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Una cosa, il genere umano aveva disimparato a fare, nei pacifici anni di espansione sotto l’Arconato: non sapeva più aspettare. Il transmat consentiva trasporti e comunicazioni istantanei: da qualsiasi punto della sfera di dominio terrestre, ed entro un raggio di quattrocento anni-luce, ogni spostamento richiedeva soltanto una frazione di secondo. Comodità del genere non contribuiscono certo a formare una società di uomini pazienti. Di tutti i figli della Terra, solo pochissimi erano ancora capaci di aspettare; tra questi, sicuramente i piloti spaziali che guidavano le solitarie astronavi nel buio dei vuoti interstellari, per andare a installare i generatori dei campi transmat che, successivamente, avrebbero permesso a tutti gli esseri umani di raggiungere istantaneamente la medesima destinazione.

Qualcuno doveva pur compiere per la prima volta quei tragitti impiegando il tempo richiesto dalla velocità comunque limitata delle astronavi. Ed ecco perché i piloti spaziali sapevano come colmare le lunghe ore di attesa: lasciavano che il tempo scorresse ritmato dagli infiniti giri delle lancette dell’orologio. Non così gli altri, che durante quelle ore erano addirittura rosi dall’impazienza.

La VUL-XV aveva lasciato la Terra a un’accelerazione di tre-g, scagliando dietro di sé un getto ardente di nuclei fino ad accumulare una velocità pari a tre quarti di quella della luce. La propulsione normale venne staccata, e l’astronave proseguì per inerzia a una velocità abbastanza rapida da farle descrivere quasi cinque volte l’orbita terrestre in un batter d’occhio. Intanto, i suoi quattro passeggeri non sapevano come frenare la propria impazienza.

Bernard fissava le pagine del suo libro senza poterne cogliere il significato. Havig passeggiava su e giù. Dominici stringeva i denti e corrugava la fronte al punto che le sopracciglia si univano. Stone stava incollato all’oblò, scrutando la gelida luminosità degli astri come se aspettasse da loro la risposta a qualche muto interrogativo.

I quattro uomini erano alloggiati tutti insieme nello scompartimento posteriore della snella astronave. In quello anteriore stavano Laurance e gli altri quattro ufficiali. Terminata l’accelerazione, Bernard si portò a prua per guardarli lavorare. Era come osservare i sacerdoti di qualche misterioso rito. Laurance stava al centro del pannello di controllo come un albero nella tempesta, mentre attorno a lui gli altri si adoperavano in un vero parossismo di attività. Nakamura, gli occhi incollati all’oculare di uno strumento per la navigazione tra gli astri, trasmetteva numeri a Clive. Clive li integrava e li passava a Hernandez, che li inseriva in un calcolatore. Peterszoon correlava i dati. Laurance li coordinava. Ciascuno aveva la sua incombenza, ciascuno la eseguiva alla perfezione. Sbalordito dalla loro fredda efficienza, Bernard se ne venne via in preda al più vivo stupore: come succede ai profani.

E naturalmente, pensava, loro trovano altrettanto misterioso che si possa scrivere un sonetto, o formulare dei teoremi sociometrici. La complessità è solo una questione di punti di vista. Buona, questa! È filosofia relativistica…

Il tempo si trascinava penosamente. Qualche ora dopo, quando i quattro passeggeri stavano per farsi venire una crisi di nervi, la porta del loro scompartimento si aprì, ed entrò Clive.

Era piccoletto e minuto, con una faccia giovanile e maliziosa, e i capelli ricciuti precocemente imbiancati. Sorrise e disse: «Stiamo passando attraverso l’orbita di Plutone. Il Comandante Laurance mi incarica di avvertirvi che da un istante all’altro eseguiremo la conversione massa-tempo.»

«Ci avvertirete?» chiese Dominici. «Oppure accadrà così, all’improvviso?»

«Ve ne accorgerete. Prima di tutto suoneremo il gong, e poi non potrete fare a meno di avvertirla.»

