Memorandum di Vlad III, Principe di Valacchia
Bucarest, Curtea Dorhneasca, 28 dicembre 1476. Fuori, promette neve; la temperatura si è fatta pungente, e il cielo plumbeo copre il sole. Ma l’aria freme per i lampi. Danza sulla mia pelle.
Aspettiamo.
Viene… Basarab sta arrivando…
Sorridendo, alzo gli occhi dalla pergamena, dall’inchiostro e dal pennino, verso il viso del mio fidato assistente Gregor, nascosto dalle ombre prodotte dalla torcia. Figlio di boier, la nobiltà rumena, i suoi tratti sono i miei: naso e mento aguzzi, da falco, grandi occhi languidi, capelli corvini che gli ricadono sulle spalle. Non c’è nessun dubbio che siamo legati dal sangue: perlomeno dovremmo essere lontani cugini. Lui è, a dir molto, mezzo pollice più alto di me, tanto simili siamo nella statura.
Ma la somiglianza finisce qui, poiché l’intelligenza posseduta dai nostri antenati scorre solo nelle mie vene. Guardatelo: quello sciocco non riesce a resistere alla tentazione di sbirciare di tanto in tanto attraverso le tende la città che si stende sotto di noi, con le sue alte cartine fortificate costruite dietro mio ordine, e quello che c’è — o ciò che vi sarà presto — oltre quelle mura. Lui pensa che io non lo sappia.
Laiota Basarab, con un esercito di quattrocento Turchi, sta arrivando per uccidermi all’interno di queste mura di pietra e rubarmi il trono, che ho di recente riconquistato. E io ho solo la metà dei suoi uomini, dato che i miei valorosi sostenitori sono ritornati ai loro regni del nord.
Il traditore sta arrivando…
Tu sai tutto ciò che si può sapere del tradimento, non è vero, Gregor? Oh sì: tu ricambi il mio sguardo con le più striscianti gentilezze, ma io leggo nel tuo cuore, e odo i tuoi stessi pensieri. Giuri fedeltà a me, al voievod, ma la tua lealtà va agli incostanti boier, i nobili che consegneranno nuovamente il loro paese nelle mani di Basarab, amico dei Turchi, per amore di una pace mercenaria.
L’Oscuro mi ha rivelato tutto questo ieri notte, all’interno del Cerchio. Non ne dubito poiché, ultimamente, ho acquistato altri talenti sconosciuti ai comuni mortali, come la lettura dei pensieri e dei cuori. Mentre Gregor passeggia a disagio davanti alla tenda, vedo ora la sua colpevolezza chiaramente, come le parole scarabocchiate qui di fronte a me.
Io stesso conosco fin troppo bene il tradimento, essendo stato spesso tradito. Tradito da mio padre, quando consegnò mio fratello e me, entrambi in tenera età, in ostaggio al sultano. Tradito dal mio biondo fratello Radu, amante di donne e uomini, e del sultano Mehmed, per conto del quale mi strappò il trono.
(Ma ora tu sei morto, non è vero, mio caro fratello minore? Ucciso, alla fine, da quegli stessi comportamenti effeminati con i quali conquistasti il cuore e l’esercito del sultano Mehmed e, in tal modo, il mio regno. Quei begli occhi del colore del mare, verde e blu, sono chiusi per sempre; quelle tumide labbra rosse, che cercavano i seni delle donne con la stessa foga con cui succhiavano il grembo del sultano, non baceranno più. Possano i tuoi sifilitici amanti turchi seguirti presto!).
Tradito persino dal mio amico più fidato, Stefan del Mare, che aiutai a conquistare il suo regno. (Ora fai di nuovo l’amico, mio Stefan, dato che viene a tuo vantaggio; ma io non dimenticherò né perdonerò le tue manovre, che misero Basarab al mio posto. Accetterò il tuo aiuto adesso che ti sei pentito, ma verrà il tempo della tua ricompensa…).
Ancora tranquillità. Nessun grido dalla torre di guardia: appena il sibilo del fuoco, il grattare del pennino sulla pergamena, il silenzio della neve imminente. E lo stropiccio degli stivali di Gregor contro la pietra, mentre cammina su e giù; sono troppo divertito dalla sua ansia per dargli il permesso di sedersi. Un’ora fa gli ho detto:
«Manda qualcuno alle stalle per i cavalli — uno per ciascuno — e fai preparare le provviste per un giorno».
Ah, lo sguardo di malcelato terrore nei suoi occhi, al pensiero che il piano dei boier possa andare storto! «Dove andiamo, mio signore?», mi ha chiesto.
Se fossi stato del mio solito umore, non lo avrei degnato di altra risposta che uno sguardo arcigno (né Gregor avrebbe osato chiedere, se la sua disperazione non fosse stata tanto grande). In questo caso, il mìo divertimento era tale che risposi:
«A cavalcare».»
E mentre indietreggiava inchinandosi verso la porta, con un’espressione di comico dubbio, aggiunsi ad alta voce, in modo che coloro che facevano la guardia all’entrata udissero:
«Fai entrare due guardie. Non ho intenzione di aspettare da solo».
Esse udirono, ed entrarono senza attendere l’ordine di Gregor: erano due bei robusti Moldavi, uno scuro e l’altro biondo, entrambi alti e armati di spade, lasciatimi come pegno a testimonianza della colpa di Stefan per le passate infedeltà. Feci così in modo che Gregor non potesse, se si fosse armato durante la sua assenza, ritornare e cedere all’ansia di vedermi morto.
In seguito, quando ritornò con le guance e il naso arrossati per il freddo, annunciando che i cavalli sarebbero stati pronti entro un’ora, lo mandai via immediatamente per un’altra commissione:
«Vai a prendere dei vestiti per me e per te, e portali qui nelle mie camere private. Ce ne andremo vestiti da Turchi».
Questo lo mise in grande allarme, che riuscì a malapena a dissimulare. Sapevo forse del complotto dei boier di mandare Basarab e i Turchi a uccidermi? Lo sospettavo?
