Ero fuori del tempo e dello spazio.
Non era come dormire, perché persino nel sonno la mente rimane attiva, classificando e selezionando informazioni e ricordi: persino nel sonno la persona rimane consapevole di se stessa e della propria esistenza.
Invece, la condizione atemporale in cui mi trovavo non era affatto simile al sonno. Sembrava piuttosto che la rete di plattnerite mi avesse impercettibilmente, silenziosamente scomposto. Semplicemente, non ero presente: i frammenti della mia personalità, le schegge della mia memoria, erano disseminati nell’immenso e invisibile Mare d’Informazioni che tanto affascinava Nebogipfel.
Poi avvenne qualcosa di gran lunga più misterioso: a un tratto, fui di nuovo presente. Non riesco a esprimermi in maniera più chiara: più che un risveglio, fu come l’accendersi di una lampadina elettrica allorché viene premuto l’interruttore. Dal nulla passai in un istante alla completa, palpitante consapevolezza.
Di nuovo mi fu possibile vedere. Mi apparvero nitidi la rete verde e luminosa della crononave che mi avvolgeva, e il biancheggiare della Terra all’esterno.
Nel rendermi conto di essere tornato all’esistenza, fui pervaso dal panico e dall’orrore suscitati dal precedente intervallo di assenza. Più che l’inferno, avevo sempre temuto la non esistenza: anzi, avevo deciso da molto tempo che sarei stato lieto di subire i tormenti che Lucifero riservava ai non credenti consapevoli, se ciò avesse significato non perdere la percezione e l’autocoscienza.
Tuttavia, non mi fu permesso abbandonarmi all’angoscia, perché subito ebbi la straordinaria sensazione di essere sollevato, come se un magnete gigantesco mi attirasse verso l’alto. Mi sembrò di essere un atomo conteso fra campi di forza mostruosi. Tale tensione aumentò sempre più, fino a sciogliersi d’improvviso. Ebbi di nuovo la medesima impressione che avevo provato da bambino allorché mio padre mi sollevava con le sue mani forti e sicure: la stessa leggerezza, la stessa sensazione di volare. La crononave s’innalzò insieme a me, perciò fu come se mi trovassi al centro di un aerostato immane che s’involava, trasparente e sfavillante di luce verde.
Quando cercai di abbassare lo sguardo, non percepii la testa né il collo, nondimeno il mio campo visivo ruotò verso il basso. La crononave, che aveva la forma di un piroscafo gonfio come un dirigibile, era immensa, lunga diverse miglia, eppure fluttuava nell’aria come una nube. Benché lo scintillio pulsante e cangiante della nave mi offuscasse la vista, vidi attraverso la rete il paesaggio che stavamo sorvolando, nonché, sotto di me, la scialuppa temporale, in cui io stesso e il Morlock ci afflosciavamo sul fondo, intorpiditi dal gelo.
La mia percezione visiva era strana: più che sfuocata, mancava di un fulcro. Quando si guarda un oggetto, come ad esempio una tazza da tè, lo si colloca al centro della prospettiva, relegando il resto alla periferia. Invece, la mia nuova percezione era priva di tale caratteristica: tutto ciò che vedevo (il ghiaccio, le navi, la scialuppa temporale), era al tempo stesso centrale e periferico. Naturalmente, ciò mi confuse e mi disorientò.
Anche se vedevo, non percepivo alcunché del mio corpo, che era diventato totalmente insensibile. Sentivo soltanto un tocco lieve e quasi spettrale: le dita di Nebogipfel intorno alla mia mano. Ebbene, fui in certa misura confortato dal sapere che almeno lui era lì con me.
Pensai per un momento di essere morto, prima di ricordare che avevo già avuto la stessa impressione quando il Costruttore Universale mi aveva assorbito e ricreato. Non riuscivo a immaginare quale sarebbe stata la mia sorte.
Mentre la scialuppa temporale e la torre, in basso, si allontanavano sempre più, la nave s’innalzò rapidamente di uno, due, dieci miglia. Sotto di me, attraverso lo scintillio dello scafo, si dispiegò interamente la mappa della Londra sparsa del futuro remoto.
Benché la velocità della crononave dovesse essere superiore a quella di una palla di cannone, non percepii vento alcuno. La sensazione fanciullesca di leggerezza che ho già descritto mi rassicurò. Il paesaggio sottostante si allargò, i dettagli degli edifici e della distesa gelata divennero sbiaditi e vaghi, una sorta di grigio luminoso si mescolò al bianco freddo del ghiaccio. Con l’assottigliarsi dell’atmosfera, il cielo notturno grigio ferro incupì sempre più.
La curvatura del pianeta divenne percettibile, tanto che Londra sembrò la cima di una montagna immensa. Distinsi la sagoma della povera Britannia, stretta nella morsa del Mare di Ghiaccio.
Non avevo più le mani e i piedi, né il ventre e la bocca. Improvvisamente liberato dalla materia, vedevo tutto con una sorta di serenità.
Mentre la crononave proseguiva la sua ascesa oltre l’atmosfera, il globo mi si mostrò bianco, quieto, e del tutto privo di vita. Una flotta composta di centinaia di crononavi lenticolari, smeraldine, lunghe diverse miglia, veleggiava nello spazio gettando la propria luce sullo strato di ghiaccio corrugato che copriva il pianeta riverberante.
A un tratto, sentii pronunciare il mio nome, o piuttosto, divenni consapevole, in un modo che mi sarebbe stato ripugnante tentare di spiegare, che qualcuno mi chiamava. Naturalmente, non potevo girarmi, però il mio campo visivo ruotò.
Nebogipfel… Sei tu?
Sì. Sono qui. Stai bene?
Nebogipfel… Non riesco a vederti!
Nemmeno io. Ma non importa. Senti la mia mano?
Sì.
Allontanandosi dalla Terra, la nostra crononave si unì alla flotta, che riempiva il vuoto interplanetario per parecchie miglia: fu come unirsi a un branco di gigantesche balene scintillanti. Benché intensa, la luminosità della plattnerite aveva qualcosa d’irreale, come se fosse riflessa da qualche dimensione invisibile. Di nuovo provai una sensazione di contingenza, come se la flotta non appartenesse del tutto a quella realtà, né a nessun’altra.
Nebogipfel… Che cosa ci sta succedendo? Dove ci stanno portando?
Conosci già la risposta, replicò gentilmente Nebogipfel. Stiamo per viaggiare a ritroso nel tempo, fino al nucleo più profondo e nascosto del tempo medesimo: fino ai suoi confini.
Partiremo presto?
Siamo già partiti. Guarda le stelle…
Mi volsi, o almeno ebbi la sensazione di farlo, nel distogliere il campo visivo dalla Terra Bianca, e scoprii che in tutto il cielo stavano spuntando le stelle.
Nel viaggiare a ritroso nel tempo, la flotta coloniale proveniente dalla Terra fu sospinta a ondate successive verso la propria origine. Mentre la marea della civiltà si ritirava dal cosmo, le sfere che racchiudevano le stelle si smontarono e scomparvero l’una dopo l’altra. Meravigliato, vidi le costellazioni antiche riaccendersi come lampadari: vidi Sirio e Orione splendere come nelle notti d’inverno; vidi la Stella Polare brillare sopra di me; riconobbi il profilo familiare dell’Orsa Maggiore. Oltre la curva del pianeta scorsi raggruppamenti di stelle che non avevo mai visto dall’Inghilterra. Non conoscevo le costellazioni degli antipodi abbastanza bene da riconoscerle tutte, ma individuai la forma di coltello della Croce del Sud, le chiazze di luminosità soffusa delle Nubi di Magellano, e i gemelli brillanti, Alpha e Beta Centauri.
Mentre la flotta sprofondava nel passato, le stelle si spostarono nel cielo. In pochi istanti, le costellazioni cominciarono a disfarsi mentre la prospettiva cosmica rivelava i movimenti delle stelle, troppo lenti per essere percettibili nel corso di una fugace vita umana.
Quando richiamai la sua attenzione sul fenomeno, Nebogipfel rispose: Sì. E guarda la Terra…
La maschera di ghiaccio che aveva nascosto il caro globo spossato si stava già sciogliendo. Con una serie di contrazioni possenti, il ghiaccio si ritirò, scoprendo il marrone della terra e l’azzurro del mare, infine rimase confinato nelle fortezze dei poli. Lentamente il mondo si trasformò di nuovo nei continenti che conoscevo, quindi fu avvolto da nubi chiazzate di colori violenti e innaturali: marrone, porpora, arancio. Le coste erano orlate di luci, le grandi città brillavano nel cuore di ogni continente. Vidi persino grandi città galleggianti in mezzo agli oceani. Ma l’atmosfera era tanto inquinata, in corrispondenza delle metropoli, che di sicuro, per respirare in superficie, erano necessarie maschere munite di filtri.
