indotto dalla forza centrifuga e dalla forza di Coriolis, nonché l’impressione di essere catapultato fuori della macchina.

Nonostante tutti questi effetti, la rotazione provocata dalla plattnerite era di una qualità diversa rispetto a quella di una trottola, o alla lenta rivoluzione della Terra.

Nel conducente, la sensazione di roteare veniva contraddetta dall’illusione di essere seduto immobile sul sellino intanto che il tempo scorreva all’esterno della macchina, giacché si trattava di una rotazione all’esterno del tempo e dello spazio stessi.


Mentre le notti si susseguivano ai giorni, i tratti indistinti del laboratorio si dissolsero, e mi ritrovai all’aria aperta. Ancora una volta attraversai l’epoca futura in cui, credo, il laboratorio sarebbe stato demolito. Il sole sfrecciava nel cielo come una palla di cannone, condensando interi giorni nello spazio di un minuto e illuminando la vaga struttura scheletrica del laboratorio intorno a me. In breve tempo, la struttura scomparve, lasciandomi sul versante di una collina.

La velocità del mio viaggio nel tempo aumentò. Il succedersi delle notti e dei giorni si fuse in un crepuscolo blu, in cui potei osservare la luna ruotare nelle sue fasi come la trottola di un ragazzino. Mentre procedevo con un’accelerazione sempre maggiore, il tragitto del sole divenne un arco luminoso che ondeggiava nello spazio. Intorno a me si susseguirono le stagioni, in raffiche di bianco niveo e di verde primaverile. Alla fine, l’accelerazione mi trasportò in un nuovo stato di quiete, in cui soltanto i cicli annuali della Terra medesima, il passaggio della cintura solare da un solstizio all’altro, pulsarono come un battito cardiaco sul paesaggio in trasformazione.

Non sono certo di avere descritto, nel mio primo resoconto, il silenzio in cui ci si trova sospesi allorché si viaggia nel tempo. Il canto degli uccelli, il tramestio lontano del traffico, il ticchettio degli orologi, persino il debole respiro della struttura stessa di una casa…

Tutto ciò costituisce l’arazzo tanto complesso quanto impercettibile sullo sfondo del quale si svolgono le nostre esistenze. Ma io, avulso dal flusso temporale, ero accompagnato soltanto dai rumori del mio stesso respiro e dal morbido cigolio come di bicicletta della macchina del tempo sotto il mio peso.

Provavo una sensazione straordinaria d’isolamento: era come se fossi stato scagliato in qualche nuovo universo buio, attraverso le cui pareti il nostro mondo era visibile come dai vetri sporchi di una finestra. In quel nuovo universo, però, ero l’unico essere vivente. Una sensazione di smarrimento profondo scese su di me, e unitamente a quella di precipitare vertiginosamente che si accompagnava al viaggio nel futuro, suscitò nausea e depressione.

A un tratto, il silenzio fu rotto da un mormorio cupo, privo d’origine, simile al fragore vorticoso di un fiume immenso, che mi assordò. L’avevo già notato durante il mio primo volo. Non potevo esserne certo, tuttavia mi pareva che fosse prodotto dal mio inopportuno passaggio attraverso il fluire maestoso del tempo.

Eppure sbagliavo, come mi accadeva tanto spesso nella mia frettolosa formulazione di ipotesi!


Osservai i quattro cronometri, picchiettando i quadranti con l’unghia dell’indice per accertarmi che funzionassero. Già la lancetta del secondo, che misurava i giorni in migliaia, aveva cominciato a spostarsi dalla sua posizione di quiete.

I cronometri, servi muti e fedeli, ricavati da altrettanti manometri, funzionavano misurando una determinata sollecitazione di taglio, indotta dagli effetti di torsione del viaggio temporale, in una barra di quarzo cosparsa di plattnerite, ed erano stati progettati per contare i giorni, anziché gli anni, i mesi, gli anni bisestili, o le feste mobili.

Non appena avevo iniziato a meditare sui problemi pratici inerenti ai viaggi temporali, e in particolare quello di misurare la posizione della macchina, avevo dedicato parecchio studio alla progettazione di un cronometro capace di misurare il tempo nel modo consueto, ossia in secoli, in anni, in mesi e in giorni, ma non avevo tardato a scoprire che molto probabilmente avrei dovuto dedicare più lavoro a questo singolo aspetto che all’intero progetto.

I difetti del nostro antiquato calendario mi avevano esasperato. Risultato di una serie di tentativi inadeguati, risalenti agli inizi della società organizzata, di misurare periodi come la stagione della semina e momenti come il solstizio d’inverno, il nostro calendario era un’assurdità storica, e non veniva riscattato neppure dalla precisione, almeno dal punto di vista cosmologico che intendevo affrontare.

Avevo scritto lettere furenti al Times, proponendo riforme che avrebbero consentito di eseguire calcoli con precisione e senza ambiguità su scale temporali di valore autentico per gli scienziati moderni. Tanto per cominciare, avevo sostenuto, occorreva sbarazzarsi dall’ingombro assurdo degli anni bisestili. Un anno è costituito da circa trecentosessantacinque giorni e un quarto, e questo quarto casuale provoca la ridicola sciarada delle correzioni bisestili. Avevo dunque proposto un’alternativa fra due metodi in grado di sostituire efficacemente questo sistema assurdo. Considerando il giorno come unità, si sarebbero potuti costruire mesi e anni sui multipli dei giorni: un anno di trecento giorni, composto da dieci mesi di trenta giorni. Naturalmente, ciò avrebbe comportato perdere in breve tempo la sincronia fra le stagioni, l’anno e i mesi, ma ciò, in una civiltà avanzata come la nostra, avrebbe sicuramente causato ben poche difficoltà. Il Royal Observatory di Greenwich, per esempio, avrebbe potuto pubblicare ogni anno un almanacco in cui fossero indicate le date dei cicli solari, ossia gli equinozi e così via, allo stesso modo in cui tutti gli almanacchi del 1891 indicavano le feste mobili delle chiese cristiane.

Considerando invece come unità fondamentale il ciclo delle stagioni, si sarebbe potuto calcolare il primo giorno dell’anno come frazione esatta, per esempio un centesimo, dell’anno stesso. Ciò avrebbe naturalmente comportato che la transizione fra la notte e il giorno, il sonno e la veglia, sarebbe avvenuta a ore diverse ogni primo dell’anno. Ma quale importanza avrebbe avuto? Avevo argomentato che molte città moderne erano già attive ventiquattr’ore al giorno. Quanto al punto di vista umano, non è difficile imparare a tenere un diario: con l’ausilio di registrazioni adeguate, sarebbe stato possibile programmare con pochi giorni d’anticipo la transizione fra il sonno e la veglia.

Infine, avevo proposto di adottare il punto di vista dell’epoca in cui la coscienza umana si sarebbe espansa ben oltre la prospettiva del presente del diciannovesimo secolo, adottando quella del pensiero costretto ad abbracciare decine di millenni. A questo scopo, avevo ideato un nuovo calendario cosmologico, basato sulla precessione degli equinozi, vale a dire la lenta inclinazione dell’asse del pianeta, dovuta alla diseguale attrazione gravitazionale del sole e della luna: un ciclo che si compie in venti millenni. Con un anno di tali proporzioni come unità, avremmo potuto misurare il nostro destino con precisione, senza ambiguità, sia nel presente, sia per tutto il tempo a venire.

Avevo sostenuto che il significato simbolico di tale rettifica avrebbe travalicato di gran lunga la sua utilità pratica, perché avrebbe segnato in modo adeguato l’alba di un nuovo secolo, annunciando all’umanità intera che un’epoca nuova di pensiero scientifico era incominciata.

È inutile dire che il mio contributo era stato del tutto ignorato, con l’eccezione di alcune risposte irriverenti, a cui avevo preferito non replicare, da parte di certi settori della stampa popolare.

Dopo tutto ciò, comunque, avevo abbandonato ogni tentativo di costruire un cronometro basato sul calendario, decidendo semplicemente di ricorrere al computo dei giorni. Poiché avevo sempre avuto una mente matematica, non mi era stato difficile convertire mentalmente il conto dei giorni in anni. Durante il mio primo viaggio, mi ero recato sino al giorno 292.495.934, il quale, considerando le correzioni degli anni bisestili, equivaleva a un giorno dell’anno 802.701 d.C. Sapevo dunque di dover procedere sino a quando i cronometri avessero indicato il giorno 292.495.940, vale a dire il giorno esatto in cui avevo perduto Weena, nonché gran parte della stima che avevo di me stesso, nell’incendio nella foresta.


Nel diciannovesimo secolo, la mia casa era situata insieme con altre, lungo il tratto di Petersham Road sotto Hill Rise, a breve distanza dal fiume. Con il trascorrere del tempo, fu demolita, lasciando il versante spoglio. Richmond Hill si trasformò con il succedersi delle ere geologiche. Gli alberi fiorirono e avvizzirono, le loro esistenze secolari compresse in pochi istanti. Il Tamigi divenne a miei occhi un nastro piatto di luce argentea per effetto dell’attraversamento temporale, e si aprì un nuovo letto, serpeggiando lentamente nel paesaggio come un grosso verme. Nuovi edifici sorsero come buffi di fumo, alcuni intorno a me, sul luogo della mia vecchia casa, sbalordendomi con le loro dimensioni e con la loro bellezza. Il ponte di Richmond della mia epoca scomparve, sostituito da un altro: un arco lungo forse un miglio che varcava il Tamigi fendendo l’aria senza sostegno apparente. Nella luce tremolante del cielo s’innalzarono torri snelle, in grado di sostenere masse immense. Rinunciai al tentativo di fotografare quei fantasmi con la mia Kodak, sapendo che la luce, per effetto della traslazione temporale, sarebbe stata insufficiente a impressionare l’emulsione. Intravidi edifici che mi parvero tanto al di sopra delle tecniche architettoniche del diciannovesimo secolo quanto poteva esserlo il gotico rispetto all’arte dei romani o dei greci. Pensai che nel futuro l’umanità fosse riuscita ad affrancarsi dalla morsa spietata della gravità: altrimenti, come sarebbe stato possibile edificare quelle costruzioni immense che si stagliavano sullo sfondo del cielo?

In breve tempo, però, il ponte sul Tamigi si macchiò di marrone e di verde, i colori dell’incuria e della degradazione; poi, in quello che mi parve un batter d’occhio, crollò, lasciando soltanto due spogli monconi sulle rive. Mi resi conto che persino quelle opere ciclopiche, al pari di tutte le altre dell’umanità, non erano altro che evanescenti chimere, destinate a non intaccare la pazienza ctonia della terra.

Provai un distacco insolito dal mondo, suscitato dall’esperienza del viaggio temporale. Ricordavo la curiosità e l’entusiasmo che avevo provato nell’osservare per la prima volta i sogni che l’architettura del futuro aveva realizzato, e le mie brevi, febbrili meditazioni sulle imprese di queste razze umane del futuro. Ma ormai avevo acquisito nuove conoscenze: sapevo che, nonostante la grandezza di quei trionfi, l’umanità sarebbe inevitabilmente regredita sotto la pressione inesorabile dell’evoluzione, fino alla decadenza e alla degradazione degli Eloi e dei Morlock.

Mi sgomentò la consapevolezza di quanto noi umani siamo o ci rendiamo ignari del trascorrere del tempo, di quanto siano brevi le nostre vite, e di quanto siano insignificanti gli eventi che premono sulle nostre piccole individualità, se soltanto li osserviamo dalla prospettiva delle immani trasformazioni della storia. Siamo meno che effimere, impotenti dinanzi alle forze ingovernabili della geologia e dell’evoluzione, le quali procedono inesorabili ma con tale lentezza che, misurate sulla scala dei giorni, neppure ci rendiamo conto della loro esistenza!

2 Una nuova visione

In breve oltrepassai l’Epoca degli Edifici Immensi. Nuovi fabbricati, meno ambiziosi benché vasti, brillarono intorno a me in un’esistenza fugace lungo tutta la valle del Tamigi, assumendo, dal punto di vista del viaggio temporale, una certa opacità che derivava dalla longevità. L’arco del sole, inclinandosi nel cielo azzurro cupo fra gli estremi dei solstizi, mi parve diventare più luminoso, e un flusso verde inondò Richmond Hill, impossessandosi della Terra, scacciando il marrone e il bianco dell’inverno. Ancora una volta entrai nell’epoca in cui il clima terrestre era mutato a favore dell’umanità.

Osservai il paesaggio, ridotto all’immobilità per effetto della velocità della macchina: soltanto i fenomeni più duraturi si aggrappavano al tempo tanto a lungo da poter essere percepiti dalla mia vista fugace. Non vidi persone né animali: neppure il passaggio di una nube. Ero sospeso in una quiete sovrannaturale. Se non fosse stato per le oscillazioni della fascia solare, e l’innaturale azzurro cupo del cielo sia di giorno sia di notte, mi sarebbe parso di essere seduto in solitudine in un parco, a tarda estate.

Secondo i cronometri, avevo percorso meno di un terzo del mio grande viaggio, anche se mi trovavo un quarto di milione di anni lontano dal secolo che conoscevo, eppure sembrava che l’epoca delle grandi costruzioni umane sulla Terra fosse già conclusa. Il pianeta era diventato il giardino in cui avrebbero vissuto le loro esistenze futili e meschine i progenitori degli Eloi. Sapevo che gli antenati dei Morlock dovevano essere già confinati nel sottosuolo, e sicuramente stavano già scavando le caverne immense in cui avrebbero ammassato i loro macchinari. Ben poco sarebbe cambiato nell’intervallo di mezzo milione di anni che dovevo ancora colmare, a eccezione della degradazione ulteriore dell’umanità e dell’identità delle vittime nei milioni di piccole tragedie spaventose che in seguito avrebbero costituito la condizione umana.

Osservai tuttavia, strappandomi a quelle speculazioni tetre, che un cambiamento si verificava effettivamente nel paesaggio, diventando poco a poco evidente. Notando qualcosa di diverso, forse nella luce, provai un turbamento che non era provocato dall’ondeggiare consueto della macchina del tempo.

Seduto sul sellino, scrutai ciò che mi circondava: gli alberi spettrali, i prati pianeggianti attorno a Petersham, le rive digradanti del placido Tamigi…

Poi, sollevando lo sguardo al firmamento appiattito dall’effetto temporale, mi resi finalmente conto che la fascia solare era stazionaria nel cielo. La Terra ruotava ancora sul proprio asse tanto rapidamente da rendere indistinto il movimento della sua stella e invisibile quello degli astri, ma la fascia solare non ondeggiava più fra i solstizi: era invece ferma e immutabile come se fosse costruita in cemento.

La nausea e la vertigine mi assalirono di nuovo con impeto, obbligandomi ad afferrare la gabbia della macchina, deglutendo nello sforzo di mantenere il controllo del mio corpo.

È difficile comunicare l’impatto che quel semplice mutamento intervenuto nello spazio ebbe su di me. Innanzitutto, rimasi sconvolto dalla pura e semplice audacia della tecnica che aveva consentito l’abolizione del ciclo stagionale. Quest’ultimo era derivato dall’inclinazione dell’asse del pianeta rispetto al piano dell’orbita intorno al sole. Sembrava però che sulla Terra non esistessero più le stagioni, e mi resi immediatamente conto che ciò poteva significare soltanto che l’inclinazione dell’asse planetario era stata corretta.

Tentai d’immaginare come fosse stato possibile riuscirvi. Quali macchinari immensi dovevano mai essere stati installati ai poli? Quali misure erano state prese per garantire che la superficie terrestre non si staccasse durante il processo? Forse era stato impiegato qualche gigantesco congegno, il quale aveva manipolato il nucleo magnetico fuso del globo.

Ma non furono soltanto le dimensioni di quella tecnica planetaria a turbarmi: ancora più terrificante fu il fatto che durante il mio primo viaggio temporale non avevo affatto osservato quell’abolizione delle stagioni. Com’era possibile che non avessi osservato un mutamento di tali proporzioni? Dopotutto, posseggo una formazione scientifica: il mio compito consiste in primo luogo nell’osservare.

Dopo essermi massaggiato il viso, osservai la fascia solare che stava sospesa nel cielo, sfidandomi a credere nella sua assenza di movimento. La sua luminosità mi feriva la vista: anzi, mi sembrava che stesse diventando sempre più intensa. Dapprima mi domandai se non fosse un’illusione dovuta alla mia immaginazione, oppure a un difetto della vista. Chinai il viso, asciugandomi le lacrime con una manica della giacca e battendo le palpebre per scacciare le macchioline e le fasce luminose che mi accecavano.

Non sono un primitivo né un codardo, eppure dinanzi alla prova delle imprese colossali compiute dall’umanità futura, mi sentii come un selvaggio con la chioma adorna di ossa e il nudo corpo dipinto, terrorizzato dalle divinità del cielo sfolgorante. Dalle profondità della mia coscienza emerse gorgogliando un timore soverchiarne di aver perduto la sanità mentale. Nonostante ciò mi aggrappai alla convinzione di avere in qualche modo mancato di osservare quello sconvolgente fenomeno astronomico durante il primo attraversamento di quell’epoca. L’unica altra ipotesi possibile, infatti, mi terrorizzava sino alle radici dell’anima: non ero stato affatto distratto durante il primo viaggio, bensì la correzione dell’asse terrestre non aveva ancora avuto luogo. Insomma, il corso stesso della storia era cambiato.


La forma quasi eterna della collina era immutata, la conformazione della terra di un tempo non era stata modificata dal cambiamento avvenuto nel cielo, però la marea di vegetazione verdeggiante che aveva sommerso la Terra era rifluita sotto il perenne sguardo spietato del sole ardente.

A un tratto, accorgendomi di un lampeggiare al di sopra della mia testa, sollevai lo sguardo, proteggendomi gli occhi con le mani. Scoprii così che il lampeggiamento proveniva dalla fascia solare, o meglio, da quella che tale era stata, giacché ancora una volta potei discernere il movimento del sole, che sfrecciava nel cielo come una palla di cannone durante la sua rivoluzione diurna: tale movimento non era più tanto rapido da non poter essere percepito, quindi il lampeggiamento era provocato dalla transizione fra la notte e il giorno.

Sul momento pensai che la macchina del tempo stesse rallentando, però, nell’osservare nuovamente i cronometri, constatai che le lancette continuavano a roteare come prima.

L’uniformità grigioperla della luce si dissolse; lo sfarfallio della transizione fra il giorno e la notte si accentuò; il sole, giallo, ardente e luminoso, rallentò a ogni rivoluzione. In breve mi resi conto che stava impiegando parecchi secoli a completare un unico giro intorno alla Terra.

Infine, il sole si fermò del tutto, posandosi sull’orizzonte occidentale, inesorabile e immutabile. La Terra ruotava presentando perennemente la medesima faccia alla sua stella!

Gli scienziati del diciannovesimo secolo avevano previsto che alla lunga, per effetto dell’attrazione del sole e della luna, la Terra avrebbe finito appunto per presentare sempre la stessa faccia al sole, come la luna alla Terra. Io stesso ero stato testimone di tale cambiamento durante la prima esplorazione del futuro. Avrebbe dovuto trattarsi di un’eventualità destinata a verificarsi soltanto dopo parecchi milioni di anni, invece scoprivo che si era già realizzata dopo poco più di mezzo milione di anni.

Ancora una volta compresi che si trattava della mano dell’uomo, la quale, discesa da quella della scimmia, si protendeva attraverso i secoli con presa divina. Non contento di aver modificato l’inclinazione dell’asse, l’uomo aveva anche rallentato la rotazione del pianeta, ponendo fine al ciclo antichissimo dei giorni e delle notti.

Osservai il deserto inglese. Il suolo arido era privo d’erba. Ciuffi sparsi di cespugli robusti, vagamente simili a ulivi nella forma, lottavano per sopravvivere, riarsi dal sole crudele. Il possente Tamigi, il cui corso aveva deviato di circa un miglio nella pianura, si era ridotto a un torrente nel letto profondo, tanto che non riuscivo più a scorgere il luccichio dell’acqua. Non potevo certo pensare che i mutamenti recenti avessero migliorato l’ambiente: se non altro, il mondo dei Morlock e degli Eloi aveva conservato le caratteristiche essenziali della campagna inglese, con abbondanza di vegetazione e d’acqua: a ripensarci, era stato come se tutte le isole britanniche fossero state trainate ai tropici.

Immaginai quali dovessero essere le condizioni del povero pianeta, con un emisfero perennemente rivolto al sole e l’altro eternamente in ombra. All’equatore della faccia illuminata, il calore doveva essere tale da bollire vive le persone, e l’aria doveva fuggire in venti possenti dall’emisfero surriscaldato a quello gelido, dove si trasformava in una nevicata di ossigeno e di azoto sugli oceani cinti dai ghiacci. Se avessi fermato la macchina in quel momento, forse sarei stato immediatamente spazzato via da quei venti, che erano le ultime esalazioni dei polmoni terrestri! Il processo sarebbe cessato solo quando l’emisfero diurno si fosse interamente trasformato in un deserto del tutto privo d’atmosfera, d’acqua e di vita, e l’emisfero notturno fosse rimasto avvolto da un guscio sottile di aria gelata.

Con orrore crescente mi resi conto di non poter tornare nella mia epoca, perché per farlo avrei dovuto fermare la macchina, e in tal caso sarei precipitato in una regione di vuoto e di calore ardente, tanto priva di vita quanto la superficie della luna. D’altronde, avrei osato proseguire verso un futuro ignoto, nella speranza di trovare da qualche parte, nelle profondità del tempo, un mondo abitabile?

Fui certo di essere stato vittima, durante il primo viaggio nel tempo, di un grave difetto della percezione, oppure, successivamente, della memoria. Se potevo infatti non essermi accorto in precedenza della scomparsa delle stagioni, anche se stentavo a crederlo, non potevo affatto persuadermi di non avere notato il rallentamento della rotazione terrestre.

Non poteva esservi alcun dubbio: stavo viaggiando in un tempo profondamente diverso da quello che avevo osservato durante la prima esplorazione.

Benché sia riflessivo per natura, e in genere non abbia difficoltà a formulare ipotesi fantasiose, in quel momento ero talmente sconvolto che non riuscivo più a pensare. Fu come se la mia mente, intanto che il mio corpo continuava a sfrecciare innanzi attraverso il tempo, rimanesse indietro, intrappolata nel passato vischioso. In precedenza, avevo posseduto una patina di coraggio: una facciata sostenuta dalla compiaciuta convinzione che, sebbene stessi volando incontro al pericolo, si trattava almeno di un pericolo che avevo già affrontato. Invece mi trovavo improvvisamente costretto ad ammettere di non avere la più pallida idea di ciò che mi attendeva in quel nuovo flusso temporale!

Mentre ero assorto in queste lugubri meditazioni, mi accorsi che nel cielo avvenivano mutamenti continui, come se lo smantellamento dell’ordine naturale delle cose non fosse già stato sufficiente. Il sole divenne ancora più luminoso. Ebbi l’impressione, benché fosse arduo averne la certezza a causa di quella luce abbacinante, che l’astro medesimo cambiasse forma: dilatandosi nel cielo, diventava una chiazza luminosa di forma ellittica. Mi domandai se per qualche ragione stesse ruotando più rapidamente, così da risultare appiattito…

E allora, d’improvviso, il sole esplose.

3 Nell’oscurità

Getti luminosi eruttarono dai poli del sole come fiammate immense. In pochi istanti la stella fu avvolta da un manto sfolgorante di luce, e il calore bruciò la Terra sofferente.

Urlando, mi coprii il volto con le mani, ma continuai a vedere quella luce accecante, che filtrava persino attraverso le mie carni, riflessa dal nichel e dall’ottone della macchina del tempo.

Poi, improvvisamente com’era iniziata, la tempesta luminosa cessò, una sorta di guscio avvolse il sole, come se una bocca immensa lo inghiottisse, e io precipitai nelle tenebre.

Abbassai le mani, scoprendo di essere del tutto incapace di vedere, anche se parecchie chiazze luminose continuavano a danzarmi dinanzi agli occhi. Sentendo il sellino duro sotto le natiche, mi protesi a palpare i cronometri, mentre la macchina continuava a ondeggiare, proseguendo il viaggio attraverso il tempo. Mi chiesi, con terrore, se avessi perduto la vista.

Più nera dell’oscurità eterna, sorse in me la disperazione. La mia seconda, grande avventura era dunque destinata a concludersi tanto presto e tanto ignobilmente? Cercando a tastoni le leve di controllo, progettai febbrilmente d’infrangere i quadranti per tentare di capire al tatto dove mi trovassi, e quindi poter tornare nella mia epoca.

Allora mi accorsi di non essere cieco: riuscivo a vedere qualcosa.

Fu quello l’aspetto più strano di tutto il viaggio sino a quel momento: tanto strano, che per un momento ignorai persino la paura.

Nel buio, vedevo una luminosità vaga e diffusa che ricordava il sorgere del sole, ma tanto debole da indurmi a sospettare che potesse trattarsi di un inganno visivo. Ebbi l’impressione di scorgere le stelle tutt’intorno, ma fioche, opache, come viste attraverso uno sporco vetro colorato.

E in quella luminosità tenue mi accorsi che non ero solo.

L’essere si trovava pochi metri dinanzi alla macchina del tempo, o meglio, si librava nell’aria, senza sostegno. Era una sorta di palla di carne di un metro e venti di diametro, simile a una testa fluttuante, con due gruppi di tentacoli che pendevano come dita grottesche. A quanto potevo vedere, era privo di narici e aveva una bocca simile a un becco carnoso, ma notai che gli occhi, due, grandi e scuri, erano umani. Sembrava produrre un fragore cupo, come un fiume in piena: mi resi conto, con una fitta di terrore, che era esattamente lo stesso rumore che avevo già udito, non soltanto poc’anzi, ma anche durante il mio primo viaggio nel tempo.

Era mai possibile che quell’essere, che definii l’Osservatore, mi avesse accompagnato, senza essere visto, nel corso di entrambe le spedizioni temporali?

D’improvviso, si avventò su di me, giungendo a meno di un metro dal mio viso.

Infine, persi il controllo di me stesso: urlando, tirai una leva, senza curarmi delle conseguenze.

La macchina del tempo s’inclinò, l’Osservatore scomparve, e io fui catapultato nel vuoto!


Rimasi privo di conoscenza, non saprei dire per quanto tempo. Mi ripresi poco a poco, scoprendo di avere la faccia premuta contro una dura superficie sabbiosa. Ebbi l’impressione di sentire sul collo un respiro caldo, come una lieve carezza, o un sussurro; ma quando, con un gemito, feci per alzarmi, tali sensazioni svanirono.

Immerso in un’oscurità assoluta, seduto sulla sabbia pressata, con la testa che mi doleva per l’urto che avevo subito, in seguito al quale avevo perduto il cappello, non sentivo caldo né freddo. Nell’aria immota indugiava un odore di stantio.

