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Le parole di sfida di Laurance risuonavano nella mente di Bernard mentre questi saliva sull’astronave e si dirigeva verso la cabina passeggeri in attesa del decollo. Non accadeva spesso di sentire esprimere apertamente un giudizio contrario all’Arconato, e meno che mai da persone come Laurance. Bernard si rese conto con una certa meraviglia che la piccola discussione gli aveva scosso i nervi più di quanto fosse logico. Siamo condizionati ad amare e rispettare l’Arconato pensò. E ci rendiamo conto di quanto sia profondo questo condizionamento solo quando qualcuno ha il coraggio di metterlo in discussione.

Non aveva mai pensato che fosse possibile criticare l’Arconato o anche un singolo Arconte. L’Arconato rappresentava il progresso, lo sviluppo, l’Uomo pacificato. Gli Arconti avevano governato la Terra fin dai tempi remoti della prima età spaziale. Il Primo Arconato era sorto dall’incubo dell’anarchia del ventiduesimo secolo. Temendo per la sorte dell’umanità, tredici uomini di polso e di buona volontà avevano preso le redini del comando e ristabilito l’ordine. Prima dell’Arconato, l’umanità era divisa in nazioni in perenne conflitto l’una contro l’altra: e le stelle aspettavano invano. Ma l’invenzione di Merriman, il transmat, aveva imposto l’istituzione del Primo Arconato, con Merriman stesso come primo Tecnarca. Questo era avvenuto cinque secoli prima. Da allora l’umanità aveva accettato (subìto?) il governo oligarchico, e gli Arconti avevano avviato l’Uomo alla conquista delle stelle.

Poi, addestrando e scegliendo i diversi successori, l’Arconato si era retto ben saldo, come ente perpetuo dotato dell’autorità suprema, ormai quasi sacra per i Terrestri di tutti i pianeti. Martin Bernard, però, aveva studiato la storia medioevale. E gli schemi del passato dimostravano che nessun tipo di potere istituzionalizzato si era dimostrato valido all’infinito. A suo tempo ogni governo aveva commesso il suo errore fatale, e da quel momento aveva dovuto cedere il posto a nuove forme legislative.

Possibile che il ciclo dell’Arconato sia compiuto definitivamente? si chiese Bernard, mentre aspettava il decollo. Un mese prima un pensiero del genere non l’avrebbe nemmeno sfiorato. Ma forse McKenzie, uno dei migliori Tecnarca da Merriman in poi, si era spinto troppo in là; forse aveva commesso l’errore, costringendo l’Uomo a forzare i limiti della propria espansione, che i Greci definivano «hybris». La corsa folle di McKenzie al possesso dello spazio interstellare minacciava ora di coinvolgere la Terra in un conflitto; un conflitto che avrebbe vanificato la pace di cinque secoli; che avrebbe sprofondato l’Arconato nel limbo, insieme a tutti i potenti decaduti in ottomila anni di storia dell’umanità.

Nakamura entrò nella cabina. «Il Comandante Laurance avverte d’essere pronto per il decollo. Siete tutti a posto nelle cuccette anti-accelerazione?»

Bernard controllò le cinghie della sua brandina: erano ben legate.

Il segnale giunse poco dopo. Carrelli e stabilizzatori rinfoderati, la VUL-XV si preparava a partire, mentre a dieci miglia di distanza strani esseri si affannavano a costruire la loro colonia. Un’esplosione di ioni lanciò la nave verso l’alto, e il verde pianeta divenne un puntolino contro lo sfondo fiammeggiante del suo sole senza nome. Dentro l’astronave, Bernard giaceva supino, il corpo involontariamente teso contro la spinta tre-g, mentre la VUL-XV balzava sempre più lontano dal pianeta sottostante.

Il tempo trascorreva e Bernard si sforzava di non pensare a niente. Pensare voleva dire passare in rassegna l’elenco delle umiliazioni subite. Finalmente l’accelerazione cessò. La velocità divenne costante. Poteva rilassarsi.