Evidentemente stiamo assistendo agli ultimi giorni del pianeta modificato dalla Nuova Umanità, commentai. Probabilmente stiamo percorrendo milioni di anni al minuto.
Sì.
Allora perché non vediamo la Terra ruotare su se stessa, nonché intorno al sole?
Non è così semplice… Queste navi non sono come la tua macchina del tempo. Tutto ciò che vediamo, spiegò Nebogipfel, è una ricostruzione: una sorta di proiezione basata sui dati raccolti durante il viaggio dal Mare d’Informazioni, o comunque, da quella parte di esso che è incorporata nelle navi stesse. Ebbene, fenomeni come la rotazione del globo vengono soppressi.
Dimmi, Nebogipfel… Che cosa sono diventato? Sono ancora umano?
Sei ancora te stesso, garantì risolutamente il Morlock. L’unica differenza è che la macchina che ti sostiene non è più organica, bensì è integrata al Mare d’Informazioni. Le tue membra non sono più di carne e di sangue, ma d’informazione.
La voce di Nebogipfel sembrò fluttuare nello spazio intorno a me. Avevo perduto la sensazione confortante del suo tocco. Non sapevo più se mi fosse vicino, però avevo la sensazione che la “vicinanza” non fosse più importante, perché non avevo neppure un’idea precisa di dove fossi “io”. Qualunque cosa fossi diventato, sapevo di non essere più un fulcro di consapevolezza che guardava il mondo esterno dall’interno di una grotta d’ossa.
L’atmosfera terrestre s’illimpidì. In tutto il pianeta le luci delle città si affievolirono e si spensero. In breve tempo, non rimase più traccia alcuna dell’attività umana.
Per effetto del viaggio a ritroso nel tempo, le nubi di cenere provocate dai fenomeni vulcanici in tutto il mondo furono riassorbite dai crateri, insieme ai getti di lava incandescente delle eruzioni. I continenti si spostarono dalle collocazioni che mi erano note. Sulle grandi pianure dell’emisfero settentrionale si svolse una lotta lenta e millenaria fra due tipi di vegetazione: da una parte, il verde cupo delle praterie e delle foreste decidue che orlavano i continenti lungo la calotta polare; dall’altra il verde acceso delle giungle tropicali. Per un istante, la giungla lussureggiante trionfò, diffondendosi a settentrione dell’equatore, oltre i tropici, fino all’Europa e al Nord America: persino la Groenlandia divenne fugacemente verdeggiante. Poi, con la stessa rapidità con cui aveva conquistato il mondo, la giungla si ritirò nelle sue fortezze equatoriali, mentre sfumature di verde più cupo si spandevano sui continenti settentrionali.
Con rotazioni e spostamenti laterali più accentuati, i continenti si trasferirono in zone climatiche diverse, talché ampie fasce di verde e di bruno si diffusero sulle regioni aride. Questi passi di danza geologica furono accompagnati da grandi spasmi vulcanici devastanti.
Come in un puzzle, tutte le terre si unirono, coprendo metà del globo, a formare un unico continente immane, che nell’interno avvizzì subito, trasformandosi in un deserto.
Ci troviamo già trecento milioni di anni nel passato, annunciò Nebogipfel. Non esistono mammiferi né uccelli. Persino i rettili si sono evoluti da poco.
Non pensavo, replicai, che potesse risultare tutto così armonioso, come una specie di balletto geologico. Gli studiosi della mia epoca avrebbero molto da imparare! Sembra che il pianeta intero sia vivo e si stia evolvendo.
La terraferma si divise in tre grandi continenti, le cui forme non ricordavano affatto quelle che avevo conosciuto; quindi ruotarono come piatti sopra un tavolo levigato. Con la frammentazione dell’immenso deserto centrale, il clima si diversificò, e le coste si sfrangiarono in una serie di mari poco profondi.
Adesso gli anfibi stanno tornando al mare e stanno perdendo gli arti, riprese Nebogipfel. Ma sulla terra vi sono ancora insetti e altri invertebrati: millepiedi, bachi, ragni e scorpioni…
Non è un ambiente molto ospitale, osservai.
Vi sono anche libellule giganti e altri esseri portentosi: il mondo non è privo di bellezza.
Chiazze di una sorta di marrone corneo si aprirono nella vegetazione, che cominciava a ritirarsi: immaginai che stessimo superando il periodo della comparsa delle prime piante foglifere del mondo. In breve, la superficie terrestre divenne una maschera uniforme di marrone e di azzurro melmoso. Anche nei mari, dove sopravviveva, la vita si stava semplificando, mentre intere specie scomparivano nel grembo della storia: i pesci, i molluschi, le spugne, le meduse… Infine, nei mari cupi, rimasero soltanto sottili alghe verdi che faticavano a convertire in ossigeno la luce spietata del sole. La terra era spoglia e rocciosa. L’atmosfera era densa, chiazzata di giallo e di marrone dai gas nocivi. Grandi eruzioni avvenivano d’improvviso in tutto il globo, nascosto da nubi spesse.
I mari si prosciugarono, riducendosi a pozze stagnanti. Rapidamente le nubi si assottigliarono e si sfilacciarono sino a scomparire, rivelando che la crosta terrestre splendeva di un rosso spento, uniforme, screziato da grandi cicatrici arancioni che si aprivano e si chiudevano come bocche. I mari non si vedevano più: la distinzione fra gli oceani e la terra era scomparsa. Restava soltanto la crosta impervia, al di sopra della quale veleggiavano armoniosamente le crononavi in osservazione.
Lo splendore della crosta divenne più intenso, intollerabilmente luminoso, poi, in una esplosione di schegge incandescenti, il giovane pianeta fu scosso da un tremito sul proprio asse, e si disintegrò.
Alcuni frammenti parvero attraversarmi: la roccia fusa si aprì un varco attraverso la mia coscienza prima di perdersi nello spazio.
Così tutto finì. Non rimase altro che il sole, intorno al quale ruotava un disco di materia solida e gassosa, informe e turbinante.
Come se la coagulazione invertita della Terra avesse provocato uno shock fisico, una sorta d’increspatura percorse lo stormo di crononavi.
È una strana epoca, questa, Nebogipfel…
Guarda intorno…
In tutto il cielo spiccavano dieci o dodici stelle, sempre più luminose. Benché fossero tanto lontane da essere visibili soltanto come puntini, formarono una configurazione, intorno alla quale veli di materia gassosa si raccolsero in una nube vastissima.
Quelle sono le compagne del sole, continuò Nebogipfel. Sono le sue sorelle, se vuoi: le stelle nate dalla stessa nube di materia. Un tempo, formavano un raggruppamento tanto luminoso e compatto quanto le Pleiadi, ma la gravità non le manterrà unite: prima che compaia la vita sulla Terra, si allontaneranno le une dalle altre.
Una stella giovane sopra la mia testa brillò, si dilatò rapidamente fino ad assumere forma discoidale, diventò sempre più rossa e più fioca, infine si spense.
Un’altra stella, che occupava una posizione quasi diametralmente opposta, attraversò il medesimo ciclo: brillò, si dilatò in un disco cremisi, si estinse.
Naturalmente, questo dramma magnifico si svolse in uno sfondo di silenzio assoluto.
Stiamo assistendo alla nascita delle stelle, dissi, però a rovescio.
Sì. Le selle embrionali accendono le nubi gassose da cui hanno avuto origine. E sono belle a vedersi, le nebulose… Ma dopo l’accensione stellare, i gas più leggeri fuggono il calore, lasciando soltanto la materia più densa…
Una materia che si condensa in pianeti, conclusi.
Esatto.
Poi fu la volta del sole: un brillamento bianco-giallo, riverberato dalle prue di plattnerite delle crononavi; la dilatazione rapida in un globo immenso, che avvolse brevemente la flotta in una nube di luce cremisi; e infine la dispersione nel vuoto universale.
Improvvisamente le navi rimasero sospese nell’oscurità. L’ultima compagna del sole brillò, si gonfiò e perì, così che restammo avvolti in una nube di freddo idrogeno inerte, che rifletteva la verde luminosità della plattnerite.
