Le lancette dei cronometri rotearono. Il sole divenne prima una striatura di fuoco, poi un arco luminoso, mentre la luna diventava una fascia oscillante e fluttuante. Gli alberi crebbero e morirono, persero le foglie e rinverdirono, in un susseguirsi di stagioni tanto rapido da risultare quasi impercettibile. Il cielo assunse l’azzurro-cupo meraviglioso del crepuscolo nel cuore dell’estate, con le nubi rese felicemente invisibili.
La forma traslucida e incombente della mia casa scomparve in breve tempo. Il paesaggio divenne confuso. La splendida architettura dell’Epoca degli Edifici Immensi sommerse Richmond Hill come una marea. Non assistetti a nessuno degli eventi caratteristici dell’epoca di Nebogipfel, quali il rallentamento della rotazione terrestre e la costruzione della Sfera intorno al sole. Quando la vegetazione verde-cupa ammantò il versante della collina e l’inverno cessò di manifestarsi, capii di avere raggiunto il futuro felice in cui un clima più caldo era tornato in Britannia: con una fitta di nostalgia, pensai che fosse un’epoca molto simile al paleocene.
Anche se rimasi sempre all’erta per coglierne la presenza, non vidi traccia alcuna degli Osservatori. Quelle menti smisurate e inimmaginabili, coralli delle grandi scogliere d’intelletto della storia dell’Ottimità, non erano più interessate a me: il mio destino era interamente nelle mie mani.
Ciò suscitava in me una sorta di torva soddisfazione. Mentre le lancette dei cronometri dei giorni superavano il duecentocinquantamila, tirai gradualmente le leve di comando.
Nell’intravedere la luna ruotare attraverso le sue fasi e spegnersi, ricordai che ero partito con Weena per quell’ultima passeggiata fino al Palazzo di Porcellana Verde poco prima di una di quelle che i piccoli Eloi chiamavano Notti Nere, ossia i periodi di luna nuova in cui i Morlock uscivano dai loro sotterranei per disporre a piacimento degli stessi Eloi. Quanto ero stato sciocco, allora, e impetuoso, sconsiderato, incurante della povera Weena, a intraprendere la spedizione in un momento di tale pericolo!
Comunque, ero tornato, ed ero ferocemente, assolutamente deciso a rimediare agli errori del passato, oppure a morire nel tentativo.
Con un sussulto, la macchina sbucò dal tumultuoso crepuscolo grigio del viaggio temporale, e subito il sole m’illuminò, caldo e pesante. I cronometri si fermarono sul giorno 292.495.940: esattamente il giorno dell’anno 802.701 in cui avevo perduto Weena.
Mi trovavo sul versante della collina che mi era tanto familiare. La luce del sole era così intensa che fui costretto a ombreggiarmi gli occhi. Poiché ero partito dal giardino dietro la casa anziché dal laboratorio, ero, sul vialetto di rododendri, meno di venti metri più in basso del tratto in cui mi ero fermato quando ero arrivato per la prima volta in quell’epoca. Alle mie spalle, più in alto sulla collina, vidi il profilo ben noto della Sfinge Bianca, con il suo eterno, imperscrutabile sorriso abbozzato. Il basamento di bronzo era coperto da uno strato spesso di verderame, tranne nei punti in cui lo avevo percosso, danneggiando i bassorilievi, nel vano tentativo d’irrompervi e di recuperare la macchina del tempo rubata. Intorno, l’erba era schiacciata e calpestata: erano le tracce lasciate dai Morlock nel trascinare l’apparecchio all’interno del basamento.
Trasalendo, mi resi conto che, in quel momento, la macchina rubata si trovava appunto dentro il monumento. Fu strano pensare che fosse in quell’ambiente buio, a breve distanza da me, mentre io sedevo sulla sua copia, assolutamente perfetta, scintillante sul prato.
Dopo avere staccato e intascato le leve di comando, smontai dalla macchina. In base alla posizione del sole, giudicai che fossero circa le tre del pomeriggio. L’aria era calda e umida.
Allo scopo di osservare meglio la zona circostante, mi recai circa mezzo miglio a sudest, sulla cima di quella che nella mia epoca era stata Richmond Hill. Un bosco rado cresceva dove un tempo erano sorte le case lussuose con vista sul fiume e sulla campagna, a occidente. Naturalmente, non restava traccia di tali edifici: immaginai che le radici degli alberi ne avessero cancellato persino le fondamenta. Comunque, a sud e a ovest si poteva ammirare, come nel 1891, una campagna molto attraente.