Peterszoon entrò nella cabina per informarli che la conversione per entrare nell’iperspazio era imminente. Il grosso olandese, taciturno come sempre, si limitò a dare l’informazione nuda e cruda, poi uscì. Fin dall’inizio, Peterszoon aveva fatto capire di non interessarsi affatto a quel viaggio, e meno che mai ai quattro passeggeri. Aveva ricevuto dal Tecnarca l’ordine di prendervi parte, e obbediva, ma gli ordini del Tecnarca non contemplavano l’obbligo della cordialità.

Qualche tempo dopo, il gong della conversione fece udire i suoi rintocchi. Bernard s’irrigidì di nuovo. Stavano per scivolare nel vuoto dell’iperspazio, il che significava che in meno di un giorno sarebbero atterrati sulla Terra. Il pensiero del ritorno non gli comunicava nessuna gioia. Nei tempi antichi pensò un messaggero che recava cattive notizie veniva ucciso all’istante. Noi non saremo così fortunati. Dovremo continuare a vivere, e per la storia noi saremo gli ignari ambasciatori Terrestri che si sono lasciati dominare dai Norglani.

Un attimo prima della conversione, Bernard, dallo schermo, colse un’ultima visione del sistema solare che stavano per lasciarsi alle spalle. Non erano ancora usciti dalla zona d’influenza della stella NGCR 185143: la stella brillava ancora sullo schermo. Poi la luce si affievolì e lo schermo rimandò soltanto un grigiore informe.

La conversione era avvenuta.

Ora c’erano diciassette ore di attesa interminabile. Bernard prese dal suo armadietto un libro di formato tascabile. La sua ordinata esistenza tutta regolata dalle lezioni e dalle serate di lettura e di ozio pareva infinitamente lontana, ma lui sperava di ritrovare un poco della serenità che aveva goduto prima di essere travolto da quella missione logorante…

Bernard sospirò, e il libro gli scivolò di mano.

«Cosa state leggendo?» chiese Dominici.

«Che cosa stavo leggendo, volete dire. Non riesco a concentrarmi, purtroppo.»

«Cos’è, in ogni modo?»

«Shakespeare. Un poeta inglese dell’Antico Medioevo.»

«Sì, l’ho sentito nominare anch’io» disse Dominici. «Era uno dei più grandi questo Shakespeare, vero?»

Bernard sorrise meccanicamente. «Il più grande, secondo alcuni. Ho qui una raccolta di sonetti. Ma leggerli mi è impossibile, per ora. Continuo a ricordarmi che Shakespeare è morto da mille e duecento anni, e la faccia di Skrinri s’insinua tra me e la pagina.»

«Date un po’ qua» disse Dominici. «Non ho mai letto niente di questa roba. Chissà, può darsi che mi piaccia.»

Con un’alzata di spalle, Bernard gli porse il libro. Dominici lo aprì a caso, e quasi subito si accigliò. Dopo un momento rialzò lo sguardo.

«E chi può leggerlo! Non ditemi che riuscite a capirlo nell’originale. Ma cos’è greco? Sanscrito?»

«È inglese» spiego Bernard. «È il mio hobby, studiare le lingue antiche. Ma andate avanti, leggete bene parola per parola, cercate di pronunciarla foneticamente, se ci riuscite. L’inglese di Shakespeare non è poi tanto diverso dal moderno terrestre. Sembra difficile a prima vista, ma in fondo è proprio all’origine della lingua che noi parliamo.»

Dominici si concentrò, borbottò un paio di parole a voce alta, tanto per provare, poi rinunciò. «Impossibile. Anche se potessi capire tutte le parole, non riuscirei ad afferrare il senso. Prendetelo pure.»