Il cielo era punteggiato soltanto dalle stelle più remote, che a loro volta si spegnevano l’una dopo l’altra con il medesimo processo. E con lo scemare delle stelle, l’oscurità divenne sempre più densa.
A un tratto si accese una nuova progenie di stelle: uno stuolo numerosissimo, con decine e decine di astri, abbastanza vicini perché fosse possibile scorgerne la forma discoidale. La loro luce era tanto intensa che avrebbe potuto consentirmi di leggere un giornale, se mi fossi trovato nella condizione per tentare un esperimento simile.
Accidenti, Nebogipfel! Che spettacolo sbalorditivo! L’astronomia sarebbe stata alquanto diversa sotto un cielo come questo, vero?
Queste sono le primissime stelle dell’universo: le uniche luci che esistano nel cosmo nuovo. Ognuna è centomila volte più grande del sole, ma si consuma tanto prodigiosamente che la sua vita non supera i milioni di anni.
Mentre parlavamo, infatti, le stelle si dilatarono, si arrossarono, scoppiarono come giganteschi palloni surriscaldati.
Tutto finì in breve tempo. Il cielo tornò buio, a eccezione della verde luminosità delle crononavi, che si addentravano nel passato con risolutezza inesorabile.
Una nuova luce uniforme permeò lo spazio intorno a me. Mi domandai se fosse emanata da stelle primeve di cui Nebogipfel e i Costruttori, con cui era in comunicazione, non avevano mai neppure sognato l’esistenza.
Tuttavia non tardai a capire che sembrava essere diffusa dalla struttura dello spazio stesso, anche se in alcune zone sparse era più intensa, in corrispondenza di quelli che immaginai essere grumi densi di materia stellare embrionale. Dapprima di un cremisi cupo, il quale mi rammentò un tramonto che irrompesse fra le nubi, la luce diffusa attraversò poi tutto lo spettro, brillando di arancione, di giallo, di azzurro, per tendere infine al violetto.
Stagliandosi sullo sfondo del vuoto abbagliante, le crononavi di rete verde infittirono la formazione, come per confortarsi a vicenda, e protesero tentacoli di plattnerite a tessere una sorta di reticolo che le unì le une alle altre.
Persino in quest’epoca primitiva l’universo ha una struttura, spiegò Nebogipfel. Le galassie nascenti sono come laghi di gas freddi che si addensano in pozzi gravitazionali. Però, man mano che viaggiamo a ritroso verso il limite, tale struttura si contrae, implode.
Dunque, suggerii, è come un’esplosione invertita. Le schegge cosmiche si coagulano al punto dell’esplosione. Alla fine, tutta la materia dell’universo si contrarrà in un unico punto, un centro arbitrario del tutto, e sarà come la nascita di un grande sole nel mezzo dello spazio infinito e vuoto.
No, non è esattamente così. Ciò detto, Nebogipfel mi rammentò la torsione degli assi dello spazio e del tempo, su cui si fondava il principio del viaggio temporale. In questo momento, tale torsione si sta verificando tutt’intorno a noi. La materia e l’energia non si stanno addensando come uno sciame di mosche al centro di una stanza vuota: semmai, lo spazio stesso si piega e si comprime come un pallone sgonfio, oppure come un foglio di carta stretto in un pugno.
Compresi la descrizione, che però mi atterrì, giacché non riuscivo a immaginare come la vita o la coscienza potessero sopravvivere a un processo del genere.
La luce universale s’intensificò, salendo nello spettro con sbalorditiva rapidità, fino a un violetto abbagliante. Sullo sfondo dei grumi e dei vortici che roteavano nell’oceano d’idrogeno come fiamme in una fornace, le crononavi interconnesse erano visibili a stento come scheletri sottili. Infine, la luminosità del cielo fu tale da poter essere percepita soltanto come un’impressione di biancore: fu come fissare il sole.
Un’esplosione silente, che percepii come un cozzo di cembali, fu seguita da una mareggiata di luce travolgente. Fui sommerso da un biancore abbagliante che sembrò pervadere il mio essere. Non vidi più i grumi d’idrogeno, e neppure le crononavi, inclusa la mia.
Nebogipfel… Non riesco a vedere… La luce…
In quel clamore di fulgore, la voce del Morlock si udì esile e calma: Siamo giunti all’Era della Dispersione Ultima. Adesso lo spazio è ardente ovunque come la superficie del sole, colmo di materia caricata elettricamente. L’universo non è più trasparente, come sarà invece nella nostra epoca…
Poiché nessun segnale avrebbe potuto propagarsi in quella luminosità, capii perché le crononavi si fossero interconnesse. L’intensità della luce divenne tale da superare di gran lunga lo spettro della percezione umana, anche se naturalmente nessun essere umano avrebbe potuto sopravvivere un solo istante in quella fornace cosmica.
Mi sembrò di essere sospeso in completa solitudine in tutta quella immensità: non percepivo più la presenza dei Costruttori. Poco a poco, persi la consapevolezza del trascorrere del tempo. Non sapevo se gli eventi a cui stavo assistendo durassero secoli o secondi, né se stessi osservando l’evoluzione delle stelle o degli atomi. Prima di sprofondare in quella zuppa di luce avevo conservato una sensazione residua delle dimensioni spaziali e della mia collocazione in esse: l’alto e il basso, il vicino e il lontano… L’universo aveva conservato una struttura, così da poter essere paragonato a un ambiente immenso, in cui mi trovassi sospeso. Nell’Era della Dispersione Ultima, invece, tutto ciò scomparve. Ero soltanto una pagliuzza di coscienza che galleggiava alla superficie del fiume immane del tempo che scorreva serpeggiando a ritroso verso la fonte: non potevo fare altro che lasciarmi trasportare da quella corrente estrema verso una destinazione ignota.
L’intruglio di radiazioni diventò insopportabilmente caldo. La materia universale, che un giorno avrebbe formato le stelle, i pianeti, e persino il mio corpo abbandonato, non era che una traccia esile di solidità, la quale contaminava il maelstrom ribollente della luce. Infine, mi sembrò di riuscire a vedere i nuclei degli atomi che si disintegravano sibilando sotto la pressione della luce insopportabile. Lo spazio fu colmato da un miscuglio di particelle elementari che si combinarono e si ricombinarono a livello microscopico.
Siamo vicini al confine, sussurrò Nebogipfel, l’inizio del tempo stesso. Eppure devi immaginare che non siamo soli: la nostra storia, questo giovane universo splendente, non è che uno degli infiniti universi che sono emersi dal confine, e che ora stanno convergendo tutti, come uccelli in volo radente, verso il confine medesimo.
La contrazione continuò, la temperatura salì, la densità della materia e dell’energia aumentò. Persino gli ultimi frammenti di radiazioni e di materia furono riassorbiti dalla struttura spezzata dello spazio e del tempo, e le loro energie furono assimilate nella sollecitazione della torsione immane.
E alla fine…
Le ultime particelle sfavillanti si allontanarono gentilmente da me. La luminosità della radiazione diventò tanto intensa da convertirsi in una sorta d’invisibilità.
In seguito percepii soltanto una luce grigio-bianca. Ma questa è soltanto una metafora. Sapevo che non stavo facendo esperienza della luce della fisica, bensì di quella ipotizzata da Platone, la quale sottende tutta la coscienza: la luce sullo sfondo della quale la materia, gli eventi e gli individui sono nulla più che ombre.
Siamo arrivati alla formazione del nucleo, mormorò Nebogipfel. Lo spazio e il tempo sono ormai torti a tal punto da essere indistinguibili. Qui, la fisica non vale più: non esiste struttura, non è possibile indicare un punto, né una distanza, o una posizione. Non esistono misure né osservazioni: tutto è uno. Proprio come la nostra storia si è contratta in un unico punto ardente, così si è effettuata una convergenza della molteplicità: il confine stesso, smarrito nelle possibilità infinite della molteplicità annullata, si sta sciogliendo. Riesci a capire?
Infine, rimase un unico punto, splendente e pulsante, di luce verde come la plattnerite.
La molteplicità contratta fu squassata da uno spasmo violento. Mi sentii torcere, allungare e comprimere, come se il fiume della causalità, che mi trasportava, fosse divenuto tempestoso e ostile.
Nebogipfel…
Sono i Costruttori! rispose il Morlock, esultante. I Costruttori…
La sollecitazione cessò e la luce verde si spense, lasciandomi nuovamente immerso nel grigio-bianco del momento della creazione. Si accese una luce bianca, nuova e pura, che durò soltanto per un istante. L’energia e la materia si condensarono come rugiada in un nuovo spaziotempo che si espandeva.