Nei suoi occhi velati vidi la macchinazione di una mente dedita al tradimento. Non avevo ancora manifestato alcun chiaro segno di sospetto; se avessi scoperto la verità, avrei potuto facilmente ordinare alle mie guardie del corpo di ucciderlo. Era questo uno dei fatali giochi del temibile voievod — stavo posticipando la sua esecuzione per assaporarla in seguito — o era un caso che avessi scelto quel momento per lasciare, travestito, la mia roccaforte, insieme all’uomo che sarebbe stato il mio Giuda?
Se ne andò e, poco dopo, ritornò con dei vestiti: un berretto a punta, una tunica e un mantello di lana, come scudo contro il freddo. Mi aiutò a vestirmi sotto l’occhio attento dei Moldavi, mi scrutò mentre mi avvolgevo il turbante intorno alla testa, e mi guardò di traverso quando chiesi:
«Ölmeye hazirmisin?» («Sei pronto a morire?»), poiché io parlo fluentemente la lingua dei miei nemici quanto la mia, avendo trascorso la mia giovinezza prigioniero del sultano. Conosco i loro costumi, le loro abitudini, e posso passare per uno di loro.
E risi poiché, sebbene lui sia il loro lacchè — chi serve i boier serve i Turchi — non capì nemmeno una delle parole che avevo pronunciato. Anche lui rise, con i denti gialli che lampeggiavano sotto i baffi spioventi, tanto simili ai miei, pensando che il mio divertimento nascesse dalla mia efficace imitazione.
Poi mi avviai verso la parete e sollevai dal suo posto d’onore una grande scimitarra, che luccicava alla luce del fuoco, e con il fodero ricurvo. Me la assicurai alla cintura, poi gli intimai:
«Vestiti».
Così fece, e io osservai con silenziosa ammirazione un corpo piccolo di statura ma muscoloso, ampio di petto e di spalle. Le sue cicatrici erano meno numerose delle mie — non si era cimentato tanto spesso in battaglia quanto me — e gli mancava un incisivo, ma le somiglianze erano abbastanza.
Dopo un po’, arrivò di corsa un ragazzo dicendo che le cavalcature erano pronte. Ma io non volevo affrettarmi. Avevo cominciato quella recita ed ero obbligato a finirla, poiché sarebbe stata il mio ultimo ricordo da mortale. Avevo saputo dall’Oscuro Signore nel Cerchio l’ora dell’arrivo di Basarab, per cui sapevo di essere ancora al sicuro, e inoltre non avevo intenzione di porre fine all’ansia di Gregor. Che aspettasse! Che soffrisse nell’incertezza… cosa che stava facendo in quel momento, camminando su e giù nei suoi vestiti turchi, pregando che io cambiassi idea e rimanessi per essere ucciso.
Se non ci fossero le guardie, ora si arrischierebbe a tentare di uccidermi. So che, quando saremo soli a cavallo, cercherà la prima opportunità; ma per quello, sono pronto.
Non devo morire adesso! Non quando sono così vicino al tocco dell’Oscuro Signore e all’Eternità…
Snagov Monastery, 28 dicembre. Cavalcammo verso nord su due stalloni neri, prima lungo le sponde della Dimbovita, e poi, attraversato il terreno gelato, nella foresta di Vlasia, tra rami nudi e sempreverdi. L’aria, grigia per il fumo e la tempesta imminente, era carica di uno strano odore leggero: di lampi, di ferro brandito, di sangue e di neve.
Galoppai a tutta velocità, con il vento che mi pungeva gli occhi, tenendo Gregor dietro di me: forse era pericoloso, ma l’avevo visto vestirsi, e sapevo che non portava armi tranne la spada alla cintura. Se desiderava uccidermi in quel momento (ed era così), avrebbe dovuto superarmi, farmi cadere dal cavallo, e uccidermi prima che potessi tirare fuori la mia spada.
Forse la singolare intenzione che lesse nei miei occhi lo spaventò; se fu così, fu saggio ad avere paura. Avrebbe potuto voltarsi e affrettarsi verso il sud, ritornare dal suo amato Basarab e avvertirlo della mia fuga verso nord, ma quell’azione mi avrebbe immediatamente messo sull’avviso circa il suo tradimento e avrebbe aumentato la mia possibilità di sopravvivenza.
Così procedemmo veloci sulla terra dura, sulle rocce, e sulle morte foglie scricchiolanti, finché raggiungemmo le rive di un grande lago gelato, dalla superficie di un colore biancastro opaco, sporcato da vortici di scuro materiale galleggiante. Al suo centro c’era la fortezza dell’isola di Snagov, con le cupole a spirale della Cappella dell’Annunciazione che si innalzavano da dietro alte mura sul bordo dell’acqua.
Scesi da cavallo e snudai la spada — con un sorriso per alleviare la crescente trepidazione di Gregor — e condussi la mia cavalcatura sul ghiaccio.
«Non c’è bisogno di portare le tue armi», dissi al mio incerto compagno. «La mia spada è più che sufficiente a proteggerci».
Gli feci quindi cenno di precedermi attraverso il fiume verso il grande cancello di ferro.
Nei suoi occhi lessi ancora una volta un attimo di indecisione: avrebbe dovuto uccidermi in quel momento e ritornare all’esercito di Basarab come un eroe, oppure avrebbe dovuto sperare in un’opportunità all’interno delle mura di Snagov e avventurarsi sul ghiaccio (era mio diritto come sovrano richiedere che qualcun altro provasse la forza del ghiaccio)? Perché avevo snudato la spada? Era soltanto un’altra delle eccentricità del Principe, o avevo intuito l’inganno?
Un lampo di paura attraversò i suoi lineamenti. Io ero, dopotutto, Dracula, il figlio del Demonio, il combattente indomito la cui follia e la cui audacia non conoscevano limiti. Io ero entrato di notte a cavallo nel campo di Mehmed, e avevo ucciso un centinaio di Turchi addormentati con la spada che ora stringevo tra le mani. Se avesse tirato fuori la sua arma e mi avesse sfidato apertamente, sarebbe stato lui a sopravvivere?