Sul crinale, trovai una panchina di metallo giallo, corrosa di ruggine rossa, con i braccioli a forma di animali mitici ormai dimenticati. Scostai l’ortica dalle grandi foglie dalla bella tinta marrone che vi si era abbarbicata, e sedetti a riposare, perché ero già accaldato e sudato.
Il sole era basso nel cielo, a occidente. La luce scintillava sugli edifici e sui corsi d’acqua sparsi nel paesaggio verdeggiante, velato dalla foschia del calore. Quella che il poeta aveva definito l’”impareggiabile valle del Tamigi” era ancora dotata di una bellezza di sogno. L’azione paziente del tempo e dell’evoluzione geologica ne aveva mutato la conformazione rispetto alla mia epoca, ma non tanto da renderla irriconoscibile. Richmond Hill era diventata più alta perché l’ampia valle stessa si era approfondita. A circa un miglio di distanza era visibile il nastro argenteo del fiume, che, come ho già osservato altrove, aveva cambiato il suo tragitto, scorrendo direttamente da Hampton a Kew. Al centro del vecchio letto, mi sembrò di riconoscere in un colle boscoso Glover’s Island. I Petersham Meadows erano pressoché immutati, ma dovevano essere assai meno paludosi perché si trovavano molto al di sopra del livello del fiume.
I giganteschi edifici eleganti e abbandonati, con le loro colonne alte e i loro parapetti ornati, spuntavano come ossa architettoniche dai declivi verdeggianti. A circa un miglio individuai il fabbricato di granito e di alluminio in cui mi ero recato la prima sera. Qua e là spuntavano dalla vegetazione le teste di monumenti tanto belli e tanto enigmatici quanto la Sfinge Bianca. Un gran numero di cupole e di camini rivelava la presenza dei Morlock. I fiori grandi del futuro crescevano ovunque, con i loro petali bianchi e le loro foglie lustre. Non per la prima volta, quel bel paesaggio di pagode e di cupole annidate tra le piante lussureggianti e fiorite mi rammentò gli orti botanici reali di Kew. Tuttavia, si trattava di un orto botanico negletto e inselvatichito che aveva coperto l’Inghilterra intera.
All’orizzonte, in direzione della moderna Windsor, si stagliava un edificio che non avevo notato in precedenza. Era troppo lontano e offuscato dalle brume nordoccidentali perché potessi distinguerne i dettagli. Promisi dunque a me stesso che un giorno mi sarei recato fino a Windsor, perché se mai alcune vestigia della mia epoca erano sopravvissute all’incuria e alle trasformazioni dei millenni, si trattava sicuramente di qualcuna delle sue numerose reliquie normanne.
Allorché mi volsi ad osservare la campagna in direzione della moderna Banstead, riconobbi i boschi, le colline e i torrenti sfavillanti che mi erano diventati familiari durante le mie precedenti esplorazioni. Proprio là, a una ventina di miglia, s’innalzava il Palazzo di Porcellana Verde, di cui mi sembrò d’intravedere le guglie, anche se non ne fui certo, perché la mia vista non era più quella di un tempo.
Mi ci ero recato con Weena alla ricerca di armi e di altri strumenti con cui combattere i Morlock. Se ben ricordavo, anzi, l’altro me stesso doveva essere impegnato proprio in quel momento a frugare all’interno di quelle levigate mura verdi.
A una decina di miglia, stava come una barriera tra me e il Palazzo una foresta cupa, larga almeno un miglio, che persino alla luce del giorno appariva fosca e sinistra. Con Weena, l’avevo attraversata senza pericolo durante il giorno, all’andata. Al ritorno, invece, quella notte stessa, mi sarei lasciato sopraffare dall’impazienza e dalla fatica: deciso a ritornare nel più breve tempo possibile alla Sfinge Bianca per recuperare la macchina, avrei riattraversato la foresta durante la notte, mi sarei addormentato, e mi sarei lasciato sorprendere dai Morlock, che avrebbero rapito Weena.
Sapevo di essere stato fortunato a sopravvivere a quel pericolo in cui mi ero sventatamente cacciato. Quanto alla povera Weena…
Comunque, reagii alla vergogna che provavo rammentando a me stesso che ero ritornato appositamente per rimediare.