«Grazie al cielo siamo fuori del sistema solare» disse con enfasi Bernard. «Credevo che la prima parte del viaggio durasse in eterno. Clive rise.» Ma vi rendete conto che abbiamo coperto più di cinque miliardi di chilometri in meno di un giorno?

«M’è sembrato un’eternità, comunque.»

«Gli uomini spaziali dell’ultimo Medioevo erano contenti quando potevano raggiungere Marte in un anno» disse Clive. «E voi vi lamentate? Dovreste provare un po’ cosa significa spostarsi da una stella all’altra a propulsione normale. Che ne direste di passare cinque anni in una navicella come questa solo per andare a impiantare un transmat su Betelgeus’e XXIX? Allora sì che imparereste ad essere pazienti, signori miei.»

«Quanto tempo resteremo nell’iperspazio?» chiese Stone.

«Diciassette ore. Poi occorrerà qualche altra ora per decelerare. Diciamo un giorno intero, tutto considerato, da qui all’atterraggio.» Il piccolo astronauta mostrò i denti in un sorriso scherzoso. «Pensate un po’! Un giorno e mezzo per coprire una distanza di diecimila anni-luce, e voi vi lamentate!» Ruppe in una risata omerica, battendosi una coscia. Bernard e gli altri tre osservavano quella manifestazione d’ilarità senza fare commenti.

Poi Clive riprese serio. «Ricordate… quando sentirete il gong, imzierà la manovra di conversione.»

«Dovremo legarci?»

Clive scosse la testa. «Non ci sarà cambio di velocità, non sentirete alcuno sbalzo.» Sorrise. «Chissà, forse non sentirete proprio niente del tutto. Siamo ancora alle prime armi con questa storia della velocità ultra-luce… Speriamo in bene.»

Non ci fu risposta. Clive si strinse nelle spalle e uscì, lasciando che la portina a molla della paratia si richiudesse da sola.

Bernard rise. «Ha ragione lui, naturalmente. Siamo idioti a mostrarci così impazienti. Il fatto è che siamo abituati a trovarci in un luogo nell’istante medesimo in cui formuliamo il pensiero di andarci. Per loro, questo viaggio dev’essere ridicolmente breve.»

«Non m’importa un corno di come sembra a loro» brontolò Dominici. «Io so che, per me, dovermene restare seduto in una cabina per tante ore è una penitenza spaventosa. E anche per voi, penso.»

«Forse ora potrete constatare com’è utile imparare a rassegnarsi a un’esistenza scomoda» sentenziò Havig in tono solenne. «L’impazienza non è degna dell’uomo saggio. Essa conduce all’ira, l’ira conduce all’impulsività, e l’impulsività al peccato. Se invece…»

Dominici si girò di scatto per affrontare il Neopuritano, mentre le vene del collo gli si gonfiavano. Il biofisico sembrava fuori di sé. «Non state a seccarmi con le vostre teorie balorde, Havig! Ho i nervi a fior di pelle, non ne posso più di sentirmi rinchiuso in questa scatola, e le vostre chiacchiere non contribuiscono certo a farmi stare meglio! Eppoi…»

«Le chiacchiere no, d’accordo» rispose Havig conciliante. «Però, le verità che sono alla base delle mie chiacchiere sono importanti. Per esempio, la verità di vedere noi stessi in relazione all’Eternità, di rendersi conto che un ritardo momentaneo non ha alcuna importanza, di meditare sul posto che ciascuno di noi occupa nell’immensità dell’Universo. Questo aiuterebbe chiunque a superare la tentazione di abbandonarsi all’impazienza.»

«Volete tenere la bocca chiusa, sì o no?» urlò Dominici.

«Calma, calma, signori miei!» intervenne Stone. Il roseo diplomatico pareva destinato a fare continuamente da paciere in quella turbolenta spedizione. «Calmatevi, Dominici. Diamine! Non rendete certo la vita facile agli altri se continuate a perdere il controllo. Pigliatevela con calma, perbacco!»

«È stato provocato» lo difese Bernard, lanciando una occhiata ad Havig. «Mister Malinconia, laggiù in quell’angolo, si è messo a distribuire consigli non richiesti. Questo darebbe sui nervi a chiunque, è logico. Mi sorprende che non si sia portato anche degli opuscoli di propaganda da distribuire.»