Con un debolissimo sospiro scivolò giù dalla sua cavalcatura e condusse l’animale sul lago ghiacciato. Così ci avviammo verso il santuario, con gli zoccoli dei cavalli che risuonavano a vuoto sul ghiaccio, smuovendo piccole volute di nebbia.
Finalmente arrivammo al grande muro di pietra che avevo fatto costruire durante il mio regno, e che aveva trasformato il villaggio monastico dell’isola in una fortezza, più adatta a proteggere il tesoro del regno valacco. Intorno a quel muro c’erano degli alberi, con i rami nudi che si afferravano alle pietre come a chiedere di entrare.
Un grido arrivò da una torre di guardia mentre la sentinella ci avvistava; misi le mani a imbuto intorno alla bocca e gridai una risposta che riecheggiò sulla pietra. Ci muovemmo verso l’alto cancello di legno rafforzato con dei pali, e aspettammo a disagio sul ghiaccio: io mi fermai in modo da restare dietro a Gregor. L’indecisione, la tensione, la colpa, potevano facilmente leggersi dall’inclinazione delle spalle dell’uomo. Restammo senza parlare a guardare i primi fiocchi di neve volteggiare silenziosamente verso il basso, pungendo le mie guance come fredde lacrime.
Finalmente il grande cancello si aprì scricchiolando sui cardini arrugginiti e fummo accolti da due guardie armate, che si inchinarono immediatamente quando si furono accertate che il loro visitatore era realmente il Principe di Valacchia. Ordinai a uno di condurre i cavalli nella stalla e di portare del cibo, e all’altro di accompagnarci, con il pretesto di accendere un fuoco.
Ci inoltrammo tutti e tre insieme sulla strada di ghiaccio e fango oltrepassando l’alta torre di guardia, la bella cappella e il grande monastero, salendo poi verso il palazzo che avevo fatto erigere in giorni migliori. Quel pensiero evocò in me una vampata di rabbia: Gregor non meritava di porre piede in quel luogo costruito con il sangue di leali sudditi, un santuario caro al mio cuore e che non avrei mai più rivisto dopo quella notte.
Ma dominai la rabbia ed entrai con il traditore nelle stanze private del palazzo che, da lungo tempo non utilizzate, erano talmente fredde che i nostri respiri aleggiavano nell’aria come nebbia. Entrai quindi nella mia sala da pranzo privata, che dava su una piccola cella contenente un altare alla Vergine Maria. Il soldato che ci accompagnava, un giovane forte, si mise subito al lavoro per accendere un fuoco.
Con un gesto plateale mi tolsi il mantello, la cintura e la spada, ponendo tutto sul pavimento vicino al caminetto — e al soldato — e feci cenno a Gregor di fare lo stesso. Vidi il rapido e furtivo sguardo che lanciò alla mia arma, poi al soldato, poi di nuovo a me; nei suoi occhi brillava la riluttanza del codardo. Avrebbe potuto tentare di uccidermi, ma a rischio della sua stessa vita.
«Gregor, amico mio». Feci cenno all’uomo ora stanco di sedersi di fronte a me all’antico tavolo da pranzo. Ero cordiale, conciliante. «È giusto che tu sappia la ragione del nostro rapido viaggio. Ho necessità di… fondi, e così sono venuto qui per prenderne un po’ dal mio tesoro. Ci sono pochi di cui posso fidarmi per un simile compito, persino al castello… e così non te ne ho parlato prima. Ritorneremo presto a Bucarest ma, nel frattempo, riposa e mangia».
Vidi nei suoi occhi la luce avida che avevo sperato di evocare. Poteva attendere finché il tesoro fosse nelle nostre mani e, quando fossimo stati soli nella foresta di Vlasia…
Dopo un po’ il fuoco divampò e la stanza cominciò a scaldarsi. Chiesi al soldato di restare con noi e rimanere di guardia. Un monaco dalla barba bianca con meno denti delle mie dita, entrò con un vassoio di cibo: pollo arrosto freddo, un fiasco di vino, pane e formaggio. Ci servì con molta abilità, allungandosi per riempire le nostre coppe con una mano così nodosa a causa dell’età — piena di vene blu prominenti, un vero bassorilievo sotto uno strato sottile come pergamena di pallida pelle giallognola — che rimasi stupito per il fatto che non tremasse.
Cosa ancora più lodevole, non mostrava paura né sottomissione servile davanti al grande Principe, ma solo silenziosa dignità. Lo trovai gradevole, poiché di solito io sono adulato da sciocchi esseri striscianti, ma la sua singolare padronanza di sé poteva essere piena di disprezzo per la mia eresia. Ho trascorso parecchi anni rinchiuso in una casa in Ungheria, dove l’unico modo di conquistare la fiducia di re Mathias — e riguadagnare il mio trono — era stato quello di convertirmi al cattolicesimo. Fu una mossa politica, nient’altro — in Turchia fui costretto a inginocchiarmi su tappeti da preghiera in direzione della Mecca e pregare Allah — ma sfortunata, poiché ha suscitato il disprezzo del mio popolo.
Avrei dovuto, invece, scegliere la morte?
No, non c’è nulla di nobile nella morte, neanche in quella di un martire.
Ma il vecchio monaco sente che ho tradito Dio, e che perciò merito la Sua punizione, proprio come Gregor merita la mia.
Forse il monaco sarebbe sorpreso di sapere che io temo veramente Dio. Lo temo perché so che il Suo cuore è come il mio: oscurato dal potere ed eccitato per la capacità di dettare l’ora e il modo delle morti degli uomini, godendo della loro sofferenza.
No… il Suo cuore è più malvagio del mio e più spietato. Annienta giovani, vecchi, uomini, donne e bambini, senza riguardo per la loro lealtà, la loro intelligenza, le circostanze. Io risparmio gli innocenti e uccido solo coloro che mi tradiscono; io uccido solo per dare, attraverso lo spettacolo dell’esecuzione, una lezione per chi sopravvive.