Ripresi ad avanzare nel tempo, allontanandomi dal confine, scagliato in una storia nuova, che si dispiegava dalla formazione del nucleo. La luce universale rimase molto più intensa di quella del centro del sole.
Le crononavi non mi accompagnavano più: forse le loro forme fisiche non erano riuscite a sopravvivere al viaggio attraverso la formazione del nucleo. La rete di plattnerite che mi aveva avvolto era scomparsa. Tuttavia non ero solo: intorno a me galleggiavano, come fiocchi di neve nel fascio di una lampada, pagliuzze di plattnerite verde-chiara.
Capii che si trattava delle coscienze elementari dei Costruttori, e mi chiesi se Nebogipfel facesse parte di quello sciame disincarnato, nonché se anch’io apparissi agli altri come un punto luminoso danzante nello spazio.
Il mio viaggio attraverso il tempo si era forse invertito? Stavo di nuovo risalendo le correnti della storia verso la mia epoca?
Nebogipfel! Puoi ancora sentirmi?
Sono qui.
Che cosa sta succedendo? Stiamo viaggiando nuovamente nel tempo?
No. La voce disincarnata del Morlock conteneva ancora una nota di esultanza, di trionfo.
Allora che cosa ci sta succedendo?
Non capisci? Siamo passati oltre la formazione del nucleo. Siamo giunti al confine, e…
Sì?
Pensa alla totalità della molteplicità come a una superficie liscia e sferica, in cui le storie sono come le linee della longitudine da un polo all’altro…
E con le crononavi abbiamo raggiunto un polo.
Esatto: il punto in cui convergono tutte le linee della longitudine. E in quel preciso istante di possibilità infinite, i Costruttori hanno acceso i generatori di non linearità…
I Costruttori, e noi con loro, avevano attraversato le storie e percorso sentieri di tempo immaginario tracciati lateralmente sulla superficie del globo della molteplicità, fino a raggiungere la nuova storia in cui ci trovavamo.
Lo stormo dei Costruttori, che dovevano essere milioni, si aprì in maniera simile a un fuoco artificiale, come per riempire il vuoto neonato con la luce e con la coscienza che avevamo portato da un cosmo diverso. E mentre il nuovo universo si espandeva, il bagliore residuo della creazione si spense in un’oscurità immensa.
Fu il risultato finale, la conclusione logica, della mia manipolazione delle proprietà della luce, nonché della distorsione delle strutture spaziotemporali che ne era derivata. Mi resi conto che tutto ciò, persino la contrazione dell’universo e il grande viaggio attraverso le storie, era stato provocato inevitabilmente dai miei esperimenti: dalla mia prima, cara macchina d’ottone e di quarzo…
Il mio primo viaggio temporale aveva condotto alla traslazione della mente da un universo a un altro.
Ma dove siamo? Quale storia è questa? E forse simile alla nostra?
No, rispose Nebogipfel, non è simile alla nostra.
Riusciremo a sopravvivere, qui?
Non so… Non è stata scelta per noi. Rammenta che i Costruttori hanno cercato, fra tutte le possibilità infinite che costituiscono la molteplicità, un universo che sia ottimale per loro.
Sì, ma… Che cosa può significare “ottimale” per un Costruttore?
Evocai vaghe immagini paradisiache di pace, di sicurezza, di bellezza e di luce, pur sapendo che si trattava di fantasie disperatamente antropomorfiche.
Dall’oscurità circostante emerse una luce nuova. Dapprima pensai che fosse il riverbero della sfera di fuoco dell’inizio del tempo, tuttavia non poteva esserlo, perché era troppo tenue, troppo pervasiva: assomigliava piuttosto alla luce delle stelle…
I Costruttori non sono umani, rispose Nebogipfel, però sono gli eredi dell’umanità, e l’audacia dell’impresa che hanno compiuto è sbalorditiva. Nella miriade di tutte le possibilità, hanno cercato quell’unico universo che è infinito ed eterno, dove il confine all’inizio del tempo è stato respinto nel passato infinito. Abbiamo viaggiato oltre la formazione del nucleo, sino al confine stesso del tempo e dello spazio, e dita scimmiesche si sono protese fino alla singolarità che là si trova, e l’hanno allontanata!
Da oltre l’oscurità eruppe la luce delle stelle, che si stavano accendendo ovunque. In breve tempo, l’universo divenne tutto tanto luminoso quanto la superficie del sole.
Un universo infinito!
Attraverso le nubi fumose di Londra, era stato possibile osservare le stelle che punteggiavano la volta di cattedrale del firmamento, e allora tutto era apparso tanto immenso e immutabile da indurre a supporre che il cosmo fosse infinito ed eterno.
Tuttavia, non poteva essere così. E per capirne la ragione, bastava porsi una domanda suggerita dal buon senso: perché il cielo notturno era buio?
Se l’universo era infinito, se le stelle e le galassie si spargevano in un vuoto sconfinato, allora in qualunque direzione del cielo avesse guardato, l’occhio avrebbe dovuto incontrare un raggio luminoso proveniente da un astro, e il firmamento notturno avrebbe dovuto essere, ovunque, tanto luminoso quanto il sole…
I Costruttori avevano sfidato l’oscurità del cielo stesso.
La mia percezione aveva una limpidezza adamantina: il fulgore infinito di una miriade di punti e di macchioline di luce non era attenuata da nessuna atmosfera, da nessuna foschia. Mi sembrò di riconoscere qua e là costellazioni che spiccavano più luminose, ma l’universo era tanto radioso che non mi sarebbe stato possibile individuare due volte la medesima configurazione.
Le altre faville di plattnerite, ossia i Costruttori e Nebogipfel, si allontanarono da me, in alto e in basso, come verdi frammenti di sogno. Rimasi isolato, però senza paura né disagio. La sollecitazione che avevo subito nel momento della non linearità era svanita, lasciandomi privo di qualunque sensazione di collocazione o di durata.
Soltanto dopo un intervallo di tempo incommensurabile mi resi conto di non essere più solo.
Di fronte a me, sullo sfondo della luce stellare, come proiettata da una lanterna magica, apparve un’ombra, che sulle prime mi sembrò nulla più di un’immagine evocata dalla mia disperata immaginazione, ma poi, poco a poco, acquistò una sorta di solidità.
Si trattava di una sfera di carne che, come me, si librava nello spazio. Giudicai che si trovasse a circa tre metri da me, dovunque io fossi, qualunque cosa io fossi. Aveva un diametro di circa un metro e venti, ed era munita di tentacoli penzolanti. Priva di narici, aveva un becco carnoso, con cui emise un balbettio tenue. Le sue grosse palpebre grinzose si sollevarono come sipari a rivelare due occhi, umani, che mi fissarono.
Naturalmente, riconobbi uno di quegli esseri enigmatici che avevo definito Osservatori, e che mi avevano visitato durante i miei viaggi nel tempo.
Nell’avvicinarsi, l’Osservatore protese i tentacoli, rivelando che non si trattava tanto di appendici mobili, quanto di arti dalle numerose articolazioni, simili a mani allungate e deformi, dalle dita munite di unghie o di zoccoli.
Quando l’essere sembrò raccogliermi, pensai, disperato, che non poteva essere vero. Dopotutto, io stesso non ero più reale. Ero soltanto un nucleo di coscienza: non avevo più un corpo che potesse essere raccolto così…
Eppure mi sentii cullato, e stranamente al sicuro.
L’Osservatore mi appariva enorme. Aveva la pelle liscia, coperta di peluria fine. Gli occhi, immensi e azzurri come il cielo, avevano tutta la bella profondità di quelli umani. Riuscii persino a fiutare il suo tenue odore animale, che forse ricordava quello del latte. La sua umanità mi colpì. Potrà sembrare strano, ma là, sospeso in quella immensità informe, ebbi l’impressione che l’Osservatore avesse più somiglianze che differenze con l’essere umano. Poco a poco mi convinsi che, pur essendo modificato da un processo evolutivo incommensurabile, era davvero, in qualche modo, umano, simile a me.
Quando l’Osservatore mi lasciò, mi allontanai fluttuando.
Dopo avere battuto le palpebre con un fruscio, l’Osservatore scrutò tutt’intorno lo spazio abbagliante e privo di forma, come se cercasse qualcosa. Con un sospiro quasi impercettibile, si volse e si allontanò, lasciando penzolare i tentacoli.