Con le braccia protese, tastai tutt’ intorno, e quasi subito fui ricompensato, con mio grande sollievo, toccando l’avorio e l’ottone della macchina del tempo che, come me, era caduta in quel deserto buio. Palpai con entrambe le mani la gabbia, rendendomi conto che la macchina era rovesciata. L’oscurità però m’impediva di accertare se fosse danneggiata.

Ovviamente, mi occorreva far luce. Frugai nelle tasche alla ricerca dei fiammiferi, soltanto per non trovarne: scioccamente, infatti, avevo collocato l’intera provvista nello zaino. Reagendo al panico, che per un attimo mi travolse, mi alzai, tutto tremante, per accostarmi alla macchina. Con le braccia infilate tra le sbarre della gabbia, trovai a tastoni lo zaino, ancora saldamente sistemato sotto il sellino. L’aprii con impazienza, vi frugai sino a trovare i fiammiferi, me ne ficcai due scatole nelle tasche della giacca, infine ne accesi uno sulla striscia di sfregamento.

La luce della fiammella rivelò subito, poco più di mezzo metro di fronte a me, una testa dalla chioma bionda, lunga e liscia, con grandi occhi grigiorossi e la pelle cerea.

L’essere lanciò uno strano strillo gorgogliante, prima di scomparire nell’oscurità, oltre la zona illuminata dal fiammifero.

Era un Morlock!

Quando la fiammella mi scottò le dita, lasciai cadere il fiammifero. In preda al panico, rischiai di farmi sfuggire la preziosa scatoletta, mentre tentavo di accenderne un altro.

4 La notte nera

Con l’acre odore sulfureo dei fiammiferi nelle narici, indietreggiai sulla sabbia fino a premere la schiena contro la gabbia d’ottone della macchina del tempo. Dopo alcuni attimi di terrore, ritrovai sufficiente padronanza di me stesso per prendere una candela dallo zaino. Incurante della cera calda che mi colava sulle dita, tenni alta la candela, vicino al viso, guardando intorno alla luce della fiamma gialla.

Poco a poco, cominciai a distinguere ciò che mi circondava: la macchina del tempo rovesciata, con l’ottone e il quarzo che scintillavano alla luce della candela, e un edificio, o una statua gigantesca, che incombeva pallida a breve distanza da me. Il mondo non era del tutto privo di luce: il sole era scomparso, ma nel cielo si scorgevano le stelle, anche se le costellazioni non avevano più le stesse configurazioni che avevo conosciuto nella mia epoca. Non vidi alcuna traccia della presenza amichevole della luna.

In una zona del firmamento, però, non brillavano astri: a occidente, innalzandosi dall’orizzonte nero, un ellisse appiattito, privo di stelle, copriva un quarto dello spazio. Era il sole, avvolto dal suo guscio sorprendente.

Passato lo spavento, decisi per prima cosa di accertarmi di poter tornare nella mia epoca: dovevo insomma raddrizzare la macchina del tempo. Però non volevo farlo al buio. In ginocchio, scavai con il pollice una fossetta, in cui conficcai la candela, confidando nel fatto che in breve tempo la cera colata l’avrebbe rinsaldata in posizione. Così ebbi illuminazione sufficiente e le mani libere per agire.

A denti stretti, dopo aver inspirato, afferrai la macchina e spinsi anche con le ginocchia. L’avevo progettata affinché fosse solida, non facile da spostare, ma alla fine cedette al mio sforzo, inclinandosi, anche se nel tentativo urtai con la spalla una barra di nichel.

Quando posai una mano sul sellino, mi accorsi che il cuoio era stato graffiato dalla sabbia del mondo futuro. Palpai i cronometri, nascosti dall’ombra che io stesso gettavo: un vetro si era rotto, ma il cronometro sembrava funzionante. Allorché toccai le due leve bianche con cui avrei potuto tornare nella mia epoca, la macchina rabbrividì come uno spettro, rammentandomi che né essa né il suo conducente appartenevano a quel tempo. In qualsiasi istante, avrei potuto rimontare a bordo per tornare alla sicurezza del 1891, senza rischiare altra conseguenza che una ferita superficiale all’orgoglio.

Recuperai la candela per avvicinarla ai cronometri, scoprendo così di trovarmi nel giorno 239.354.634, ossia nell’anno 657.208. Le mie sfrenate elucubrazioni sulla mutevolezza del passato e del futuro dovevano essere corrette, giacché quella buia collina era situata centocinquantamila anni prima della nascita di Weena, e non riuscivo proprio a immaginare come da quella tenebra assoluta avesse potuto svilupparsi il mondo lussureggiante e soleggiato che avevo visitato.

Rammentai che mio padre, quand’ero bambino, mi aveva divertito con un giocattolo a suo modo portentoso chiamato lanterna magica a dissolvenza con cui era possibile far sfumare l’una nell’altra le rozze immagini colorate proiettate sullo schermo, spostando l’illuminazione dal proiettore di destra a quello di sinistra. A quell’epoca mi aveva profondamente impressionato vedere un’immagine luminosa tramutarsi in un fantasma per poi essere sostituita da un’altra, percepibile inizialmente soltanto come sagoma. Il divertimento era stato enorme nel momento in cui, con le due immagini in equilibrio perfetto, era stato difficile stabilire quale stesse scomparendo e quale invece prendeva forma, o quali dettagli fossero “reali”.

Allo stesso modo, mentre mi trovavo in quella regione buia, ebbi l’impressione che l’immagine del mondo che mi ero costruito diventasse vaga e confusa, per poi essere sostituita dai puri e semplici contorni di un’altra, con più offuscamento che nitidezza.

La biforcazione del corso della storia di cui ero stato testimone (nel primo ramo, la formazione del mondo paradisiaco degli Eloi, nel secondo ramo, la scomparsa del sole e la desertificazione del pianeta) mi era incomprensibile. Come si spiega che eventi prima esistenti, all’improvviso non esistano più?

Ricordai le parole di Tommaso d’Aquino, secondo cui nemmeno Dio avrebbe potuto cancellare ciò che era stato, in quanto sarebbe stato ancor più impossibile che resuscitare i morti. Anch’io lo avevo creduto! Pur non essendo molto incline alla speculazione filosofica, avevo sempre considerato il futuro come un’estensione del passato, dunque fisso e immutabile persino per Dio, e sicuramente per l’uomo, talché la macchina del tempo avrebbe potuto condurmi a esplorare il futuro.

Invece avevo appena appreso, o almeno così mi sembrava, che il futuro poteva cambiare. Se è così, pensai, quale significato potrebbe mai essere attribuito alle vite umane?

Benché fosse grave sopportare la consapevolezza che l’erosione del tempo cancellava inesorabilmente tutte le imprese umane, come io sapevo meglio di chiunque altro, era di conforto sapere almeno che ciò che si era fatto, ciò che si era amato, un tempo era esistito. Ma se la storia poteva essere cancellata e modificata, quale valore si poteva assegnare a qualsiasi attività umana?

Nel meditare su tali possibilità sconcertanti, ebbi l’impressione che la solidità del mio pensiero e della mia comprensione del mondo venissero meno. Fissai la fiamma della candela, cercando di determinare questa nuova consapevolezza.

Decisi che non tutto era perduto: la paura mi stava passando, la mia mente conservava il proprio vigore e la propria agilità. Soltanto dopo aver esplorato quel mondo bizzarro e aver scattato, se possibile, una serie di fotografie con la Kodak, sarei tornato nel 1891, dove studiosi filosoficamente più preparati di me avrebbero potuto sciogliere l’enigma di due futuri che si escludevano a vicenda.

Sporgendomi oltre la gabbia della macchina del tempo, smontai le leve che consentivano di azionarla e le infilai al sicuro in tasca, quindi cercai a tastoni il solido attizzatoio di cui mi ero provvisto, il quale era rimasto incastrato fra le sbarre, e lo impugnai, soppesandolo. Acquistai maggior sicurezza in me stesso, immaginando di spaccare qualche tenero cranio di Morlock con quel primitivo manufatto. Infilato nella cintura, risultò alquanto ingombrante, tuttavia continuò a rassicurarmi con il suo peso e con la sua solidità, nonché ricordandomi la mia epoca e il mio focolare.


Tenendo la candela sollevata, illuminai debolmente la statua spettrale, o l’edificio, che avevo scorto accanto alla macchina del tempo. Si trattava, in effetti, di una sorta di monumento colossale scolpito in pietra bianca, di cui la luce guizzante m’impediva di discernere le forme.

Nell’avvicinarmi, ebbi l’impressione di scorgere con la coda dell’occhio un paio d’iridi grigio-rosse che si sgranavano, e una figura bianca che si allontanava sulla sabbia con un fruscio di piedi nudi. Con una mano sull’impugnatura d’ottone dell’attizzatoio, proseguii.

La statua era collocata su un basamento, con pannelli incassati e ornati, che sembravano di bronzo, macchiato d’antiche chiazze d’ossido. La statua, di marmo bianco, raffigurava un corpo leonino dalle grandi ali spiegate, che sembrava incombere su di me. Non vedendo puntelli, mi domandai come potessero sostenersi quelle ali di pietra: forse grazie a un’intelaiatura metallica, o forse in virtù di ciò che restava, in quell’epoca desolata, dell’arte di padroneggiare la gravità, di cui avevo ipotizzato l’esistenza nel mio ultimo attraversamento dell’Epoca degli Edifici Immensi. Il volto della belva di marmo era umano, chino nella mia direzione, talché ebbi l’impressione che i vacui occhi di pietra mi osservassero. E le labbra consunte dagli agenti atmosferici erano atteggiate a un sorriso sardonico e crudele.

Allora, trasalendo, riconobbi la statua: se non mi fossi trattenuto per timore dei Morlock, avrei lanciato un grido di gioia, nel ravvisare un oggetto che mi era familiare! Si trattava infatti del monumento che avevo battezzato Sfinge Bianca, e che avevo trovato proprio in quel luogo durante la mia prima esplorazione del futuro. Fu quasi come salutare una vecchia amica!

Camminai avanti e indietro sul versante sabbioso, oltre la macchina del tempo, ricordandolo come lo avevo conosciuto: i rododendri color malva e color porpora che avevano fiancheggiato il sentiero mi avevano accolto, all’ arrivo, con una tempesta di fiori, attraverso la quale avevo intravisto la Sfinge imponente.

Ebbene, mi trovavo di nuovo nello stesso luogo, ma con centocinquantamila anni d’anticipo, senza le piante e senza il sentiero, i quali, come sospettavo, non sarebbero mai esistiti. Un deserto buio e desolato sostituiva il giardino soleggiato che Ormai sopravviveva soltanto nei recessi della mia memoria. Tuttavia la Sfinge era lì, solida come la vita e apparentemente indistruttibile.

Con un sentimento simile all’affetto, accarezzai i pannelli del basamento. L’esistenza della Sfinge, rassicurante prova della mia visita precedente, mi confermò che non stavo immaginando tutto quanto, e che non stavo impazzendo in qualche angolo buio della mia casa, nel 1891. Tutto ciò che mi stava intorno era oggettivamente reale, e senza dubbio, come il resto della creazione, inclusa la Sfinge Bianca, faceva parte di un sistema razionale che soltanto la mia ignoranza e la limitatezza della mia intelligenza m’impedivano di comprendere. Rincuorato, mi disposi con rinnovata determinazione a proseguire l’esplorazione.

D’impulso, girai intorno al basamento per osservare alla luce della candela il pannello di bronzo di fronte alla macchina del tempo: quello che, nell’altro corso della storia, i Morlock avevano aperto per impadronirsi dell’apparecchio e nasconderlo, allo scopo infine di catturarmi. Passai le dita sul punto che ricordavo di avere colpito con un sasso, ammaccandolo, e scoprii che il bassorilievo era intatto, come nuovo. Era strano pensare che avrebbe subito la mia furia soltanto fra parecchi millenni, o forse mai.

Mi sarei allontanato per continuare l’esplorazione, se la Sfinge non mi avesse ricordato l’orrore che avevo provato allorché i Morlock mi avevano rubato la macchina del tempo. Passai una mano sulla tasca in cui tenevo le leve: senza di esse, non sarebbe stato possibile azionare la macchina. Però, nulla avrebbe impedito ai ripugnanti Morlock d’impadronirsene durante la mia assenza, magari per smontarla, o per nasconderla nuovamente.

Inoltre, come avrei potuto evitare di smarrirmi in quella tenebra? Come avrei potuto essere certo di ritrovare la macchina, allontanandomi anche di poco?

Meditai sul problema, combattuto fra il desiderio d’esplorazione e un profondo senso d’angoscia. A un tratto, ebbi un’idea. Presi dallo zaino le candele e i pezzi di canfora, poi, frettolosamente, li conficcai nella gabbia della macchina del tempo. Infine, girandovi intorno, li accesi tutti, l’uno dopo l’altro.

Indietreggiando, osservai con un certo orgoglio la mia invenzione, che illuminata dalle fiammelle sembrava un albero di Natale, con il nichel e l’ottone che scintillavano. Sul colle spoglio, nel paesaggio tenebroso, avrei potuto vederla come un faro, da lontano, se la fortuna mi avesse assistito. Inoltre, le candele e la canfora avrebbero tenuto alla larga i Morlock, o almeno, se avessi visto diminuire la luminosità, avrei potuto tornare indietro di corsa, per intervenire.

Di nuovo posai la mano sull’impugnatura dell’attizzatoio. Una parte di me, credo, sperava che quella eventualità si realizzasse: mi sentii fremere le mani e gli avambracci al ricordo della strana, morbida sensazione provocata dall’impatto dei miei pugni sul volto dei Morlock!

Comunque, ero ormai pronto alla spedizione. Presi la Kodak, accesi una piccola lampada a olio, e m’incamminai su per la collina, sostando spesso per accertarmi che la macchina del tempo non corresse pericoli.

5 Il pozzo

La lampada illuminava la zona circostante soltanto in un raggio inferiore a due metri. Tutto era silenzio: non si udiva un alito di vento, né un gorgogliare d’acqua, tanto che mi domandai se il Tamigi esistesse ancora.

In mancanza di una destinazione precisa, risolsi d’incamminarmi verso il Palazzo di Pietra Grigia che avevo visitato all’epoca di Weena. Poiché lo ricordavo situato sulla collina, poco a nordovest della Sfinge Bianca, proseguii in tale direzione, ripercorrendo nello spazio, se non nel tempo, la mia prima passeggiata nel mondo di Weena.

A differenza dell’ultima volta che avevo compiuto quel breve tragitto, i miei piedi non calpestarono l’erba di un prato, bassa e regolare, bensì una morbida distesa di sabbia in cui affondavo a ogni passo.

Quando la vista mi si fu del tutto adattata all’oscurità rischiarata soltanto da poche stelle sparse, distinsi alcuni edifici che si stagliavano qua e là sullo sfondo del cielo, però non vidi traccia del palazzo che cercavo. Lo ricordavo perfettamente: vasto e cadente, di pietra lavorata, con un portale ad arco scolpito, che avevo varcato per la prima volta scortato dagli Eloi, bassi e pallidi, belli e delicati, abbigliati di vesti morbide.

In breve, mi resi conto di avere ormai superato il luogo in cui avrebbe dovuto trovarsi l’edificio. Evidentemente, il Palazzo di Pietra Grigia, a differenza della Sfinge e dei Morlock, non era sopravvissuto in quel corso della storia. O forse, pensai con un brivido, non è mai stato costruito! Forse avevo camminato, dormito e persino mangiato, in un edificio inesistente.

Poi giunsi a un pozzo che rammentavo dalla mia esplorazione precedente: aveva la sponda di bronzo e una cupoletta dalla strana foggia delicata che lo proteggeva dalle intemperie. Sulla cupola crescevano organismi vegetali, che apparivano neri come il giaietto alla luce delle stelle. Lo osservai con un certo timore, perché quello e tutti gli altri grandi pozzi dello stesso genere avevano consentito ai Morlock di salire dalle loro caverne infere al mondo solare degli Eloi.

La bocca del pozzo era silenziosa. Ciò mi parve strano, in quanto ricordavo di avere udito salire da quello e dagli altri pozzi il rumore ritmico dei macchinari installati nei sotterranei dei Morlock.

Seduto sulla sponda del pozzo, constatai che gli organismi vegetali che avevo notato erano simili ai licheni, morbidi e asciutti al tatto. Tuttavia, non li esaminai. Quando sollevai la lampada per suscitare eventuali riflessi e scoprire così se il pozzo contenesse acqua, la fiamma guizzò, come se dal sottosuolo salisse una corrente d’aria vigorosa. Al pensiero di ciò che poteva nascondersi nell’oscurità, ritrassi la lampada, preso per un attimo dal panico.

Poi, però, mi protesi sulla bocca del pozzo e, come se avessi aperto la porta di un bagno turco, fui investito da una ventata calda e umida, del tutto inaspettata nella notte del futuro, dove l’aria era altrettanto calda, ma secca.

Ebbi inoltre l’impressione di scorgere, nelle grandi profondità del pozzo, una luce rossastra. Nonostante l’aspetto, il pozzo era molto diverso da quelli dei Morlock che avevo conosciuto. Oltre a non udire il rumore dei macchinari, non vidi gli scalini metallici sporgenti che consentivano di salire dal pozzo, ed ebbi la strana impressione, del tutto inverificabile, che il pozzo medesimo scendesse a una profondità maggiore di quella a cui erano situate le caverne dei Morlock.

D’impulso, applicai il flash alla Kodak, riempii di blitzlichtpulver l’apposito scomparto, e illuminai il pozzo con un lampo al magnesio, tanto intenso da abbacinarmi: forse da centomila o più anni, ossia da quando il sole era nascosto, non si era più vista una luce simile al mondo. Se non altro, sarei riuscito a spaventare i Morlock. Elaborai subito il progetto di proteggere la macchina del tempo incustodita collegandovi il flash, in maniera tale che si accendesse ogni volta che l’apparecchio veniva toccato da estranei.

A caso, scattai alcune foto con il flash alla collina intorno al pozzo, così che in breve mi trovai avvolto da una nube di acre fumo bianco. Forse sono stato fortunato, pensai, e sono riuscito a fotografare, per lo stupore dell’umanità, le natiche di un Morlock che fugge in preda al terrore!

Dalla sponda del pozzo, a meno di un metro di distanza, giunse un rumore graffiarne, fievole e insistente.

Con un grido, sfilai l’attizzatoio dalla cintura, temendo che i Morlock si preparassero ad aggredirmi, mentre indugiavo nei miei sogni a occhi aperti.

Avanzai prudentemente, con l’attizzatoio in pugno, e non tardai a scoprire che il rumore proveniva dai licheni piccoli e scuri, fra i quali si muoveva un essere di piccole dimensioni. Giacché non poteva trattarsi di un Morlock, abbassai l’attizzatoio e mi curvai per osservare meglio. Il rumore era prodotto dallo sfregamento contro i licheni dell’unica chela sproporzionata di un animale simile a un granchio, non più grande della mia mano. L’essere, che appariva nero come il giaietto, era del tutto privo di occhi, al pari di un cieco abitatore delle profondità oceaniche.

Ne dedussi che la lotta per la sopravvivenza continuava anche nell’oscurità assoluta. Al tempo stesso, mi resi conto che, a parte i Morlock che avevo intravisto, non avevo trovato altre tracce di vita. Benché non fossi un biologo, mi parve chiaro che, in quel mondo desertico, fosse l’aria calda e umida che saliva dal pozzo ad attirare gli esseri viventi, come i licheni e il granchio. Il calore era sicuramente di origine vulcanica, giacché il nucleo del pianeta non poteva essersi raffreddato molto neppure in seicentomila anni, mentre l’umidità proveniva forse dalle falde acquifere superstiti.

Era possibile che anche in quell’epoca la superficie del pianeta fosse cosparsa di pozzi, i quali, però, non avevano la funzione di consentire l’accesso al mondo sotterraneo dei Morlock, com’era accaduto nell’altra che avevo conosciuto, bensì di liberare le riserve di calore e di umidità accumulate nel sottosuolo di quel pianeta privo di luce; ecco perché vi si radunavano intorno gli esseri viventi sopravvissuti alla trasformazione immane cui avevo assistito.

Rassicurato, sedetti di nuovo sulla sponda del pozzo. Analizzare e capire ciò che mi circonda è un tonico molto efficace per il mio coraggio: dopo il falso allarme provocato dal granchio, non mi sentivo più minacciato. In tasca avevo la pipa, con un po’ di tabacco: la caricai e l’accesi, meditando sulla biforcazione della storia. Anche in quel mondo erano esistiti i Morlock e gli Eloi, ma la loro società sembrava essere scomparsa in un lontano passato.

Interrogandomi su come potesse essere accaduto, giacché il loro sistema sociale, per quanto antagonistico, era basato su una reciproca dipendenza e possedeva una sua stabilità, trovai una possibile spiegazione.

Per quanto degenerati, i Morlock erano stati pur sempre umani, e gli umani, per natura, non erano logici. Consapevoli che la loro stessa sopravvivenza dipendeva dai lontani cugini, ridotti alla condizione di bestie da macello, i Morlock dovevano aver provato disprezzo per gli Eloi, eppure…

Eppure la loro vita era stata tanto breve quanto felice: gli Eloi avevano riso, cantato e amato in un mondo che sembrava un giardino dell’Eden, a differenza dei Morlock, costretti a faticare nelle profondità fetide del pianeta per fornire loro ciò che era necessario a vivere negli agi. I Morlock si erano talmente adattati a quell’esistenza che avrebbero rifiutato con ripugnanza la luce, l’acqua limpida e i frutti del mondo di superficie, persino se li avessero ricevuti in dono, ma non era possibile che a modo loro avessero invidiato l’ozio degli Eloi?

Forse, rintanati nelle loro luride grotte, i Morlock avevano cominciato a trovare sgradevole la carne degli Eloi.

Immaginai che una notte i Morlock fossero usciti in massa dai loro sotterranei per aggredire la preda con le loro membra nerborute e con le armi, ma che per una volta non avessero scelto disciplinatamente le loro vittime, bensì avessero compiuto un massacro indiscriminato all’unico, irragionevole scopo di sterminare gli Eloi.

Il sangue doveva aver inondato i sentieri e i pavimenti dei palazzi, mentre i belati fanciulleschi degli Eloi echeggiavano fra le pietre antiche!

Uno scontro del genere poteva avere avuto un solo vincitore, naturalmente: il gracile popolo del futuro, con la sua tisica bellezza, non avrebbe mai potuto difendersi dall’assalto organizzato dei Morlock assetati di sangue.

Mi sembrò di vedere i Morlock trionfanti, ormai dominatori assoluti del pianeta, che condannavano alla desertificazione i territori paradisiaci degli Eloi, non sapendo che farsene: in qualche modo, riversandosi dalle profondità della Terra, erano stati accompagnati dalla loro oscurità stigea, che si era diffusa fino a nascondere il sole! Memore di quanto il popolo di Weena avesse temuto le notti di luna nuova, chiamate Notti Nere, mi parve che i Morlock avessero suscitato un’ultima Notte Nera, che aveva ammantato la Terra per l’eternità. Sterminando i veri figli del mondo, avevano sterminato anche loro stessi.

Questa fu dunque la mia prima ipotesi: grandiosa, sfrenata, e… sbagliata in ogni dettaglio!

All’improvviso trasalii, come se qualcuno mi avesse percosso, perché mi resi conto che, assorto nelle mie speculazioni storiche, avevo completamente dimenticato di sorvegliare la macchina del tempo.

Mi alzai, scrutando il versante della collina e non tardai a individuare la macchina illuminata. Tuttavia, le fiammelle delle candele e della canfora guizzavano e ondeggiavano, come se sagome opache si muovessero intorno alla macchina.

Potevano essere soltanto i Morlock!

6 Il mio incontro con i Morlock

In un accesso di terrore, nonché, debbo riconoscerlo, travolto dalla brama di sangue che prese d’improvviso a pulsare dentro di me, lanciai un ruggito, brandii l’attizzatoio, e corsi giù per la collina, lasciando cadere la Kodak con un rumore di vetro frantumato: a quanto ne so, la macchina fotografica si trova ancora là, abbandonata nell’oscurità, se posso usare l’espressione.

Nell’avvicinarmi, scorsi intorno alla macchina del tempo dieci o dodici Morlock, i quali si muovevano come falene, attratti e al tempo stesso respinti dalla luce delle candele e della canfora. Erano scimmieschi come li rammentavo, benché più bassi e meno corpulenti, con la lunga chioma bionda che cadeva sulla schiena, la pelle cerea, le braccia sproporzionatamente lunghe, e gli occhi rosso-grigi, spettrali. Urlavano e parlavano nel loro strano linguaggio farfugliante. Con un certo sollievo, mi accorsi che non avevano ancora toccato la macchina, però sapevo che da un momento all’altro quelle dita mostruose, eppure non meno abili di quelle umane, avrebbero afferrato la gabbia scintillante d’ottone e di nichel.

In ogni modo, i Morlock non ebbero il tempo di profanare il mio apparecchio, poiché li aggredii come un angelo vendicatore.

Quando cominciai a menar fendenti con l’attizzatoio e con il pugno, i Morlock tentarono di fuggire, balbettando e strillando. Fui lesto ad afferrarne uno che mi passava davanti di corsa, rinnovando il contatto con la pelle fredda, da verme, tipica della specie a cui apparteneva. Mentre la sua chioma mi sfiorava il dorso della mano come una ragnatela, l’animale mi azzannò le dita con i piccoli denti. Ma non cedetti: lo colpii con l’attizzatoio, sentendo cedere la carne morbida e umida, nonché le ossa.

Gli occhi rosso-grigi prima si spalancarono, quindi si chiusero.

Ebbi l’impressione di percepire con una piccola parte soltanto della mia coscienza ciò che stava accadendo. Avevo completamente dimenticato la mia intenzione di raccogliere prove che dimostrassero la realtà dei viaggi temporali, e persino di ritrovare Weena. In quel momento sospettai di avere intrapreso la mia seconda esplorazione al solo scopo di vendicarmi: per Weena, per la distruzione della Terra, per il trattamento indegno che io stesso avevo subito. Lasciai cadere quel Morlock, che si afflosciò come un fagotto, morto o forse soltanto moribondo, e aggredii gli altri, tirando colpi con l’attizzatoio.

D’improvviso, una voce che era indiscutibilmente di un Morlock, anche se diversa dalle altre nel timbro e nell’estensione, pronunciò una sola sillaba, in tono imperioso.

Con le maniche della giacca intrise di sangue fino al gomito, mi volsi, pronto a combattere altri avversari.

Un Morlock mi fronteggiò senza fuggire. Benché fosse nudo come gli altri, sembrava si fosse spazzolato e pettinato la pelliccia, così da avere l’aspetto di un cane strigliato che si ergesse su due zampe. Avanzai d’un lungo passo, impugnando saldamente l’attizzatoio con le mani.

Con calma, il Morlock alzò la mano destra, nella quale vidi scintillare un oggetto. Abbagliato da un lampo verde, ebbi l’impressione che il suolo s’inclinasse, facendomi cadere accanto alla macchina del tempo illuminata dalle fiammelle; quindi persi conoscenza.