Dio non ha tali scrupoli. Uccide allo stesso modo il credente e l’infedele, e il grado di sofferenza che infligge non ha relazione con la devozione della vittima. Né si preoccupa della giustizia: ha permesso a un usurpatore dopo l’altro di rubare il regno che mi spettava, e ora che l’ho ottenuto di nuovo dopo anni di ardue battaglie, non mi aiuterà a mantenerlo. Quindi non potrei mai allearmi con Lui, specialmente dal momento che è troppo geloso per concedermi l’immortalità che cerco.
Ho parlato abbastanza di Dio; ora parlerò di Gregor. Lui e io condividemmo la nostra “Ultima Cena” in silenzio e, quando lui ebbe mangiato fino ad essere soddisfatto e si fu allontanato dalla tavola con un sospiro, gli dissi:
«Amico mio, ultimamente il mio cuore e pesante, poiché so che l’appoggio al mio regno è incerto. I boier si sono rivoltati contro di me…» e, quando iniziò una protesta apparentemente innocente, alzai la mano. «Non pensare che non lo sappia! Ora che Stefan ha ritirato le sue forze, la situazione è ancora più precaria».
Questo non poté negarlo. Dopotutto, per risparmiare loro il pericolo, non avevo permesso a mia moglie e ai miei figli di raggiungermi alla Corte di Bucarest. Mi fermai e, in tono di estrema sincerità, chiesi:
«Gregor, pregherai per me? Per la salvezza e il successo del tuo Principe? So che sei un uomo di fede, mentre io sono ritenuto da alcuni un eretico…». A questo punto mi fermai per gettare uno sguardo di traverso al monaco brizzolato, che era pronto a servirci (sebbene stesse vicino al fuoco per scaldare le sue vecchie ossa), ma lo sguardo del frate era rivolto in basso, e la sua espressione indecifrabile. Forse era sordo, pensai, e non aveva udito, o forse era semplicemente un uomo troppo saggio per manifestare il suo disprezzo, sapendo che non lo avrei perdonato. «Supplica Dio e la Vergine per me», gli dissi. Naturalmente Gregor non poteva fare altro. Annuì, e allora mi alzai dalla tavola con solennità e lo condussi nella piccola cella monastica, la cui porta era accostata così che il suo interno fosse interamente visibile dal tavolo da pranzo. Mi feci il segno della Croce (nel giusto modo ortodosso, cosa che, ne sono sicuro, il vecchio monaco notò) e, fermandomi sulla soglia, feci un gesto al mio aiutante affinché entrasse e si inginocchiasse sul piccolo tappeto davanti al solitario altare dedicato alla Madre di Cristo.
Lui si abbassò con un lamento e uno scricchiolio delle ginocchia; al pari di me, non era più giovane. «Prega per noi», dissi teneramente, e feci cenno al giovane soldato accanto al fuoco di raccogliere l’arma di Gregor e di restare al mio fianco. Potevo vedere di profilo il volto del mio Giuda in ginocchio: com’era simile al mio! Avrebbe potuto essere mio fratello: un fratello che mi voleva pugnalare alle spalle! Guardai il suo viso rovinato dal sole, con il naso e il mento affilati ma delicati, e le labbra sottili e tremanti sotto gli scuri baffi spioventi. Assaporai l’incantevole e lento sorgere del terrore nei suoi grandi occhi — neri quanto i miei erano verdi — mentre il soldato sollevava la spada. Poi ritornai al mio posto al tavolo — la scena era interamente visibile dalla mia sedia, secondo quanto mi proponevo (non era la prima volta che usavo la cella, sebbene sospetti sia l’ultima) — e alzai il bicchiere per bere a lunghi sorsi il dolce vino frizzante prima di parlare di nuovo. «Prega, amico mio. Prega perché io abbia una lunga vita… e per la morte di coloro che mi vogliono tradire». Gli sfuggì un singhiozzo straziante, e strinse i palmi delle mani in una vera supplica, voltandosi sulle ginocchia per guardarmi in faccia. Il piccolo tappeto si mosse con lui, facendo delle pieghe.
«Mio signore, giuro che non ti ho ingannato!», disse con voce spezzata.
Lasciai passare un momento, per lui lungo e tormentoso, prima di rispondere con voce bassa, strana.
«Ti ho forse accusato?».
I suoi occhi si allargarono, poi batté le palpebre e strinse le labbra tremanti. In verità, se fosse stato in grado di pensare una risposta convincente e se io mi fossi fidato appena un po’ meno della mia magia, avrei potuto risparmiarlo. Ma ero sicuro della visione che mi era apparsa nel Cerchio, e delle mie divinazioni. Anche se non lo fossi stato, l’espressione di colpevolezza che apparve in quell’istante sul viso di Gregor, mi avrebbe convinto. Un’unica lacrima lucente gli scivolò sulle guance.
«Oh!», esultai. «È una lacrima?»
«Mio signore, ti supplico…».
«Voltati!», gridai, facendo segno al soldato di brandire la spada. La sua codardia crebbe talmente che non riuscii più a controllare la mia rabbia. «Voltati e prega la Vergine! Prega che possa concedere a te misericordia, e a me la vittoria su Basarab!».
Intrecciò nuovamente le mani con fervore e di nuovo guardò l’altare di Maria; sotto le sue ginocchia, il piccolo tappeto si arrotolò ulteriormente rivelando una giuntura nel pavimento di legno. Ma il mio presunto traditore non la notò; la sua attenzione era sinceramente fissa sull’icona della Vergine Maria, e allora cominciò a farfugliare, le nocche premute sul ponte del naso, gli occhi chiusi strettamente.
«Abbiate pietà! Dio e Santa Madre… abbiate pietà! Concedete al mio sovrano una lunga vita e la vittoria, e convincetelo che non l’ho tradito…».
«Sì», bisbigliai. «Forse Dio sarà misericordioso con te… ma Lui non lo è mai stato con me, e quindi io non farò patti con Lui».