Bernard riprese il suo libro. Era meravigliato: a lui non era sembrato per niente difficile affrontare l’inglese antico, e ormai lo leggeva correntemente. Certo era abbastanza diverso dal moderno terrestre. Centinaia d’anni di trasporti transmat avevano mescolato i linguaggi della Terra in un’unica lingua omogenea, fondata sull’inglese ma nel complesso abbastanza diversa.

Era strano pensare che un tempo gli uomini avevano parlato centinaia di lingue diverse, e migliaia di dialetti. Eppure così era stato il mondo, e nemmeno tanti secoli prima. Solo il transmat, mettendo una persona in grado di viaggiare e spostarsi in lungo e in largo, aveva assicurato una progressiva uniformità al linguaggio e alla cultura terrestre.

Ripose il libro. Concentrarsi era impossibile: troppi pensieri estranei s’insinuavano nella sua mente. Sentiva le mani gelate per la tensione. Prese a passeggiare per l’angusta cabina. Lo schermo evidenziava solo il grigiore uniforme dell’iperspazio. Era impossibile capire se l’astronave fosse in moto: eppure lo era, e diretta verso la Terra.

Bernard non voleva vedere la faccia del Tecnarca McKenzie nell’attimo in cui avrebbe ricevuto la notizia dell’ultimatum norglano. Avrebbe voluto escogitare un modo per inviargli un resoconto scritto. Purtroppo, non c’era niente da fare, il rapporto andava fatto di persona. Sarebbe stato un momento difficile. Bernard ne era certo.

In cabina regnava il silenzio. Havig era sprofondato in uno dei suoi momenti di astrazione: forse comunicava con Dio. Inutile cercare la sua compagnia. Dominici s’era addormentato. Stone fissava lo schermo incolore, pensando senza dubbio alla sua carriera di diplomatico miseramente conclusa. Un politico che va per negoziare un trattato e ritorna con un ultimatum nemico non può certo sperare di diventare Arconte.

Bernard si diresse a prua, oltre il saloncino, proprio nella cabina di comando. La porta era aperta. All’interno, i cinque uomini erano al lavoro, come estensioni viventi dei comandi della nave. Per alcuni minuti, nessuno badò al sociologo che, fermo sulla soglia della cabina, guardava i segnali luminosi e ascoltava il ronzio del calcolatore.

Poi Laurance lo vide. Voltandosi, il Comandante socchiuse le palpebre. La sua faccia pensò Bernard, sembra stranamente rigida, quasi disperata.

«Scusate, dottor Bernard. Siamo occupatissimi. Vi dispiacerebbe tornare nella vostra cabina?»

«Oh, certo… Non volevo disturbare…»

Mortificato, Bernard se ne tornò nello scompartimento passeggeri. Niente era mutato. L’orologio indicava che restavano altre quattordici ore di viaggio nell’iperspazio. Bernard sentiva un certo appetito, ora. Ma il tempo passava e nessuno dell’equipaggio veniva ad annunciare che il pasto era pronto. Bernard aspettava.

«Non avete fame?» chiese Stone.

«Eccome. Ma sembrano così indaffarati quando sono andato a prua» disse Bernard. «Forse non hanno ancora avuto tempo di concedersi un intervallo per pensare al pranzo.»

«Aspettiamo ancora un’oretta» disse Stone. «Poi mangeremo senza di loro.»

L’ora trascorse, e anche un’altra mezz’ora. Stone e Bernard ritornarono a prua. Avvicinandosi in punta di piedi, Bernard sbirciò nella cabina di comando e vide che i cinque piloti erano più indaffarati che mai. Con un’alzata di spalle, si allontanò, non visto.

«Pare che non abbiano nessuna intenzione di mangiare» disse a Stone. «Be’, noi mettiamoci a tavola, intanto.»

«E gli altri due?»

«Dominici dorme, Havig è assorto nelle sue meditazioni. Quando avranno voglia di mangiare, ci raggiungeranno.»