7 La gabbia di luce

Ripresi i sensi lentamente, come se uscissi da un sonno profondo e tranquillo. Giacevo sulla schiena, con gli occhi chiusi. Stavo tanto comodo, che per un attimo pensai di essere a letto, in casa mia, a Richmond, e che la luce rosea che intravedevo con le palpebre chiuse fosse quella del sole mattutino che filtrava attraverso le tende.

Poi mi accorsi che la superficie su cui ero sdraiato, benché fosse cedevole e calda, non era soffice come un materasso. Sotto non sentivo le lenzuola, né sopra di me le coperte.

In un lampo, rammentai tutto: il secondo viaggio nel tempo, il sole che si oscurava, l’incontro con i Morlock…

Sopraffatto dal terrore, contrassi i muscoli, pensando: I Morlock mi hanno catturato! E aprii gli occhi di scatto.

Rimasi abbacinato da una luce molto intensa, emanata da un disco bianco che si trovava in alto, esattamente sopra di me. Gridai, coprendomi gli occhi feriti con un braccio, quindi mi rotolai su un fianco, premendo il viso contro il pavimento.

Nel sollevarmi carponi, mi resi conto che il pavimento era caldo e flessibile come cuoio. Poco a poco, la miriade d’immagini del disco ardente che mi danzava dinanzi agli occhi scomparve, così che riuscii a vedere l’ombra che gettavo. La superficie sulla quale mi trovavo era stranissima: trasparente come vetro, ma elastica, e dove la mia ombra cadeva a nascondere la luce… potevo vedere perfettamente le stelle, attraverso la superficie medesima. Era come se fossi stato collocato in una sorta di planetario rovesciato.

Nonostante la nausea che provavo, riuscii ad alzarmi. Costretto a ripararmi gli occhi, mi pentii di aver perduto il cappello che avevo portato dal 1891! Indossavo ancora i miei indumenti, sporchi di sabbia e di sangue, soprattutto sulle maniche. Con sorpresa, m’accorsi che qualcuno mi aveva pulito le mani e le braccia dal sangue dei Morlock. Non vidi l’attizzatoio, né lo zaino. Avevo ancora l’orologio, appeso con la catenella al panciotto, ma i fiammiferi e le candele mi erano stati tolti di tasca. Provai una fitta di nostalgia, del tutto incongrua in quella situazione di mistero e di pericolo, scoprendo di essere stato privato anche della pipa e del tabacco.

Una preoccupazione improvvisa m’indusse a infilare le mani nelle tasche del panciotto: con un sospiro di sollievo, constatai di essere ancora in possesso delle leve della macchina del tempo.

Mi guardai attorno. Il pavimento, come ho già spiegato, era liscio, piano, simile a cuoio, e trasparente. Mi trovavo quasi al centro di una colonna di luce di meno di trenta metri di diametro, che cadeva dal disco sovrastante. Nell’aria, il pulviscolo fluttuava sui raggi luminosi. Come dal fondo di un polveroso pozzo minerario, osservai, battendo le palpebre, quello che sembrava davvero il sole di mezzogiorno. Non riuscivo a capire, però, come l’astro avesse potuto ritornare visibile, né come mai fosse immobile. Potei ipotizzare soltanto di essere stato trasportato all’equatore mentre ero tramortito.

Lottando per reprimere il panico, camminai lungo il perimetro della zona illuminata. All’interno, ero solo: sul pavimento vidi soltanto due vassoi, su cui erano posati alcuni contenitori, a circa tre metri dal punto in cui avevo ripreso conoscenza. All’esterno, nell’oscurità, non riuscii a scorgere nulla, neppure ombreggiandomi gli occhi. Non vidi le pareti dell’ambiente in cui mi trovavo. Battei le mani, facendo danzare il pulviscolo sui raggi luminosi: il suono si spense senza echi. Le pareti erano lontanissime, oppure erano rivestite di sostanza assorbente: comunque, non ero in grado di calcolare quanto distassero.

Non vi era traccia della macchina del tempo.

Là, su quel pavimento di vetro morbido, sentendomi nudo e indifeso, senza pareti a cui addossarmi, senz’angoli in cui ritirarmi per difendermi, fui assalito da una paura strana e profonda.

Avvicinatomi ai vassoi, osservai i contenitori, sollevandone i coperchi: si trattava di un secchio capiente ma vuoto, indubbiamente destinato a consentirmi di espletare le mie esigenze fisiologiche; una ciotola che sembrava piena d’acqua limpida; e un piatto che conteneva tavolette della grandezza di un pugno, di colore giallo, verde o rosso. Palpai con riluttanza le tavolette, che erano evidentemente un cibo di cui non potevo conoscere l’origine: fredde e lisce, ricordavano il formaggio. Erano trascorse molte ore dal mio ultimo pasto, ossia la colazione preparatami dalla signora Watchet, quindi avevo fame. Non riuscivo a immaginare alcun motivo per cui i Morlock, dopo essersi dati tanto disturbo per me, avrebbero dovuto avvelenarmi, tuttavia non mi risolsi ad accettare la loro ospitalità, e benché avessi la vescica gonfia, rifiutai di perdere la mia dignità servendomi del secchio.

Girai intorno ai vassoi, come un animale che fiutasse l’ambiente circostante, timoroso di una trappola. Esaminai di nuovo i vassoi per appurare se fosse possibile ricavarne qualche arma, come per esempio una lama, però erano di un metallo argenteo simile all’alluminio, tanto sottile e malleabile da poter essere piegato e compresso a mani nude: non avrei potuto usarli per ferire i Morlock più di quanto avrei potuto servirmi di un foglio di carta.

Allora mi resi conto che i Morlock avevano dimostrato una notevole gentilezza nei miei confronti: mentre ero privo di conoscenza, avrebbero potuto facilmente uccidermi, e invece avevano frenato la loro brutalità, anzi, avevano persino cercato di lavarmi, per giunta dimostrando una sorprendente abilità.

Naturalmente, ciò suscitò subito i miei sospetti. A quale scopo mi avevano lasciato in vita? Intendevano forse strapparmi, con qualsiasi turpe mezzo, il segreto della macchina del tempo?

Volgendo deliberatamente le spalle al cibo, passai con il cuore palpitante dalla zona illuminata all’oscurità. Nulla mi trattenne, se non l’apprensione e il desiderio di luce, tanto efficaci quanto le sbarre di una gabbia.

Finalmente m’incamminai nel buio in una direzione scelta a caso, con le braccia lungo i fianchi, i pugni serrati, pronto a picchiare, contando i passi: otto… nove… dieci… Sotto di me, attraverso il pavimento, potevo vedere più nitidamente, lontano dalla luce, le stelle che punteggiavano una sorta di emisfero rovesciato. Di nuovo ebbi la sensazione di trovarmi sulla cupola di un planetario. Mi volsi a guardare la colonna di luce polverosa che saliva all’infinito, con i vassoi e i contenitori sparsi alla base, sul pavimento spoglio.

Tutto mi era assolutamente incomprensibile.

Non tardai a smettere di contare i passi, nel proseguire la camminata sul pavimento cedevole. Alla luce della colonna luminosa e delle stelle, che scintillavano debolmente sotto di me, vedevo a stento la sagoma delle mie gambe. Non udivo altro che il mio respiro rauco e il rumore dei miei passi sulla superficie vitrea.

Dopo circa un centinaio di metri, deviai per girare intorno alla colonna di luce. Non trovai altro che oscurità, e le stelle sottostanti. Mi domandai se nel buio avrei incontrato nuovamente lo strano Osservatore fluttuante che mi aveva accompagnato durante il secondo viaggio nel tempo.

Continuando a camminare, fui colto dalla disperazione, desiderando poter tornare nel mondo verdeggiante di Weena, o persino nel deserto buio in cui ero stato catturato: ovunque vi fossero rocce, piante, animali, e un cielo riconoscibile. Che luogo era mai quello in cui mi trovavo? Era forse una sala nelle profondità del sottosuolo? Quali torture terribili stavano escogitando i Morlock per me? Ero forse condannato a trascorrere il resto dell’esistenza in quella desolazione aliena?

Per qualche tempo fui sopraffatto da una terribile sensazione di solitudine e smarrimento. Non sapevo dove mi trovavo, non sapevo dove fosse la macchina del tempo, temevo di non rivedere mai più la mia epoca e la mia casa. Ero come una bestia, sola e sperduta in un mondo alieno. Nell’oscurità, gridai alternativamente minacce, richieste di liberazione, implorazioni di pietà. Senza esito, picchiai i pugni sul pavimento, elastico ma impenetrabile.

Piansi, corsi, maledii me stesso per la follia impareggiabile che avevo dimostrato nel tornare a cacciarmi in trappola subito dopo essere sfuggito alle grinfie dei Morlock.

Alla fine, spossato, piangendo come un bimbo frustrato, mi lasciai cadere sul pavimento, nell’oscurità.


Dormii per qualche tempo. Al risveglio, nulla era cambiato nella mia situazione. Mi alzai. Anche se mi sentivo affranto come mai in precedenza, avevo ormai sfogato la collera e ripreso il controllo di me stesso. Finalmente potei dedicarmi alle semplici necessità dell’organismo: in primo luogo, la fame e la sete.

Stanco, tornai alla colonna di luce. Poi, rassegnato, presi il secchio, giacché il gonfiore della vescica era ormai insopportabile. Spinto dal pudore, giacché ero certo di essere osservato dai Morlock, lo portai nell’oscurità, a breve distanza dalla zona illuminata, e là lo lasciai quando ebbi finito.

Di nuovo esaminai il cibo morlock, che non mi parve certo più appetitoso di prima. La prospettiva era tutt’altro che allettante, ma la fame non mi lasciava scelta. Comunque, per prima cosa presi la ciotola, che aveva le dimensioni di una di quelle da zuppa, e bevvi l’acqua. Era tutt’altro che gradevole, tiepida e senza sapore, come se fosse stata privata di tutti i sali minerali, però era limpida e fresca. La trattenni in bocca per alcuni istanti, con esitazione, prima di decidermi a inghiottirla.

Soltanto dopo qualche minuto, poiché non manifestavo alcun sintomo di avvelenamento, bevvi ancora. Poi, con un angolo del fazzoletto bagnato, mi pulii il viso e le mani.

Infine mi dedicai al cibo, prendendo una tavoletta verdastra. Quando ne staccai un pezzetto con le dita, scoprii che era friabile come certi tipi di formaggio, e che era verde anche all’interno. Diedi un morso. Il sapore ricordava quello dei broccoli o dei cavolini di Bruxelles bolliti fin quasi allo spappolamento: i soci dei circoli londinesi meno forniti lo avrebbero riconosciuto subito! Nondimeno, mangiai mezza tavoletta, prima di assaggiare le altre, che nonostante la differenza di colore avevano la medesima consistenza e un sapore niente affatto diverso.

Non occorsero molti bocconi di quel cibo alieno per saziarmi. Posai di nuovo sul vassoio il piatto con i resti delle tavolette.

Seduto sul pavimento, osservai l’oscurità circostante, sentendomi molto grato ai Morlock per avermi fornito almeno la colonna di luce. Immaginavo infatti che se fossi stato lasciato in una tenebra vuota e informe, illuminata soltanto dalle stelle sottostanti, avrei rischiato d’impazzire. Eppure ero consapevole, al tempo stesso, che i Morlock avevano considerato esclusivamente i loro scopi: la colonna di luce era un mezzo efficace per osservarmi e per impedire che mi allontanassi. Ero del tutto indifeso, prigioniero di un semplice raggio luminoso.

Lottai contro la stanchezza che m’invadeva, riluttante a perdere di nuovo conoscenza, abbandonato nella più assoluta impotenza alla mercé dei miei catturatori. D’altronde, non potevo illudermi di poter restare sveglio in eterno. Per avere almeno la protezione dell’oscurità, uscii dalla colonna di luce, me ne allontanai un poco, mi sfilai la giacca e l’arrotolai per farne un cuscino. Non avrei sofferto il freddo, giacché l’aria era calda e anche il pavimento sembrava riscaldato.

Così, dignitosamente sdraiato sul manto di stelle, mi addormentai.

8 Un visitatore

Mi destai dopo un periodo di tempo che non ero in grado di misurare. Sollevando la testa, mi guardai attorno. Ero solo nell’oscurità: tutto sembrava immutato. Tastando il panciotto, mi assicurai di essere ancora in possesso delle leve della macchina del tempo.

Quando mi mossi, sentii un dolore improvviso alle gambe e alla schiena. Mi sollevai faticosamente a sedere, quindi mi alzai in piedi, gravato dal peso di tutti i miei anni, felice di non dover respingere l’assalto di un branco di Morlock. Eseguii goffamente alcuni esercizi per sciogliere le giunture e i muscoli intorpiditi. Indossai la giacca, dopo averla rassettata.

Finalmente ritornai nella colonna di luce.

Scoprii così che i vassoi, con la ciotola, il piatto e il secchio, erano stati sostituiti. Dunque, proprio come avevo sospettato, i Morlock mi osservavano. Il piatto conteneva tavolette poco invitanti di cibo anonimo simili a quelle che avevo già assaggiato. Feci colazione con acqua e una tavoletta verde. La paura in me era scomparsa, sostituita da un tedio deprimente: è davvero notevole la rapidità con cui la mente umana si adatta ai mutamenti più radicali. Ero dunque destinato a sopravvivere nella noia, dormendo su un letto duro, bevendo acqua senza sapore, cibandomi di tavolette di verdure bollite? È come tornare a scuola, pensai, cupamente.

— Pau.

Quest’unica sillaba, pronunciata sottovoce, suonò come una fucilata nel silenzio assoluto.

Balzai in piedi con un grido, impugnando le tavolette di cibo: sembrerà assurdo, ma non disponevo di altre armi. Poiché l’origine del suono era alle mie spalle, mi girai di scatto, con un cigolio degli stivali sul pavimento.

Fiocamente illuminato, un Morlock stava a breve distanza dalla colonna di luce. Non era scimmiescamente curvo e caracollante come gli esseri che avevo già incontrato, ma aveva il portamento eretto, e indossava un paio di grandi occhiali tondi dalle lenti azzurre che facevano sembrare scuri i suoi grandi occhi. — Tik — disse, con voce stranamente gorgogliante. — Pau.

Indietreggiai, calpestando rumorosamente un vassoio, quindi alzai i pugni: — Non avvicinarti!

Il Morlock avanzò di un passo verso la colonna di luce che, con la sua intensità, lo disturbò nonostante gli occhiali che portava. Al pari di quello che mi aveva stordito, apparteneva presumibilmente a un ceppo evoluto di Morlock. Sembrava nudo, ma la chioma e la pelliccia, bionde, tagliate e acconciate in foggia severa, gli cadevano sulle spalle e sul petto a formare una sorta di uniforme. Il viso, piccolo e senza mento, ricordava quello di un bimbo sgraziato.

Vagamente, rammentai la dolce sensazione che avevo provato nel sentire i crani dei Morlock che si spaccavano sotto i colpi del mio attizzatoio. Avrei potuto assalire il visitatore e atterrarlo, ma a cosa mi sarebbe servito? Senza dubbio ve n’erano innumerevoli altri, nascosti nell’oscurità. Oltre a essere disarmato, privo persino dell’attizzatoio, ricordavo bene che il compare di quel tizio mi aveva abbattuto senza sforzo servendosi di un’arma strana.

Decisi dunque di prendere tempo.

E poi, anche se può sembrare strano, mi accorsi che la collera si stava stemperando in un divertimento inspiegabile. Nonostante il pallore tipico della sua razza, il Morlock aveva un aspetto buffo, simile a quello di un orango con la pelliccia tosata corta e unta di biondo, che stesse eretto come un uomo e che indossasse un paio di occhiali vistosi.

Tik — ripeté. — Pau.

Avanzai d’un passo: — Che stai dicendo, bruto?

Trasalì, probabilmente più per effetto del mio tono che delle parole; poi indicò, l’una dopo l’altra, le tavolette che tenevo in mano: — Tik… Pau…

Allora compresi: — Buon Dio! Stai cercando di parlarmi, vero? — Alzai alternativamente le tavolette. — Tik… Pau… Uno… due… Parli Inglese? Uno… due…

Il Morlock reclinò la testa, come fanno talvolta i cani, quindi, non meno chiaramente di me, disse: — Uno… due…

— Esatto! E si continua: tre… quattro…

Badando a tenersi fuori della mia portata, il Morlock entrò nella colonna di luce, poi indicò la ciotola dell’acqua: — Agua.

— Agua? — Tale parola mi parve latina, benché non fossi mai stato un grande conoscitore dei classici. — Acqua.

Di nuovo il Morlock ascoltò in silenzio, con la testa reclinata.

Continuammo così. Il Morlock indicò diversi oggetti, come gli indumenti, oppure diverse parti del corpo, come la testa o le braccia, pronunciando i nomi nella sua lingua, talvolta incomprensibili, talaltra simili al tedesco, o forse all’inglese antico. A mia volta, pronunciai i nomi moderni nella mia lingua. Un paio di volte tentai di avviare una vera e propria conversazione, giacché non credevo che una semplice lista di nomi potesse portarci lontano, ma lui aspettò finché io tacqui, poi riprese pazientemente a elencare sostantivi. Lo stesso fece quando tentai di parlargli ricorrendo a ciò che ricordavo della lingua semplice e melodica di Weena, strutturata in frasi di due parole.

Dopo alcune ore, il Morlock se ne andò senza tante cerimonie, semplicemente allontanandosi nell’oscurità. Non lo seguii. Non ancora! pensai. Mangiai e dormii. Al mio risveglio, il Morlock tornò, e così riprendemmo le nostre lezioni.

Passeggiando all’interno della colonna di luce, indicando e nominando gli oggetti, il Morlock si muoveva in maniera abbastanza aggraziata, e il suo corpo sembrava espressivo. Tuttavia mi resi conto di quanto, nelle normali attività quotidiane, ogni persona si affida all’interpretazione dei movimenti e dei gesti altrui. Ebbene, io non ero affatto in grado di capire il Morlock in quel modo: mi era impossibile comprendere che cosa pensasse e che cosa provasse, se avesse paura di me oppure se si annoiasse. Di conseguenza, mi sentivo notevolmente svantaggiato.

Al termine del nostro secondo incontro, il Morlock indietreggiò, dicendo: — Dovrebbe bastare. Mi capisci?

Lo fissai, sbalordito dalla facilità con cui aveva appreso la mia lingua. La sua pronuncia era confusa, giacché la morbida voce morlock non sembrava adatta all’asprezza delle consonanti e delle pause dell’Inglese, però le sue parole erano del tutto comprensibili.

Poiché non rispondevo, il Morlock ripeté: — Mi capisci?

— Io… Sì. Voglio dire: sì, ti capisco. Ma come… Come hai potuto imparare la mia lingua conoscendo così poche parole? — Ritenevo infatti che ci fossimo occupati di non più di cinquecento parole, soprattutto sostantivi e verbi semplici.

— Ho accesso agli archivi di tutte le lingue antiche dell’umanità, quali sono state ricostruite, dal Nostrate a quelle indoeuropee. Alcune parole fondamentali sono sufficienti per recuperare le varianti e i derivati. Dimmi se pronuncio parole o frasi che non capisci.

Avanzai prudentemente di un passo: — Lingue antiche? E come sai che io sono antico?

Il Morlock abbassò le palpebre pesanti sugli occhi protetti dagli occhiali: — Il tuo organismo è arcaico, al pari del contenuto del tuo stomaco, come abbiamo scoperto dalle analisi. — Rabbrividì, evidentemente ricordando i resti della colazione preparata dalla signora Watchet.

Ho a che fare con un Morlock schizzinoso! pensai, sbalordito.

— Tu provieni dal passato — rispose il Morlock. — Non riusciamo ancora a capire come tu sia arrivato qui, ma senza dubbio lo scopriremo.

— E nel frattempo — ribattei, con un certo vigore, — mi trattenete in questa… in questa Gabbia di Luce, come se fossi una bestia, anziché un essere umano! Mi fate dormire sul pavimento, e per i miei bisogni mi date soltanto un secchio!

Impassibile, il Morlock mi osservò in silenzio.

Ero incapace di reprimere oltre la frustrazione e l’imbarazzo che provavo da quando mi trovavo in quel luogo, e giacché avevo finalmente la possibilità di esprimere i miei sentimenti, decisi di accantonare lo scambio di complimenti: — Adesso che siamo in grado di comunicare, dimmi dove mi trovo, e dove avete nascosto la mia macchina. Capisci, oppure devo tradurrei — Mi avvicinai a lui con le braccia protese per afferrargli la pelliccia del petto.

Quando arrivai a due passi di distanza, il Morlock alzò una mano: non vidi neppure l’apparecchio di cui sicuramente era sempre stato provvisto in mia presenza. Rammento soltanto lo strano lampo verde che mi fece crollare sul pavimento, privo di conoscenza.

9 Rivelazioni e rimostranze

Allorché ripresi conoscenza, nuovamente disteso ad arti divaricati sul pavimento, fissai quella luce maledetta.

Dopo essermi alzato a sedere, mi massaggiai gli occhi abbacinati. Il mio amico Morlock non se n’era andato: era fermo appena fuori della colonna di luce. Dolorosamente, mi rimisi in piedi, consapevole che i Nuovi Morlock mi avrebbero dato parecchio filo da torcere.

Con uno scintillio degli occhiali azzurri, il Morlock rientrò nella zona illuminata. Come se nulla avesse interrotto la nostra conversazione, dichiarò, completando la frase con una parola nella solita informe pronuncia morlock: — Il mio nome è Nebogipfel.

— Nebogipfel… Benissimo. — Mi resi conto che quello era il primo Morlock di cui apprendevo il nome: il primo che si distinguesse dalla massa che avevo incontrato e combattuto, il primo ad assumere le caratteristiche di un individuo. A mia volta, mi presentai.

In brevissimo tempo, il Morlock riuscì a ripetere il mio nome con chiarezza e precisione.

Seduto a gambe incrociate accanto ai vassoi, mi massaggiai i lividi che mi ero procurato a un braccio con l’ultima caduta: — Be’, Nebogipfel… A quanto pare sei stato assegnato a farmi da custode, qui in questo zoo…

Zoo… — ripeté Nebogipfel, pronunciando con difficoltà la parola. — No, non sono stato assegnato: mi sono offerto volontariamente di lavorare con te.

— Lavorare con me?

— Io… noi… Vogliamo capire come sei arrivato qui.

— Davvero? Per Giove! — Mi alzai e cominciai a camminare lungo il perimetro della Gabbia di Luce. — E se ti dicessi che sono arrivato qui con una macchina che consente di viaggiare nel tempo? — Alzai le mani. — E se aggiungessi che l’ho costruita io, con queste mani? Che cosa risponderesti, eh?

Per un po’, Nebogipfel parve meditare sulla mia risposta: — La tua epoca, a giudicare dal tuo modo di parlare e dal tuo organismo, è molto lontana dalla nostra. Sei padrone di una tecnica molto sofisticata, come dimostra la tua macchina, che sia o meno in grado di viaggiare nel tempo, come affermi. E i tuoi abiti, la conformazione delle tue mani, la tua dentatura… Tutto ciò indica un alto grado di civiltà.

— Sono lusingato di sentirtelo dire — ribattei con veemenza. — Ma se mi giudicate civile, se mi considerate un uomo e non una scimmia, perché mi tenete ingabbiato così?

— Perché hai già tentato di aggredirmi, manifestando tutte le intenzioni di nuocermi — rispose Nebogipfel, in tono pacato. — E sulla Terra, hai ferito gravemente…

Nuovamente infuriato, mi avvicinai al Morlock: — Le vostre scimmie stavano danneggiando la mia macchina! — gridai. — Che cosa vi aspettavate? Mi sono soltanto difeso! Io…

— Erano soltanto bambini.

Le parole di Nebogipfel gelarono la mia collera. Cercai di aggrapparmi a ciò che ne restava per giustificarmi, ma mi sfuggì la presa: — Cos’hai detto?

Bambini. Erano bambini. Da quando la Sfera è stata completata, la Terra è diventata un… giardino d’infanzia, un luogo riservato ai bambini. Erano semplicemente incuriositi dalla tua macchina. Non ti avrebbero nuociuto in alcun modo, né avrebbero danneggiato la macchina. Eppure tu li hai aggrediti con estrema violenza.

Indietreggiai, rammentando che in effetti i Morlock radunati intorno alla macchina del tempo mi erano parsi insolitamente piccoli rispetto a quelli incontrati in precedenza. E in verità non avevano tentato in alcun modo di nuocermi, tranne il disgraziato che mi aveva morsicato una mano allorché lo avevo afferrato, prima di spaccargli la testa.

— Quello che ho colpito… è sopravvissuto?

— Le ferite fisiche sono guaribili, ma…

— Sì?

— Le ferite interiori, psicologiche, non guariranno mai.

Chinai la testa. Era mai possibile? L’odio nei confronti dei Morlock mi aveva accecato a tal punto? Non avevo dunque saputo riconoscere che le creature radunate attorno alla macchina del tempo non erano i predatori crudeli del mondo di Weena, bensì fanciulli inermi?

— Immagino che tu non capisca di che cosa sto parlando, ma… mi sembra di essere intrappolato in un’altra lanterna magica a dissolvenza…

— Stai esprimendo vergogna — rispose Nebogipfel.

Vergogna… Non avrei mai immaginato di dover udire, e accettare, un rimprovero simile da parte di un Morlock. Lo guardai, in atteggiamento di sfida: — Sì. Benissimo! Questo ai tuoi occhi mi rende più o meno simile a una bestia?

Il Morlock tacque.

Pur costretta ad affrontare l’orrore di ciò che avevo fatto, una parte della mia mente ricordò una frase di Nebogipfel: Da quando la Sfera è stata completata, la Terra è diventata un giardino d’infanzia… — Che cos’è la Sfera?

Hai molto da imparare sul nostro conto.

— Parlami della Sfera!

— Si tratta di una Sfera intorno al sole.

Quelle poche semplici parole mi sbalordirono: È sconvolgente! pensai. Eppure… Ma certo! La trasformazione alla quale ho assistito durante il viaggio nel tempo, l’oscuramento del sole… — Capisco. Ho assistito alla costruzione della Sfera.

Riflettendo su tale notizia inaspettata, Nebogipfel parve sgranare gli occhi in maniera molto umana.

Intanto, altri aspetti della mia situazione si chiarirono: — Poco fa hai detto che sulla Terra ho ferito gravemente qualcuno, o qualcosa del genere… — Ripensandoci, mi sembrò strano che il Morlock avesse pronunciato una frase simile… se ci fossimo trovati sulla Terra. Alzai la testa, lasciandomi inondare il viso dalla luce. — Nebogipfel… che cosa si vede, sotto di noi, attraverso il pavimento trasparente?

— Stelle.

— Non rappresentazioni… una sorta di planetario?

— Stelle.

Annuii: — E questa luce che scende dall’alto?

— È quella del sole.