«Mio signore», gridò, ancora rivolto all’altare, con gli occhi chiusi, tanto che fui incerto se si rivolgesse a Dio o a me. «Mio signore, io sono innocente di qualsiasi crimine verso di te! Cosa posso dire, cosa posso fare, per provarti la mia lealtà?»
«Muori con coraggio!», replicai. «La tua vita è già perduta, Gregor. Rassegnati, e presto. Io non morirò fuori Bucarest come fece mio padre, colpito da un assassino».
Alzò il viso verso il Cielo, poi aprì le mani in preghiera come si potrebbe aprire un libro, e se le premette sugli occhi, piangendo. Studiai la sua reazione alla rivelazione che ogni speranza era perduta: notai la sua spasmodica agonia e l’estrema disperazione riflessa in ogni aspetto del suo corpo e della sua voce (poiché i suoi singhiozzi diventavano sempre più alti e acuti).
Sono stato per tutta la vita uno studioso della morte, che ho fissato in volto nella speranza di poterla capire ed essere in grado di accettare la mia fine. Quanti uomini ho ucciso nella mia vita? Un migliaio? No, devono essere stati di più, molti di più. Io conosco il volto della morte: ho visto più di un centinaio di Turchi affrontare una lenta morte nella Foresta dell’Impalato, e ho udito i singhiozzi, le grida, e il lento rumore sibilante provocato da un corpo trascinato giù lungo un palo dal suo peso.
E in ogni istante ho guardato i loro occhi e ho cercato di capire il segreto lì nascosto mentre passavano dalla vita nell’Abisso.
Ma, mentre contemplavo la Morte — e arrivavo a comprendere che Dio non era giusto e che non vi era alcun senso in essa, ma solo indecenza e sofferenza — mi resi conto che non sarei mai riuscito ad accettarla. Ero stato troppo defraudato di ciò che era mio per diritto in questa vita; avevo governato il regno di mio padre e di mio nonno solo per una manciata di anni, prima di essere ingiustamente spodestato.
Io sono re per diritto di nascita, ma ho trascorso la mia intera giovinezza prigioniero dei Turchi, e otto anni della mia età adulta prigioniero del re d’Ungheria. Il mio regno mi è stato rubato due volte, e una volta dal mio stesso fratello. Se ci rinuncio per la terza volta, avrò una ricompensa: io sono più astuto, più intelligente, e più meritevole dell’adorazione del mio popolo, di quanto non siamo Mathias, Mehmed, Radu o Basarab.
La morte di sicuro mi è più vicina che in qualsiasi altro momento. Ma Dio e gli angeli non mi concederebbero mai ciò che desidero: l’immortalità. C’è soltanto Uno che ne è capace.
Mentre Gregor piangeva e pregava invano, il soldato sulla soglia rivolse la sua giovane faccia speranzosa (con la fine e rada barba di ragazzo sulle tenere guance e il mento roseo) verso di me, e fece un cenno con la spada, con una domanda negli occhi. Avrebbe eseguito una bella uccisione quello lì, poiché i suoi occhi brillavano di impazienza e bramosia tanto quanto i miei.
Feci un unico cenno con la testa: non era ancora il momento. Invece mi alzai e camminai per portarmi accanto a quell’allegro e giovane assassino, assicurandomi che i miei stivali colpissero con forza il pavimento.
Come avevo previsto, Gregor udì. La sua schiena si irrigidì; sapevo che si attendeva la morte da dietro, nella forma della spada stretta nella mano del giovane soldato. E, sebbene non osasse voltare completamente la testa per guardarmi direttamente — era stato molte volte testimone della mia sensibilità alla più piccola manifestazione di arroganza in quelle situazioni e temeva di provocare uno scoppio d’ira — la inclinò leggermente verso la spalla e ruotò gli occhi nello sforzo di guardare dietro di sé.
Erano occhi atterriti, con più bianco in essi di quanto ne avessi mai visto. Mi ricordarono fortemente gli occhi sporgenti, folli, del bestiame al macello.
«Mio signore, mio signore, tu uccidi un innocente!».
«Davvero?», chiesi con la voce nuovamente calma. «Gregor…». E qui finsi la massima sincerità. «Io sono un uomo duro e non posso tollerare una qualsiasi doppiezza. Sono crudele con coloro che mi tradiscono, ma giusto con chi è leale. Puoi giurare davanti a Dio che hai agito soltanto con totale fedeltà verso di me, tuo sovrano?»
«Lo giuro davanti a Dio, mio signore!».
Mi fermai per guardare la sua espressione e il suo selvaggio oscillare tra la speranza e la condanna. Dopo un po’, dissi:
«Benissimo, amico mio. Questi sono tempi difficili per me; non ho altra scelta che mettere alla prova coloro che mi sono più vicini. Ti credo».
Oh, che gioia sul suo volto! E ancora lacrime, ma tinte di felice sollievo invece che di paura.
«Ma…», dissi, poiché aveva cominciato ad alzarsi in piedi faticosamente. A quella parola, cadde di nuovo a terra. «Ci sei appena riuscito. Prega ora per la mia vittoria su tutti i miei nemici… e ringrazia Dio per la tua liberazione».
Cominciò a fare così, e il suo sorriso di esultanza si allargò quando io feci un cenno al soldato — ora amaramente deluso — di ritornare presso il camino, per rimanere accanto al vecchio monaco cupo e silenzioso. Io invece rimasi sulla soglia.
Quando ritenni che il momento fosse quello giusto — e non riuscii più a trattenere la mia furia di fronte al tradimento di Gregor e alla sua vigliaccheria — afferrai una leva di legno posta all’esterno del muro proprio fuori della cella. Con uno sforzo veemente, tirai.
Si udì il rumore dello scorrere del legno contro il legno. Le sue braccia si distesero nell’aria, vi fu un pietoso grido di delusione e di paura, e sul suo viso apparve nuovamente un terrore animale, una visione rapida ma indelebile durante il veloce istante prima che scomparisse giù nell’inferno.
Poi udii delle grida di dolore più acute, mentre correvo verso la botola aperta per osservare il mio operato.