Un insolito lampo di luce divertita apparve nello sguardo del Neopuritano. «Le mie scuse, signori. Stavo cercando di dissipare la tensione generale che vi opprime, non di aumentarla. Forse ho fatto male a parlare. M’era sembrato mio dovere, ecco tutto.»

«Non siamo disposti a convertirci» replicò brusco Bernard.

«Noi insegniamo, ma non pretendiamo di fare proseliti» replicò Havig seccato. «Io volevo solo essere di aiuto.»

«Nessuno ve l’ha chiesto.»

Stone sospirò. «Che bel gruppo di parlamentari formiamo! Se andiamo avanti così, altro che trattative di pace. Ci scanneremo tra noi…»

Il gong risuonò all’improvviso, echeggiando per la cabina pauroso e solenne. Un rintocco profondo e sonoro, ripetuto tre volte, che si spense infine con lugubre lentezza.

La baruffa si placò come se una coltre fosse scesa a sedare i litiganti.

«Stiamo operando la conversione di velocità» mormorò, rauco, Dominici. Girò la testa verso la parete, e Bernard si accorse sorpreso, seguendo i movimenti descritti dal gomito destro del biofisico, che quell’uomo apparentemente scettico si stava facendo il segno della croce.

Bernard si sentì a disagio. Sebbene non fosse un individuo religioso, avrebbe voluto essere capace di raccomandarsi a una qualsiasi deità protettrice, non fosse altro che per trarne conforto. Invece, doveva solo sperare nella sua buona stella. Si sentiva spaventosamente solo, circondato dalla buia notte dell’Universo che si stendeva a pochi passi da lui, oltre lo scafo dell’astronave. E, ben presto, perfino l’Universo conosciuto sarebbe stato abbandonato.

Angosciato, Bernard osservò i compagni di viaggio. Havig moveva le labbra in una silenziosa preghiera, con gli occhi aperti ma persi nella contemplazione dell’eternità che adesso era così vicina. Il brontolio rauco di Dominici risonava piano nella cabina, intonando parole latine che Bernard ricordava solo per averle apprese a scuola. Stone, evidentemente incapace di credere, come Bernard, aveva perso un po’ della sua cera rosea, e sedeva rigido fissando la parete di fronte e sforzandosi di apparire disinvolto.

Tutti aspettavano.

Se le ore dopo la partenza da Terra erano sembrate lunghe, i minuti che seguirono i rintocchi del gong parvero eterni. Nessuno parlava. Bernard sedeva immobile, assaporando il gusto metallico della paura e chiedendosi cosa mai lo terrorizzasse a un punto tale da inaridirgli la gola.

Non sapeva proprio quali effetti aspettarsi mentre veniva eseguita la conversione. I minuti passavano, poi sentì una vibrazione cupa, un rumore sordo e monotono: i poderosi generatori Daviot-Leeson stavano accumulando potenziale. Bernard sapeva in proposito ciò che ogni profano intelligente poteva sapere. Da un istante all’altro, una carica spaventosa di energia sarebbe esplosa dai generatori con violenza cosmica, lacerando il continuum spazio-temporale e creando così una fessura attraverso la quale la VUL-XV sarebbe scivolata nell’iperspazio.

Cos’era l’iperspazio? E a quale tipo di Universo portava?

La mente di Bernard non riusciva a raffigurarselo. Bernard sapeva soltanto che sarebbero penetrati in una specie di Universo attiguo in cui le distanze erano solo numeri irrazionali, in cui gli oggetti potevano occupare simultaneamente lo stesso spazio. Un Universo la cui mappa era stata tracciata, ma fino a che punto, e con quale precisione? Un Universo tutto da scoprire, si disse Bernard. Un Universo che ha dietro solo cinque anni di ricerche sperimentali, e che adesso è navigato da uomini intrepidi che lo affrontano pur avendo solo una concezione vaghissima di dove si trova e di dove sono diretti.