In qualche modo lo avevo già capito, perché la luce cadeva dalla medesima posizione ventiquattr’ore al giorno, e io camminavo su un pavimento sopra le stelle…

Fui assalito da un senso di vertigine, come se il mondo intero ondeggiasse sotto di me, e intanto ebbi l’impressione di udire una sorta di fragore lontano. Nel corso della mia avventura non avevo attraversato soltanto le distese del tempo: dopo avermi catturato, quelle sorprendenti creature mi avevano trasportato attraverso lo spazio interplanetario. Non mi trovavo più sulla Terra, bensì all’interno della Sfera solare dei Morlock.

10 Dialogo con un Morlock

— Dunque hai detto di essere arrivato qui con una macchina del tempo…

— È la definizione esatta — risposi, passeggiando avanti e indietro nella piccola zona illuminata, inquieto come un animale in gabbia. — Si tratta di una macchina che può viaggiare nel tempo in qualunque direzione e a qualsiasi velocità relativa, a seconda delle scelte del conducente.

— Sostieni dunque di essere giunto fin qui dal remoto passato con la macchina che è stata trovata insieme a te sulla Terra…

— Precisamente — ribattei, in tono tagliente.

Il Morlock impegnato nell’interrogatorio sembrava in grado di rimanere in piedi, quasi immobile, per lunghe ore. Io, invece, avevo un temperamento da uomo moderno, che non si accordava per nulla con il suo.

— Dannazione! — ripresi. — Tu stesso hai detto che il mio organismo è arcaico. Se non viaggiando nel tempo, come potresti spiegare altrimenti la mia presenza qui, nell’anno 657.208?

Il Morlock batté lentamente le palpebre pesanti, dalle ciglia lunghe: — Ci sono molte altre possibilità, in gran parte più plausibili del viaggio temporale.

— Per esempio? — lo esortai in tono di sfida.

— L’ingegneria genetica.

— Genetica? — Quando Nebogipfel si fu spiegato meglio, compresi di che cosa stesse parlando. — Insomma, ti riferisci al meccanismo secondo cui opera l’ereditarietà, mediante il quale le caratteristiche vengono trasmesse da una generazione all’altra?

— Non è impossibile generare simulacri di forme arcaiche inducendo una serie di mutazioni.

— Credi dunque che io non sia altro che un simulacro, ricostruito come lo scheletro fossile di qualche megaterio in un museo? È così?

— Esistono precedenti, anche se non riguardano esseri umani della tua epoca, perciò… Sì, è possibile.

Mi sembrava un insulto. — E a quale scopo sarei stato… messo insieme in tal modo? — Ripresi a passeggiare all’interno della Gabbia. L’aspetto più sconcertante di quel luogo tetro era l’assenza di pareti, che suscitava la sensazione primeva di essere con le spalle scoperte, indifeso. Avrei preferito essere gettato in una cella di prigione della mia epoca: primitiva e squallida, senza dubbio, ma chiusa. — Non intendo abboccare in questo modo. È assurdo. Ho progettato e costruito una macchina del tempo, e l’ho usata per viaggiare fin qui, perciò, una buona volta, facciamola finita.

— La tua spiegazione si può considerare un’ipotesi da verificare — rispose Nebogipfel. — Ora, ti invito a spiegarmi i principi di funzionamento della macchina.

Continuai a rimuginare passeggiando avanti e indietro. Non appena mi ero reso conto dell’intelligenza di Nebogipfel, a differenza dei Morlock che avevo incontrato in precedenza, avevo previsto un interrogatorio del genere: dopotutto, se un viaggiatore nel tempo proveniente dall’antico Egitto fosse apparso nella Londra del diciannovesimo secolo, avrei fatto di tutto per far parte del comitato di esperti che lo avrebbe esaminato. Mi domandavo però se dovessi condividere con i Nuovi Morlock l’unico vantaggio di cui disponevo in quel mondo, ossia il segreto della macchina del tempo.

Tuttavia non tardai a rendermi conto che avevo ben poca scelta. Non dubitavo affatto che i Morlock avrebbero potuto estorcermi le informazioni con la forza, se avessero voluto. Inoltre, la costruzione della mia macchina era intrinsecamente più semplice di quella, per esempio, di un orologio sofisticato. Una civiltà capace di costruire un guscio intorno al sole avrebbe incontrato ben poche difficoltà nel duplicare il prodotto dei miei poveri torni e delle mie misere presse. E se avessi accontentato Nebogipfel, forse avrei trovato il tempo di escogitare qualcosa per trarmi d’impaccio. Dopotutto, non sapevo neppure dove si trovasse la macchina, men che meno come recuperarla per poter tornare a casa.

Inoltre, lo confesso, ero ancora turbato dagli atti di violenza che avevo commesso sulla Terra. Non desideravo affatto che Nebogipfel mi giudicasse brutale, al pari dell’umanità della mia epoca. Ecco perché, come un bimbo ansioso di fare buona impressione, volevo dimostrare la mia intelligenza e il mio bagaglio di conoscenze scientifiche e tecniche, ben superiori a quelle degli individui scimmieschi dai quali discendeva la mia specie.

Per la prima volta, però, mi azzardai a porre qualche richiesta: — Benissimo. Ma prima…

— Sì?

— Ascolta… Non ti sembra di riservare ai prigionieri un trattamento un po’ troppo spartano? Non sono più giovane: non ce la faccio a stare in piedi per quasi tutto il giorno. Potrei avere una sedia, se non è una richiesta troppo irragionevole? E potrei avere anche qualche coperta per dormire, se proprio debbo rimanere qui?

Come se sfogliasse un dizionario invisibile, Nebogipfel esitò un attimo prima di rispondere: — Sedia…

Allora chiesi anche acqua fresca, un equivalente del sapone e, pur aspettandomi un rifiuto, persino una lama con cui radermi.

Per qualche tempo Nebogipfel si assentò. Al suo ritorno, mi portò alcune coperte e una sedia. Quando mi destai dal successivo periodo di sonno, trovai, oltre alle solite provviste, una seconda ciotola d’acqua.

Le coperte erano di un materiale morbido, e di fattura così raffinata che non riuscii a scorgere alcuna traccia di tessitura. La sedia, semplicissima, avrebbe potuto essere di legno leggero, a giudicare dal peso, però era perfettamente liscia, verniciata con una lacca rossa che con le unghie non riuscivo neppure a scalfire, e priva di giunture, modanature, chiodi, o viti: insomma, sembrava essere stata fabbricata in un unico pezzo mediante qualche procedimento ignoto. Non vidi traccia di sapone, ma l’acqua per lavarmi, a giudicare dalla sensazione di levigatezza che procurava, sembrava contenere qualche detergente, sebbene non producesse schiuma. Inoltre, era miracolosamente riscaldata, e scoprii che tale rimaneva indefinitamente.

Naturalmente non ricevetti alcuna lama, ma la cosa non mi stupì.

Rimasto nuovamente solo, mi spogliai e mi lavai poco alla volta, sbarazzandomi del sudore di alcuni giorni, nonché delle restanti tracce di sangue morlock. Approfittai dell’occasione per lavare anche gli indumenti intimi e la camicia.

Così, la mia vita nella Gabbia di Luce divenne un poco più civile. Si può avere un’idea dell’ambiente in cui vivevo immaginando l’arredamento di una camera d’albergo a buon mercato gettato in mezzo alla pista di un’immensa sala da ballo. Radunando la sedia, i vassoi e le coperte, formai una sorta di nido tranquillo in cui non mi sentii più del tutto indifeso. Con la giacca arrotolata come cuscino, e la testa e le spalle sotto la sedia, dormivo protetto dalla mia piccola fortezza. Riuscivo quasi sempre a ignorare le stelle che si vedevano attraverso il pavimento, ripetendomi che si trattava soltanto di una sofisticata illusione, però talvolta l’immaginazione mi tradiva, e allora mi sentivo come sospeso su un baratro infinito, sostenuto soltanto da quel pavimento irreale.

Naturalmente tutto ciò era illogico, ma sono un essere umano, e debbo assecondare le necessità e le paure istintive della mia natura.

Intanto, Nebogipfel mi osservò, non avrei saputo dire se con curiosità o con perplessità, o forse con il distacco con cui avrei osservato il comportamento di un uccello intento a costruirsi il nido.

Così trascorsero i quattro o cinque giorni successivi, durante i quali mi sforzavo di spiegare a Nebogipfel il funzionamento della macchina del tempo, e cercavo intanto di estorcergli subdolamente qualche dettaglio sulla direzione che la storia aveva preso in quel mondo.


Innanzitutto, spiegai le ricerche di fisica ottica che mi avevano fatto intravedere la possibilità del viaggio nel tempo: — È ormai noto, o almeno, lo era nella mia epoca, che la propagazione della luce ha proprietà anomale. La velocità della luce nel vuoto è estremamente elevata, nell’ordine di centinaia di migliaia di miglia al secondo, però si tratta di un numero finito. E ciò che più importa, come hanno dimostrato inequivocabilmente Michelson e Morley pochi anni prima della mia partenza, si tratta di una velocità isotropica…

M’impegnai nella spiegazione di tale concetto. In sostanza, la luce, nel viaggiare attraverso lo spazio, non si comporta come un oggetto materiale, cioè per esempio un treno.

Poniamo un raggio di luce, che proveniente da una stella lontana, incontra la Terra in un momento in cui essa si trova a raggiungerlo: per esempio, in gennaio. Poiché la velocità del pianeta in orbita è di circa settantamila miglia all’ora, se si dovesse misurare dal punto di vista terrestre la velocità del raggio luminoso proveniente dalla stella, ci s’immaginerebbe di dovervi sottrarre settantamila miglia e rotti l’ora.

Diversamente, in luglio, quando la Terra si trova nel punto opposto dell’orbita e va incontro al raggio luminoso, ci si aspetterebbe di dovervi sommare la velocità del pianeta.

Ebbene, sarebbe senza dubbio vero se l’oggetto in movimento fosse un treno a vapore. Michelson e Morley, invece, hanno dimostrato che per la luce delle stelle non vale questo principio. La velocità della luce misurata dal nostro pianeta, sia che quest’ultimo la raggiunga sia che la incontri, è esattamente la stessa!

Queste osservazioni concordavano con il fenomeno che avevo osservato alcuni anni prima a proposito della plattnerite, anche se non avevo pubblicato i risultati dei miei esperimenti. E sulla base di questi ultimi avevo formulato un’ipotesi.

— Non si deve fare altro che affidarsi a un’immaginazione sbrigliata, in particolare riguardo alle dimensioni, per capire quale possa essere la spiegazione. Come si misura la velocità, in definitiva? Soltanto con apparecchi che registrano intervalli in dimensioni diverse: una distanza percorsa nello spazio per mezzo di un semplicissimo metro, e un intervallo di tempo mediante un orologio. Dunque, se accettiamo la prova sperimentale di Michelson e Morley„ dobbiamo considerare la velocità della luce come la quantità fissa, e le dimensioni come variabili. L’universo si organizza in maniera tale da rendere costanti le nostre misurazioni della velocità della luce. Sono arrivato alla conclusione che tutto ciò può essere espresso geometricamente come una torsione delle dimensioni. — Sollevai la mano, formando un angolo retto con il pollice e con due dita. — Se ci troviamo in una struttura a quattro dimensioni… Be’, immagina di ruotarla così — e ruotai il polso — in modo che la lunghezza venga a trovarsi al posto dell’ampiezza, e quest’ultima al posto dell’altezza. Soprattutto, la durata viene a trovarsi al posto di una dimensione spaziale. Capisci? Non è necessario che la trasposizione sia completa, naturalmente: basta che sia parziale per spiegare l’adeguamento di Michelson e Morley. Non ho comunicato a nessuno queste mie riflessioni, perché non godevo di gran fama come teorico. E poi ero riluttante a pubblicare uno studio senza aver prima effettuato una verifica sperimentale. Altri, però, stavano ragionando allo stesso modo: sapevo di Fitzgerald, a Dublino, e di Lorentz, a Leida, e di Henri Poincaré, in Francia. Non passerà molto tempo, nella mia epoca, perché si arrivi a una teoria più completa della relatività delle dimensioni di riferimento. Comunque, sono questi, in sostanza, i principi su cui si basa la mia macchina del tempo — conclusi. — Essa torce intorno a sé lo spazio e il tempo, trasformando quest’ultimo in una dimensione spaziale, in modo tale che ci si può recare nel passato o nel futuro con la stessa facilità con cui si pedala in bicicletta!

Finalmente, mi appoggiai allo schienale della sedia. Considerate le condizioni piuttosto precarie in cui avevo dovuto procedere alla mia esposizione, pensai di essermela cavata proprio bene.

Invece, Nebogipfel non si dimostrò dello stesso parere. Per un poco rimase in piedi immobile, in silenzio, fissandomi attraverso gli occhiali azzurri. Infine replicò: — Sì, ma… come, esattamente?

11 Fuori della gabbia

Trovai molto irritante la reazione del Morlock.

Mi alzai dalla sedia e cominciai a passeggiare intorno alla Gabbia. Mi avvicinai a Nebogipfel, resistendo però all’impulso di mettermi a gesticolare minacciosamente come una scimmia. Mi rifiutai categoricamente di rispondere ad altre domande prima di essere stato condotto a visitare almeno in parte il mondo della Sfera.

— Ascolta… — esordii. — Non credi di essere ingiusto? Dopotutto, ho viaggiato per seicentomila anni allo scopo di visitare il vostro mondo. Finora, però, ho visto soltanto la collina di Richmond, avvolta nell’oscurità, e questo luogo… — indicai con un gesto il buio circostante — e ho dovuto subire il tuo interminabile interrogatorio! Considera la situazione da questo punto di vista, Nebogipfel… So che vuoi un resoconto completo del mio viaggio nel tempo, nonché dello svolgimento della storia a cui ho assistito fino al vostro presente. Ma come posso cominciare il racconto se non ne comprendo la conclusione? Non parliamo, poi, dell’altra dimensione di storia che ho conosciuto… — E m’interruppi, nella speranza di averlo convinto.

Nebogipfel si portò una mano al volto, e con le pallide dita sottili si risistemò gli occhiali, come avrebbe fatto un gentiluomo con il pince-nez: — Mi consulterò, a questo proposito — rispose infine. — Ne riparleremo. — E se ne andò.

Lo seguii con lo sguardo mentre si allontanava, camminando silenziosamente a piedi nudi sul cedevole pavimento stellato.

Dopo il mio successivo periodo di sonno, Nebogipfel tornò e mi chiamò con un gesto goffo, innaturale, come se lo avesse imparato soltanto di recente: — Vieni con me.

Con un moto di entusiasmo, frammisto a un certo timore, raccolsi prontamente la giacca dal pavimento.


Nell’oscurità che mi circondava da tanti giorni, camminai accanto a Nebogipfel, lanciando un’occhiata alla colonna di luce che si allontanava alle mie spalle, con i vassoi e i contenitori in disordine, il mucchio di coperte, e la sedia, che forse era l’unica esistente in quel mondo! Non dico che osservai con nostalgia quel piccolo spazio che era stato per me una dimora inospitale, giacché nel periodo che vi avevo trascorso ero stato infelice e spaventato, tuttavia mi chiesi se lo avrei mai rivisto.

Sotto di noi, le stelle eterne erano appese come un milione di lanterne cinesi che galleggiassero sulla corrente di un fiume invisibile.

Nebogipfel mi porse un paio di occhiali scuri simili a quelli che lui stesso portava.

Li presi, ma osservai prontamente: — A che cosa servono? A differenza di voi, non sono accecato…

— Non servono per la luce, ma per l’oscurità. Mettili.

Gli occhiali erano di forma circolare, fatti di un materiale elastico, con le lenti azzurre, e si adattarono perfettamente al mio viso.

Mi voltai. Nonostante il colore delle lenti, non vedevo azzurrato: come sempre, la colonna di luce era luminosa e l’immagine di Nebogipfel era nitida. — Non mi sembra che funzionino — commentai.

Per tutta risposta, Nebogipfel abbassò la testa.

Imitandolo, incespicai. Sotto di me, infatti, attraverso il pavimento trasparente, vidi brillare le stelle, non più offuscate dal pavimento stesso e dall’oscurità. Mi sembrò di essere sospeso sulle alture del Galles o della Scozia in una notte stellata, e, come si può ben immaginare, fui assalito da una vertigine intensa e improvvisa.

Notai che Nebogipfel lasciava trapelare una sfumatura d’impazienza: sembrava ansioso di continuare. In silenzio, ci rimettemmo in cammino.

Dopo pochi passi, però, Nebogipfel rallentò. Allora grazie agli occhiali vidi che ci trovavamo a breve distanza da una parete. Mi protesi a toccarne la superficie nera come la fuliggine, cedevole e calda come il pavimento. Non riuscendo a capire come avessimo potuto giungere in così breve tempo alla parete della sala, mi domandai se il nostro cammino non fosse stato accelerato da una sorta di superficie mobile. Comunque, Nebogipfel non mi fornì alcuna informazione.

— Prima di uscire — dissi, — spiegami che posto è questo.

Il Morlock girò verso di me la testa dalla chioma bionda: — Una sala vuota.

— Quanto è grande?

— Circa duemila miglia.

Sforzandomi di restare impassibile, pensai: Duemila miglia? Sono dunque rimasto da solo in una prigione abbastanza vasta da contenere un oceano? Quindi replicai, in tono pacato: — Avete molto posto, qui…

— La Sfera è grande. Forse ti sarà difficile capire quanto, se sei abituato alle distanze planetarie. La Sfera riempie l’orbita del pianeta a voi noto come Venere. Ha una superficie corrispondente a quella di quasi trecento milioni di pianeti come la Terra…

Trecento milioni?!

Al mio sbalordimento, Nebogipfel rispose soltanto con uno sguardo vacuo, e con una sfumatura d’impazienza più accentuata. Pur comprendendo il suo stato d’animo, ne fui irritato, e un poco imbarazzato: per lui ero come un abitante del Congo che, giunto a Londra, ponesse domande sullo scopo e sull’origine degli oggetti più semplici, come le forchette o i calzoni.

Per me, la Sfera intorno al sole era una costruzione tanto sbalorditiva, quanto sarebbero sembrate le piramidi agli occhi di un uomo di Neanderthal. Per il Morlock, invece, essa era parte della storia del mondo, quindi non era più sorprendente di una landa selvaggia trasformata da mille anni di coltivazione agricola.

Dinanzi a noi si aprì una porta, non nel modo in cui ero abituato, bensì ritagliata nella parete stessa, come il diaframma di una macchina fotografica.

Varcata la soglia, rimasi a bocca aperta e vacillai, rischiando di cadere all’indietro, mentre Nebogipfel mi osservava con la sua solita calma analitica.

In una sala vasta quanto un intero pianeta e tappezzata di stelle, almeno un milione di Morlock si girarono a guardarmi.

12 I Morlock della Sfera

Il luogo in cui mi trovavo può essere descritto come un’unica sala immensa, dove i soli colori erano il nero e l’argento, con un tappeto di stelle e un soffitto dalla elaborata architettura; eppure nulla dava l’impressione di uno spazio chiuso, perché tutto pareva estendersi all’infinito, non c’erano pareti né alcunché che potesse avere somiglianza con i nostri uffici e le nostre case, ma solo un numero sterminato di divisori alti poco più di un metro.

I volti pallidi dei Morlock sembravano una miriade di fiocchi di neve grigia sul tappeto stellato. Il rumore continuo delle loro voci limpide e morbide, profondamente dissimile sia dall’espressione umana che dall’intonazione neutra che Nebogipfel aveva imparato a usare in mia compagnia, m’investì come un fragore oceanico.

Dove il soffitto incontrava il pavimento, si scorgeva l’orizzonte, lievemente offuscato dal pulviscolo e dalla bruma. Era del tutto rettilineo, senza quella curvatura che si scorge talvolta fissando lo sguardo sull’oceano. Ma è difficile dare una descrizione, perché determinate realtà sfuggono all’intuizione finché non se ne ha un’esperienza diretta; tuttavia in quel momento mi resi conto di non essere sulla superficie di un pianeta, perché sapevo che non esisteva nessun orizzonte capace di nascondere altre legioni di Morlock come navi che scomparissero alla vista sul mare, e che la Terra, con la sua solidità e con la sua compattezza, era lontanissima. Ebbi un tuffo al cuore, in preda allo sgomento.

Avvicinandosi, Nebogipfel si tolse gli occhiali con un’aria che mi parve sollievo, e disse gentilmente: — Vieni… Hai paura? È quello che volevi vedere. Passeggeremo, e continueremo a conversare.

Soltanto con un certo sforzo riuscii a vincere la mia esitazione, muovendo un passo per allontanarmi dalla parete della cella immensa, e mi accinsi a seguirlo.

La mia presenza suscitò una certa agitazione. I Morlock si affollarono tutt’intorno per osservarmi con i loro visini dagli occhi grandi, privi di mento. Spinto dalla ripugnanza suscitata dalla loro pelle fredda, mi scostai da loro. Alcuni protesero verso di me le lunghe braccia villose. Emanavano un odore dolciastro e stantio che mi era fin troppo familiare. Molti camminavano eretti, mentre altri preferivano caracollare come oranghi, con le nocche che sfioravano il pavimento. Molti avevano la chioma e la pelliccia acconciate in fogge diverse, semplici e severe, come Nebogipfel, oppure più strane ed eleganti. Pochi avevano la pelliccia incolta come i Morlock incontrati nel mondo di Weena, tanto che sul momento sospettai che si trattasse d’individui ancora allo stato selvaggio, benché abitassero in quella sorta di città. Tuttavia non si comportarono diversamente dagli altri, quindi ipotizzai che seguissero una moda, come facevano nella mia epoca coloro che tenevano la barba incolta.

A un tratto, mentre sfilavo tra i Morlock mi resi conto di aver accelerato il passo, e rischiai d’inciampare. Abbassando lo sguardo, constatai che il tratto di pavimento trasparente su cui camminavo non appariva affatto diverso dal resto, però ebbi la certezza che si trattasse di un qualche tipo di superficie mobile.

La folla di Morlock dal volto esangue, l’assenza di colori, l’orizzonte piatto, la velocità innaturale con cui mi muovevo in quel luogo bizzarro, e soprattutto l’illusione di essere sospeso al di sopra di un pozzo infinito di stelle, contribuivano a creare una parvenza di sogno, che però veniva puntualmente smentita dal puzzo nauseabondo di un Morlock particolarmente curioso che avvicinandosi mi riportava alla realtà.

Non era un sogno: sapevo di essere isolato e sperduto in quel mare di Morlock, e mi trovai ancora una volta costretto a lottare per mantenere l’equilibrio, per non incespicare, per non cominciare a tirare pugni sui volti curiosi che mi si accalcavano intorno.

La totale assenza di spazi chiusi e la constatazione che i Morlock della Sfera erano privi d’inibizioni nel camminare, nel conversare, nel consumare lo stesso cibo sciapo che era stato offerto a me, insomma, nello svolgere tutte le loro misteriose faccende, mi indussero alla conclusione che non avevano bisogno d’intimità come noi la concepiamo.

Molti di loro sembravano immersi nel lavoro, benché il tipo di attività mi risultasse del tutto oscura: con le dita sottili e sinuose toccavano schermi di vetro azzurro e luminoso incassati in alcuni divisori, oppure parlavano rivolti a essi, e in tutta risposta sugli schermi comparivano e scorrevano schemi, figure o testi. Alcune versioni ancora più sofisticate erano in grado di proiettare nell’aria immagini tridimensionali, che riproducevano non avrei saputo dire che cosa. Quando i Morlock impartivano determinati comandi, le immagini tridimensionali ruotavano su se stesse, si aprivano a mostrare l’interno, oppure si scomponevano in serie di cubi fluttuanti di luce colorata.

Come si può immaginare, tutte queste attività erano immerse nel liquido e incessante chiacchiericcio della lingua aliena dei Morlock.

A un certo punto, dal pavimento spuntò un divisorio sottile simile a una colonna di mercurio e arrivò fino a un metro e venti d’altezza, corredato da tre onnipresenti schermi azzurri. Mi abbassai per guardare attraverso il pavimento trasparente, ma non vidi alcunché sotto la superficie: né un contenitore di qualche forma, né un congegno meccanico. Sembrava apparso dal nulla. — Da dove viene? — domandai alla mia guida.

Dopo una breve riflessione per scegliere le parole più adatte, Nebogipfel rispose: — La Sfera possiede una Memoria, ed è dotata di macchine che le consentono di immagazzinarla. E la forma di questi blocchi di dati — spiegò, riferendosi ai divisori — è contenuta nella Memoria della Sfera, in modo da poter essere recuperata in questa forma materiale ogniqualvolta lo si desidera.

Nebogipfel richiamò altri divisori, uno dei quali spuntò dal pavimento sostenendo un vassoio con cibo e acqua, che sembrò appena servito da un maggiordomo invisibile!

Quei blocchi che uscivano del pavimento uniforme e spoglio colpirono molto la mia immaginazione; mi rammentarono la teoria platonica del pensiero spiegata da alcuni filosofi, secondo cui per ogni oggetto esiste, su qualche piano della realtà, una forma ideale: un’essenza della sedia, o della condizione di tavolo, e così via, talché quando un oggetto viene fabbricato nel nostro mondo, si attinge ai modelli immagazzinati nel mondo superiore platonico.

Ebbene, mi trovavo in un universo platonico materializzato: l’immane Sfera che avvolgeva il sole era interamente pervasa da una Memoria, artificiale ma pressoché divina, di cui stavo visitando gli ambienti, insieme alla mia guida, e in cui erano immagazzinati gli Ideali di tutti gli oggetti che si potevano desiderare, o almeno, che potevano essere desiderati dai Morlock.

Quanto sarebbe stato comodo riuscire a fabbricare e a dissolvere strumenti e macchine a piacere! Mi resi conto che la mia casa spaziosa di Richmond, piena di spifferi, avrebbe potuto essere ridotta a un solo ambiente. Al mattino, avrei potuto far svanire l’arredamento della camera da letto nel tappeto, per poi sostituirlo con quello del bagno, e quindi con quello della cucina. Come per magia, al momento di iniziare la mia giornata di lavoro, avrei potuto richiamare dalle pareti e dal soffitto le apparecchiature del laboratorio. E infine, la sera, avrei potuto recuperare la sala da pranzo, con tanto di tappezzeria, caminetto e tutte le comodità, compreso il tavolo da pranzo con la cena già servita!

La conseguenza più immediata sarebbe stata la scomparsa in un batter d’occhio di professioni quali il muratore, l’idraulico, il carpentiere e simili. I proprietari degli Ambienti Intelligenti non avrebbero dovuto fare altro che stipendiare domestici a ore (anche se forse l’Ambiente avrebbe potuto occuparsi persino delle pulizie!), e probabilmente le memorie meccaniche avrebbero potuto essere aggiornate per rimanere al passo con le ultime tendenze…

E la mia immaginazione si sbizzarrì in altre ipotesi, senza più alcun freno.