Così si sente Dio quando guarda i volti dei morti: un senso di potere e soddisfazione molto, molto più dolce e inebriante dell’amore.
Gregor era caduto in ginocchio nella fossa poco profonda, e così, inginocchiato, sarebbe morto. Gli acuminati pali di ferro erano infatti fissati al terreno a intervalli, per assicurare la morte, e la fossa era messa in modo che lui non poteva cadere in avanti, ma solo all’indietro — nonostante si dibattesse — sugli spunzoni (tutto questo in modo che potessi vedere meglio il suo volto).
Un palo aveva afferrato i suoi lunghi capelli neri e graffiato la parte posteriore del cranio, lasciando la testa leggermente piegata in avanti; un altro fuoriusciva insanguinato dalla parte destra del petto. Altri emergevano dal gomito del braccio destro, dal centro del palmo sinistro (al modo di Cristo), mentre altri, nascosti alla vista, trafiggevano la parte inferiore delle gambe e lo tenevano fermo.
I suoi occhi erano spalancati, per uno stupore inespresso che lentamente stava venendo meno. Penso che non fosse già morto, e così mi accucciai e gli dissi piano:
«Possa Dio mandare la tua anima senza fede dritta all’Inferno. Tu morirai, e anche Basarab morirà, ma io vivrò per sempre».
Mi chinai quindi in avanti, volgendomi in modo che i due uomini dietro di me non potessero vedere, poi sollevai la mano destra senza vita di Gregor, e su quella misi il mio anello.
Poi mi alzai, mandai il giovane soldato fuori della stanza a fare la guardia, e presi da parte il vecchio monaco. A lui affidai una missione: doveva radunare quanti giovani e forti Fratelli erano necessari a portare il corpo dall’altra parte del lago, nella foresta di Vlasia, e lì decapitarlo. Per quanto riguardava la testa, avrebbero dovuto fare un buco nel ghiaccio, e gettarla nelle acque ghiacciate.
Anche nel vecchio c’era la paura, dopo quello che aveva visto; ascoltò in silenzio e non protestò, anche se gli stavo chiedendo di fare qualcosa d’impensabile per lui: lasciare un cadavere senza sepoltura agli uccelli che si nutrono di carogne, nella foresta.
Quando lo ebbi mandato via a eseguire il suo lavoro, feci venire il mio impaziente e giovane assassino nelle mie stanze e gli dissi:
«Il vecchio monaco tornerà con alcuni Fratelli per prendere il corpo e seppellirlo fuori di Snagov. Quando ritorneranno dopo aver attraversato lo specchio d’acqua, voglio che tu li aspetti nella torre di guardia; non permettere che entrino, ma va’ loro incontro al cancello e uccidili».
A ciò accondiscese con bramosia. Poi gli chiesi di mandare un altro soldato fidato che rimanesse fuori dalla porta a fare la guardia alle mie stanze nel corso della notte, in modo che nessuno vi avesse accesso.
Ma, prima, lo aiutai a spostare il corpo caldo di Gregor, ancora sanguinante (respirava ancora? Non riuscivo a deciderlo) dal suo letto di pali, e ad avvolgerlo nel mantello di quel traditore e nel tappeto ora a brandelli, per evitare che il pavimento si macchiasse. Poi il soldato trascinò Gregor fuori, nell’ingresso, per i piedi, e lì rimase ad aspettare i fratelli.
In quanto a me, chiusi la porta col chiavistello dietro di loro, poiché avevo bisogno di solitudine per poter tracciare nel modo giusto un Cerchio. Adesso che ero sfuggito a Basarab e al mio Giuda, era ora di sfuggire alla Morte. Mi era chiaro, infatti, che il mio successo come Principe terreno non si sarebbe realizzato e che, se restavo com’ero, la mia morte era certa. Così cercai un altro regno, uno che non conosceva la morte, ma che mi concedeva ancora potere sui mortali.
Quindi mi voltai, pensando di ritornare al piccolo altare dove molti avevano incontrato la morte, per andare a prendere in un’altra botola nascosta i miei strumenti magici, in modo da poter tracciare un Cerchio e invocare l’Oscuro Signore per il perfezionamento del nostro accordo.
Ma, mentre mi voltavo, vidi davanti al caminetto un piccolo servo coperto di stracci, che smuoveva il fuoco con un attizzatoio. Quella vista mi spaventò a tal punto che gridai:
«Tu! Ragazzo! Come e quando sei entrato qui dentro?».
Volevo sapere se quel bambino aveva avuto la possibilità di sentire il mio piano di abbandonare il corpo decapitato di Gregor nella foresta, e poi fare uccidere i monaci. A giudicare dalla statura, il bambino sicuramente non doveva avere più di sei anni e, con molta probabilità, doveva aver capito ben poco di quello che aveva sentito, ma i bambini sono dei pappagalli, e io non volevo rischiare nemmeno la più piccola possibilità di fallimento.
Al mio grido, la minuscola creatura non tremò, ma continuò ad occuparsi del fuoco con calma soprannaturale. Infuriato, mi portai dietro di lui, quindi presi la mia spada e la trassi dal fodero, pensando di tagliare in due il suo piccolo corpo.
Ma, un istante prima che lo colpissi, il bambino si voltò verso di me e sorrise.
Un ragazzo? Una ragazza? Non avrei saputo dirlo. Seppi soltanto in quell’istante che stavo guardando la creatura più bella che avessi mai visto. I suoi lunghi capelli a boccoli rilucevano come l’oro alla luce del sole, la sua pelle splendeva come lucida madreperla, e le sue labbra erano fresche come una rosa di un tenerissimo colore tenue intorno alle perle perfette dei denti. Il mantello di lana attorno alle sue fragili spalle era stracciato, quasi a brandelli, sfilacciato, logoro, e talmente sporco, che era impossibile indovinare il colore originale del tessuto. La sporcizia non offuscava la bellezza di chi lo portava, ma serviva a esaltarla per contrasto.