Fui subito trafitto e travolto dal panico, giacché non desideravo affatto rimanere solo e smarrito nella perfezione desolata dell’Ottimità. Ma dopo un momento, senza volere, come una foglia d’autunno attirata dal passaggio delle ruote di un carro, seguii l’Osservatore.
Nella direzione in cui stavamo procedendo, le stelle di una delle costellazioni che brillavano sullo sfondo dello spazio infinito e pregno di luce si sparpagliarono come uccelli. Poiché ero in grado di ruotare il mio campo visivo, mi accorsi che invece, alle nostre spalle, le stelle di un’altra costellazione si stavano radunando.
Mi domandai se fosse possibile che mi stessi spostando con una tale rapidità da creare l’illusione che persino le stelle si muovessero, come lampioni visti da un treno.
D’improvviso mi turbinò tutt’intorno una moltitudine di particelle rocciose, scintillante come pulviscolo in un raggio di sole, che subito dopo, in un istante, scomparve in lontananza dietro di me. A parte tale tempesta, nel corso del mio viaggio nella storia dell’Ottimità non vidi né pianeti né meteore, perciò mi chiesi se l’intensità del calore e della radiazione impedisse alle schegge di materia di coagularsi in corpi celesti.
Attraversammo a velocità sempre maggiore le particelle che turbinavano nell’universo abbagliante. Le stelle divennero fulgide ed esplosero in frantumi e globi che mi sfrecciarono intorno per svanire subito dopo.
Salimmo al di sopra del piano di una galassia spiraliforme e variegata, i cui colori brillavano tenui nel biancore universale. Rimpicciolendo, la galassia si ridusse dapprima a un disco roteante, infine a una macchiolina brumosa, persa fra milioni di altre.
Durante quel viaggio sbalorditivo, seguii la forma sferica e fosca dell’Osservatore che fendeva oscillando la marea luminosa, per nulla commosso dai paesaggi stellari che attraversavamo.
Ricordai i miei incontri precedenti con gli Osservatori… Durante i miei primi viaggi nel tempo, avevo avuto una vaga impressione di brontolio. Nel futuro remoto, avevo visto un essere simile a un pallone da calcio, luccicante d’acqua, muoversi a balzi sulla spiaggia, alla luce del sole morente: a differenza di quanto avevo creduto allora, non era stato un abitante di quel mondo condannato, più di quanto lo fossi stato io. In seguito, nella luminosità verde della plattnerite, ne avevo visti altri librarsi intorno alla macchina che sfrecciava nel tempo.
Mi resi conto, finalmente, che gli Osservatori mi avevano seguito, e studiato, durante tutta la mia breve e spettacolare carriera di viaggiatore nel tempo.
Evidentemente erano in grado di spostarsi a piacimento lungo le coordinate del tempo immaginario, attraversando le storie infinite della molteplicità, con la stessa facilità con cui i piroscafi fendevano le correnti oceaniche. Sicuramente avevano perfezionato i rozzi ed esplosivi generatori di non linearità inventati dai Costruttori.
Attraversammo un vuoto immenso: una galleria scavata nello spazio fra le superfici luminose delle galassie e delle nebulose. La radiazione si diffondeva persino là, a milioni di anni luce dalla nebulosa più vicina, e il cielo splendeva ovunque.
Guardando attraverso le pareti scabre della galleria, scoprii che il “mio” vuoto non era che uno dei molti nella distesa immane dei sistemi stellari: era come se l’universo fosse coperto da una sorta di luccicante e ribollente spuma stellare.
Non tardai a notare la strana regolarità della spuma stellare. Per esempio, una parete del mio vuoto era costituita da un piano di galassie, tanto denso da risultare notevolmente più luminoso dello sfondo universale, e tanto definito, tanto liscio, tanto esteso, da indurmi improvvisamente a sospettare che non fosse naturale.
Osservando con maggiore attenzione, individuai un altro piano liscio e definito: una sorta di lancia di luce perfettamente diritta che sembrava attraversare lo spazio da un estremo all’altro. Vidi anche un vuoto di forma nettamente cilindrica.
Dinanzi a me, l’Osservatore si girò, con gli arti tentacolari bagnati dalla luce stellare, a fissarmi con gli occhi enormi.
La conclusione era inevitabile, e tutto era talmente chiaro, che non lo avevo capito subito soltanto a causa delle dimensioni inconcepibili: la storia dell’Ottimità era artificiale, e sicuramente l’Osservatore mi aveva guidato a compiere quel viaggio immenso affinché lo capissi.
Rammentai l’antica tesi secondo cui un universo infinito sarebbe stato incline a subire un disastroso crollo gravitazionale: questa era un’altra delle ragioni per cui il cosmo, da un punto di vista logico, non poteva essere infinito. Infatti, se la Terra e gli altri pianeti si erano formati da altrettanti grumi della turbolenta nube di materia che ruotava intorno al sole giovane, dovevano esistere, nella nuvola di materia stellare che popolava la storia dell’Ottimità, vortici che inghiottivano le stelle e le galassie.
Evidentemente, gli Osservatori erano in grado di controllare l’evoluzione del loro cosmo in maniera tale da evitare catastrofi del genere. Lo spazio e il tempo stessi, come avevo imparato, erano dinamici e suscettibili di modificazione e di adattamento. Allo scopo di avere un cosmo stabile, gli Osservatori intervenivano sulla curvatura, sulla contrazione e sulla torsione dello spaziotempo.
Naturalmente, tale scrupolosa opera di rimodellamento non poteva mai avere fine, se quell’universo doveva rimanere vivo, né poteva mai avere avuto inizio, se l’universo era eterno. Tale riflessione mi turbò soltanto per breve tempo, giacché era un paradosso, un cerchio causale: la vita doveva esistere, per creare le condizioni preliminari necessarie all’esistenza della vita…
Comunque, rinunciai subito a queste confuse speculazioni. Mi resi conto che la mia mentalità era troppo limitata: non tenevo conto dell’infinità. Giacché quell’universo era infinitamente antico, e la vita esisteva in esso da un tempo infinito, non esisteva inizio al ciclo benigno del mantenimento delle condizioni indispensabili al permanere della vita. Quest’ultima esisteva perché l’universo offriva le condizioni adatte, e l’universo offriva le condizioni adatte perché la vita esisteva… E così via, in una regressione infinita, priva d’inizio e priva di paradossi.
Fui immensamente divertito dalla mia confusione. Chiaramente, mi sarebbe occorso parecchio tempo per venire a patti con il significato dell’infinito e dell’eternità!
Come una sorta di pallone carnoso, l’Osservatore si fermò e ruotò nello spazio, poi mi si avvicinò, finché parve che i suoi occhi, foschi e immensi, con le pupille grandi come piattini che riflettevano il bagliore del cielo fulgido, riempissero tutto l’universo con il loro sguardo irresistibile, escludendo tutto il resto.
Poi l’Osservatore sembrò sciogliersi. Non vidi più la distesa di costellazioni lontane, la spuma galattica, e neppure lo splendore del cielo igneo. O piuttosto, rimasi consapevole di tutto ciò come di un singolo aspetto del reale, una mera superficie. Fu come accostarsi a una finestra e mettere a fuoco la vista sul panorama esterno, in maniera tale da non percepire la polvere sul vetro.
Naturalmente, il mio mutamento percettivo fu ben più che uno spostamento di focalizzazione, e non ebbe alcuna causa fisica.
Mi sembrò di osservare la struttura interna della natura.
Con la stessa chiarezza di un medico che esaminasse il costato di un paziente, vidi le strutture molecolari che riempivano tutto lo spazio all’infinito. Vidi gli atomi: punti luminosi simili a stelle microscopiche, scintillanti e sfrigolanti, che ruotavano sui loro assi, connessi gli uni agli altri da quella che mi sembrava una rete di fili di luce. Capii che doveva trattarsi di una rappresentazione grafica delle diverse forze, incluse quella elettrica, quella magnetica e quella gravitazionale. Era come se l’universo contenesse un meccanismo atomico dinamico, in cui le configurazioni delle connessioni e degli atomi mutavano in permanenza.
Il significato di quella visione bizzarra mi fu subito chiaro, perché vi riconobbi la medesima regolarità che avevo già osservato nelle galassie: tutto, ogni atomo, ogni piccolo aggregato gassoso, era pervaso di struttura e di significato.