Mi stancai presto e Nebogipfel mi condusse in una zona meno affollata, benché tutt’intorno, a una certa distanza, vi fossero Morlock ovunque; battendo con un piede sul pavimento, ne fece emergere una struttura dalle gambe massicce, alta circa un metro e mezzo e sormontata da un riparo che poggiava su quattro sostegni; all’interno vidi un rotolo di coperte e un vassoio carico di cibo. Mi sistemai, lieto di disporre per la prima volta di un riparo da quando mi trovavo nella Sfera, e ringraziai Nebogipfel per la sua gentilezza. Dopo avere pasteggiato con acqua e un po’ di formaggio verde, mi tolsi gli occhiali, trovandomi subito immerso nell’oscurità perenne del mondo dei Morlock, mi addormentai con la testa posata sopra una coperta arrotolata.

Quello strano rifugio fu la mia casa nei giorni successivi, durante i quali Nebogipfel mi condusse a visitare la sala-città dei Morlock. Subito dopo il mio risveglio, Nebogipfel faceva rientrare immediatamente il rifugio nel pavimento, e ogni volta che sostavamo lo faceva ricomparire, talché non avevamo bisogno di portare alcun bagaglio. Poiché avevo notato che i Morlock non dormivano, pensai che il mio strano comportamento incuriosisse notevolmente gli abitanti della Sfera — come quello di un orango agli occhi di un uomo, suppongo — e forse si sarebbero stretti attorno a me, mentre dormivo, per scrutarmi con i loro visetti rotondi, se Nebogipfel non mi fosse rimasto accanto per scoraggiare simili attenzioni.

13 Come vivevano i Morlock

Nei giorni in cui Nebogipfel mi condusse a visitare il mondo dei Morlock, non incontrammo mai una parete, una porta, o una barriera di qualunque genere. Per quanto riuscii a capire, visitammo per tutto il tempo un unico ambiente, che però era di dimensioni colossali. E anche piuttosto omogeneo, perché trovai ovunque un gran numero di Morlock impegnati nelle loro misteriose attività. I problemi che essi avevano dovuto risolvere per creare un ambiente simile erano tutt’altro che semplici: pensai, per esempio, a quello di mantenere stabili l’atmosfera, la temperatura, la pressione e l’umidità su vasta scala. Eppure Nebogipfel mi fece capire che la sala che stavamo visitando era soltanto una fra le tante che, come tessere di un mosaico, ricoprivano la Sfera da un polo all’altro.

Non tardai a comprendere che sulla Sfera non esistevano città in senso moderno. La popolazione viveva in quelle sale immense. Non esistevano ambienti riservati a determinate attività: quando si voleva attrezzare o smantellare un’area di lavoro, le apparecchiature necessarie uscivano o rientravano nel pavimento. Così anziché in vere e proprie città la popolazione si addensava in nodi, che si scioglievano e si ricreavano a seconda delle necessità.

Una volta, mentre me ne stavo seduto a gambe incrociate accanto al rifugio, sotto l’ombra protettiva dell’imperturbabile Nebogipfel, si avvicinò una coppia di Morlock. Quando li vidi, mi andò un sorso d’acqua di traverso e tossendo mi schizzai delle goccioline sulla giacca e sui calzoni.

Benché sembrassero indubitabilmente Morlock, quei due erano diversi da tutti quelli che avevo visto in precedenza: mentre Nebogipfel era alto circa un metro e mezzo, quei due grotteschi individui superavano i tre metri! Uno di essi, dopo avermi notato, si avvicinò a grandi passi, scavalcando i divisori come una sorta di enorme gazzella, con un rumore di piastre metalliche. Quando si curvò a osservarmi, indietreggiai, sgomento.

Il gigante emanava un odore acre, come di mandorle bruciate. Aveva enormi occhi rosso-grigi e sotto la pelle, tesa come quella di un tamburo, riuscivo a vedere la sagoma di una tibia lunga non meno di un metro e venti. Nonostante le dimensioni, aveva un aspetto fragile: le lunghe ossa delle gambe erano rinforzate con piastre di metallo leggero, evidentemente per prevenire fratture. Quella specie di animale allungato e assottigliato sembrava avere lo stesso numero di follicoli rispetto alla media dei Morlock, a giudicare dalla pelliccia assai sgradevolmente rada.

Dopo un rapido scambio con Nebogipfel nella lingua morlock, il gigante tornò dal suo compagno e si allontanò insieme a lui, ma voltandosi più di una volta a lanciarmi occhiate.

Sbalordito, guardai Nebogipfel: persino lui sembrava un’oasi di normalità dopo quell’incontro.

E allora mi spiegò: — Sono… — e pronunciò una parola in Morlock che non saprei ripetere né trascrivere — provenienti dalle alte latitudini. — Guardò per un momento i due giganti che si allontanavano. — Come puoi vedere, sono inadatti a questa regione equatoriale. Le placche sono necessarie per aiutarli a camminare, e…

— Non capisco — intervenni. — Che cos’hanno di tanto diverso le alte latitudini?

— La gravità.

Allora cominciai a comprendere.

La Sfera, come ho detto, era una costruzione titanica che occupava lo spazio di quella che un tempo era stata l’orbita dì Venere. Come mi spiegò Nebogipfel, ruotava sul proprio asse in appena sette giorni e tredici ore, mentre l’anno di Venere era stato di duecento venticinque giorni.

— Di conseguenza — spiegò Nebogipfel — la rotazione…

— Provoca effetti centrifughi, simulando la gravità terrestre all’equatore — conclusi. — Sì, capisco.

La rotazione della Sfera ci manteneva tutti incollati al pavimento, ma lontano dall’equatore il cerchio di rotazione di un singolo punto sull’asse era inferiore, quindi la gravità risultava ridotta, anzi, ai poli era annullata. E nei vasti continenti dove la gravità era ridotta, vivevano esseri straordinari, come i due giganti che avevo appena incontrato, che si erano adattati alle condizioni peculiari di quegli ambienti.

Mi battei una mano sulla fronte: — A volte ho l’impressione di essere di una stupidità abissale! — dissi a Nebogipfel che mi osservava divertito. Infatti, non mi ero mai chiesto a che cosa fosse dovuto il mio “peso” sulla Sfera. Che scienziato poteva mai essere colui che non s’interrogava, anzi, neppure si curava di effettuare le più semplici osservazioni, a proposito della “gravità” generata da un corpo che non era un pianeta? Mi chiesi quali altre meraviglie mi fossero sfuggite semplicemente perché le davo per scontate, al pari di Nebogipfel. Ma per lui, al contrario di me, erano semplici aspetti del suo mondo, non più eccezionali di un tramonto o delle ali di una farfalla.


Anche se con difficoltà, perché non sapevo esattamente come formulare le domande, interrogai Nebogipfel sul modo di vivere dei Morlock. Può sembrare strano, ma come potevo esprimere le mie curiosità a proposito, per esempio, della macchina che consentiva al pavimento di trasformarsi? Come se un uomo di Neanderthal avesse voluto informarsi sul funzionamento di un orologio, il mio linguaggio non disponeva neppure dell’apparato concettuale necessario a inquadrare le domande. Quanto all’organizzazione sociale che governava invisibilmente la vita di milioni di Morlock in quella sala immensa, non la capivo più di quanto un abitante dell’Africa centrale appena giunto in Inghilterra avrebbe capito i ritmi di vita di Londra, il telegrafo, il telefono, il servizio postale, e così via. Anche il modo in cui i Morlock eliminavano i rifiuti restava un mistero per me.

Per cominciare, chiesi alla mia guida chi governasse i Morlock.

Con un atteggiamento che mi parve altezzoso, Nebogipfel mi spiegò che la Sfera era abbastanza vasta da ospitare diverse nazioni; ognuna di esse si distingueva dalle altre principalmente per la forma di governo che sceglieva: quasi tutte si erano date un governo democratico, e in alcune si eleggeva a suffragio universale un parlamento molto simile a quello di Westminster; in altre, poteva votare soltanto un piccolo gruppo elitario, composto da chi veniva considerato più adatto a governare per temperamento e per formazione. Credo che fosse un modello paragonabile nella nostra cultura alle antiche repubbliche, o forse l’ideale della repubblica platonica; e debbo ammettere che mi trovavo in sintonia con tale approccio.

Nella maggior parte delle nazioni, però, l’organizzazione della Sfera aveva reso possibile una forma autentica di suffragio universale, grazie al quale gli abitanti venivano tenuti al corrente dei problemi in discussione tramite gli schermi azzurri dei divisori, mediante i quali potevano anche comunicare istantaneamente le loro opinioni su ciascuna questione. Di conseguenza il governo interveniva di volta in volta, sottoponendo ogni decisione importante al giudizio dell’intera popolazione.

Era un sistema che suscitava la mia diffidenza: — Sicuramente non tutti godranno di tale diritto: i pazzi, per esempio, oppure gli idioti.

Nebogipfel mi guardò con un certo sussiego: — Non abbiamo niente del genere.

Allora sfidai l’utopista nel cuore della sua utopia: — E com’è possibile?

Anziché rispondermi direttamente, Nebogipfel proseguì: — Ogni individuo adulto è razionale, in grado di prendere decisioni a beneficio degli altri, e gode della fiducia generale. In tali circostanze, la forma più pura di democrazia non soltanto è possibile, bensì auspicabile, giacché la collaborazione di molte menti consente di decidere meglio di quanto possa fare una sola mente.

— Allora perché esistono il parlamento e gli organi di cui mi hai parlato? — sbuffai.

— Non tutti ritengono che l’organizzazione di questa regione della Sfera sia l’ideale. Non è forse questa l’essenza della libertà? Non tutti sono abbastanza interessati ai meccanismi di governo da volervi partecipare: alcuni preferiscono delegare il potere ad altri, attraverso o meno una forma di rappresentanza. E si tratta di una scelta valida.

— Benissimo. Ma che cosa accade quando tali scelte vengono a trovarsi in conflitto?

Abbiamo spazio — dichiarò Nebogipfel con enfasi. — Non devi dimenticarlo. Sei ancora influenzato dai limiti della condizione planetaria. Fra noi, ogni dissidente è libere di andarsene e di fondare altrove un sistema di governo nuovo e diverso.

Le nazioni morlock erano dunque entità fluide, a cui gli individui aderivano, o da cui si staccavano, a seconda delle loro preferenze. A quanto pareva, non esistevano confini immutabili di territorio o di proprietà: le nazioni non erano altro che raggruppamenti di convenienza sparsi sulla superficie della Sfera.

Non esistevano guerre fra i Morlock.

Mi occorse un po’ di tempo, ma alla fine me ne convinsi. Infatti, non esistevano cause per scatenare guerre. Grazie ai congegni nel pavimento, le risorse non mancavano mai, quindi non potevano sorgere dispute fra nazioni per motivi economici. La vastità della Sfera rendeva disponibile una superficie pressoché illimitata, quindi i conflitti territoriali erano assurdi. E soprattutto, le menti morlock erano libere dal cancro della religione, che aveva causato tanti contrasti nel corso dei secoli.

— Dunque non avete nessun dio — osservai, con un certa emozione. Pur non essendo propriamente ateo, immaginavo quanto sarebbero rimasti sconvolti i religiosi della mia epoca nell’udire un resoconto di quella conversazione.

— Non abbiamo bisogno di nessun dio — ribatté Nebogipfel.

I Morlock consideravano la mentalità religiosa, in opposizione alla mentalità razionale, come una caratteristica ereditaria, che in sé non aveva più significato degli occhi azzurri o dei capelli castani.

Più Nebogipfel mi spiegava questa concezione, più mi pareva fondata e condivisibile.

Quale concetto di dio è sopravvissuto all’intera evoluzione mentale dell’umanità? Be’, esattamente quello che meglio si presta a essere prodotto dalla vanità umana: un dio dotato di poteri smisurati, eppure coinvolto nelle meschine vicende umane. Chi mai potrebbe adorare una divinità onnipotente ma che osserva con fredda indifferenza le tribolazioni umane, insignificanti come punture d’insetto?

Si potrebbe supporre che, in un conflitto fra esseri umani razionali e religiosi, i primi dovrebbero trionfare. Dopotutto, è la razionalità che ha inventato la polvere da sparo! Eppure, almeno fino al diciannovesimo secolo, la religione ha avuto il sopravvento, e la selezione naturale ha prodotto un gregge di pecore passive e fedeli, pronte a lasciarsi ingannare dal predicatore con la parlantina più sciolta. Questa è almeno la mia impressione.

Tale paradosso si spiega con il fatto che la religione fornisce agli individui uno scopo per cui lottare: la persona religiosa riesce a rendere “sacro” con il proprio sangue un pezzo di terra, che in tal modo assume un valore che va al di là di quello materiale, economico, o d’altro genere.

— Noi, però, abbiamo risolto questo paradosso — dichiarò Nebogipfel. — Ora riusciamo a padroneggiare il nostro retaggio: non siamo più governati dagli imperativi del passato, siano essi fisici o mentali…

Ma anziché seguire questo interessante ragionamento, mi posi la domanda più ovvia, ossia quale fosse, in assenza di Dio, lo scopo della vita dei Morlock. Ero affascinato al pensiero di quanto il signor Darwin, dopo aver tanto criticato le varie Chiese, sarebbe stato felice di assistere al trionfo definitivo delle sue concezioni su quelle dei religiosi!

In verità, avrei scoperto solo in seguito il vero scopo della civiltà dei Morlock.

Comunque, rimasi molto impressionato da tutto ciò che vidi nel mondo artificiale della Sfera. E non sono affatto certo che il mio resoconto esprima fino in fondo il rispetto e la meraviglia che mi suscitò. La specie dei Nuovi Morlock aveva davvero superato le tare ereditarie, si era sbarazzata del fardello dell’animalità che noi avevamo trasmesso: aveva raggiunto in tal modo una stabilità e un’efficienza inimmaginabili per un individuo del 1891, cresciuto, come me, in un mondo straziato dalle guerre, dall’avidità e dall’incompetenza.

E l’evoluzione dei Morlock della Sfera risultava tanto più impressionante se paragonata con quella degli altri Morlock — quelli del mondo di Weena — che nonostante le loro abilità tecniche e di altro genere, erano regrediti alla più infima animalità.

14 Costruzioni e divergenze

Con Nebogipfel discussi anche della costruzione della Sfera: — Immagino abbiate sviluppato grandiosi progetti per frantumare i pianeti più grandi, vale a dire Giove e Saturno, e poi…

— Niente di tutto ciò — interruppe Nebogipfel. — I pianeti esterni alla Terra sono ancora in orbita intorno al sole. Anche tutti i pianeti messi insieme non avrebbero potuto fornire il materiale sufficiente neppure a iniziare la costruzione della Sfera.

— Allora come…?

La mia guida raccontò che il sole era stato circondato da una grande flotta di navi spaziali equipaggiate con immensi magneti, dalle caratteristiche che non riuscii a capire, inclusi circuiti elettrici la cui resistenza era in qualche modo ridotta a zero.

Orbitando attorno al sole a velocità crescente, le navi avevano formato una sorta di cintura magnetica sempre più stretta. Come se l’astro fosse stato un frutto tenero strizzato in un pugno, la materia che lo componeva, anch’essa magnetizzata, era stata spremuta dall’equatore e convogliata a sgorgare dai poli.

Poi altre flotte di navi spaziali avevano manipolato la nube immensa costituita dal materiale estratto, sino a formare un guscio, che a sua volta era stato compresso mediante campi magnetici, e trasformato nella struttura solida che vedevo intorno a me.

Il sole, così racchiuso, continuava ad ardere, giacché persino la quantità immensa di materiale utilizzata per costruire il guscio titanico non era che una frazione minuscola della massa totale dell’astro; e all’interno della Sfera illuminava perpetuamente continenti giganteschi, ognuno dei quali aveva una superficie equivalente a quella di milioni di Terre.

— Un pianeta come la Terra — spiegò Nebogipfel — può intercettare soltanto una frazione minima dell’energia solare, mentre il resto si disperde inutilizzato nello spazio. La Sfera, invece, può raccogliere tutta l’energia del sole che racchiude, e questo è il motivo principale per cui l’abbiamo costruita: abbiamo imbrigliato una stella.

In un milione di anni, sarebbe stato possibile immagazzinare e trasformare energia solare sufficiente per aumentare lo spessore della Sfera di un venticinquesimo di pollice: uno strato sottile, ma straordinariamente esteso. Nel frattempo, una parte dell’energia sarebbe stata utilizzata per il mantenimento dell’interno della Sfera e per lo svolgimento delle diverse attività.

Con un certo entusiasmo, descrissi il processo a cui avevo assistito durante il mio viaggio temporale: l’aumento della luminosità del sole, le esplosioni ai poli, e la scomparsa dell’astro nell’oscurità, a mano a mano che la Sfera veniva costruita.

Allora Nebogipfel mi osservò con quella che mi parve una certa invidia: — E così, hai assistito davvero alla costruzione della Sfera. Sono occorsi diecimila anni…

— Ma a bordo della mia macchina non sono stati che pochi istanti.

— Mi hai detto che questo è il tuo secondo viaggio nel futuro, e che durante il primo hai osservato grandi differenze…

— Sì. — Ancora una volta mi trovai ad affrontare quel mistero elusivo. — Ho osservato differenze nel corso della storia. Insomma, Nebogipfel… nel futuro che ho visitato durante il mio primo viaggio, la Sfera non è mai stata costruita.

Raccontai che in precedenza mi ero spinto ben oltre l’anno 657.208, assistendo a un inspiegabile surriscaldamento del sole, alla scomparsa dell’inverno e alla crescita della vegetazione su tutto il pianeta. A differenza del mio secondo viaggio, non avevo visto traccia della correzione dell’inclinazione dell’asse terrestre, né del rallentamento della rotazione. Ancora più sorprendente, la Terra, senza la costruzione della Sfera, era rimasta lussureggiante e luminosa, anziché precipitare nell’oscurità stigea dei Morlock.

— E così arrivai all’anno 802.701, centocinquantamila anni nel futuro rispetto al vostro presente. Eppure non credo proprio che, se proseguissi il mio viaggio in questo tempo, ritroverei lo stesso mondo.

Succintamente, narrai a Nebogipfel ciò che avevo visto nel mondo di Weena, abitato dagli Eloi e dai Morlock abbrutiti.

Dopo aver meditato su tutto ciò, Nebogipfel dichiarò: — In tutta la storia conosciuta, la mia storia, nulla di tutto questo è accaduto nell’evoluzione dell’umanità. E poiché la Sfera, una volta costruita, si autoalimenta, è difficile immaginare che il futuro ci riservi una tale discesa nella barbarie.

— Dunque sei d’accordo anche tu — replicai. — Ho viaggiato in due tempi storici del tutto diversi. È dunque possibile che la storia si possa rimodellare come creta?

— Forse… — mormorò Nebogipfel. — Quando sei tornato nella tua epoca, nel 1891, hai portato qualche reperto del tuo viaggio?

— Nulla, tranne alcuni fiori bianchi, simili a malve, che una Eloi di nome Weena mi aveva messo in tasca. I miei amici li osservarono: appartenevano a una specie loro ignota, e ricordo che fecero commenti sui pistilli…

— Amici? — intervenne Nebogipfel, con voce tagliente. — Hai lasciato un resoconto del tuo viaggio, prima di ripartire?

— Sì, ma non un resoconto scritto. A cena, ho narrato dettagliatamente ad alcuni amici tutto ciò che mi era successo. — Sorrisi. — E uno di loro, se lo conosco bene, finirà per trascrivere il mio racconto in forma avventurosa, magari presentandolo come fantastico…

— In tal caso — affermò Nebogipfel, sempre in tono calmo, ma con una strana sfumatura drammatica — ecco la tua spiegazione.

— Spiegazione?

— Per la divergenza storica.

Lo guardai con orrore, cominciando finalmente a capire: — Vuoi dire che, con il mio racconto… con la mia profezia, ho cambiato la storia?

Sì. Grazie a quell’avvertimento, l’umanità è riuscita a evitare i conflitti e le degenerazioni da cui è scaturito il mondo crudele e primitivo degli Eloi e dei Morlock: invece, ha continuato a evolversi, permettendoci infine di imbrigliare il sole.

Ero incapace di affrontare le conseguenze di tale ipotesi, che pure mi colpì per la sua veridicità e chiarezza. — Ma alcune cose sono rimaste immutate — gridai. — Voi Morlock vivete ancora nelle tenebre!

— Non siamo Morlock — ribatté pacatamente Nebogipfel. — O almeno, non siamo quelli che tu ricordi. Quanto all’oscurità… Che bisogno abbiamo di un eccesso di luce? Abbiamo scelto l’oscurità. I nostri occhi sono strumenti eccellenti, capaci di percepire la bellezza. Senza l’accecamento prodotto dal sole, è possibile discernere la bellezza del cielo in tutte le sue sfumature…

Polemizzare con Nebogipfel non riuscì a distrarmi: fui costretto ad affrontare la realtà. Chinando la testa, mi fissai le mani, grandi, callose, segnate dalle cicatrici di decenni di lavoro. Il mio unico scopo, al quale avevo dedicato ogni sforzo, era stato esplorare il tempo, per osservare l’evoluzione della vita da un punto di vista cosmologico, oltre i pochi decenni concessi alla mia esistenza effimera. Invece sembrava che la mia impresa fosse andata ben al di là.

La mia invenzione si era rivelata molto più potente di una semplice macchina per viaggiare nel tempo: era una macchina della storia, una distruttrice di mondi!

Ero un assassino del futuro: i miei poteri, se si doveva credere a Tommaso d’Aquino, erano superiori a quelli di Dio stesso. Modificando la storia, avevo cancellato miliardi di esseri prima che potessero nascere.

Sopportai a stento la consapevolezza di tanta presunzione. Avevo sempre diffidato del potere personale, perché non avevo mai conosciuto nessuno che fosse tanto saggio da poterlo esercitare, eppure mi ero assunto più potere di qualunque altro uomo che fosse mai vissuto.

Promisi dunque a me stesso che, se fossi riuscito a recuperare la macchina del tempo, sarei tornato nel passato per correggere ancora una volta la storia, definitivamente, cancellando l’invenzione di quel congegno infernale… E in quel momento mi resi conto che mai avrei potuto ritrovare Weena, perché non soltanto avevo causato la sua morte, bensì, come avevo appena scoperto, avevo cancellato la sua stessa esistenza.

In quel tumulto di emozioni, la sofferenza per quella piccola perdita mi parve dolce e limpida, come una nota elevata dall’oboe nel clamore di una grande orchestra.

15 Vita e morte fra i Morlock

Un giorno Nebogipfel mi condusse nel luogo forse più inquietante fra tutti quelli che visitai in quella regione della Sfera.

Ci avvicinammo a una zona, forse di mezzo miglio quadrato, dove i divisori sembravano più bassi del solito. Poco a poco, percepii una sorta di blaterio morbido, sempre più forte e sempre più intenso, il caratteristico puzzo nauseabondo dei Morlock, stantio e dolciastro. Nebogipfel mi fece fermare al margine della zona.

Con gli occhiali, potei notare che la superficie pulsante brulicava di bambini gementi e trotterellanti: migliaia di giovani Morlock che con le manine si tiravano a vicenda i ciuffi di pelliccia incolta, si cacciavano cibo nelle bocche scure, pasticciavano con divisori di dimensioni ridotte, si rotolavano come scimmiette. Qua e là si aggiravano individui adulti che aiutavano i piccoli a rialzarsi, sedavano piccole dispute o calmavano crisi di pianto.

Divertito, osservai quella marea d’infanzia. Forse qualcuno, anche se certo non io, scapolo convinto, avrebbe trovato attraente una moltitudine di bimbi umani; ma quelli erano Morlock… Occorre ricordare che, con le loro chiome sottili, la pelle pallida e fredda come quella di un verme, i Morlock non sono esseri che possano attrarre la sensibilità umana. E per farsi un’idea della mia impressione in quel momento, si dovrebbe immaginare un tavolo gigantesco pullulante di larve!

Mi rivolsi alla guida: — Dove sono i loro genitori?

Come se cercasse le parole giuste, Nebogipfel esitò, prima di rispondere: — Non hanno genitori. Questo è uno stabilimento di riproduzione. Quando sono abbastanza cresciuti, i bambini vengono trasportati in un asilo, qui sulla Sfera, oppure…

Distogliendo l’attenzione, osservai Nebogipfel da capo a piedi, ma la pelliccia gli copriva tutto il corpo, nascondendone la conformazione.

Trasalendo di stupore, mi resi conto di un altro fatto che non avevo colto, benché fosse stato evidente fin dal mio arrivo sulla Sfera: i Morlock, tutti quelli che avevo visto, inclusi Nebogipfel e i due giganti provenienti dalle regioni a bassa gravità, non presentavano alcuna traccia di differenziazione sessuale: la loro pelliccia rada non lasciava dubbi in proposito. Gli adulti erano del tutto simili ai bambini, privi cioè di caratteristiche maschili o femminili. In quel momento mi resi conto che non sapevo nulla dei loro meccanismi di riproduzione, né avevo pensato a informarmi.

Intanto, Nebogipfel mi fornì alcuni ragguagli sull’educazione dei giovani Morlock.

Ogni individuo iniziava la propria esistenza negli stabilimenti di riproduzione e nei giardini d’infanzia, uno dei quali, come ricordavo dolorosamente, occupava tutta la Terra. Oltre ai rudimenti del comportamento sociale, il bambino sviluppava una facoltà essenziale, quella di apprendere. Era come se uno scolaro del diciannovesimo secolo, anziché imbottirsi la testa con un sacco di assurdità sul Greco, sul Latino, o su oscuri teoremi di geometria, impalasse a concentrarsi, a utilizzare le biblioteche, ad assimilare le conoscenze, e soprattutto a pensare. In seguito, l’acquisizione di qualunque sapere specifico dipendeva dalle necessità contingenti e dalle inclinazioni individuali.

Quando Nebogipfel mi spiegò in breve tutto ciò, la semplicità e la logicità del processo mi colpirono quasi fisicamente. Ma certo! pensai. Al diavolo la scuola! Quale differenza, rispetto al conflitto imperante tra ignoranza e incompetenza dei miei anni di studio, che non rimpiango affatto!

Chiesi a questo punto a Nebogipfel quale fosse la sua professione.

Mi spiegò che, una volta individuata l’epoca dalla quale provenivo, lui stesso ne era diventato un esperto, studiando i documenti raccolti dal suo popolo, e così aveva scoperto alcune differenze significative fra le usanze delle nostre specie.

— Le nostre occupazioni non sono spossanti come le vostre — dichiarò. — Io ho due passioni, o due vocazioni. — I suoi occhi erano invisibili, perciò era ancora più difficile, se non impossibile, indovinare i suoi sentimenti. — Sono la fisica, e l’educazione dei giovani.

L’istruzione in tutte le sue forme si protraeva per l’intera durata dell’esistenza morlock. Non era insolito che un individuo si dedicasse a tre o quattro di quelle che noi potremmo definire “carriere”. Ebbi l’impressione che, in media, il livello d’intelligenza dei Morlock fosse superiore a quello delle persone della mia epoca.

Comunque fui sorpreso dalla risposta di Nebogipfel, perché avevo creduto che si fosse specializzato esclusivamente in fisica, data la capacità che aveva dimostrato nel seguire le mie esposizioni, talvolta confuse, sulla teoria dei viaggi temporali e sull’evoluzione della storia.