Avevo il tempo di raggiungere la foresta prima che annottasse. Ero disarmato, naturalmente, tuttavia non mi proponevo di combattere i Morlock: non avevo più nessuna intenzione di ricorrere alla violenza nei loro confronti. Più semplicemente, progettavo di liberare Weena, ed ero persuaso che, per riuscirvi, non mi sarebbero occorse armi più potenti dell’intelletto e dei pugni.
La macchina del tempo sembrava molto esposta, là, sul versante della collina, con l’ottone e il nichel scintillanti, perciò decisi di nasconderla, anche se non intendevo servirmene più. Con fatica, giacché era ingombrante, la trascinai in un boschetto vicino, lasciando solchi profondi nel prato, poi la coprii di fronde.
Tutto sudato, riposai per qualche minuto. Infine, m’incamminai risolutamente giù per il versante della collina, in direzione di Banstead.
Non avevo percorso più di cento metri allorché udii alcune voci. Benché fosse ancora giorno, temetti per un attimo che si trattasse di Morlock.
Non tardai però a riconoscere voci del tutto umane, che parlavano nella lingua semplice e musicale caratteristica degli Eloi. Da un bosco, percorrendo un sentiero che conduceva alla Sfinge Bianca, sbucarono infatti cinque o sei Eloi. Ancora una volta rimasi stupito dalla loro statura bassa e dalla loro corporatura delicata: sia gli uomini sia le donne sembravano bambini della mia epoca. Erano abbigliati con semplici tuniche purpuree e sandali.
Fui subito colpito dalla somiglianza con il mio primo arrivo nel futuro. In circostanze simili, ne avevo incontrati alcuni, che mi avevano avvicinato con curiosità, senza paura, ridendo e chiacchierando.
In quella seconda occasione, invece, avanzarono con circospezione, evidentemente intenzionati ad evitarmi. Aprii le mani e sorrisi per mostrare che non intendevo nuocere loro in alcun modo, pur sapendo che il loro atteggiamento era giustamente cambiato a causa del comportamento volubile e aggressivo dell’altro me stesso, soprattutto dopo la scomparsa della macchina del tempo, che gli aveva fatto perdere la testa.
Gli Eloi avevano dunque tutte le ragioni per diffidare di me. Mi evitarono, senza che io cercassi di avvicinarli, e salirono il versante della collina in direzione del vialetto di rododendri. Non appena mi ebbero perso di vista, ripresero a conversare nella loro lingua musicale.
Nell’attraversare la campagna verso la foresta, vidi ovunque i pozzi che conducevano al mondo sotterraneo dei Morlock. Sapevo, inoltre, che se mi fossi avvicinato abbastanza ad uno di essi avrei sentito il rumore ritmico e implacabile dei loro macchinari enormi.
Era molto caldo, sebbene fosse già tardo pomeriggio: il sudore mi bagnò la fronte e il petto; il respiro mi divenne affannoso.
Man mano che mi addentravo in quel mondo, i miei sentimenti si ridestarono. Pur essendo un essere limitato, Weena era stata l’unica persona, nel mondo dell’802.701, a manifestare affetto nei miei confronti, perciò la sua perdita mi aveva afflitto. Nonostante questo, allorché avevo raccontato la mia avventura ai miei amici, alla luce e al calore del mio focolare nel 1891, quella sofferenza era sbiadita a una pallida traccia di se stessa, e Weena era diventata del tutto irreale, come il ricordo di un sogno.
Ebbene, essere ritornato in quel mondo, calpestarne di nuovo il suolo, ravvivò in me il dolore, come se non mi avesse mai abbandonato, infondendomi energia ad ogni passo.
Poco a poco, si risvegliò in me anche la fame. Mi resi conto, così, che non ricordavo quando avessi mangiato per l’ultima volta: doveva essere stato prima di abbandonare con Nebogipfel l’epoca della Terra Bianca. D’altronde, potevo forse dire che il corpo in cui dimoravo non aveva mai consumato alcun tipo di cibo, se davvero era stato ricostruito dagli Osservatori come aveva suggerito Nebogipfel. A dispetto delle sottigliezze filosofiche, comunque, la fame cominciò a straziarmi lo stomaco, e intanto il caldo mi spossò. Vedendo uno dei grandi edifici di pietra grigia lavorata che contenevano le sale in cui gli Eloi consumavano i loro pasti, deviai dal mio tragitto.