Cominciarono a tirare fuori le vivande sintetiche. Nakamura teneva la cucina come uno specchio, e ogni cosa era al suo posto. Guardando nella dispensa, Bernard scoprì con una certa sorpresa che l’astronave aveva a bordo cibi a sufficienza per un mese almeno. In caso di emergenza pensò meccanicamente. Poi trasalì. Emergenza? Eh, già! Per la prima volta, si rendeva conto che la VUL-XV era un’astronave sperimentale e che i viaggi VUL erano ancora ai primordi.

Preparò le pietanze sintetiche e mangiarono in silenzio. Era la settima ora di viaggio nell’iperspazio. In meno di mezza giornata, la VUL-XV sarebbe rientrata nell’Universo conosciuto, nei paraggi dell’orbita di Plutone.

Tornato in cabina, Bernard si sistemò nella sua cuccetta. Dominici si era svegliato. «Per caso, ho saltato il pranzo?» chiese.

«L’equipaggio è troppo occupato per fare una pausa» spiegò Stone. «Ci siamo preparati qualcosa da noi. Dormivate così bene che non abbiamo osato svegliarvi.»

«Oh. Bene, bene.»

Dominici se ne andò in cucina per prepararsi un boccone. Havig lo seguì. Bernard si sdraiò, la testa appoggiata sulle mani, e si fece un sonnellino. Quando si svegliò, restavano sei ore di viaggio. Lui aveva di nuovo appetito.

«Non crediate di avere saltato il pasto» lo consolò Dominici. «Là a prua hanno deciso di non magiare più.»

«Ma davvero?» chiese Bernard. La cosa cominciava a preoccuparlo.

Le ore passarono lente. Ne mancavano tre, poi due, poi una sola. Bernard cominciò a contare i minuti. Le diciassette ore di viaggio nell’iperspazio erano ormai trascorse. Adesso era tempo di eseguire la conversione, ma dalla cabina di comando non arrivavano segnali di vita. Ormai la conversione era in ritardo di venti minuti… di trenta… di un’ora.

«Credete che ci sia qualche ragione particolare per questo ritardo?» chiese Stone.

Dominici si strinse nelle spalle. «In queste cose, tutto è possibile. Però, non sono tranquillo. Non sono affatto tranquillo.»

Dopo tre ore, poiché la conversione non si era ancora verificata, Bernard disse con le labbra secche per la tensione: «Forse dovremmo andare a sentire cos’è successo. Cosa ne dite?»

«Non ancora» rispose Stone. «Pazientiamo ancora un altro poco.»

Si sforzarono di portare pazienza. Solo Havig ci riuscì, tutto assorto com’era nei suoi pensieri. Passò un’ora, più snervante delle altre. All’improvviso echeggiò il gong, risonando attraverso tutta l’astronave.

«Finalmente» sospirò Bernard. «Quattro ore di ritardo.»

Le luci diminuirono, l’indefinibile sensazione di passaggio li sfiorò, lo schermo tornò ad animarsi. Erano di nuovo nell’Universo!

Poi Bernard si accigliò. Lo schermo…

Non era un astronomo, eppure notò l’irregolarità di ciò che vedeva. Quelle non erano le costellazioni a lui note. Le stelle non si presentavano così nell’orbita di Plutone. Quell’immenso astro dalla luce azzurrognola, con la sua corte di stelline più piccole… non aveva mai visto quella costellazione. Si sentì afferrare dal panico.

Laurance apparve d’improvviso nella cabina. Era pallidissimo, aveva le labbra esangui.

«Che succede?» chiesero Bernard e Dominici insieme.

Laurance rispose in tono calmo: «Raccomandatevi al vostro Dio, se ne avete uno. Siamo usciti di rotta ieri, nell’attimo in cui abbiamo eseguito la conversione. Non sappiamo assolutamente dove siamo, ma probabilmente a più di centomila anni-luce da casa nostra.»

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