Il ronzìo dei generatori si fece più acuto.

«Quando accadrà?» chiese Stone.

Bernard si strinse nelle spalle. Nel silenzio generale, si accorse di rispondere: «Immagino che ci vorranno un paio di minuti perché i generatori accumulino la carica necessaria. Poi squarceremo…»

Il passaggio si verificò.

Il primo segnale fu dato dall’oscillare delle luci, che per un attimo divennero fioche mentre l’immenso tumulto di forza prosciugava le dinamo. L’altro effetto, che seguì immediatamente, fu di ordine psicologico: Bernard si sentì stranamente fluttuante, strappato via da tutto quello che sapeva e in cui credeva, proiettato in un’oscurità così assoluta da trascendere ogni umana comprensione.

La sensazione passò. Bernard trasse un profondo respiro. Niente era cambiato, alla fin fine. Il senso di solitudine, di separazione, non era stato altro che uno scherzo della fantasia.

«Guardate l’oblò!» ansimò Stone. «Le Stelle… non ci sono più!»

Bernard piroettò sul sedile. Era vero. Un attimo prima l’oblò, ovvero uno schermo televisivo di dodici pollici che riportava le immagini colte all’esterno dell’astronave, rimandava l’abbagliante visione delle stelle. Interminabili cascate di luce avevano scintillato contro il buio totale del vuoto. Sullo sfondo della Via Lattea erano apparsi alcuni pianeti: il rosso Marte, Venere simile a una gemma…

Ora tutto era scomparso, stelle, pianeti, cascate di luci sfolgoranti. Lo schermo rimandava solo un grigiore informe. Pareva che l’Universo fosse stato cancellato con un colpo di spugna.

Il segnale luminoso sulla paratìa tornò ad accendersi. Stone premette il pulsante di apertura e stavolta il Comandante in persona, John Laurance, entrò nello scompartimento passeggeri.

«La conversione è riuscita in pieno, signori. Ciò che vedete sullo schermo è un Universo completamente deserto nel quale noi rappresentiamo l’unico frammento di materia.»

«E come fate per la rotta?» chiese Stone.

Laurance diede una scrollata di spalle. «A lume di naso. Le astronavi telecomandate che sono state inviate nell’iperspazio in fase sperimentale hanno viaggiato lungo determinati vettori tracciati in precedenza, e sono riemerse in determinati luoghi. In mancanza di punti precisi di riferimento, non possiamo fare altro che seguire l’intuito.»

«Non mi sembra un metodo molto efficiente per raggiungere un obbiettivo preciso» disse Dominici.

«Non lo è, infatti» ammise Laurance. «D’altro lato, non abbiamo altra scelta.»

Bernard osservò attentamente il Comandante. La stanchezza traspariva da ogni lineamento del suo volto. Gli occhi erano iniettati di sangue. Bastava osservarlo per capire che era abituato a sole tre ore di sonno su ventiquattro, ma era altrettanto evidente che da parecchio tempo non riusciva a concedersi nemmeno quelle tre ore.

«Sembrate affaticato Comandante» disse il sociologo-

Laurance tornò a scrollare le spalle. «Lo sono, dottor Bernard. Tutti i miei uomini sono spossati dalla stanchezza. Ma non abbiamo scelta.»

«Mi chiedo se è possibile governare un’astronave tanto complessa in così evidenti condizioni di stress psico-fisico.»

«Il Tecnarca evidentemente pensa di sì» replicò Laurance con una nota quasi amara nella voce. «Il Tecnarca, evidentemente, aveva anche una fretta incredibile di rispedire l’astronave nello spazio.»

«Noi abbiamo fiducia nel Tecnarca» osservò Dominici. «McKenzie ha una testa solida sulle spalle, forse ancora più solida di quella del vecchio Bengstrom. Deve avere avuto ottime ragioni per insistere tanto sulla necessità di fare presto.»

«Anche il Tecnarca McKenzie è un comune mortale» obiettò Havig. «Può sbagliare come chiunque altro.»