Nulla era casuale nell’orientamento degli atomi, nella direzione della loro rotazione, nelle loro interconnessioni. Era come se tutto l’universo fosse una sorta di biblioteca in cui era immagazzinata la saggezza collettiva di quell’antica variante della specie umana. Ogni minima particella di materia era stata esaminata, sfruttata, catalogata. Sembrava proprio che lo scopo ultimo dell’intelligenza fosse quello che Nebogipfel aveva previsto.
Comunque, si trattava di molto di più che di una raccolta passiva e polverosa d’informazioni. Tutt’intorno a me percepivo la vitalità: era come se l’immane struttura della materia fosse pervasa di coscienza.
La mente permeava il tessuto stesso dell’universo: mi sembrò di vedere il pensiero e la consapevolezza spazzarlo interamente a ondate. Rimasi sconcertato dalla natura sconfinata di quel processo, a cui non potevano essere paragonati né le opere limitate compiute dalla mia specie sulla crosta di un pianeta insignificante, né la Sfera dei Morlock, né le attività a cui si erano dedicati i Costruttori in una singola galassia fra milioni di altre.
In quell’universo, invece, la mente operava al livello dell’infinito.
Finalmente vidi e compresi il significato e lo scopo della vita infinita ed eterna.
L’universo era infinito nel tempo e nello spazio, e la mente, anch’essa infinita nel tempo, oltre ad avere assunto il controllo di tutta la materia e di tutte le forze, aveva immagazzinato un’infinità d’informazioni.
In quell’universo, la mente era onnisciente, onnipotente e onnipresente. Mediante la loro sfida audace agli inizi del tempo, i Costruttori avevano raggiunto il loro ideale: avevano trasceso il finito e colonizzato l’infinito.
Gli atomi e le forze scomparvero allorché concentrai di nuovo l’attenzione sulle costellazioni e sul cosmo infinitamente luminoso. Scomparso l’Osservatore, ero rimasto solo: una sorta di nucleo di coscienza disincarnata, che ruotava lentamente.
Profonda e infinita, la luce stellare mi circondava. Ero consapevole della pochezza del tutto e di me stesso, nonché dell’irrilevanza delle mie preoccupazioni meschine. Un universo infinito ed eterno non aveva centro, né poteva avere inizio e fine. Ogni evento e ogni punto erano resi identici gli uni agli altri dal contesto illimitato in cui erano collocati. In un universo infinito, ero diventato infinitesimale.
Benché non fossi mai stato molto incline alla poesia, ricordai quel verso in cui Shelley paragonava la vita a una cupola di vetro multicolore bagnata dalla luce bianca dell’eternità… Ebbene, ormai non partecipavo più alla vita: ero stato privato del corpo, persino della lieve illusione della materia, ed ero immerso, forse per sempre, nella bianca luminosità descritta da Shelley.
Per qualche tempo, provai una sensazione peculiare di pace. Quando mi ero reso conto per la prima volta delle conseguenze della macchina temporale sullo svolgimento della storia, mi ero convinto che fosse un’invenzione incomparabilmente malvagia perché provocava arbitrariamente la distruzione o la distorsione delle storie: bastava una minima azione da parte mia sulle leve di comando per impedire la nascita di milioni di anime umane.
Finalmente, invece, avevo capito che la macchina del tempo non aveva affatto distrutto le storie, bensì le aveva create. Nella molteplicità esistevano tutte le storie possibili, l’una adiacente all’altra, in un catalogo infinito di possibilità: ogni storia possibile, con tutto il suo carico di mente, di amore e di speranza esisteva da qualche parte nella molteplicità.
Tuttavia, non fui commosso tanto dalla realtà della molteplicità, quanto da ciò che essa significava per il destino dell’umanità.
Da quando avevo letto Darwin per la prima volta, mi era sempre sembrato che l’umanità fosse in conflitto tra le aspirazioni dell’anima, infinitamente elevate, e la meschinità dell’esistenza fisica, che alla fine l’avrebbe annientata. Avevo interpretato la storia degli Eloi sia come la distruzione finale dei sogni umani a causa del vicolo cieco dell’evoluzione, dell’eredità bestiale in noi; sia come la riduzione del dominio umano del pianeta a un fugace ma glorioso barlume d’intelletto.
Inoltre, tale conflitto, insito nella natura umana, si era riflesso nel mio conflitto interiore. Se davvero, come aveva detto Nebogipfel, avevo provato una sorta di repulsione nei confronti del corpo, allora forse la mia consapevolezza eccessiva di tale conflitto atavico ne era alla radice.
Le mie concezioni avevano sempre oscillato fra una cupa disperazione, nutrita dalla ripugnanza nei confronti dell’involucro bestiale della mente, e un atteggiamento utopico eccessivamente indulgente e alquanto sciocco, vale a dire l’illusione che un giorno l’umanità si sarebbe come destata da un incubo di massa e avrebbe riorganizzato la società in base ai principi della logica, della giustizia e della scienza.
Ebbene, la scoperta, o la creazione, e la colonizzazione della storia ultima, avevano cambiato tutto: lì, l’umanità aveva finalmente prevalso sulle proprie origini e sulla degradazione della selezione naturale; lì, non sarebbe mai regredita all’oblio del mare primevo e senza coscienza da cui era emersa. Il futuro, invece, era diventato infinito: un’ascesa in un’atmosfera di storie infinite.
Sentivo di essere finalmente uscito dalla tenebra della disperazione evolutiva, per immergermi nella luce della saggezza infinita.
Forse chi ha seguito la mia narrazione fino a questo punto non rimarrà sorpreso nello scoprire che il mio stato d’animo di accettazione elegiaca non durò a lungo.
Sforzandomi di osservare e di ascoltare per cogliere la minima alterazione nel guscio luminoso che mi circondava, percepii soltanto la luce intollerabile e il silenzio infinito.
Ero una pagliuzza disincarnata, presumibilmente immortale, all’interno dell’ambiente artificiale più grande che fosse mai stato creato: un universo in cui le forze e le particelle erano del tutto intimamente connesse alla mente. Era magnifico, ma anche terribile, inumano, raggelante, perciò uno sgomento annichilente calò su di me.
Mi trovavo forse in una condizione che non apparteneva all’essere né al non essere? In tal caso, non avevo ancora conseguito la pace dell’eternità. Conservavo ancora un’anima umana, con tutto il desiderio di conoscenza e d’azione che aveva sempre fatto parte di essa. Ero ancora tanto imbevuto della cultura occidentale, che in breve tempo ne ebbi abbastanza di quella contemplazione disincarnata.
Trascorso un periodo di tempo incommensurabile, mi accorsi che la luminosità del cielo non era assoluta. Alla periferia del mio campo visivo, notai una sorta di offuscamento, d’incupimento.
Durante quella che mi sembrò un’ attesa tanto lunga da poter essere paragonata alle ere geologiche, l’offuscamento divenne maggiormente percettibile: era una sorta di cerchio intorno al mio campo visivo, come se, dall’interno di una caverna, stessi guardando fuori. Al centro di quella prospettiva spettrale individuai una nube irregolare che si distingueva dallo sfondo luminoso, costituita di forme vaghe: sbarre e dischi, che, come fantasmi, velavano le stelle. In disparte notai un cilindro verde puro.
Con veemente impazienza, mi domandai che cosa fosse quell’irruzione di ombre nel mezzogiorno eterno dell’Ottimità.
Mentre i confini del mio campo visivo diventavano più nitidi, accentuando l’impressione di guardare fuori dall’ingresso di una grotta, mi domandai se ciò non fosse dovuto all’affiorare di qualche ricordo del paleocene. Quanto alle forme spettrali, mi sembrò di averle già viste: la loro disposizione mi era nota, anche se per qualche tempo non riuscii a riconoscerla, in quel contesto alieno.
Finalmente, riconobbi le sbarre e i dischi che intravedevo sullo sfondo delle galassie e delle costellazioni: si trattava di una gabbia d’ottone e di alcuni cronometri. Era la prima macchina del tempo, che credevo mi fosse stata sottratta per essere smantellata, e fosse poi rimasta distrutta durante l’assalto tedesco a Londra, nel 1938.
Rapidamente, l’immagine si concretizzò: la gabbia d’ottone scintillava; i quadranti dei cronometri, le cui lancette turbinavano, erano spruzzati di polvere; le sbarre di quarzo brillavano della luce verde della plattnerite di cui erano cosparse. Abbassando lo sguardo, vidi due grossi cilindri scuri e due oggetti pallidi e villosi, articolati: erano le mie gambe, infilate nei calzoni tropicali, e le mie mani, posate sulle leve di comando.