Varcata la soglia di un portale sovrastato da un arco scolpito, tutto consunto e diroccato, mi trovai in una sala simile a quella che avevo visitato in precedenza, con i tendaggi scuri e il pavimento di blocchi di metallo duro e bianco, consumato dai passi dei morbidi piedi d’innumerevoli generazioni di Eloi. Intorno ai tavoli di pietra su cui era ammucchiata la frutta, gli Eloi, radunati a gruppetti nelle loro belle tuniche, mangiavano e ciarlavano come tanti uccellini in gabbia.
Rimasi immobile. Consapevole che la mia sporca uniforme tropicale era del tutto fuori luogo in quel mondo di bellezza luminosa, pensai che gli Osservatori avrebbero potuto fornirmi un abbigliamento più elegante. Dapprima gli Eloi si avvicinarono, quindi mi si affollarono intorno e mi toccarono con le loro manine morbide come tentacoli, esaminando i miei indumenti. Benché avessero le orecchie minute, la bocca piccola e il mento appuntito che erano peculiari della loro specie, sembravano appartenere a una razza diversa da quella che abitava nella zona della Sfinge Bianca. Non mi conoscevano, dunque non mi temevano.
Giacché ero tornato per soccorrere una loro simile, e non per comportarmi nel modo barbaro che aveva caratterizzato negativamente la mia prima visita, mi lasciai esaminare di buon grado, senza opporre resistenza.
Seguito ovunque da un gruppetto di Eloi, mi avvicinai a un tavolo e cominciai a divorare fragole gigantesche. Non tardai a trovare i fratti dal pericarpo triedrico e dalla polpa farinosa che erano stati i miei preferiti: ne presi una quantità che mi parve sufficiente e andai a mangiare in un angolo semibuio, circondato da una piccola folla di Eloi curiosi.
Sorrisi cordialmente, poi, cercando di rammentare quel poco che avevo imparato della loro lingua semplice, iniziai a parlare. Nella semioscurità, gli Eloi avvicinarono i loro visetti, ad occhi sgranati, le rosse labbra dischiuse, come bambini. Allora mi rilassai. La semplice umanità dell’incontro m’incantò, dopo tutte le stranezze inumane che avevo dovuto patire in precedenza. Sapevo che gli Eloi non erano umani, anzi, a modo loro erano tanto alieni quanto i Morlock, tuttavia erano abbastanza simili alla mia specie.
Senza accorgermene, chiusi gli occhi.
Quando mi destai, di soprassalto, scoprii che era ormai buio. Gli occhi calmi e per nulla interrogativi dei pochi Eloi rimasti accanto a me sembrarono scintillare nell’oscurità.
In preda al panico, balzai in piedi, lasciando cadere i pericarpi e i fiori con cui mi avevano ornato i giocosi Eloi. A tentoni, attraversai la sala piena di personcine che dormivano a gruppetti, stese sul pavimento metallico.
Finalmente uscii dal portale, constatando che era il tramonto. Cercai freneticamente il sole con lo sguardo: ne restava visibile a stento soltanto un’ultima scheggia posata sull’orizzonte occidentale. A oriente, invece, vidi un pianeta solitario e luminoso: forse era Venere.
Con un grido, levai le braccia al cielo. Nonostante la decisione di rimediare agli errori che l’impulsività e la sconsideratezza mi avevano indotto a commettere in passato, mi ero lasciato sopraffare dall’indolenza e avevo dormito per tutto il tardo pomeriggio!
Tomai subito al sentiero che conduceva alla foresta, ben sapendo che, a differenza di quanto avevo progettato, non sarei mai riuscito a giungervi prima che annottasse. Nel crepuscolo, intravidi spettri grigio-bianchi, percepibili a stento ai margini del mio campo visivo. Ogni volta che mi girai di scatto, le ombre diafane fuggirono.
Naturalmente, si trattava dei Morlock astuti e brutali di quel mondo, i quali erano del tutto diversi da quelli della Sfera: mi braccavano in silenzio, ricorrendo a tutta la loro abilità di cacciatori. La convinzione che non avrei avuto bisogno di armi per portare a termine l’impresa cominciò a sembrarmi alquanto sciocca. Decisi perciò che, appena raggiunta la foresta, mi sarei procurato un ramo caduto, o qualcosa del genere, da usare come mazza.