Dominici inarcò un sopracciglio. «Havig, conosco persone che cadrebbero in uno stato catatonico se qualcuno facesse un apprezzamento simile in loro presenza su qualcuno degli Arconti.»

«Io non ho un rispetto eccessivo per questi signori» disse imperterrito il Neopuritano. «In fondo, sono stati scelti tra gli uomini in tutto e per tutto identici.»

«Già» osservò Bernard. «Scelti in età giovanissima e addestrati per decenni nell’arte di governare, prima di accedere finalmente ai rispettivi Arconati. Senza dubbio è un metodo ottimo, il primo sistema veramente saggio di governo che la Terra abbia mai avuto. Ma non credo che il Comandante Laurance sia venuto qui per discutere con noi sulle qualità del Tecnarca.»

«No, infatti» disse Laurance con un sorriso pacato. «Sono entrato per dirvi che tutto procede bene, e che tra mezz’ora si mangia, e che secondo i calcoli dovremmo essere nelle vicinanze della Stella NGCR 185143 tra… diciamo, circa diciassette ore. Minuto più, minuto meno.» Laurance fece una breve pausa, quasi per dar tempo al piccolo gruppo di passeggeri di sentire in pieno la sua autorità. Poi aggiunse: «Ah… mi diceva Clive che siete tutti un po’ irritabili. Che avete avuto perfino una discussione piuttosto accesa.»

Bernard arrossì. Era sicurissimo di discernere una vaga traccia di disprezzo nello sguardo di Laurance. Il disprezzo dell’uomo degli spazi, temprato da una vita dura, per quel gruppo di accademici senza midollo che affollava la cabina.

Tra l’imbarazzo generale, si udì, come sempre, la voce conciliante di Stone. «Abbiamo avuto una piccola divergenza di opinioni, Comandante. Piccolezze, questione di punti di vista…»

«Capisco, signori» disse Laurance in tono blando. Ma dietro quella benevolanza c’era un comando imperioso. «Posso ricordarvi che vi è stata affidata una grave responsabilità? Spero che possiate comporre le vostre… ehm… piccole divergenze prima di raggiungere la vostra destinazione.»

«Per la verità, le abbiamo già composte» garantì Stone.

«Ne sono lieto.» Laurance si avviò alla porta. «Nell’armadietto dei medicinali, laggiù alla mia sinistra, troverete dei tranquillanti, nel caso la vostra «irritabilità» dovesse costituire, alla lunga, un problema serio. Signori, vi aspetto nel saloncino tra mezz’ora.»

Seguì un momento di silenzio imbarazzato dopo l’uscita del Comandante. Poi Dominici imitò Laurance: «Posso ricordarvi che vi è stata affidata una grave responsabilità?» disse sorridendo. E proseguì: «Il nostro Comandante ha lo stesso stile… regale del Tecnarca. Riesce a farti sentire alto un metro.»

«Forse Laurance è un addestrato che non è riuscito a ottenere il punteggio per diventare Arconte» suggerì, calmo, Stone. Essendo un addestrato anche lui, per l’Arconato degli Affari Coloniali, doveva sapere qualcosa sui maneggi che avvenivano per conquistarsi i posti-chiave.

Ma Bernard lo smentì. «No, Stone, mi sembra impossibile. McKenzie non avrebbe mai scelto un… silurato per una faccenda così importante. Si sarebbero scatenate troppe rivalità, troppe opposizioni. No. Però, e possibile che Laurance venga addestrato per le prossime elezioni. Per quel che ne sappiamo noi, potrebbe anche essere stato prescelto per succedere a McKenzie un giorno o l’altro.»

«E McKenzie avrebbe rischiato il suo selezionatissimo successore in una impresa così pericolosa?» obiettò Dominici.

«Un Tecnarca deve forgiarsi proprio sulla pratica del rischio» osservò Havig. «Se Laurance non potesse sopravvivere a un viaggio nello spazio, potrebbe sopravvivere alle fatiche di una carica pubblica così importante? Questo doppio viaggio potrebbe essere il suo banco di prova.»

«Già, forse non avete torto» ammise Stone.