— Dimmi… — chiesi allegramente. — Per quale ragione sei stato incaricato di occuparti di me? Perché sei uno scienziato oppure…?

Allora mi sembrò che la sua bocca nera dai denti piccoli si allargasse in un sorriso.

E così seppi la verità, che mi costò una cocente umiliazione. Nella mia epoca ero un uomo eminente, eppure ero stato affidato alle cure di un… pedagogo! D’altronde, riflettei, come mi sono comportato arrivando nell’anno 657.208, se non come un bambino?

Intanto, Nebogipfel mi condusse in una zona dello stabilimento occupata da una piccola serra, costituita dello stesso materiale trasparente del pavimento: era uno dei pochi luoghi coperti della sala. Entrammo nell’edificio, che era privo di arredamento, tranne alcuni divisori con tanto di schermi luminosi. Al centro, nel pavimento si notava un rigonfiamento, simile a un fagotto di indumenti.

Notai che qui gli adulti apparivano più assorti di quelli che si occupavano dei bambini nel resto dell’asilo. Sopra la pelliccia bionda, indossavano vesti con tasche piene di strumenti di cui non riuscivo a comprendere la funzione, alcuni dei quali emanavano un debole luccichio. Dall’aspetto e dal comportamento, mi parvero ingegneri, benché ciò contrastasse con l’ambiente in cui si trovavano. Nonostante la mia presenza li avesse distratti, gli ingegneri continuarono a osservare il fagotto sul pavimento, toccandolo di quando in quando con gli strumenti.

Incuriosito, mi avvicinai, mentre Nebogipfel restava indietro. Ancora inserito nel pavimento, il fagottino sembrava una scultura incompiuta, con due braccine appena abbozzate, e un disco villoso, che stava diventando una faccia, in cui si apriva una bocca sottile. Mentre il processo rallentava, mi domandai come mai fosse tanto difficile per la macchina produrre quel tipo di oggetto: forse era particolarmente complesso.

Il ricordo del momento che seguì mi perseguiterà finché vivrò, perché quella boccuccia si aprì con una sorta di schiocco tenue, seguito da un gemito che rimase sospeso nell’aria, ancor più flebile di quello di un gattino. Il visetto si raggrinzì in una smorfia di lieve sofferenza.

Vacillai e indietreggiai, come se qualcuno mi avesse colpito.

Come se avesse previsto la mia reazione, Nebogipfel commentò: — Rammenta che ti trovi a mezzo milione di anni dalla tua epoca: l’intervallo che ci separa è dieci volte superiore all’età della tua specie.

— Nebogipfel… È mai possibile che i vostri bambini siano costruiti da questo pavimento, con la stessa noncuranza di chi si versa un bicchiere d’acqua, e che lo sia stato anche tu? — Mi convinsi che i Morlock sapevano davvero dominare la genetica, visto che avevano abolito… la nascita e la differenza tra i sessi.

— È… inumano! — protestai.

Evidentemente quella parola non significava nulla per Nebogipfel, che mi guardò reclinando la testa: — Il nostro sistema è concepito per realizzare al massimo grado il potenziale della forma umana, perché anche noi siamo umani — dichiarò, in tono severo. — Tale forma deriva dalla sequenza di un milione di geni, dunque il numero degli individui umani possibili, benché vasto, è finito, e tutti questi individui possono essere… — Esitò. — Possono essere immaginati dall’intelligenza della Sfera.

Poi mi spiegò che la Sfera si occupava anche della sepoltura: le salme venivano riassorbite dal pavimento senza cerimonie, per essere disgregate e riutilizzate.

— La Sfera ricompone i materiali necessari per dare vita agli individui scelti, e…

— Scelti? — Mentre scrutavo Nebogipfel, la collera e la violenza che avevo imparato a dominare esplosero nuovamente. — È tutto estremamente razionale! Ma che cos’altro avete abolito con la vostra razionalità? La tenerezza? L’amore?

16 Decisione e partenza

Dopo essere uscito scosso dallo spaventoso stabilimento di riproduzione, osservai la vasta sala-città in cui mi trovavo, con le schiere di Morlock diligentemente impegnati nelle loro incomprensibili attività. Avrei voluto gridare, infrangere la loro ripugnante perfezione; ma persino in quel momento disperato, non potevo rischiare di mettermi in cattiva luce ai loro occhi.

Avrei voluto fuggire persino da Nebogipfel, che pure aveva dimostrato una certa gentilezza e una certa stima nei miei confronti: forse anche più di quanto meritassi e, probabilmente, di quanto avrebbero fatto i miei contemporanei di fronte a un selvaggio attaccabrighe giunto dal passato… un passato di mezzo milione di anni. Nondimeno intuivo che la mia reazione al processo di riproduzione lo aveva affascinato e divertito. Forse aveva organizzato tutto quanto allo scopo di suscitare in me un’emozione estrema: in tal caso, vi era riuscito perfettamente. La mia umiliazione e la mia collera irrazionale, però, erano tali, che stentavo a sopportare la vista della sua pelliccia acconciata in modo pittoresco.

Comunque, non avevo nessun luogo dove andare. Che mi piacesse o no, sapevo che Nebogipfel era il mio unico punto di riferimento nello strano mondo dei Morlock: l’unico individuo di cui conoscessi il nome, nonché, a quanto potevo intuire delle intenzioni dei Morlock, il mio unico protettore.

Forse Nebogipfel indovinò almeno in parte il mio conflitto interiore. In ogni modo, non m’impose la sua compagnia, ma si apprestò a evocare ancora una volta dal pavimento il mio piccolo rifugio. Sedetti nell’angolo più buio, con le braccia strette intorno al busto, acquattato come un animale della foresta condotto in cattività a New York.

Rimasi nel rifugio per alcune ore, forse dormendo. Infine, ritrovato il mio equilibrio interiore, mangiai qualcosa e mi lavai con gesti apatici.

Prima della visita allo stabilimento di riproduzione, ciò che avevo visto del mondo dei Nuovi Morlock mi aveva incuriosito. Mi ero sempre considerato un individuo razionale, quindi mi affascinava quella società organizzata da esseri razionali che utilizzavano la scienza e la tecnica per creare un mondo migliore. Per esempio, mi aveva impressionato la tolleranza nei confronti di diversi sistemi politici. Però la vista di quella specie di feto mi aveva sconvolto. Forse la mia reazione dimostra quanto siano profondamente radicati i valori e gli istinti fondamentali della nostra specie.

Se era vero che i Nuovi Morlock avevano superato il condizionamento genetico dell’ereditarietà, allora, in quel momento di tumulto interiore, invidiai la loro stabilità.


Forse sarei stato tollerato, ma certo non avrei mai trovato posto nella loro società, almeno non più di quanto avrebbe potuto trovarlo un gorilla in un albergo di Mayfair. In altre parole, dovevo decidermi e abbandonare i Morlock.

Quando uscii dal rifugio, trovai Nebogipfel ad aspettarmi, come se non si fosse mai allontanato. A un suo gesto, il rifugio svanì nuovamente nel pavimento.

— Nebogipfel — dichiarai, in tono brusco. — Ti apparirà evidente che qui mi sento fuori posto come un animale fuggito da uno zoo.

Nebogipfel mi scrutò con aria impassibile.

— Sappi che, se non intendi tenermi prigioniero o segregarmi come esemplare da laboratorio, non desidero rimanere qui. Ti chiedo di poter recuperare la macchina del tempo e tornare nella mia epoca.

— Non sei affatto prigioniero. Questa parola non è traducibile nella nostra lingua. Sei un essere senziente, e come tale hai i tuoi diritti. Gli unici obblighi che t’imponiamo sono due… in primo luogo, non dovrai più nuocere a nessuno con le tue azioni…

— Accetto — precisai, con un certo sussiego.

— Inoltre — proseguì Nebogipfel, — non dovrai ripartire con la tua macchina.

— E così ecco liquidati i miei diritti — ribattei, in un ringhio. — Dunque sono prigioniero qui, in questo tempo.

— Anche se la teoria dei viaggi temporali è abbastanza chiara, come del resto la struttura della tua macchina, non abbiamo ancora compreso i principi su cui si basano — rispose Nebogipfel.

Pensai che ciò significasse che non avevano ancora capito la funzione della plattnerite.

— Tuttavia — proseguì Nebogipfel — pensiamo che questa scoperta potrebbe essere di grande utilità per la nostra specie.

— Lo credo bene!

D’improvviso, ebbi la visione dei Nuovi Morlock che, a bordo di macchine del tempo, tornavano nella Londra del 1891 con i loro magici apparecchi e le loro armi portentose.

Avrebbero potuto garantire all’umanità protezione e nutrimento, ma l’avrebbero privata dell’anima e forse, alla fine, anche dei figli. Se ciò fosse accaduto, l’uomo moderno sarebbe sopravvissuto solo per poche generazioni.

L’orrore suscitato da questa prospettiva mi fece pulsare le vene del collo. Eppure, persino in quel momento, una remota parte razionale della mente m’indicò alcuni punti deboli di quella previsione catastrofica: Se i miei contemporanei, cioè gli antenati dei Morlock, riflettei, fossero stati sterminati, allora gli stessi Morlock non avrebbero potuto evolversi, dunque neppure impadronirsi della macchina del tempo e tornare nel passato. Non è forse un paradosso? Infatti, solo una delle due possibilità avrebbe potuto avverarsi. Non bisogna dimenticare che stavo ancora meditando, quasi inconsciamente, sul problema irrisolto del mio secondo viaggio nel tempo e sulla biforcazione della storia che avevo constatato. In cuor mio, sapevo di essere ben lungi da una vera comprensione del viaggio nel tempo, dei suoi fondamenti e delle sue conseguenze.

Accantonai quelle riflessioni e replicai a Nebogipfel: — Mai! Non vi aiuterò mai a capire come viaggiare nel tempo!

La guida mi scrutò: — In tal caso, nel rispetto degli obblighi che ti ho esposto, sei libero di viaggiare ovunque nei nostri mondi.

— Bene, allora ti chiedo di condurmi in un luogo, ovunque si trovi in questo nuovo sistema solare, dove esistano ancora uomini come me.

Lanciai questa sfida aspettandomi, suppongo, una risposta negativa.

Con mia sorpresa, invece, Nebogipfel si avvicinò: — Non sono esattamente come te, in ogni modo… Vieni. — Così dicendo, si rimise in marcia attraverso l’immensa pianura brulicante di Morlock.

Pensai che le sue ultime parole non facessero presagire nulla di buono, anche se non ne compresi il significato. Comunque non avevo altra scelta che seguirlo.


Quando mi ero ormai convinto di aver perso l’orientamento in quell’immensa sala-città, giungemmo in una zona sgombra, larga circa un quarto di miglio. Nebogipfel indossò gli occhiali. Quanto a me, li portavo già.

D’improvviso, un raggio luminoso scese inarcandosi dall’alto e ci investì in pieno. Scrutando nella calda luce gialla, vidi un pulviscolo fluttuare nell’aria, e per un momento ebbi l’impressione di essere tornato nella Gabbia di Luce.

Non mi ero accorto che Nebogipfel avesse azionato qualche comando della macchina invisibile del pavimento, ma pochi secondi più tardi quest’ultimo cedette sotto i miei piedi con un sussulto brusco e del tutto inaspettato, simile a un piccolo terremoto. Vacillai, recuperando subito l’equilibrio.

— Che cos’è stato?

Nebogipfel rimase impassibile come sempre. — Forse avrei dovuto avvertirti… È incominciata la nostra ascesa.

Ascesa?

Mi accorsi che un disco di vetro, del diametro di circa un quarto di miglio, s’innalzava dal pavimento, sollevando me e Nebogipfel: mi sembrò di essere sulla cima di una colonna immensa che spuntasse dal suolo. A circa tre metri d’altezza, la nostra salita parve accelerare e sentii una lieve brezza sulla fronte.

Avvicinatomi al bordo del disco, osservai la vasta sala che si stendeva sotto di noi, piatta e uniformemente popolata, fin dove giungeva lo sguardo. Il pavimento sembrava una mappa in filo d’argento su fondo nero — forse a raffigurare delle costellazioni — sovrapposta al vero panorama stellare. Due visi argentei si alzarono a seguirci con lo sguardo mentre salivamo, ma i Morlock per la maggior parte rimasero indifferenti.


— Nebogipfel… Dove stiamo andando?

Con calma, la mia guida rispose: — Nell’Interno.


Mi accorsi di un cambiamento della luce che, non più condensata in un unico raggio, parve diventare più intensa e più diffusa, come quando la si vede dal fondo di un pozzo.

Alzai lo sguardo: il disco di luce sopra di me si stava allargando, permettendomi di scorgere un anello azzurro tutt’intorno. Era il cielo, cosparso di nubi soffici e vaporose, che appariva come chiazzato. Dapprima questo effetto mi sembrò dovuto agli occhiali che ancora portavo.

Volgendosi verso di me, Nebogipfel batté con un piede sulla base della piattaforma, provocando la comparsa di un oggetto che sul momento non riconobbi: una sorta di ciotola, da cui si innalzava al centro un’asta. Soltanto quando Nebogipfel la prese sollevandola sopra la testa, capii che si trattava di un semplice parasole, per proteggere la sua pelle pallida dal calore e dalla luce.

Così equipaggiati, salimmo nel pozzo luminoso che si allargava, finché la mia testa — la testa di un uomo del diciannovesimo secolo — spuntò in una pianura erbosa.

17 Nell’interno

— Benvenuto nell’Interno — annunciò Nebogipfel, che con il parasole appariva decisamente comico.

La nostra colonna di luce larga un quarto di miglio s’innalzò per gli ultimi pochi metri in assoluto silenzio. Ebbi l’impressione di essere l’assistente di un illusionista che salisse su un palco. Dopo essermi tolto gli occhiali, mi ombreggiai gli occhi con le mani.

La piattaforma rallentò sino a fermarsi. Il bordo si fuse al prato corto e irto che lo cingeva, privo di giunture, come una superficie di cemento. La mia ombra divenne una nitida macchia scura sotto di me. Era mezzogiorno, naturalmente: ovunque, nell’Interno, era mezzogiorno, per tutto il giorno, tutti i giorni! Il sole accecante mi percuoteva la testa e il collo, tanto che temetti di restare ustionato in breve tempo. Però ne valse la pena, in quel momento, per la sensazione piacevole che ne trassi.

Mi girai a osservare il paesaggio.

Erba… La prateria uniforme si stendeva in tutte le direzioni sino all’orizzonte, a parte il fatto che in quel mondo piatto non esisteva alcun orizzonte. Nell’alzare lo sguardo, mi aspettai di vedere il mondo incurvarsi verso l’alto, perché dopotutto non ero più incollato alla superficie esterna di una piccola sfera di roccia come la Terra, bensì mi trovavo all’interno di un immenso guscio vuoto. Invece non constatai nessun effetto ottico: vidi soltanto la prateria che si prolungava a perdita d’occhio, con qualche boschetto e qualche gruppo di cespugli. Il cielo era una pianura di nubi soffici, tinta d’azzurro, che si univa alla terra in una giuntura piatta di foschia e di polvere.

— Mi sembra di stare sopra un tavolo gigantesco — dissi. — Credevo che il paesaggio avrebbe avuto l’aspetto di una ciotola immane. A causa di quale paradosso non riesco a percepire di trovarmi all’interno di una grande sfera o all’esterno di un pianeta gigante?

— C’è un modo per percepirlo — rispose Nebogipfel, ombreggiato dal parasole. — Guarda in alto…

Allora inclinai la testa all’indietro. Dapprima vidi soltanto il sole, e il cielo, che avrebbe potuto essere quello della Terra. Poi, poco a poco, cominciai a intravedere qualcosa oltre le nubi: erano le chiazze che avevo osservato poco prima, attribuendole agli occhiali. Si trattava di sfumature d’azzurro, di grigio e di verde, simili all’effetto di un acquarello, tali che le più grandi rimpicciolivano al confronto con i più piccoli brandelli di nubi. Sembrava una mappa, o meglio, alcune mappe schiacciate insieme e viste da una grande lontananza.

E fu proprio quest’analogia a condurmi alla verità.

— È il lato opposto della Sfera, oltre il sole… Immagino che le macchie di colore che vedo siano gli oceani, i continenti, le catene montuose, le praterie, e forse persino le città!

Era un paesaggio straordinario, come se le superfici rocciose di migliaia di pianeti scorticati fossero state appese come tante pellicce di coniglio. La vastità della Sfera era tale che non si percepiva alcuna curvatura: piuttosto, era come trovarsi compresso fra strati diversi, ossia fra la prateria piatta e il coperchio del cielo chiazzato, con il sole sospeso in mezzo come una lanterna, e le profondità dello spazio a un miglio o due soltanto sotto i miei piedi.

— Rammenta che quando osservi il lato opposto dell’Interno stai guardando oltre l’ampiezza dell’orbita di Venere — avvertì Nebogipfel. — Da tale distanza, la Terra stessa sembrerebbe ridotta a un punto luminoso. Le dimensioni geografiche, qui, sono molto maggiori che sulla Terra.

— Debbono esservi oceani tanto vasti da poter inghiottire la Terra… — osservai, pensoso. — Immagino che i processi geologici in un mondo come questo siano…

— Non esistono processi geologici, qui — interruppe Nebogipfel. — L’Interno e i suoi paesaggi sono interamente artificiali. In sostanza, tutto ciò che vedi è stato progettato così, e tale viene mantenuto, del tutto consapevolmente. — In quel momento, parve insolitamente riflessivo. — Questo corso della storia è molto diverso dall’altro che mi hai descritto, ma alcune costanti rimangono: questo è un mondo di giorno perpetuo, a contrasto con il mio mondo notturno. Proprio come nell’altra storia, abbiamo spaccato la specie in due opposti, di buio e di luce.

Poi Nebogipfel mi accompagnò al bordo del disco vitreo. Mentre lui restava sulla piattaforma, protetto dal parasole, io balzai audacemente nella prateria circostante. Il suolo mi parve duro, ma fui lieto della sensazione procurata da una superficie diversa, dopo giorni di pavimento cedevole. Sebbene corta, l’erba era dura e irta, come quella che si trova di solito presso le sponde marine. Allorché mi chinai a conficcarvi le dita, scoprii che il suolo era asciutto e sabbioso. Nella fila di fossette che avevo scavato con le dita vidi un insetto, che subito fuggì, seppellendosi nella sabbia.

Sull’erba sibilava la brezza. Non si udivano canti d’uccelli, né voci di altri animali.

— Il suolo non è molto fertile…

— No — convenne Nebogipfel. — Però il — e pronunciò nella sua lingua una parola incomprensibile — si sta riprendendo.

— Che cosa significa quella parola?

— Indica l’insieme delle piante, degli insetti e degli animali che vivono in maniera interdipendente. Sono trascorsi soltanto quarantamila anni dalla guerra.

— Quale guerra?

Allora Nebogipfel, esprimendosi in un modo che poteva soltanto avere copiato da me, scrollò le spalle, con un ondeggiamento che gli fece frusciare la pelliccia: — Chissà? Le cause sono state dimenticate, e i combattenti, i popoli e i loro discendenti, sono tutti morti.

— Ma mi avevi detto — ribattei, in tono d’accusa — che non esistono guerre, qui.

— Non fra i Morlock. Ma nell’Interno… La guerra a cui ho accennato fu terribile: caddero bombe, la terra fu distrutta, ogni forma di vita venne annientata.

— Ma sicuramente le piante, gli animali di piccole dimensioni…

— La distruzione fu completa. Non puoi capire… In un territorio di un milione di miglia quadrate, ogni forma di vita perì, tranne l’erba e gli insetti. Soltanto da poco tempo il paese è diventato sicuro.

— Ma quali esseri vivono qui? Sono simili a me?

Dopo un breve silenzio, Nebogipfel rispose: — Alcuni ricordano la tua specie arcaica, ma ve ne sono persino altri ancora più antichi. Conosco una colonia di Neandertaliani ricostruiti che ha reinventato le religioni di quel popolo scomparso. Altri invece si sono evoluti, e sono tanto diversi da te quanto lo sono io, anche se in modo differente. La Sfera è vasta. Se desideri che ti conduca a una colonia di esseri approssimativamente simili alla tua specie…

— Oh, non sono affatto certo di ciò che desidero! Credo di essere sopraffatto da questo luogo: da questo mondo di mondi. Voglio capirlo, prima di scegliere dove trascorrerò la mia vita. Puoi comprenderlo?

Apparentemente ansioso di sottrarsi al sole, Nebogipfel non discusse: — Benissimo. Quando vorrai rivedermi, dovrai semplicemente tornare qui alla piattaforma e chiamare il mio nome.

Così ebbe inizio il mio soggiorno solitario nell’Interno della Sfera.


In quel mondo di mezzogiorno perpetuo non esisteva nessun ciclo di giorni e di notti in base a cui calcolare il trascorrere del tempo. Tuttavia avevo il mio orologio da tasca: anche se naturalmente aveva perduto ogni riferimento a causa dei miei viaggi nel tempo e nello spazio, serviva a contare periodi di ventiquattro ore.

Dalla piattaforma, Nebogipfel evocò un semplice rifugio di pianta quadrangolare, con una finestrina e con una porta a diaframma, simile a quella che ho descritto in precedenza. Oltre a lasciarmi un vassoio di cibo e di acqua, mi mostrò come procurarmene altri: bastava inserire nuovamente il vassoio nella superficie della piattaforma, ciò che procurava una strana sensazione, e pochi secondi dopo compariva un nuovo vassoio carico di cibi. Giacché non disponevo di altre fonti di approvvigionamento, repressi la nausea che tale processo innaturale suscitava in me. Nebogipfel mi mostrò anche come inserire oggetti nella piattaforma affinché venissero puliti, come faceva lui stesso, persino per lavarsi le mani. Ricorsi a questo metodo per lavare gli indumenti e gli stivali (anche se i calzoni mi venivano restituiti senza piega), tuttavia non riuscii mai ad utilizzarlo per la mia igiene personale: non riuscivo a sopportare neppure l’idea d’inserire una mano, un piede, o peggio ancora il viso, in quella superficie uniforme. Continuai perciò a lavarmi con l’acqua.

A questo proposito, ero ancora privo dell’occorrente per radermi, talché la barba mi era cresciuta incolta: benché lunga e folta, era di un deprimente color grigio ferro.

Prima d’andarsene, Nebogipfel m’insegnò anche a sfruttare tutte le risorse degli occhiali. Toccandone la superficie in un certo modo era possibile far sì che ingrandissero le immagini degli oggetti lontani, avvicinandoli nitidamente. Li sperimentai subito, mettendoli a fuoco su di un’ombra lontana che avevo creduto essere un boschetto: scoprii invece che si trattava di una rupe, la quale sembrava molto consunta, oppure fusa.

Durante i primi giorni, mi accontentai di rimanere là nella prateria. Mi tolsi gli stivali, per godere della sensazione dell’erba e della sabbia fra le dita dei piedi, e mi dedicai a lunghe passeggiate. Spesso, nella luce calda del sole, mi spogliai a torso nudo, per cui non tardai a diventare scuro come una bacca, anche se la mia fronte stempiata si bruciò: fu come trascorrere un periodo di riposo e di cura a Bognor.

La sera mi ritiravo nel mio rifugio. Stavo molto comodo, con la porta chiusa, e dormivo bene, sdraiato sulla cedevolezza calda della piattaforma, con la giacca per cuscino.

Dedicai la maggior parte del mio tempo ad osservare l’Interno usando gli occhiali come binocoli. Seduto al bordo della piattaforma, o sdraiato in un prato morbido, con la testa sostenuta dalla giacca, scrutai il cielo.

Il territorio dell’Interno dirimpetto a quello in cui mi trovavo, oltre il sole, doveva essere all’equatore della Sfera, dove la gravità era più forte, e l’atmosfera densa, perciò immaginai che fosse molto simile alla Terra. La fascia equatoriale era relativamente stretta: non era più larga di alcune decine di milioni di miglia. Non mi è difficile dire “non più”, anche se naturalmente mi rendo conto che su quello sfondo titanico la Terra intera si sarebbe smarrita come una semplice pagliuzza.

Oltre la fascia equatoriale, la superficie, di un grigio spento, si scorgeva a stento attraverso il filtro azzurro del cielo, quindi non era possibile distinguerne i dettagli. In uno dei territori alle alte latitudini individuai una macchia biancoargentea, la quale conteneva mari di un bel grigio che mi rammentavano un poco la luna. In un altro scorsi una vivida chiazza arancione, quasi perfettamente ellittica, di cui non riuscii a comprendere la natura. Ricordando i due giganti morlock che avevo incontrato, provenienti dai territori a bassa gravità della superficie esterna, lontani dall’equatore, mi domandai se lassù, nelle remote regioni a bassa gravità delle alte latitudini dell’Interno, vivessero umani deformi.

Persino la fascia equatoriale tanto simile alla Terra mi sembrò spopolata: vidi brillare nel sole eterno oceani immensi e deserti tanto vasti da contenere pianeti interi, separati da isole mondi che avevano superfici poco più grandi di quella della Terra.

Là vidi un mondo di praterie e di foreste, al di sopra delle quali s’innalzavano gli edifici scintillanti delle città. Vidi un mondo imprigionato nel ghiaccio, i cui abitanti sopravvivevano forse come avevano fatto i miei antenati europei durante le epoche glaciali: mi chiesi se fosse tanto freddo perché era situato sopra una piattaforma immensa, al di fuori dell’atmosfera. In alcuni mondi vidi tracce d’industria: città, fumo di fabbriche, ponti che scavalcavano le baie, scie spumeggianti di navi sui mari cinti di terra, e, talvolta, nell’atmosfera, veli di vapore che sembravano prodotti da aeromobili.

Tutto ciò mi era abbastanza familiare. Alcuni mondi, però, travalicavano le mie capacità di comprensione.

Intravidi città che galleggiavano nell’aria al di sopra delle loro stesse ombre, e palazzi tanto immensi che avrebbero fatto sembrare minuscola la Muraglia Cinese… Non riuscii neppure a immaginare quali tipi di uomini vivessero in luoghi simili.


A volte mi destai in una relativa oscurità, quando grandi veli di nubi opprimevano la terra, poco prima che incominciassero a cadere piogge fitte. Pensai che nell’Interno il tempo atmosferico fosse regolato, come lo erano senza dubbio altri aspetti di quell’ambiente artificiale. Infatti, non stentavo a immaginare i cicloni immensi che avrebbero potuto essere prodotti dalla rapida rotazione della Sfera. In quelle occasioni, passeggiavo per un po’ sotto la pioggia, godendo della sensazione pungente dell’acqua fresca sulla pelle. Allora il luogo in cui mi trovavo somigliava molto di più alla Terra, con il lato opposto dell’Interno e l’orizzonte vago nascosti dalla pioggia e dalle nubi.