Infine compresi che cosa delimitava il mio campo visivo: le mie orbite, il mio naso, le mie guance. Ancora una volta guardavo il mondo esterno dall’interno della più tenebrosa delle grotte: il mio cranio.
Mi sembrò di venire calato all’interno del mio corpo. La mia coscienza si collegò agli arti. Sentii le leve fredde e solide nelle mie mani, nonché un lieve prurito di sudore sulla fronte. Probabilmente fu un’esperienza simile alla ripresa di conoscenza dopo l’oblio indotto dal cloroformio. Ritornai lentamente in me stesso, finché sentii l’ondeggiamento e provai la sensazione di precipitare che caratterizzavano il viaggio temporale.
Del tutto immersa in un’oscurità impenetrabile, la macchina del tempo oscillava sempre più lentamente: stava rallentando. Nel tentativo di guardare attorno, fui ricompensato dalla sensazione della testa sostenuta dal collo: dopo l’esperienza della coscienza disincarnata, fu come ruotare un cannone. Scoprii così che restavano soltanto vaghe tracce della storia dell’Ottimità: qualche grappolo di galassie, qualche scheggia luminosa di materia stellare.
In quell’ultimo istante prima che la mia connessione intangibile venisse troncata definitivamente, rividi il volto rotondo e solenne, dagli immensi occhi pensosi. Poi l’Osservatore scomparve insieme a tutto il suo universo, e io, con un empito di gioia primitiva e selvaggia, tomai ad essere completamente me stesso.
La macchina del tempo si fermò con un sussulto e si rovesciò, scagliandomi a capofitto nell’oscurità più densa.
Uno schianto di tuono mi destò. Una pioggia brutale mi percosse sistematicamente la testa e la camicia tropicale, infradiciandomi in un istante: fu un’ottima accoglienza per il ritorno alla realtà fisica.
Giacevo sull’erba morbida e bagnata di un vialetto, fra cespugli le cui foglie danzavano sferzate dalla pioggia, vicino alla macchina del tempo rovesciata, avvolta in una nuvoletta di gocce che rimbalzavano. Da vicino giungeva il fragore di un corso d’acqua tempestato dal temporale.
Mi alzai per guardare attorno. Non lontano, sullo sfondo del cielo grigio carbone, si stagliava la sagoma di un edificio. Un fioco luccichio verde sotto la macchina rovesciata attirò la mia attenzione: proveniva da un comunissimo flacone graduato da otto once, lungo circa quindici centimetri, che evidentemente si era staccato dalla gabbia, cadendo sull’erba, e che conteneva, ovviamente, plattnerite in polvere.
Nel curvarmi a raccogliere il flacone, sentii chiamare il mio nome da una voce fioca, quasi del tutto soffocata dal rumore della pioggia che cadeva sull’erba.
Sbalordito, mi volsi. A meno di tre metri da me stava un individuo poco più alto di un bambino, con la lunga pelliccia liscia incollata dalla pioggia alla pelle pallida, il quale mi fissava con grandi occhi rosso-grigi.
— Nebogipfel…?
Allora nella mia mente disorientata si chiuse un circuito.
Mi volsi a osservare di nuovo la sagoma dell’edificio, e vidi il balcone con la ringhiera di ferro, la cucina con una finestrina socchiusa, e il laboratorio…
Era la mia casa: la macchina del tempo mi aveva portato sul vialetto posteriore in pendenza fra la casa stessa e il Tamigi. Dopo tutto quello che mi era accaduto, ero tornato a Richmond!
Ancora una volta, com’era già accaduto tanti cicli storici prima, Nebogipfel e io percorremmo Petersham Road fino a casa mia. La pioggia frusciava sui ciottoli. Era quasi completamente buio: l’unica luce proveniva dal flacone di plattnerite, che brillava come una fioca lampadina elettrica, gettando un riflesso torbido sul volto del Morlock.
Con i polpastrelli, sfiorai la trama delicata e familiare della ringhiera. Avevo creduto di non poter rivedere mai più la facciata elegante, le colonne del portico, le finestre buie della mia casa.
— Hai di nuovo entrambi gli occhi — sussurrai a Nebogipfel.
Nell’osservarsi il corpo ricreato, Nebogipfel aprì le mani, facendo scintillare la pelle pallida alla luce della plattnerite: — Non ho più bisogno di protesi, adesso che sono stato ricostruito, come lo sei stato tu.
Mi posai le mani sul petto. Il tessuto della camicia era ruvido a contatto con le palme, e lo sterno era duro. Non soltanto mi sentivo solido, bensì sentivo, soprattutto, di essere ancora me stesso. Con ciò intendo dire che la mia storia personale aveva una continuità: un unico, luminoso sentiero della memoria conduceva a ritroso, attraverso la complessità della molteplicità della storia, sino ai giorni semplici della mia fanciullezza. Però non avrei mai più potuto essere la stessa persona, dopo essere stato scomposto nella storia dell’Ottimità e riassemblato in quel mondo. Mi chiesi quanto restasse in me dell’universo luminoso dell’Ottimità.
— Dimmi, Nebogipfel… Ricordi tutto di quello che è successo dopo che abbiamo superato il confine dell’inizio del tempo, con lo spazio luminoso, e così via?
— Ricordo tutto. — Gli occhi del Morlock erano neri. — Tu no, forse?
— Non ne sono sicuro… Ormai mi sembra tutto una sorta di sogno: soprattutto qui, sotto questa fredda pioggia inglese.
— Ma la storia dell’Ottimità è la realtà — mormorò Nebogipfel. — Questa — con le mani, accennò all’innocente Richmond — e le substorie parziali dell’Ottimità… Tutto questo è sogno.
— Be’, questo è abbastanza reale… — Sollevai il contenitore della plattnerite: era un comunissimo flacone per medicinali, chiuso con un tappo di gomma. È inutile dire che non avevo la più pallida idea di quale fosse la sua provenienza, né di come fosse stato collocato nella macchina del tempo. — È proprio una bella soluzione, vero? È come la chiusura di un cerchio. — Avanzai di un passo verso la porta. — Credo che dovresti nasconderti, adesso, prima che io suoni.
In silenzio, Nebogipfel indietreggiò fino a scomparire nell’ombra del portico.
Suonai il campanello.
All’interno della casa, una porta fu aperta. Un grido attutito: — Arrivo! — fu seguito da un rumore di passi pesanti e impazienti sulle scale. La chiave girò nella serratura, la porta si aprì con un cigolio.
Una candela dalla fiamma vacillante in un candeliere d’ottone fu protesa all’esterno. Un giovane dal viso largo e rotondo mi scrutò con gli occhi gonfi di sonno. Aveva ventitré o ventiquattro anni, e indossava una veste da camera lisa e stazzonata sopra una camicia da notte tutta spiegazzata. I capelli marrone topo erano irti ai lati della testa stranamente larga. — Sì? — chiese, con voce tagliente. — Lo sa che sono passate le tre del mattino?
Benché non mi fossi preparato nessun discorso, cominciai subito a parlare rapidamente. Ancora una volta fui sottoposto allo strano, inquietante shock del riconoscimento. Credo che nessun uomo del mio secolo avrebbe mai potuto abituarsi a incontrare se stesso, per quante volte avesse ripetuto l’esperienza. Inoltre, l’incontro fu particolarmente straziante perché non si trattava soltanto di un me stesso più giovane, bensì di un diretto antenato di Mosè: fu come ritrovare un fratello minore che credevo perduto.
Insospettito, il giovane continuò a scrutarmi: — Che cosa diavolo vuole? Rifiuto sempre di ricevere i venditori ambulanti, persino durante le ore del giorno.
— Lo so — risposi gentilmente.
— Ah, davvero? — Nell’accennare a richiudere la porta, il giovane notò qualcosa nel mio viso, come uno spettro di riconoscimento: lo capii dalla sua espressione. — Credo che le convenga dirmi che cosa vuole.
Goffamente, gli mostrai il flacone di plattnerite che fino a quel momento avevo tenuto nascosto dietro la schiena: — Ho questo per lei.
Osservando la strana luminosità verde, il giovane inarcò le sopracciglia: — Cos’è?
— È… — Come avrei potuto spiegarglielo? — È un campione: per lei.
— Un campione di cosa?
— Lo ignoro — mentii. — Vorrei che lei lo scoprisse.
Sul volto del giovane, una curiosità titubante fu sostituita da una certa ostinazione: — Scoprire cosa?