Di sicuro non c’era nulla al mondo più grazioso o più delicato di quella piccola creatura. Ma solo quando guardai nei suoi occhi — occhi più azzurri del mare, o del cielo, o dello zaffiro, circondati da fini ciglia dorate e sopracciglia chiare e arcuate — vi scorsi l’infinita intelligenza, la saggezza e la sapienza, più grandi di quelle che qualunque uomo possa mai possedere… e, nello stesso tempo, un’innocenza più profonda e genuina di quella che qualsiasi bambino umano possa avere.
Pensai: Questi sono gli occhi del Cristo.
L’arma mi cadde rumorosamente a terra. Nonostante non lo volessi, rabbrividii, e solo per pura forza di volontà non caddi in ginocchio; l’orgoglio non mi avrebbe permesso tanto presto di imitare Gregor. Ma — com’è difficile essere onesti — sprofondai nel timore e nella paura.
Sapevo, infatti, che stavo guardando l’Oscuro Signore, venuto a me per la prima volta senza che lo chiamassi con il Cerchio. Lui era sempre venuto in seguito alle mie chiamate; ero stato io quello che controllava il mio destino, il mio contratto con lui. Il Cerchio mi dava potere sopra di lui, mi rendeva il suo signore, e lo rendeva soggetto al mio comando… finché ero disposto a fare i sacrifici giusti.
Ora sembrava che non riuscissi più a controllarlo. Questo pensiero mi causò un grande orrore.
«Tu sei l’Oscuro», gli dissi, sebbene in verità non avessi mai visto nulla di più splendente e chiaro di quel bambino sorridente.
Era venuto da me molte volte nella tenebra più profonda, come un’ombra umana senza forma, più scura della mezzanotte; due volte era venuto da me come un uomo barbuto, più anziano e rugoso del vecchio monaco, con occhi innocenti e saggi come quelli.
Innocente come una colomba, ma accorto come un serpente…
«Lo sono», disse il bel bambino con modi piacevoli. «Ho letto nella tua mente la tua intenzione, e ti ho risparmiato la necessità di una chiamata formale. Cosa offri in cambio del mio dono, Principe?».
Parlò con voce bassa, nel modo bleso di un bambino, ma le sue parole e l’atteggiamento erano quelli di un vecchio saggio.
«Se hai letto le mie intenzioni, allora lo sai già».
Rise, in un modo dolce e acuto.
«Concludiamo il contratto con le tue parole».
Rimasi in silenzio. Non avevo mai avuto un grande riguardo per nessuno della mia famiglia, a causa del tradimento per mano del mio stesso padre e del mio stesso fratello. E non portavo amore alla mia seconda moglie, la nobile ungherese Ilona: lei era stata, come la mia conversione al cattolicesimo o l’attacco a Srebrenica, parte di un piano a lungo termine per conquistare il favore di re Mathias, e quindi la mia libertà e il mio regno.
Mi aveva dato due figli: il mio omonimo Vlad, per il momento erede al trono valacco (sebbene, sfortunatamente non anche della mia intelligenza), e Mircea, che già da giovane assomigliava al mio fratello traditore, Radu, sia nell’aspetto che negli atteggiamenti effeminati.
Ma di tutta la mia famiglia, nutrivo — e nutro ancora — qualche interesse paterno per il mio figlio maggiore, Mihnea, datomi dalla mia amata e defunta Ana. Soltanto lui condivide la mia astuzia e ambizione; se dovessi scegliere una persona sulla terra da risparmiare e non sacrificare, sarebbe lui.
Io ero un bambino affettuoso e ambizioso, ansioso di imparare da mio padre e adempiere ai miei doveri come suo erede, ma lui mi tradì senza esitare, consegnandomi ai Turchi.
Fu così che risposi:
«In cambio dell’immortalità, ti offro l’anima del mio figlio primogenito».
«Non è sufficiente», mi rispose severamente l’Oscuro con mio stupore. «Non è sufficiente, poiché l’immortalità dura per sempre, mentre il mio piacere nel ricevere l’anima di Mihnea è solo temporaneo. Noi dobbiamo stipulare un contratto duraturo. L’anima del primogenito di ogni generazione, e tua sarà la responsabilità di consegnarmela».
Non esitai che un solo istante al pensiero del costo di una tale responsabilità.
«Benissimo! Ad ogni generazione, consegnerò in tuo potere il primogenito della mia famiglia, ma quale sarà il momento in cui diventerò immortale?»
«Il Cambiamento inizierà questa stessa notte, quando il sole sarà tramontato, e sarà portato a termine prima dell’alba. Un avvertimento: al mattino ti devi chiudere in qualche luogo solitario per riposare indisturbato. Non sarai più un uomo, ma una creatura del tutto diversa».
«Come cambierò?».
Il bambino sorrise, ma non c’era disprezzo né condiscendenza nei suoi occhi.
«Questo dipende dal tuo cuore e dalla tua mente. Infatti ognuno è diverso. Diventerai più potente, ma ci saranno delle limitazioni al tuo potere. Ci sono sempre delle limitazioni. Lascio a te di scoprirle».
«Limitazioni?». Assaporai quella nuova informazione e feci l’esperienza di un’improvvisa rivelazione che mi restituì un po’ della mia fiducia precedente di poter essere in grado di controllare quell’entità e così il mio destino finale. «E tu non hai limitazioni al tuo potere?», gli chiesi.
Un’altra risata dolce e tintinnante, poi il silenzio. Il bambino mi guardò con improvvisa solennità.
«Ci rimane soltanto una cosa da fare per completare il nostro patto», disse.
Mentre parlava, mi venne la pelle d’oca sulle braccia e sulla nuca. Quello era il momento che avevo atteso da tanto tempo, il momento che mi aveva sostenuto durante quegli ultimi, amari giorni, nel sapere che il mio regno terreno e la mia vita sarebbero ben presto finiti: il momento in cui avrei oltrepassato la soglia dell’immortalità.
«Un bacio», disse l’Oscuro. «Soltanto un bacio».
Si allontanò dal caminetto e si alzò in punta di piedi, con le braccia lungo i fianchi, e i petali rosa delle labbra atteggiati al bacio.