Dopo lunghe osservazioni con gli occhiali telescopici, scoprii che la prateria circostante era davvero tanto monotona quanto mi era sembrata sul primo momento. In un giorno luminoso e caldo, decisi di tentare di raggiungere la rupe che ho menzionato, unica caratteristica distinguibile all’interno dell’orizzonte delineato dalle brume, persino nelle giornate più limpide. Dopo avere infagottato una provvista di cibo e d’acqua nella mia povera giacca tanto maltrattata, partii. Allorché fui tanto stanco da non poter proseguire, mi sdraiai per tentare di dormire, ma non vi riuscii, sotto la luce intensa del sole, perciò rinunciai dopo poche ore. Continuata la marcia per un altro breve tratto senza che la rupe sembrasse più vicina, cominciai a spaventarmi, trovandomi tanto lontano dalla piattaforma: che cosa sarebbe accaduto se mi fossi stancato troppo o se fossi rimasto ferito in qualche modo? Non avrei più potuto chiamare Nebogipfel, quindi avrei dovuto rinunciare a qualunque prospettiva di tornare nella mia epoca: anzi, sarei morto nella prateria come una gazzella ferita. E tutto ciò, soltanto per fare una gita fino a una rupe anonima! Sentendomi sciocco, mi volsi e tornai alla piattaforma.

18 I nuovi Eloi

Alcuni giorni più tardi, uscito dal rifugio dopo un breve riposo, mi accorsi che la luce era poco più intensa del solito. Alzando lo sguardo, scoprii che a pochi gradi dal sole, immobile nel cielo, brillava una stella. Misi gli occhiali e la osservai.

Era un’isola grande come un pianeta. E stava bruciando. Vidi grandi esplosioni che ne squassavano la superficie, sbocciando come bei fiori letali. Pensai che l’isola fosse priva di vita, perché nulla avrebbe potuto sopravvivere a quelle conflagrazioni che continuavano a martoriarla in un silenzio surreale.

Per alcune ore, l’isola avvampò più luminosa del sole, e capii che stavo assistendo a una tragedia colossale, opera dell’umanità o dei suoi discendenti.

Quando cominciai a cercare tracce di guerra, ne trovai ovunque nel cielo roccioso.

Vidi un vasto territorio devastato da una guerra d’assedio logorante e distruttiva, con la campagna solcata da strisce brune che dovevano essere immense trincee, larghe centinaia di miglia, dove gli uomini combattevano e morivano un anno dopo l’altro. Vidi una città in fiamme sulla quale s’inarcavano vapori bianchi, e mi domandai se fosse in corso una guerra aerea. Vidi un mondo devastato dalle conseguenze della guerra, con continenti anneriti e spogli, dove si scorgevano a stento i contorni delle città in un ammasso di nubi nere in movimento.

Mi domandai quanti altri disastri fossero toccati al mio pianeta dopo la mia partenza.

Dopo ripetute osservazioni effettuate nei giorni seguenti, mi abituai a non portare gli occhiali per lunghi periodi. Infatti cominciai a trovare opprimente quel cielo solcato ovunque dalla guerra.

Nella mia epoca, c’era chi si dichiarava favorevole alla guerra, considerandola un modo per allentare la tensione fra le grandi potenze. Altri avevano profetizzato che la guerra successiva sarebbe stata l’ultima, cioè una sorta di repulisti generale. Tuttavia, le mie recenti osservazioni nell’Interno mi confermavano che non era affatto così: l’umanità praticava la guerra a causa del proprio retaggio primordiale, e qualunque giustificazione non era altro che una razionalizzazione fornita dal nostro cervello ipersviluppato.

Immaginai quello che sarebbe successo se la Gran Bretagna e la Germania fossero state trasferite nell’Interno, come due nuove macchie di colore nel cielo roccioso. Dalla mia prospettiva cosmica, mi parvero due nazioni in una condizione d’insensata confusione economica e morale. Dubitai che nel 1891 esistesse una sola persona, in entrambi i paesi, che potesse illustrarmi i benefici di una guerra, quale che ne potesse essere l’esito. E quanto sarebbe parso ridicolo e futile un simile conflitto, se la Gran Bretagna e la Germania fossero state trasferite davvero nell’Interno della Sfera!

In tutta la Sfera, milioni di vite umane venivano cancellate in guerre che per me erano tanto remote e insensate quanto gli affreschi di una cattedrale. Si sarebbe potuto pensare che gli abitanti della Sfera, che abbracciava un milione d’isole-mondi, condividessero la mia stessa prospettiva e rinunciassero alle loro piccole ambizioni meschine. Tutt’altro! Gli istinti umani più bassi dominavano ancora, persino nell’anno 657.208. Là, nella Sfera, neppure il monito quotidiano di centinaia di migliaia di guerre che venivano combattute ovunque bastava a indurre gli uomini a comprenderne la futilità e la crudeltà.

Per contrasto, pensai a Nebogipfel e al suo popolo, alla loro società razionale. Niente finzioni in proposito: provavo ancora una certa repulsione al pensiero dei Morlock e delle loro pratiche innaturali; tuttavia mi rendevo conto che tale repulsione derivava dai miei pregiudizi primitivi, oltre che dalle mie sfortunate esperienze nel mondo di Weena, del tutto irrilevanti per esprimere un giudizio su Nebogipfel.

Poiché non mi mancava tempo per meditare, formulai un’ipotesi sulla scomparsa della differenziazione sessuale fra i Morlock. Considerai il modo in cui si creano vincoli di solidarietà fra gli individui. Innanzitutto, un uomo deve battersi per difendere se stesso e i propri figli. In secondo luogo deve difendere i fratelli, ma forse questo istinto è meno forte, giacché il patrimonio genetico comune dev’essere diviso. In terzo luogo, deve difendere i nipoti e i parenti più lontani, a cui è vincolato da legami istintuali più deboli.

Così è possibile prevedere, con deprimente attendibilità, come si formano e come operano i vincoli di solidarietà: soltanto con una simile gerarchia di alleanze, in un mondo di penuria e d’instabilità, è possibile tramandare il proprio patrimonio genetico alle generazioni future.

Fra i Morlock, invece, la trasmissione del patrimonio genetico era assicurata, non tramite l’individuo o la famiglia, bensì tramite la grande risorsa comune che era la Sfera. Dunque la differenziazione sessuale era diventata superflua, forse persino dannosa, ai fini di un’evoluzione ordinata.

Ripensai con ironia all’ipotesi sulla scomparsa della differenziazione sessuale in un mondo di pace e prosperità, che in precedenza avevo applicato ai raffinati e decadenti Eloi, perché adesso capivo che, in questa versione di storia, erano stati i loro cugini degeneri, i Morlock, a raggiungere quella meta lontana.

Meditando su tutto ciò, in pochi giorni presi una decisione sul mio futuro.

Non potevo rimanere nell’Interno. Dopo aver osservato il mondo dalla prospettiva semidivina che Nebogipfel mi aveva rivelato, non avrei sopportato di dedicare la mia vita e le mie energie a uno qualsiasi degli insignificanti conflitti che martoriavano quelle pianure sconfinate. D’altronde, non avrei potuto restare con Nebogipfel e con i Morlock: non ero un Morlock, e le mie necessità umane mi avrebbero impedito di adattarmi al loro modo di vita.

Inoltre, come ho già detto, mi tormentava il pensiero che da qualche parte esistesse ancora la macchina del tempo, capace di cambiare la storia.

Dopo aver formulato un piano per risolvere tutti questi problemi, convocai Nebogipfel.


— Quando la Sfera venne costruita, si verificò uno scisma — spiegò Nebogipfel. — Chi desiderava vivere come aveva sempre vissuto si stabilì nell’Interno. Chi desiderava liberarsi dall’antico dominio della genetica…

— Divenne Morlock. Ecco perché le guerre, eterne e insignificanti, spazzano come tempeste la superficie sconfinata dell’Interno.

— Esatto.

— Dimmi, Nebogipfel… La Sfera ha forse lo scopo di fornire a questi quasi umani, a questi Nuovi Eloi, lo spazio per combattere le loro guerre senza annientare l’umanità?

— No, naturalmente no. — Il modo in cui Nebogipfel si ombreggiava con il parasole non mi sembrava più comico, bensì pieno di dignità. — La Sfera ha lo scopo di consentire ai Morlock, come tu ci chiami, di disporre dell’energia di una stella per l’acquisizione della conoscenza. — Batté le grandi palpebre. — Quale scopo possono mai avere, infatti, gli esseri intelligenti, se non quello di raccogliere e di conservare tutte le conoscenze disponibili?

La Memoria meccanica della Sfera, mi spiegò Nebogipfel, era una sorta di gigantesca Biblioteca in cui era conservata la saggezza accumulata dalla specie nel corso di mezzo milione di anni. Il paziente lavoro dei Morlock, a cui avevo assistito, era dedicato in gran parte a raccogliere nuove informazioni, oppure a classificare e a interpretare le conoscenze già archiviate.

I Nuovi Morlock erano dunque una specie di studiosi, e tutta l’energia del sole veniva utilizzata per il paziente sviluppo collettivo della grande Biblioteca.

— Capisco tutto questo, o almeno, ne capisco la ragione — risposi, lisciandomi la barba. — Suppongo che non ci sia molta differenza dall’impulso che ha sempre dominato la mia vita. Ma non avete timore che un giorno questa ricerca possa finire? Che cosa farete, per esempio, quando avrete perfezionato la matematica e quando avrete dimostrato la teoria definitiva dell’universo fisico?

Con un altro gesto che aveva imparato da me, Nebogipfel scosse la testa: — Questo non è possibile. Il primo a dimostrarlo fu un tuo contemporaneo: Kurt Gödel.

— Chi?

— Kurt Gödel, un matematico nato una decina d’anni dopo la tua partenza…

Mentre Nebogipfel dimostrava ancora una volta la sua profonda conoscenza della mia epoca, scoprii con sorpresa che quel Gödel aveva dimostrato, negli anni Trenta del ventesimo secolo, che la matematica era inesauribile, e che anzi poteva essere arricchita in eterno assimilando nuovi assiomi, veri o falsi che si dimostrassero.

— Mi fa male la testa solo a pensarci! Posso immaginare l’accoglienza che ricevette quel povero Gödel quando annunciò al mondo la sua scoperta: il mio vecchio professore di algebra l’avrebbe cacciato dall’aula!

— Gödel dimostrò che la nostra ricerca di sapere e conoscenza non può mai avere fine.

— Vi ha fornito uno scopo inesauribile — risposi. Finalmente capii che i Morlock, come monaci pazienti, lavoravano instancabilmente per indagare il funzionamento dell’universo.

Alla Fine del Tempo, la grande Sfera che avvolgeva il sole, con la sua Mente meccanica e i suoi pazienti servi Morlock, sarebbe diventata una sorta di divinità.

Personalmente, concordavo con Nebogipfel: non poteva esistere scopo più elevato per una specie intelligente.

Allora cominciai il discorso che avevo accuratamente preparato: — Voglio tornare sulla Terra, Nebogipfel. Lavorerò con te alla macchina del tempo.

Il Morlock reclinò la testa: — Ne sono lieto. Il contributo delle tue conoscenze sarà immensamente prezioso.

Discutemmo la proposta, ma non fu necessaria una particolare opera di persuasione da parte mia, perché Nebogipfel non m’interrogò, né mi parve insospettito.

Così mi dedicai ai preparativi per abbandonare quell’insulsa prateria, e intanto rimasi assorto nelle mie meditazioni.

Sapevo che Nebogipfel, ansioso di acquisire la tecnica del viaggio temporale, avrebbe accettato la mia proposta, tuttavia alla luce della mia nuova sensibilità per la dignità dei Nuovi Morlock, mi turbava l’idea di dovergli mentire.

Volevo davvero tornare sulla Terra con Nebogipfel, però non avevo nessuna intenzione di rimanervi: non appena mi fossi nuovamente impadronito della macchina del tempo, l’avrei subito usata per fuggire nel passato.

19 Come attraversai lo spazio interplanetario

Fui costretto ad attendere tre giorni prima che Nebogipfel fosse pronto a partire. Mi spiegò che occorreva aspettare che la Terra e la regione della Sfera in cui ci trovavamo assumessero la configurazione appropriata.

Intanto continuai a ripensare al viaggio che stavo per affrontare, ma senza particolare timore, perché anche se privo di sensi avevo compiuto quella traversata già una volta. Mentre mi interrogavo sul propellente usato dalla nave spaziale di Nebogipfel, rammentai l’assurdo cannone e il proiettile gigantesco che Verne aveva fatto sparare dai soci del Gun Club di Baltimora verso la luna. Ma bastava un semplice calcolo mentale per dimostrare che un’accelerazione sufficiente a vincere la gravità terrestre avrebbe anche spappolato i corpi dei viaggiatori — cioè Nebogipfel ed io — sulle pareti interne del veicolo come uno strato di marmellata di fragole.

Quale sistema avremmo usato, dunque?

Com’è noto lo spazio interplanetario è privo d’aria, quindi non avremmo potuto volare come uccelli fino alla Terra, perché essi confidano nella capacità delle ali di sfruttare la resistenza dell’aria: niente aria, niente spinta! Ipotizzai che la nave spaziale utilizzasse un tipo molto perfezionato di razzo, perché volando grazie alla spinta del propellente combusto, poteva funzionare nel vuoto dello spazio, a patto di trasportare l’ossigeno necessario.

Ma queste ipotesi erano basate sulla scienza del diciannovesimo secolo. Come potevo immaginare le risorse a disposizione nell’anno 657.208? Immaginai navi capaci di bordeggiare nella gravità solare come in un vento invisibile, oppure qualche forma di sfruttamento dei campi magnetici, o altro ancora.

Mi lanciai nelle più ardite speculazioni, finché Nebogipfel annunciò che per me era arrivato il momento di lasciare per sempre l’Interno.

Mentre scendevamo nell’oscurità, gettai la testa all’indietro per osservare la luce che si allontanava, e un attimo prima di mettermi gli occhiali giurai che quando i raggi del sole mi avessero di nuovo accarezzato il viso, mi sarei trovato nel mio secolo.


Mi aspettavo di essere condotto all’equivalente morlock di un porto, con grandi navi spaziali d’ebano ancorate lungo la parete della Sfera come transatlantici in porto.

Non trovai nulla di tutto ciò. Nebogipfel mi accompagnò per poche miglia sui nastri mobili del pavimento fino a una zona sgombra, che si distingueva dalle altre perché era priva di divisori e di Morlock. Al centro, sul pavimento stellato, era sistemata una cabina trasparente, simile a un montacarichi.

A un gesto della mia guida, entrai nella cabina. Nebogipfel mi seguì e la porta a diaframma si chiuse con un sibilo. La cabina aveva la forma di un parallelepipedo, ma con gli angoli e gli spigoli arrotondati. Conteneva soltanto alcune aste verticali disposte tutt’ intorno a intervalli regolari.

Con le dita pallide, Nebogipfel afferrò un’asta: — Meglio prepararsi. Al momento del lancio, vi sarà un brusco salto di gravità.

Benché pronunciate in tono pacato, le sue parole m’inquietarono. Con gli occhi protetti dalle lenti, Nebogipfel mi osservò con il solito sguardo insieme curioso e indagatore. Intanto, mi accorsi che rinserrava la presa.

D’improvviso, più rapidamente di quanto si possa dire a parole, il pavimento si aprì, e la cabina precipitò staccandosi dalla Sfera.


Con un grido, mi afferrai a un’asta, come un bimbo alla gamba della madre.

Alzando lo sguardo, vidi la superficie della Sfera trasformarsi in una immensa volta nera che nascondeva alla vista metà dell’universo. Al centro vidi il rettangolo più chiaro della porta da cui eravamo usciti, che ormai si era quasi richiusa e rimpiccioliva in lontananza. Era la prova che la cabina stava precipitando nello spazio. Non era difficile capire ciò che era successo: anche uno scolaretto avrebbe potuto ottenere il medesimo effetto facendo roteare una castagna d’India legata a una cordicella e mollando all’improvviso la presa. Ebbene, la “cordicella” che ci aveva trattenuti all’interno della Sfera, ossia il pavimento, si era staccata, scagliandoci nello spazio senza tante cerimonie.

A stento riuscii a sopportare la vista dello spettacolo che si aprì sotto di me: Nebogipfel e io eravamo risucchiati in un pozzo senza fondo che s’inabissava all’infinito in un oceano di stelle.

— Per l’amor di Dio, Nebogipfel… Cos’è successo? Qualche disastro, forse?

Il Morlock si librava in maniera sconcertante a pochi centimetri dal pavimento: infatti mentre la cabina precipitava nello spazio, all’interno noi galleggiavamo come piselli in una scatola per fiammiferi.

— Siamo stati scagliati via dalla Sfera. Gli effetti della sua rotazione… — mi informò Nebogipfel.

— Capisco, ma… Perché? Vuoi dire che precipiteremo dritti sulla Terra?

— In sostanza… sì — confermò il mio compagno.

A quel punto non ebbi la forza di fare altre domande, perché mi accorsi anch’io di galleggiare nella cabina come un pallone, una sensazione subito accompagnata da una forte nausea che soffocai a stento solo dopo alcuni minuti.


Alla fine, riacquistai parzialmente il controllo del mio corpo e chiesi a Nebogipfel di spiegarmi i principi su cui si basava il nostro volo fino alla Terra. A quel punto capii quanto fosse elegante ed economica la soluzione che i Morlock avevano escogitato per viaggiare tra la Sfera e i pianeti rimasti: avrei dovuto arrivarci da solo, invece di perdermi in assurde speculazioni su proiettili e razzi. Si trattava in fondo di un altro esempio della natura inumana dei Morlock. Invece che a bordo di un’enorme nave spaziale, come mi ero aspettato, stavo viaggiando dall’orbita di Venere verso la Terra chiuso di quella specie di bara.

Pochi fra i miei contemporanei erano davvero consapevoli che l’universo fosse costituito essenzialmente di vuoto, punteggiato da alcune sacche isolate di calore e di vita, e che dunque erano necessarie velocità enormi per percorrere in tempo utile le distanze interplanetarie. Ma la Sfera, all’equatore, si muoveva già a notevole velocità, perciò i Morlock non avevano bisogno di razzi né di cannoni. Semplicemente, facevano cadere le capsule dalla Sfera lasciando che la rotazione facesse il resto.

La nostra velocità era tale, mi spiegò Nebogipfel, che saremmo arrivati nei pressi della Terra in appena quarantasette ore.

Osservando la capsula, non vidi traccia di razzi né di altre forze motrici. Galleggiavo all’interno, sentendomi goffo e ingombrante. Vedevo la mia barba librarsi in una nube grigia davanti alla faccia e le falde della giacca sollevarsi attorno alle spalle.

— Ho capito i principi del lancio, ma… come viene guidata la capsula?

Dopo una breve esitazione, Nebogipfel rispose: — Non viene affatto guidata. Forse hai frainteso ciò che ti ho detto: la capsula non necessita di forza motrice, perché la velocità che la Sfera le imprime…

— Ho capito perfettamente — osservai agitato. — Ma se ci accorgessimo che, a causa di un errore di lancio, stiamo cadendo nella direzione sbagliata e rischiamo di mancare il bersaglio? Anche l’impercettibile errore di una frazione di grado, se proiettato su scala planetaria, potrebbe farci mancare la Terra di milioni di miglia. E in tal caso continueremmo a precipitare nel vuoto per l’eternità, cercando di spiegare la colpa dell’accaduto finché non avremo finito l’aria.

Il mio compagno parve confuso: — Non c’è stato nessun errore.

— Ma se accadesse — insistetti, — magari a causa di qualche difetto meccanico, come potremmo correggere la traiettoria della capsula?

Prima di rispondere, Nebogipfel meditò brevemente: — Non si verificano errori o difetti, quindi la capsula non ha bisogno di propulsione per correggere la traiettoria.

Incredulo, costrinsi Nebogipfel a ripetere più volte la spiegazione, prima di accettarla come veritiera. Ed era proprio così! Dopo il lancio, la capsula sfrecciava nello spazio interplanetario con l’ineluttabilità di un sasso o, se preferite, del proiettile sparato dal cannone lunare di Verne.

Mentre protestavo per la follia di quel sistema, mi accorsi che Nebogipfel pareva contrariato: è la stessa reazione di chi dimostra una mentalità aperta, ma si chiude a riccio non appena deve respingere gli attacchi di qualcuno che insiste a perorare la propria tesi, specialmente in materia di religione. Quindi rinunciai.

A causa della lenta rotazione della capsula, le stelle e l’immensa superficie della Sfera parevano danzare intorno a noi. Senza questo movimento forse alla fine mi sarei illuso di trovarmi nel mezzo di un deserto di notte, immobile, tranquillo e al sicuro. Invece la realtà delle percezioni parlava chiaro: mi trovavo all’interno di una fragile capsula che precipitava nel vuoto, priva di qualunque sostegno, controllo o collegamento. Così durante le prime ore rimasi paralizzato dalla paura. Non riuscii ad abituarmi alla trasparenza delle pareti, né all’idea che non potevamo correggere la traiettoria. Il viaggio sembrava un incubo: una caduta ineluttabile nella tenebra infinita. E tutto ciò in sostanza rivelava la fondamentale differenza tra la mente umana e quella dei Morlock. Quale essere umano, infatti, avrebbe rischiato la vita in un viaggio interplanetario senza potere stabilire e guidare la propria rotta? Invece i Nuovi Morlock, dopo mezzo milione di anni di costante progresso tecnologico, si affidavano ciecamente alle loro macchine, basandosi sulla semplice convinzione che esse non li tradivano mai.

Però io non ero un Morlock!

In ogni modo, il mio stato d’animo migliorò poco a poco. A parte il lento roteare della capsula, che continuò per tutto il viaggio sino alla Terra, le ore trascorsero nell’immobilità e nel silenzio, rotti soltanto dal respiro del mio compagno, simile a un sussurro. Nella capsula c’era un certo tepore, perciò il mio corpo si trovava perfettamente a suo agio. Poiché le pareti erano della stessa sostanza del pavimento della Sfera, a un semplice tocco di Nebogipfel mi fornirono cibo, bevande, e tutto ciò di cui potevo avere bisogno, anche se la scelta era più limitata che nella Sfera, perché qui la Memoria era ridotta.

Così veleggiammo in assoluta tranquillità nell’immensa cattedrale dello spazio interstellare. Le sensazioni fisiche cominciarono ad affievolirsi, e sperimentai un assoluto distacco fra la mente e il corpo. Non mi pareva più di viaggiare e, passate le prime ore, quell’esperienza non assomigliò più a un incubo. Anzi, ormai sembrava piuttosto un sogno.

20 Un resoconto del lontano futuro

Il secondo giorno, Nebogipfel mi chiese di parlare ancora una volta del mio precedente viaggio nel futuro: — Allora, dopo aver recuperato la macchina dai Morlock — esortò — ti sei spinto ulteriormente nel futuro di quella dimensione di storia…

— Per parecchio tempo, incurante di dove andassi, rimasi aggrappato alla macchina — ricordai, — come adesso sono aggrappato a questi sostegni. Quando finalmente guardai i cronometri, scoprii che le lancette stavano ruotando con enorme rapidità verso il futuro. Ora, devi rammentare che nell’altra storia l’asse e la rotazione della Terra non erano stati modificati, quindi la notte e il giorno continuavano a pulsare come il battito di grandi ali. La fascia luminosa del tragitto del sole s’inclinò fra i solstizi con il trascorrere delle stagioni. Poco a poco, però, mi accorsi di un mutamento: benché avanzassi nel tempo a velocità costante, il ritmico succedersi del giorno e della notte ritornò, accentuandosi.

— La rotazione della Terra stava rallentando — commentò Nebogipfel.

— Sì. I giorni divennero secoli. Il sole divenne una cupola grande e ardente: continuava a splendere, ma si stava raffreddando. Di quando in quando la sua luce diventava più intensa, con spasmi che ricordavano la sua antica luminosità. Poi però, ogni volta, assumeva di nuovo una cupa tinta cremisi. Cominciai a rallentare la mia caduta nel tempo…

«Quando mi fermai, vidi un paesaggio simile a quello che avevo sempre immaginato vi fosse su Marte. Il sole, immobile e gigantesco, era sospeso sull’orizzonte. Nell’altra metà del cielo brillavano ancora le stelle, simili a ossa sbiancate. Le rocce sparse al suolo erano di un rosso acceso e su ogni superficie rivolta a occidente erano chiazzate di verde cupo, il colore dei licheni.

«La macchina del tempo era adagiata su una spiaggia che scendeva digradando verso un mare tanto immoto da sembrare di vetro. L’aria era così fredda e rarefatta che mi parve di essere sulla cima di un’alta montagna. Restava ben poco del paesaggio della valle del Tamigi, a me familiare: immaginai che ne fosse stata cancellata ogni traccia dall’azione lenta e inesorabile delle glaciazioni e dal respiro lento dei mari. E con il paesaggio era stato cancellato ogni segno della presenza dell’umanità.

Mentre eravamo sospesi nello spazio all’interno della capsula scintillante, raccontai a Nebogipfel ciò che avevo visto nel lontano futuro, e in quella calma ricordai dettagli che forse non avevo riferito neppure ai miei amici, a Richmond.

— Vidi un essere simile a un canguro — rammentai. — Era alto circa novanta centimetri, tarchiato, con gli arti massicci e le spalle arrotondate, la pelliccia grigia sporca e arruffata. Saltellava sulla spiaggia e sembrava disperato. Grattava debolmente le rocce con le zampe, evidentemente nel tentativo di strappare manciate di licheni, da cui ricavare un misero pasto. Tutto ciò mi suscitò un’impressione di profonda degenerazione. Con sorpresa, notai che l’essere aveva cinque dita, sia nelle zampe anteriori sia in quelle posteriori, nonché la fronte prominente e gli occhi frontali. Vestigia d’umanità che trovai ripugnanti.

«A un tratto, mi sentii sfiorare un orecchio, come se un capello mi accarezzasse: mi girai, restando seduto sul sellino.

«Dietro la macchina si era avvicinata una creatura simile a un millepiedi, ma dalle dimensioni enormi, largo circa un metro o poco più, lungo forse nove metri, con il corpo segmentato coperto di placche chitinose color cremisi, che sfregavano rumorosamente l’una contro l’altra a ogni movimento. Mi aveva sfiorato con una delle sue ciglia, lunghe una trentina di centimetri, che dondolavano umide nell’aria. Sollevò la testa tozza e spalancò la bocca, facendo ondeggiare le mascelle madide. Aveva molti occhi disposti in forma esagonale, che roteavano scrutandomi.

«Toccai una leva, spostandomi un poco avanti nel tempo per sfuggire al mostro.

«Rimasto sulla medesima spiaggia tetra, vidi parecchi millepiedi strisciare inarcando i corpi, poi ammucchiarsi goffamente sfregando rumorosamente gli uni contro gli altri sopra un ammasso di carne sanguinolenta, che subito mi ricordò il triste canguro che avevo osservato poco prima.

«Incapace di sopportare quello scempio, spinsi le leve, lanciandomi in avanti di un milione di anni.