Inciampai diverse volte nelle asperità del suolo, tanto che, senza la protezione degli stivali militari, avrei rischiato una distorsione alla caviglia.
Arrivai alla foresta quando era ormai notte.
Nell’osservare l’intrico di vegetazione umido e buio, compresi la vanità della mia ricerca. Rammentai che mi era sembrato, a suo tempo, di essere circondato da un autentico esercito di Morlock: come avrei potuto trovare i pochi malevoli che avevano rapito Weena?
Ricordavo approssimativamente il tragitto che avevo seguito la prima volta, ma mi resi subito conto che sarebbe stato folle ripercorrerlo nella speranza d’incontrare l’altro me stesso e Weena. In primo luogo, mi ero addentrato a casaccio nella foresta, mentre lottavo contro i Morlock. Inoltre, al buio, nel fitto degli alberi, sarei stato molto vulnerabile: senza dubbio sarei riuscito a mettere fuori combattimento qualche avversario, ma alla fine i Morlock mi avrebbero altrettanto sicuramente sopraffatto. E comunque, non era mia intenzione battermi.
Così, mi allontanai di circa un quarto di miglio, recandomi sulla cima di un colle che dominava la foresta.
L’oscurità si addensò, e le stelle spuntarono in tutto il loro fulgore. Come avevo già fatto in precedenza, mi distrassi a cercare le costellazioni, ma inutilmente, perché le stelle, con il trascorrere dei secoli, si erano spostate, mutando le loro configurazioni. In ogni modo, fedele come un vero amico, riapparve il pianeta che avevo notato in precedenza.
Ricordai che l’ultima volta che avevo osservato quel cielo trasformato, durante la sosta notturna nel corso del viaggio al Palazzo di Porcellana Verde, avevo avuto accanto a me Weena, avvolta nella mia giacca per proteggersi dal freddo. Allora avevo riflettuto sulla brevità della vita umana rispetto a quella delle stelle, e nel contemplare la vastità del tempo, tanto al di sopra delle mie preoccupazioni terrene, mi ero abbandonato brevemente a un’elegiaca malinconia.
Comunque, sembrava proprio che fosse finita: ne avevo abbastanza degli infiniti e delle eternità. Mi sentivo teso e impaziente. Come sempre, ero nulla più che un uomo, di nuovo immerso del tutto nelle piccole preoccupazioni umane, dedito esclusivamente ai miei progetti.
Lasciai le stelle remote e insondabili per abbassare di nuovo lo sguardo alla foresta. Poco dopo, una luce rosea e gentile si diffuse all’orizzonte sudoccidentale. Balzai in piedi, animato da un’esultanza improvvisa che m’indusse ad abbozzare un passo di danza. Avevo appena avuto la conferma che, dopo tutte le mie avventure, nonostante le numerosissime possibilità di sbagliare, ero arrivato proprio nel giorno giusto di quel futuro remoto: la luce era quella dell’incendio che era stato provocato negligentemente dall’altro me stesso.
Mi sforzai di ricordare esattamente, nella sua precisa sequenza, tutto quello che era accaduto in quella notte fatale…
L’incendio era stato una novità talmente portentosa per lei, che Weena aveva cercato di giocare con le fiamme rosseggianti, tanto da costringermi ad impedirle di gettarsi nel fuoco. Benché si dibattesse, l’avevo sollevata di peso e mi ero addentrato nella foresta, con l’incendio a illuminare i miei passi.
In breve, però, l’oscurità ci aveva avvolti completamente ancora una volta, rotta soltanto dai ritagli blu del cielo visibili tra le fronde. Poco dopo, avevo udito tutt’intorno i passi dei Morlock e le loro voci tubanti. Mi ero sentito tirare i lembi della giacca, e una manica.
Per cercare i fiammiferi, ero stato costretto a deporre Weena. Prima che riuscissi ad accenderne uno, i Morlock si erano gettati su Weena come insetti tenaci, brulicando intorno a me. Come il lampo di una macchina fotografica, la fiammella aveva rivelato i volti bianchi e gli occhi rosso-grigi dei Morlock che mi si affollavano intorno. In un attimo, gli abitanti del mondo sotterraneo erano fuggiti.
Deciso ad attendere il nuovo giorno alla luce e al calore di un altro fuoco, avevo acceso la canfora, quindi avevo alimentato le fiamme con i rami strappati dagli alberi, che avevano provocato un fumo denso di legna verde.