La banalità delle domande m’irritò: — Accidenti! Non ha proprio nessuno spirito d’iniziativa? Faccia qualche esame…
— Il suo tono mi piace poco — ribatté il giovane, in tono borioso. — Esami di che genere?
— Oh! — Mi passai una mano fra i capelli fradici, pensando che tanta superbia non si addiceva a un giovane come lui. — È un minerale sconosciuto: lo può vedere anche lei!
Il giovane si accigliò, sempre più sospettoso.
Mi curvai a posare il flacone sulla soglia: — Lo lascio qui. Non intendo sprecare il suo tempo: potrà esaminarlo quando lo vorrà. E so che vorrà farlo. — Ciò detto, mi volsi e cominciai a scendere il vialetto, con lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia che echeggiava nella pioggia.
Quando mi girai, vidi che aveva raccolto il flacone. Chiese ad alta voce, con la luce verde che attenuava le ombre create dalla candela sul suo viso: — Ma… Chi è lei? Qual è il suo nome?
D’impulso, risposi: — Plattner.
— Plattner? La conosco, forse?
— Sì, Plattner — ripetei, quasi disperatamente, cercando una menzogna più precisa nei recessi più lontani della mente. — Gottfried Plattner.
Fu come se sentissi pronunciare il nome da un’altra persona, però, nello stesso istante, mi resi conto che era stato inevitabile.
Era fatta: il cerchio era chiuso.
Ignorando il giovane che mi chiamava più volte, ripresi a camminare risolutamente, allontanandomi dal cancello e scendendo la collina.
— È fatta — annunciai a Nebogipfel, che mi aspettava dietro la casa, vicino alla macchina del tempo.
Nel primo bagliore dell’alba che filtrava nel cielo coperto, con le mani intrecciate dietro la schiena e con la pelliccia fradicia incollata alla pelle, Nebogipfel sembrava una sorta di sagoma sfuocata. Gli occhi grandi parevano pozze sanguigne.
— Non hai nulla con cui coprirti — osservai, gentilmente. — E con questa pioggia…
— Non ha importanza.
— Che cosa intendi fare, adesso?
— Che cosa intendi fare tu?
Per tutta risposta, mi curvai a sollevare la macchina del tempo, che si raddrizzò con un cigolio da vecchio letto e sbatté con un tonfo sordo sul vialetto. Accarezzai la gabbia ammaccata: una sbarra d’ottone era piegata; quelle di quarzo erano imbrattate di muschio e di fili d’erba, come il sellino.
— Adesso puoi tornare a casa, nel 1891 — riprese Nebogipfel. — Evidentemente gli Osservatori ci hanno riportati nella tua storia originale: la matrice di tutto. Non devi fare altro che recarti qualche anno nel futuro.
Meditai su tale possibilità. In un certo senso, sarebbe stato bello tornare in quell’epoca confortevole, nel rifugio di ciò che mi apparteneva, delle ricerche, delle amicizie. Sarei stato felice di riavere la compagnia di alcuni vecchi amici: Filby, e gli altri… Eppure…
— Avevo un amico, nel 1891 — dissi, pensando allo Scrittore. — Era giovane, e sotto certi aspetti era un tipo strano, molto energico e molto sensibile, con un modo di vedere le cose… Sembrava in grado di vedere oltre la superficie, oltre il qui e ora che tanto ci ossessiona tutti, per cogliere la sostanza, le tendenze, le correnti più profonde che ci connettono al passato e al futuro. Credo che fosse consapevole del contrasto fra la piccolezza umana e la vastità dei processi evolutivi. E credo che, di conseguenza, sopportasse a stento il mondo in cui si trovava costretto a vivere, la lentezza infinita dell’evoluzione sociale, e persino la sua stessa, fragile natura umana: era come se fosse straniero nella sua epoca. Ebbene — conclusi — è così che mi sentirei anch’io se vi tornassi: fuori del tempo. Infatti, per quanto questo mondo possa apparire solido, io saprei che mille altri universi più o meno diversi sono ad esso adiacenti, e al tempo stesso irraggiungibili. Immagino di essere diventato un mostro… I miei amici dovranno credermi smarrito nel tempo, e piangermi come tale. — Nel parlare, avevo già preso una decisione. — Comunque, ho ancora uno scopo. Non ho portato a termine il compito che avevo assegnato a me stesso prima di partire per il mio secondo viaggio nel tempo. Qui un cerchio si è chiuso, ma nel futuro remoto un altro ne resta aperto, con le estremità penzolanti come ossa fratturate…
— Capisco — rispose Nebogipfel.
Montai sul sellino della macchina del tempo: — E tu, Nebogipfel? Verrai con me? Avresti un compito anche tu, là. E non voglio certo abbandonarti qui.
— Ti ringrazio, ma non ti accompagnerò. E neppure rimarrò qui a lungo.
— Dove andrai?
Il Morlock alzò la testa al cielo che si stava illuminando poco a poco. Il temporale si era trasformato in una pioggerella brumosa che gli bagnò le cornee degli occhi grandi: — Anch’io sono consapevole della chiusura dei cerchi, però rimango curioso su ciò che sta oltre tali cerchi…
— Che cosa intendi dire?
— Se tu, una volta tornato qui, avessi ucciso il tuo giovane te stesso… Be’/non vi sarebbe stata nessuna contraddizione causale: avresti creato, all’interno della molteplicità, una nuova storia, in cui tu saresti morto giovane per mano di uno sconosciuto.
— Ormai ho capito: l’esistenza della molteplicità rende impossibile ogni paradosso all’interno di ogni singola storia.
— Però — proseguì calmo Nebogipfel — gli Osservatori ti hanno condotto qui affinché consegnassi la plattnerite a te stesso, dando così inizio alla serie di eventi che ha condotto all’invenzione della prima macchina del tempo e alla creazione della molteplicità. Esiste dunque una chiusura più grande: quella della molteplicità in se stessa.
Capii che cosa intendeva dire: — Dopotutto, esiste un cerchio chiuso della causalità: un serpente che si morde la coda. La molteplicità non avrebbe potuto esistere, senza l’esistenza della molteplicità!
— Gli Osservatori credono che la risoluzione di questo paradosso finale richieda l’esistenza di altre molteplicità: una molteplicità delle molteplicità! È una necessità logica per risolvere il cerchio causale, proprio come la molteplicità deve esistere per risolvere i paradossi di una storia singola.
— Però… Accidenti, Nebogipfel! La mia mente vacilla al pensiero… Insiemi di universi paralleli… E mai possibile?
— È più che possibile. E gli Osservatori intendono esplorarli. — Nebogipfel abbassò la testa. Nella luce dell’alba, la sua pelle pallida si corrugò intorno agli occhi in un’espressione d’inquietudine. — E mi porteranno con loro. Non riesco a immaginare un’avventura più grande… E tu?
Seduto sul sellino della macchina del tempo, osservai per l’ultima volta, in quell’alba fradicia del diciannovesimo secolo, le sagome delle case piene di gente addormentata lungo Petersham Road, fiutando l’odore dell’erba umida. Si udì una porta sbattere: era un lattaio, o forse un postino, che iniziava la sua giornata. Sapevo che non sarei mai ritornato in quell’epoca: — Dimmi, Nebogipfel… Quando raggiungerai la molteplicità superiore… Che cosa succederà?
— Esistono molti ordini d’infinito — spiegò Nebogipfel, con voce pacata, mentre la pioggerella gli scorreva sul viso. — È come una gerarchia di strutture universali, e di ambizioni. — Pur rimanendo assolutamente aliena nelle sue intonazioni, la sua voce morbida era pervasa di meraviglia. — I Costruttori avrebbero potuto essere padroni di un universo, ma non si sono accontentati: hanno sfidato il finito, hanno raggiunto e superato il confine del tempo, hanno consentito alla mente di colonizzare tutti gli universi della molteplicità. Per gli Osservatori dell’Ottimità, invece, neppure questo è sufficiente. Perciò stanno cercando il modo per andare oltre, raggiungendo altri ordini d’infinito…
— E se ci riusciranno, troveranno la quiete, allora?
— Non c’è quiete, non c’è fine, non c’è limite all’Oltre: non esistono confini che la vita e la mente non possano sfidare e superare.
Spinsi una leva, e tutta la macchina oscillò come un ramo al vento: — Nebogipfel… Io…
Il Morlock sollevò una mano: — Vai.
Inspirai, afferrando saldamente la leva d’avvio con entrambe le mani, quindi la spinsi a fondo, con un tonfo.