«Ritrovai quella spiaggia orrenda, ma volgendo le spalle al mare vidi svolazzare nel cielo, al di sopra del pendio spoglio, un essere simile a un’immensa farfalla, bianca e scintillante. Le dimensioni del corpo erano quelle di una donna minuta, con enormi ali, pallide e traslucide. La sua voce lugubre, umana in modo soprannaturale, mi suscitò un’immensa desolazione.

«D’improvviso scorsi un movimento a breve distanza: quello che sembrava un masso, rosso come una roccia marziana, si muoveva sulla sabbia nella mia direzione. Era una sorta di granchio, grande come un divano, con le zampe che si muovevano lentamente e prudentemente sulla spiaggia. Gli occhi peduncolati di un colore rosso grigiastro, ma di forma umana, ondeggiavano nella mia direzione. La bocca articolata come un congegno meccanico si torceva e schioccava, sbavando; il carapace metallico era macchiato di verde dai pazienti licheni.

«Mentre la farfalla, fragile e sgraziata, svolazzava sopra di me, il granchio protese le grosse chele senza riuscire a catturarla, ma strappandole, mi parve, brandelli di carne pallida.

«Meditando su ciò che vidi allora, ho trovato conferma alla mia angoscia, perché credo che la suddivisione degli esseri viventi in predatori forti e in prede deboli sia stata una conseguenza del rapporto fra gli Eloi e i Morlock da me osservato nelle epoche precedenti.

— Ma le forme erano molto diverse — obiettò Nebogipfel. — Millepiedi, granchi…

— Se pensiamo a un arco di tempo sufficientemente ampio — insistetti, — la forma di qualsiasi specie diventa malleabile sotto la spinta dell’evoluzione, come insegna Darwin, e la regressione zoologica diventa una forza dinamica. Rammenta che tu e io, come pure gli Eloi e i Morlock, considerati da una prospettiva sufficientemente ampia, siamo tutti cugini all’interno della stessa antica famiglia di pesci!

Ipotizzai che gli Eloi, nel disperato tentativo di sfuggire ai Morlock, si fossero trasformati in creature volanti, e che i predatori, usciti dalle caverne e abbandonata finalmente ogni simulazione di abilità tecnica, si fossero a loro volta trasformati nei granchi che strisciavano sulle gelide spiagge, in attesa che le farfalle eloi si stancassero e cadessero dal cielo. In tal modo l’antico conflitto, originato dalla degenerazione sociale, si era finalmente ridotto alla sua cruda essenzialità.

— Ripresi il viaggio nel futuro — raccontai a Nebogipfel — a tappe di millenni. La torma di crostacei continuò a strisciare sui licheni e sulle rocce, il sole divenne più grande e meno luminoso.

«Mi fermai per l’ultima tappa a trenta milioni di anni nel futuro, quando il sole era ormai diventato un’immensa volta che nascondeva un’ampia porzione di cielo. Cadeva un nevischio duro e implacabile. Rabbrividendo dal freddo, mi infilai le mani sotto le ascelle. Le cime innevate delle colline erano pallide nella luce delle stelle, e grandi iceberg galleggiavano sul mare eterno.

«I granchi erano scomparsi, ma il verde cupo dei licheni persisteva.

Su un banco di sabbia mi parve di vedere un oggetto nero muoversi come se fosse vivo. Un’eclissi, provocata dal passaggio di un pianeta interno dinanzi al sole, proiettò un’ombra sulla Terra. Forse laggiù ti saresti sentito a tuo agio, Nebogipfel, ma io confesso di aver provato un profondo sgomento e smontai dalla macchina per riprendere animo. Quando l’arco cremisi del sole riapparve nel cielo, scoprii che la cosa sulla spiaggia si muoveva davvero: era una sfera di carne, simile a una testa mozzata, del diametro di poco meno di un metro, con due fasci di tentacoli protesi come dita. Era priva di naso, con una bocca simile a un becco, e i due grandi occhi neri sembravano umani…

Nel descrivere quell’essere a Nebogipfel, mi resi conto che assomigliava al mio strano compagno del secondo viaggio temporale: l’essere che si librava nello spazio, illuminato di verde, che avevo battezzato l’Osservatore. Tacqui, pensando: È mai possibile che l’Osservatore fosse soltanto un’apparizione proveniente dalla fine del tempo?

E così — conclusi, — rimontai a bordo della macchina, perché avevo paura di rimanere là, indifeso, in quel freddo terribile, e tornai nel mio secolo.

Mentre parlavo sottovoce, Nebogipfel mi fissò con i grandi occhi, in cui scorsi le vestigia di quel guizzo di curiosità e meraviglia che caratterizza l’umanità.


I pochi giorni trascorsi all’interno della capsula non ebbero un gran rapporto con il resto della mia vita. A volte rammento quell’esperienza come una pausa fugace nell’arco della mia esistenza, mentre altre volte ho l’impressione di aver trascorso un’eternità alla deriva fra i pianeti. Mi sembrò di essere disincarnato e di poter osservare la mia vita dall’esterno, come se si trattasse di un romanzo incompiuto.

Rividi me stesso da giovane, intento a compiere esperimenti, a costruire apparecchi, a maneggiare la plattnerite, a disprezzare ogni occasione per socializzare, per conoscere la vita, l’amore, la politica, l’arte, disdegnando persino il sonno, nella ricerca di un’irraggiungibile perfezione della conoscenza. Ebbi persino l’impressione di vedermi alla fine di quel viaggio interplanetario, intenzionato a ingannare i Morlock e a fuggire nella mia epoca. Ero deciso a mettere in pratica questo piano, però mi sembrava di osservare le azioni di un’altra persona, avulsa e lontana da me.

Ebbi un sospetto: stavo forse diventando estraneo non soltanto al mondo in cui ero nato, bensì a tutti i mondi, nonché allo spazio e al tempo? Che cosa sarei diventato, nel mio futuro, se non un granello di coscienza in balìa dei Venti del Tempo?

Solo quando la Terra mi apparve più vicina, un’ombra più scura sullo sfondo dello spazio, con la luce delle stelle riflessa nel ventre dell’oceano, mi sentii nuovamente coinvolto dalle preoccupazioni dell’umanità.

Ancora una volta nel mio cervello si erano rimessi in moto i meccanismi da cui dipendevano i miei progetti, nonché le mie speranze e i miei timori per il futuro.

Non ho mai dimenticato quel breve interludio interplanetario: talvolta, quando sono tra la veglia e il sonno, immagino di essere di nuovo alla deriva tra la Sfera e la Terra, con un Morlock paziente come unica compagnia.


Dopo aver meditato sulla mia visione del lontano futuro, Nebogipfel osservò: — Hai detto di aver viaggiato per trenta milioni di anni…

— Anche più — risposi. — Forse riuscirò a ricordare più precisamente, se…

Con un gesto noncurante, Nebogipfel m’interruppe: — C’è un errore. La tua descrizione dell’evoluzione del sole è plausibile, ma secondo la nostra scienza la sua fine è prevista non prima di migliaia di milioni di anni.

— Ho riferito ciò che ho visto — mi difesi, — con sincerità e precisione.

— Non dubito, ma l’unica conclusione possibile è che nell’altra storia, come nella mia, l’evoluzione del sole sia stata modificata.

— Vuoi dire…

— Voglio dire che è stato compiuto qualche goffo tentativo di alterare l’intensità del sole, o la sua longevità, o forse si è persino tentato, come abbiamo fatto noi, di ricavare materia o energia dalla stella.

Il mio compagno stava ipotizzando che, in quell’altro tempo, la storia dell’umanità non si fosse esaurita con gli Eloi e con i Morlock che avevo conosciuto. Forse una razza dotata di una tecnologia molto avanzata aveva abbandonato la Terra e aveva cercato di modificare il sole, come avevano fatto gli antenati di Nebogipfel.

— Però — conclusi, atterrito — il tentativo è fallito.

— Sì. Quella razza d’ingegneri non è più tornata sulla Terra, dove si è consumata la lenta tragedia degli Eloi e dei Morlock. Ma la vita del sole è stata comunque abbreviata.

Disgustato, non sopportai di discutere oltre su quell’argomento. Mi chiusi in me stesso, aggrappato a un sostegno, e ripensai alla spiaggia desolata e agli orrendi esseri degradati, che, pur essendo privi d’intelligenza, avevano conservato qualcosa di umano. Quella realtà mi era parsa raccapricciante già quando l’avevo giudicata come la vittoria finale del processo inesorabile dell’evoluzione e della regressione del sogno dell’intelligenza umana. Adesso mi sembrava ancor più spaventosa, perché forse la causa era l’umanità medesima, che con la sua arrogante ambizione aveva creato uno squilibrio tra forze opposte, accelerando il proprio annientamento.


Non fu semplice farsi catturare dalla Terra. La cabina doveva rallentare la propria velocità di svariati milioni di miglia orarie per essere pari a quella con cui la Terra percorreva la sua orbita attorno al sole.

Scivolammo in cerchi sempre più stretti intorno al ventre del pianeta. Nebogipfel mi spiegò che ci stavamo adeguando al campo gravitazionale e a quello magnetico della Terra, un processo facilitato dai materiali con cui era costruita la capsula, nonché dalla correzione degli effetti naturali compiuta dalle lune artificiali che orbitavano intorno alla Terra. In sostanza, la nostra velocità fu scambiata con quella del pianeta, che di conseguenza avrebbe deviato e accelerato lievemente la propria orbita intorno al sole.

Addossato alla parete della capsula, osservai il paesaggio buio della Terra, interrotto qua e là dal chiarore dei grandi pozzi di riscaldamento dei Morlock. Notai inoltre alcune enormi torri che sembravano spuntare dall’atmosfera. Nebogipfel mi spiegò che venivano usate per lanciare capsule dalla Terra alla Sfera.

Su di esse vidi muoversi dei puntolini di luce: capsule interplanetarie che trasportavano Morlock diretti alla Sfera. Mi resi conto che proprio per mezzo di una di quelle torri ero stato lanciato nello spazio, ancora tramortito, ed ero stato trasportato sulla Sfera. Le torri servivano a far salire le capsule oltre l’atmosfera, dopodiché con una serie di manovre di appaiamento simili a quelle che avevamo compiuto le scagliavano nello spazio.

In questo caso il lancio non riusciva a imprimere un’accelerazione uguale a quella provocata dalla rotazione della Sfera, perciò il viaggio di andata durava più a lungo di quello di ritorno. Ma nei pressi della Sfera, i campi magnetici agganciavano facilmente le capsule e le guidavano a un perfetto rendez-vous.

Infine, scivolammo nell’atmosfera terrestre. Quando per effetto dell’attrito la capsula si surriscaldò e sussultò, risvegliando dentro di me una sensazione di movimento da giorni sopita, ero saldamente aggrappato ai sostegni perché Nebogipfel mi aveva preavvisato.

Con la fiammata di una meteora, esaurimmo la velocità residua. Osservai con una certa inquietudine il paesaggio avvolto nell’oscurità che si stendeva sotto di noi durante la caduta. Mi parve di scorgere il nastro largo e sinuoso del Tamigi, e cominciai a domandarmi se davvero, dopo un viaggio tanto lungo, vi fosse il rischio di schiantarsi sulle rocce implacabili della Terra.

Poi…

Ho un ricordo confuso e parziale dell’ultima fase della nostra discesa. Vagamente intravidi un aeromobile simile a un immenso uccello, che scese dal cielo e in un attimo ci inghiottì nel suo ventre. Nel buio, sobbalzai, mentre l’aeromobile rallentava, quindi la discesa continuò con estrema delicatezza.

Quando rividi le stelle, non vi era traccia dell’aeromobile a forma d’uccello. La capsula era adagiata sul suolo arido e senza vita di Richmond Hill, a meno di cento metri dalla Sfinge Bianca.

21 A Richmond Hill

Quando Nebogipfel aprì la capsula, uscii inforcando gli occhiali. L’oscurità del paesaggio divenne subito nitida in tutti i dettagli, e per la prima volta potei osservare limpidamente la Terra dell’anno 657.208.

Il cielo brulicava di stelle, ma la nera cicatrice della Sfera appariva enorme e netta. La sabbia che ricopriva il suolo ovunque emanava un odore di ruggine e di umidità, come di licheni e di muschio. L’aria era impregnata del puzzo dolciastro dei Morlock.

Provai un certo sollievo nell’essere finalmente fuori della capsula e sentire la solidità del terreno sotto gli stivali. Risalii il versante della collina sino al basamento della Sfinge dai pannelli di bronzo, e mi fermai a metà strada, nel luogo dove un tempo sorgeva la mia casa. Poco più in alto vidi un nuovo edificio, basso, a pianta quadrata. Non si vedevano Morlock, in netto contrasto con le impressioni avute in precedenza, quando, brancolando nel buio, mi era parso che i Morlock fossero ovunque.

Non vi era traccia della macchina del tempo, a parte alcuni solchi nella sabbia e le strane impronte allungate tipiche dei Morlock. La macchina era stata nuovamente trasportata all’interno della Sfinge? Al pensiero che la storia si stesse ripetendo, serrai i pugni: il distacco che avevo maturato durante il viaggio interplanetario svanì rapidamente, sostituito da una violenta crisi di panico. Cercai di calmarmi. Ero stato tanto sciocco da illudermi che la macchina del tempo fosse lì ad aspettarmi accanto alla capsula? Non potevo cedere alla violenza proprio in quel momento, quando la situazione pareva propizia al mio piano di fuga.

— A quanto pare, siamo soli — dissi a Nebogipfel, che mi aveva raggiunto.

— I bambini sono stati allontanati da questa zona.

— Sono dunque tanto pericoloso? — Di nuovo, mi vergognai di me stesso. — Dimmi dove si trova la macchina.

Benché Nebogipfel si fosse tolto gli occhiali, non riuscii a decifrare l’espressione dei suoi occhi rosso-grigi: — È stata trasportata in un luogo più sicuro. Puoi ispezionarla, se vuoi.

Mi sentivo attirato verso la macchina come se un cavo d’acciaio mi trascinasse a forza. Non vedevo l’ora di ritrovarla, di montare sul sellino, di abbandonare i Morlock e quel mondo di oscurità, e di tornare nel passato… Ma dovevo avere pazienza. Sforzandomi di mantenere un tono di voce calmo, risposi: — Non è necessario.

Allora Nebogipfel mi condusse al piccolo edificio che avevo notato poco prima. Apparentemente ricavato da un unico blocco, come tutte le costruzioni morlock, sembrava una casa di bambola, con il tetto a capanna e una semplice porta a cardini. Conteneva un pagliericcio, una coperta, una sedia, e un vassoio con acqua e cibi dall’aspetto invitante. Sul pagliericcio c’era il mio zaino.

— Siete stati premurosi — commentai, rivolto alla mia guida.

— Rispettiamo i tuoi diritti — ribatté Nebogipfel, e se ne andò. Quando mi tolsi gli occhiali, il Morlock parve scomparire nell’oscurità.

Con un certo sollievo, chiusi la porta. Con piacere tomai a godere soltanto della mia compagnia, almeno per un poco. L’intenzione d’ingannare Nebogipfel e il suo popolo mi fece vergognare, ma il mio piano mi aveva già permesso di percorrere milioni di miglia e di arrivare a poche centinaia di metri dalla macchina del tempo: non potevo sopportare l’idea di fallire proprio adesso.

Sapevo che se avessi dovuto affrontare Nebogipfel per fuggire, lo avrei fatto.

A tastoni aprii lo zaino, trovai una candela e l’accesi. La confortante luce gialla e le volute di fumo trasformarono quel rifugio in una vera e propria casa. Come avevo previsto, i Morlock non mi avevano restituito l’attizzatoio, però mi avevano lasciato il resto dell’equipaggiamento, incluso il coltello a serramanico. Poiché la barba lunga e folta m’infastidiva, mi rasai alla bell’e meglio servendomi del coltello e di un vassoio come specchio. Poi mi cambiai la maglieria intima: non avrei mai immaginato che indossare calzini puliti potesse suscitare un piacere tanto sensuale: con affetto, rivolsi un pensiero alla signora Watchet, che aveva messo nello zaino quei preziosissimi indumenti. Infine, al colmo della soddisfazione, caricai la pipa con il tabacco e l’accesi alla fiamma della candela.

Poi, circondato dai miei pochi effetti personali, mentre l’aroma denso del tabacco si spargeva nell’aria, mi sdraiai sul pagliericcio e, avvolgendomi nella coperta, mi addormentai.


Mi svegliai nell’oscurità.

Era strano svegliarsi senza la luce del giorno, un po’ come essere disturbati nel cuore della notte. Durante tutto il periodo trascorso nella Notte Nera dei Morlock, non riuscii mai veramente a riposare, perché il mio organismo non riusciva a stabilire un ciclo di sonno e di veglia.

Poiché avevo chiesto a Nebogipfel di ispezionare la macchina del tempo, mi sentivo sempre più inquieto, persino quando consumavo i pasti o espletavo i miei bisogni fisiologici. Il mio piano aveva una strategia semplicissima: volevo impadronirmi della macchina alla prima occasione. Contavo sul fatto che i Morlock, abituati da millenni all’uso di macchine sofisticate in grado di assumere qualunque forma, non riuscissero a comprendere un apparecchio rozzo come la macchina del tempo, e dunque neppure a intuire che il semplice inserimento di due leve potesse riattivarne il funzionamento. Almeno, così speravo.

Nonostante tutte le mie avventure, infatti, le leve della macchina del tempo erano al sicuro nelle mie tasche.

Uscii dalla capanna e vidi Nebogipfel che mi veniva incontro, lasciando nella sabbia le sue impronte da bradipo. Mi domandai da quanto tempo fosse lì ad aspettarmi.

Senza tanti preamboli, giacché i Morlock non sono inclini a conversare senza necessità, c’incamminammo sul versante della collina, diretti verso Richmond Park.

Come ho già detto, la mia casa si trovava in Petersham Road, sotto Hill Rise, a mezza costa sul versante di Richmond Hill; situata a poche centinaia di metri dal fiume, offriva una vista parziale dei prati di Petersham e degli alberi che nascondevano il paesaggio a occidente. Nell’anno 657.208, invece, nulla ostacolava lo sguardo, libero di spaziare sulla valle profonda dove il Tamigi scorreva nel suo nuovo letto, scintillante alla luce delle stelle. Nell’oscurità si notavano i pozzi di riscaldamento dei Morlock. Quel versante era in gran parte coperto di sabbia o di muschio, ma non mancavano anche prati con la stessa erba soffice che avevo trovato nell’Interno della Sfera.

Il nuovo letto del fiume serpeggiava più o meno a un miglio di distanza da quello del diciannovesimo secolo. Aveva tagliato l’ansa da Hampton a Kew, cosicché Twickenham e Teddington si trovavano sulla sponda orientale. La valle mi sembrava più profonda che nella mia epoca, o forse Richmond Hill era diventata più alta. Rammentai di aver osservato un analogo spostamento del Tamigi durante il mio primo viaggio nel tempo. Le discrepanze della storia umana mi parvero nient’altro che un’increspatura nella lenta e inesorabile azione dei processi geologici.

Alzai lo sguardo in direzione di Richmond Park, chiedendomi per quanto tempo i boschi e le mandrie di cervi e di daini fossero sopravvissuti ai venti del mutamento. Ormai, il parco doveva essere nulla più che un deserto, popolato soltanto di cactus e di ulivi. Il mio cuore s’indurì. D’accordo, i Morlock erano saggi e pazienti, le conoscenze e i progressi che avevano raggiunto sulla Sfera erano ammirevoli, ma la loro trascuratezza nei confronti della vecchia Terra era vergognosa.

Nei pressi di Richmond Gate, vicino a quello che era stato lo Star and Garter e a meno di un chilometro dal luogo dove sorgeva la mia casa, vidi scintillare alla luce delle stelle una piattaforma rettangolare che sembrava dello stesso materiale vitreo del pavimento della Sfera. Infatti era dotata di una varietà di blocchi e di divisori che riconobbi come gli strumenti caratteristici dei Morlock. La piattaforma era deserta: non c’era nessun altro, tranne Nebogipfel e me. Al centro riconobbi una struttura goffa e sgraziata di ottone e nichel, con le parti in avorio che luccicavano sotto le stelle come ossa sbiancate, e un sellino da bicicletta nel mezzo: sì, era la macchina del tempo, ancora intatta, e pronta a riportarmi a casa!

22 Rotazioni e inganni

Con il cuore palpitante, faticai a seguire Nebogipfel con passo fermo. Infilai le mani nelle tasche della giacca, afferrando le due leve di controllo. Ero già abbastanza vicino alla macchina per vedere i perni su cui le leve andavano inserite, ed ero deciso ad avviare la macchina al più presto possibile, per andarmene da quel mondo.

— Come puoi vedere — dichiarò Nebogipfel — la macchina è indenne. L’abbiamo spostata, ma senza toccare nessuno dei suoi meccanismi…

Era molto concentrato, quindi cercai di distrarlo: — Dimmi una cosa… ora che l’avete studiata e che conoscete le mie teorie, qual è la vostra impressione?

— La tua macchina è un’invenzione straordinaria, molto progredita per la tua epoca.

Non mi sono mai piaciuti troppo i complimenti: — Ma è la plattnerite che mi ha permesso di costruirla.

— Sì. Mi piacerebbe studiare meglio questa “plattnerite”. — Nebogipfel si mise gli occhiali e scrutò le scintillanti sbarre di quarzo della macchina. — Abbiamo discusso brevemente della molteplicità della storia e della possibile esistenza di diversi mondi. Tu stesso sei stato testimone…

— Il mondo degli Eloi e dei Morlock, e quello della Sfera.

— Si possono concepire le diverse versioni di storia come corridoi paralleli, ciascuno dei quali esiste indipendentemente dagli altri. La tua macchina consente di percorrerli avanti e indietro. Osservando da un punto qualsiasi all’interno di un corridoio, si può vedere un flusso storico completo e coerente, senza essere consapevoli dell’esistenza di altri corridoi. E i corridoi non possono influenzarsi a vicenda. In alcuni di essi, però, le condizioni possono cambiare: persino le leggi fisiche possono essere diverse…

— Continua.

— Hai detto che il funzionamento della macchina dipende da una torsione dello spazio e del tempo, che trasforma il viaggio temporale in un viaggio spaziale. Sono d’accordo: l’effetto della plattnerite è appunto questo. Ma come avviene? Immagina un universo… cioè un’altra dimensione di storia, in cui la torsione spazio-temporale sia molto accentuata.

Nebogipfel descrisse un universo che andava al di là della mia comprensione, in cui la rotazione faceva parte della struttura stessa di quell’universo.

— La rotazione sarebbe intrinseca a ogni punto dello spazio e del tempo. Un sasso scagliato da qualunque punto seguirebbe una traiettoria a spirale: l’inerzia agirebbe come un compasso, ruotando intorno al punto di lancio. Secondo alcuni, il nostro stesso universo potrebbe essere sottoposto a una tale rotazione, ma a una velocità enormemente lenta: centomila milioni di anni per compiere una singola rotazione. Il principio dell’universo rotante venne avanzato per la prima volta proprio da Kurt Gödel, pochi decenni dopo la tua partenza.

— Gödel? — Impiegai un attimo per ricordare quel nome. — Lo stesso che dimostrò l’imperfettibilità della matematica?

— Esatto.

Camminando attorno alla macchina, tenni le leve ben strette nelle mani. Volevo raggiungere la posizione più favorevole per salire sulla macchina. — Ma in che modo tutto ciò spiega il funzionamento del mio apparecchio…

— Si tratta della rotazione assiale. In un universo rotante, è possibile muoversi nello spazio, ma viaggiando nel passato o nel futuro. Anche il nostro universo ruota, però tanto lentamente che un viaggio simile sarebbe di centomila milioni di anni luce, e richiederebbe quasi un milione di milioni di anni.

— Dunque poco pratico…

— Immagina invece un universo molto più denso del nostro: così denso, in qualsiasi punto, quanto il nucleo di un atomo di materia. Ebbene, per una rotazione completa impiegherebbe poche frazioni di secondo.

— Ma non siamo in un universo del genere! — Agitai una mano nell’aria. — Questo è evidente.

— Ma tu forse sì, per poche frazioni di secondo, grazie alla tua macchina, o almeno alla plattnerite. La mia ipotesi è che, a causa di qualche proprietà della plattnerite, la macchina del tempo si sposta rapidamente avanti e indietro fra il nostro universo e un altro universo ultradenso, sfruttando a ogni passaggio la torsione assiale della realtà per viaggiare lungo una serie di pieghe nel passato o nel futuro. Dunque, ti muovi a spirale attraverso il tempo.

Riflettei su queste idee. Erano senza dubbio straordinarie, anche se mi sembravano semplicemente una proiezione fantastica delle mie speculazioni preliminari sulla compenetrazione fra spazio e tempo, nonché sulla fluidità delle rispettive dimensioni. Inoltre, l’impressione soggettiva che avevo ricavato dal viaggio nel tempo era in effetti legata a sensazioni di torsione e rotazione. — Sbalorditivo! — commentai. — Ma credo sia necessario uno studio più approfondito.

— La tua elasticità mentale è impressionante — disse Nebogipfel scrutandomi, — almeno, per un uomo al tuo stadio evolutivo.

Ignorai il commento: ormai ero abbastanza vicino alla macchina. Cautamente, Nebogipfel sfiorò con un dito una sbarra della gabbia, che si accese di un bagliore improvviso. Un alito di brezza gli arruffò il sottile strato di pelliccia che gli copriva il braccio. Il Morlock ritirò la mano di scatto. Nell’osservare i perni, visualizzai i semplici movimenti necessari a sfilare le leve di tasca e a rimontarle: sarebbe occorso meno di un secondo. Ma ci sarei riuscito prima che Nebogipfel mi tramortisse con i suoi raggi verdi?

D’improvviso mi sentii oppresso in maniera insopportabile dall’oscurità e dal fetore dei Morlock. Potrei fuggire da tutto questo in un attimo, pensai, mosso da un impeto irresistibile.

— Qualcosa non va? — Con i suoi grandi occhi scuri, Nebogipfel mi scrutava, e sembrava pronto a scattare. Capii che aveva dei sospetti. Mi ero forse tradito? Ebbi la certezza che le bocche d’innumerevoli armi mi minacciassero dall’oscurità circostante: ancora pochi secondi e sarei stato perduto.

Il sangue mi pulsava alle tempie come un ruggito, sfilai di tasca le leve e con un grido balzai nella macchina. Con un solo movimento, innestai le leve sui perni e le spostai all’indietro. Quando la macchina cominciò a vibrare, un lampo verde mi fece temere il peggio, poi le stelle scomparvero e il silenzio mi avvolse. Provai una straordinaria sensazione di torsione, quindi mi accorsi con orrore di sprofondare; ma quel disagio non mi inquietava, perché si trattava dell’esperienza ormai familiare del viaggio temporale.

Lanciai un grido trionfante. Ce l’avevo fatta, stavo tornando indietro nel tempo! Ero libero!

Allora sentii qualcosa di freddo e morbido attorno alla gola, come se un insetto mi avesse sfiorato, e avvertii un fruscio.

Mi portai una mano al collo, e toccai la pelliccia di un Morlock.

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