Sotto il cielo senza luna, nella notte nera come l’inchiostro, rischiarata soltanto dal riverbero dell’incendio che si diffondeva all’altra estremità della foresta, mi alzai in punta di piedi a scrutare…
E lo vidi!
Sullo sfondo della luce fioca si stagliava un sottile filo di fumo, che s’innalzava nell’aria, a spirale, dal luogo in cui l’altro me stesso aveva deciso di fermarsi e di resistere agli assalitori. Era circa due miglia a oriente, nelle profondità della foresta. Senza concedere altro tempo all’osservazione, m’incamminai.
Per un poco non sentii altro che gli schianti dei ramoscelli calpestati e il ruggito lontano, quasi pacato, dell’incendio. Nell’oscurità, rotta soltanto dai bagliori delle fiamme e dal cielo blu stellato visibile attraverso gli squarci nelle fronde, i fusti e le radici s’intravedevano soltanto come sagome. Inciampai diverse volte. Poi un picchiettio come di pioggia fu seguito dalla strana voce gorgogliante dei Morlock. Mi sentii tirare una manica, quindi, più debolmente, la cintura. Fui afferrato al collo.
Mi girai di scatto, tirando pugni che incontrarono carne e ossa. Gli assalitori si ritirarono, ma sapevo che la tregua non sarebbe durata a lungo. Poco dopo, infatti, il rumore smorzato di passi di strinse di nuovo intorno a me. Fui costretto a farmi largo in una specie di tempesta di tocchi freddi, di stratte, di prese, e persino di morsi audaci. Ero circondato da grandi occhi rossi.
Fu un ritorno al mio incubo più profondo, alla tenebra orribile che avevo temuto per tutta la vita. Comunque, proseguii risolutamente, senza essere aggredito, almeno in massa. Con l’avvicinarsi dell’incendio e l’intensificarsi della luce, i Morlock corsero rapidamente tutt’ intorno, con crescente agitazione.
D’improvviso percepii nell’aria un odore nuovo, debole, quasi soverchiato da quello del fumo: era vapore di canfora.
Il luogo in cui i Morlock avevano aggredito nel sonno l’altro me stesso, e dove questi si era battuto, e dove Weena era stata rapita, non doveva essere lontano.
Fra gli alberi intravidi numerosi Morlock, ammassati come non ricordavo di averli mai visti, brulicanti gli uni sugli altri, bramosi di partecipare a una lotta, oppure a un banchetto. Un uomo lottò per alzarsi e per liberarsi dal loro peso soverchiarne, ma fu afferrato per il collo, per i capelli, per le braccia, e nuovamente atterrato. Subito dopo, spuntò dalla mischia una mano che impugnava una sbarra di ferro: ricordavo che era stata strappata da una macchina contenuta nel Palazzo di Porcellana Verde. Tirando colpi vigorosi, l’uomo riuscì a obbligare gli aggressori a retrocedere quel tanto che gli bastò per addossarsi a un albero. Aveva la chioma irta tutt’intorno alla testa grande, e ai piedi indossava soltanto calze lacere e insanguinate. Quando l’assalto fu freneticamente rinnovato, riprese a menare colpi con la sbarra: si sentirono i tonfi e gli schianti carnosi sulle teste dei Morlock.
Soltanto per un attimo pensai di unirmi a lui. Sapevo che non era necessario: sarebbe riuscito a sopravvivere, a uscire dalla foresta, solo, addolorato per Weena, e a recuperare la macchina del tempo sottrattagli dagli astuti Morlock. Rimasi all’ombra degli alberi, senza farmi vedere.
D’improvviso, mi resi conto che Weena era ormai scomparsa: i Morlock l’avevano già rapita.
Mi girai di scatto, guardando attorno, disperato. Ancora una volta mi ero lasciato distrarre. Avevo già fallito? L’avevo perduta di nuovo?
Intanto, i Morlock, terrorizzati dall’incendio, fuggirono, con le schiene curve e villose tinte di rosso dalla luce delle fiamme. Ne notai quattro, rallentati da qualcosa che trasportavano: un fardello immoto, pallido, che scintillava fiocamente di bianco e d’oro.
Ruggendo, mi precipitai attraverso il sottobosco. I quattro Morlock guardarono attorno finché i loro grandi occhi rosso-grigi si fissarono su di me. Poi li assalii con i pugni levati.