Mi mossi verso di lui, comprendendo finalmente, mentre mi chinavo, perché mi fosse apparso nelle sembianze di un bambino: così avrei dovuto inchinarmi davanti a lui per accettare il suo dono. Quel pensiero mi bruciò fin nel profondo, poiché non mi sono mai inchinato a nessuno tranne che a mio padre e a Mathias ma, anche allora, soltanto con riluttanza. Mi riempì anche di cattivi presentimenti, poiché sottolineava il fatto che non potevo controllare l’Oscuro Signore e convocarlo quando lo desideravo; ora, ero io sotto il suo controllo.
Ma non riuscivo ad accettare l’idea della morte, e così mi chinai e lo baciai; in quel momento, quando le mie labbra toccarono quella carne tenera e immortale, sentii un’ondata di potenza, di ebbrezza, uscire da lui ed entrare in me.
Lo fissai negli occhi e li vidi diventare profondi, passando dall’azzurro cielo all’indaco, il colore della notte. Erano scuri, splendidi e magnifici, occhi che facevano sì che un uomo non volesse fare altro che fissarli per l’eternità. Non riuscivo a resistere.
Mentre guardavo profondamente quegli occhi, vidi in essi lo sguardo della mia amata, lo sguardo dei miei morti. Lo sguardo dell’unica femmina a cui avevo permesso di amarmi, la mia defunta Ana; lo sguardo seducente, bello, traditore, di Radu; lo sguardo astuto, calcolatore, di mio padre Vlad e, dietro di esso, una oscurità infinita…
Caddi così profondamente in quell’oscurità che, quando ritornai in me pochi istanti più tardi — o furono ore? — aprii gli occhi e mi trovai in ginocchio davanti al camino. Il bambino era svanito, e il fuoco si era spento, lasciando solo cenere e braci ardenti.
Ma non sentivo freddo; le mie membra, la mia testa, il mio petto, formicolavano per una strana sensazione. Non il formicolio delle membra intorpidite ma, piuttosto, una strana sensazione di movimento interno, come se il mio corpo fosse stato svuotato del suo contenuto e poi riempito di api ronzanti. Mi sentii stranamente leggero e, quando mi alzai in piedi, lo feci con estrema facilità, senza i dolori dell’età e le ossa scricchiolanti che mi avevano afflitto negli anni passati.
Anche la mia vista era migliorata; il chiarore dei carboni nel caminetto sembrava incredibilmente lucente e come sfiorato dai colori dell’arcobaleno. In. effetti, mentre mi guardavo intorno nella stanza, vidi ogni oggetto più nitidamente e con maggiori dettagli di quanto avessi fatto in gioventù. Ognuno di essi era pervaso da una stupefacente profondità di colore e di struttura.
Mi voltai lentamente, guardando ogni cosa con il senso di meraviglia di un bambino e ridendo forte di puro piacere. Potevo vedere ogni luccicante granello della sabbia che formava le pietre nel caminetto, e ogni crepa, sottile come un capello nel mortaio.
Ma la luce delle candele (che ancora bruciavano, sebbene fossero mezze consumate e dritte nella cera fusa) mi accecò gli occhi tanto dolorosamente che le spensi tutte tranne una. Quella fioca luce si dimostrò più che sufficiente, poiché il colore e i dettagli non sbiadirono affatto, sebbene un rapido sguardo alla finestra mi mostrasse l’oscurità e la neve vorticante. Il sole era tramontato e, alla fine, arrivò la tempesta.
Corsi allo specchio, ansioso di esaminare il mio volto in cerca di cambiamenti… ma, ahimè!, quando fissai la lucida superficie di metallo, il mio viso era pallido e indistinto, e andava sbiadendo così come si potrebbe immaginare un fantasma che si dissolva nella notte. Avevo temuto che una cosa del genere potesse accadere, poiché avevo udito dei racconti dalla mia governante e da altri servi sul fatto che i volti dei morti non si riflettono negli specchi. Era forse la non visibilità il costo segreto del mio Patto?
Vi fu un discreto bussare alla porta: gridai, e udii in risposta la voce educata del mio giovane assassino. I monaci erano ritornati dalla foresta ed erano stati uccisi secondo le mie istruzioni.
Come prova per vedere se restavo visibile ai mortali, aprii la porta e guardai il soldato dalla barba rada.
«Eccellente», dissi, aspettandomi che gridasse nell’udire la mia voce senza corpo, o che invece mi oltrepassasse e guardasse al di là di me, cercandomi all’interno della stanza.
Mi aspettavo perlomeno di vedere quello che vedevo io: un uomo che stava scomparendo, ma lui mi guardò dritto in faccia e s’inchinò, senza manifestare alcun segno di turbamento o stupore.
«Benissimo, mio signore», disse, e allora gli ordinai di preparare il cavallo e di portarlo al palazzo, poiché entro breve tempo avrei lasciato il monastero.
«Ma è arrivata la neve, mio signore. Viaggiare non è sicuro».
Risi con disprezzo, poi ripetei la mia richiesta e gli diedi il permesso di andarsene. Non avevo più alcuna paura del freddo, della neve o di Basarab. Non temevo che una cosa: l’Oscuro Signore.
Ora il cavallo è pronto ma, prima, ho dovuto scrivere la storia della mia trasformazione poiché, sicuramente, nel corso dei secoli venturi ne dimenticherò le circostanze e la meraviglia.
Un giorno — ben presto — arriverà l’annuncio che il Principe valacco è morto, poiché è solo questione di tempo prima che il corpo decapitato di Gregor sia scoperto nella foresta. Non ho dubbi che Basarab abbia distrutto il mio esercito e il mio castello a Bucarest, ma io ho ottenuto la mia vittoria. Tra una generazione lui sarà morto, mentre io vivrò per sempre. Ho mandato un corriere con un messaggio per Ilona e i miei figli affinché mi raggiungano nella nostra nuova proprietà nei Carpazi.
E ora andrò a nord, per diventare una leggenda.