Non fu uno scontro arduo. Lasciato cadere la loro preda preziosa, i Morlock mi affrontarono, ma furono perennemente distratti dalla luce dell’incendio. Un bruto di bassa statura mi azzannò un polso, ma un pugno, che gli spaccò la faccia, lo indusse subito a mollare la presa. Infine, fuggirono tutti e quattro.
Quando mi curvai a raccogliere Weena, leggera come una bambola, il cuore mi si spezzò alla vista delle sue condizioni: aveva l’abito tutto sudicio e strappato, la chioma dorata e il viso sporchi di fuliggine e di fumo, una guancia ustionata, il collo e le braccia feriti dai morsi dei piccoli denti morlock.
Era priva di conoscenza, forse non respirava: temetti che fosse morta.
Con Weena in braccio, corsi attraverso la foresta.
Nell’oscurità fumosa, i riflessi gialli e rossi delle fiamme rendevano cangianti e ingannevoli le ombre. Più di una volta sbattei contro un fusto, inciampai in una radice o in un’asperità, sballottando la povera Weena.
Tutt’intorno a noi, i Morlock fuggivano a gran velocità, come un fiume in piena, con la pelliccia rosseggiante nella luce delle fiamme, gli occhi trasformati in dischi di sofferenza, urtando gli alberi, spingendosi o picchiandosi a vicenda con i piccoli pugni, o persino strisciando e gemendo al suolo alla ricerca di un sollievo illusorio dal calore e dalla luce. Per un po’, ogni volta che mi urtarono, li respinsi a pugni e a calci, ma poi mi accontentai di allontanarli a spintoni, perché era chiaro che, accecati com’erano, non costituivano alcun pericolo per me.
Dopo avere conosciuto Nebogipfel, con la sua calma e la sua dignità, trovai ancora più ripugnanti quei Morlock primitivi, dalle chiome sporche e scompigliate, le mandibole pendule, le schiene curve: alcuni correvano sfiorando il suolo con le mani.
Arrivai d’improvviso al margine della foresta: senza rendermene conto sbucai dagli alberi, trovandomi a correre barcollando in un prato.
Mi fermai. Ansimante, mi volsi a guardare l’incendio. Dal cuore della foresta s’innalzavano fiamme alte decine di metri e una colonna di fumo che oscurava il cielo stellato. I Morlock in fuga, che uscivano dalla vegetazione sporchi e malconci, erano sempre meno numerosi.
Proseguii camminando nell’erba alta e sottile. Dopo circa un miglio, non sentii quasi più il calore dell’incendio alle mie spalle. Il riverbero cremisi delle fiamme era fioco, e non si vedevano più fuggiaschi morlock.
Nella valle oltre una collina, giunsi a un luogo che avevo già visitato: alcuni edifici fra le acacie, e una statua, incompiuta e spezzata, che mi aveva ricordato un fauno. Annidato alla base del declivio trovai un fiumiciattolo che rammentavo, la cui superficie impetuosa rifletteva la luce delle stelle. Deposi Weena sulla riva, poi mi strappai un pezzo di camicia, lo immersi nell’acqua fredda, e lo usai per lavarle il viso, nonché per farle gocciolare un po’ d’acqua in bocca?
Così, cullando in grembo la testa di Weena, rimasi seduto ad attendere la fine della Notte Nera.
La mattina successiva, lo vidi uscire dalla foresta bruciata in condizioni deplorevoli, con il viso di un pallore spettrale, tutto graffiato, la giacca lurida, i piedi sanguinanti fasciati d’erba bruciata, più zoppicante di un vagabondo con i piedi indolenziti. Impietosito, o forse imbarazzato, mi chiesi se fossi davvero io, se quelle fossero davvero le condizioni in cui mi ero presentato ai miei amici al ritorno dalla mia prima avventura nel tempo.
Di nuovo provai l’impulso di aiutarlo, e ancora una volta ricordai che non era necessario. L’altro me stesso, spossato, avrebbe riposato per tutta la giornata luminosa, poi, nel tardo pomeriggio, sarebbe ritornato alla Sfinge Bianca per recuperare la macchina del tempo.
Infine, dopo un ultimo scontro con i Morlock, sarebbe scomparso in un turbine temporale.
Mentre il sole saliva nel cielo, rimasi accanto al fiumiciattolo a curare Weena, pregando che si destasse.