Nessuno avanzò altre ipotesi. La tensione e l’incertezza per l’incarico che li aspettava rendeva i quattro parlamentari irrequieti e pensosi. La conversazione languiva.

Trascorsa la mezz’ora i quattro si recarono a prua per il pranzo. Il menù, a base di prodotti sintetici, era stato preparato con cura da Nakamura ed Hernandez, che avevano una vera passione per la tavola. Dopo mangiato, i passeggeri se ne tornarono nella loro cabina. Avevano davanti ancora sedici ore, sedici ore nel grigio uniforme iperspazio. Il tempo non passava mai; tutti avevano l’impressione di dover viaggiare per sedici anni.

Bernard si sistemò nella sua brandina anti-accelerazione e tentò di leggere: inutilmente. Timori improvvisi lo afferravano, s’insinuavano tra la sua mente e il libro. Le parole danzavano sui fogli, e il ritmo delicato dei versi classici di Suyamo si perdevano in una confusione senza senso. Disgustato, Bernard ripose il libro con un colpo secco.

Chiuse gli occhi. Dopo un po’, la babele dei pensieri si allentò, ed egli crollò in un sonno leggero e agitato che si fece via via più profondo.

Qualche tempo dopo tornò faticosamente alla realtà, e infine fu completamente desto. Un’occhiata all’orologio della cabina lo informò che restavano solo quattro ore di viaggio prima della transizione, e che perciò lui aveva dormito dodici ore filate. Ne fu sorpreso. Non credeva di essere così stanco, di avere bisogno di una dormita così lunga e ininterrotta.

Si guardò attorno. Dominici dormiva della grossa, con gli occhi chiusi, la bocca contorta in un ghigno. Si girava e si rigirava nel sonno. Evidentemente stava facendo un brutto sogno.

Accanto a lui, Stone sedeva immobile fissando lo spettacolo monotono offertogli dall’oblò. Accorgendosi che Bernard si era svegliato, Stone si voltò e gli lanciò un sorriso fuggevole e forzato, poi riportò la sua attenzione sullo schermo.

Solo Havig sembrava in pace con se stesso e con l’ambiente misterioso che lo circondava. Il gigante se ne stava comodamente appoggiato allo schienale, con le gambe stese in atteggiamento di riposo e distensione. Un libro aperto era posato sulle sue ginocchia. Un libro di preghiere probabilmente, pensò Bernard. Il Neopuritano voltava le pagine lentamente, approvando col capo, sorridendo di tanto in tanto tra sé. Non s’accorgeva di niente e di nessuno. La tranquillità imperturbabile di quell’uomo irritava vagamente Bernard.

Bernard si sforzò di non pensare ai suoi compagni di viaggio e alla tensione che li divideva, e di ponderare invece sull’enigmatica natura degli esseri che dovevano contattare.

Aveva visto le loro fotografie, tridimensionali e a colori, e perciò aveva se non altro un’idea abbastanza precisa di cosa aspettarsi materialmente. Tuttavia si sentiva molto incerto all’idea dell’incontro da affrontare. Sarebbe stato possibile stabilire un contatto, comunicare sia pure a forza di gesti? E se fosse stato possibile comunicare verbalmente, si sarebbe giunti a un’intesa? Oppure la civiltà umana era destinata a essere spazzata via da un conflitto interstellare, che avrebbe annullato i tanti secoli di pace imposti dall’Arconato?

Il sorgere dell’oligarchia, ricordò Bernard, aveva messo fine alla confusione e ai dubbi degli Anni Incubo. Ma se adesso quegli esseri avessero rifiutato di trattare e di negoziare pacificamente con loro? A cosa sarebbe servita, in questo caso, la forza dell’Arconato?

Non c’era risposta a questi pensieri. Bernard si sforzò di concentrarsi nella lettura. Le ore scorrevano alla meno peggio, e finalmente il gong risuonò di nuovo, come se volesse annunciare una apocalisse.

I rintocchi del gong svanirono. La transizione avvenne.

Lo schermo s’illuminò all’improvviso, ritornò alla vita. Nuove costellazioni: nuovi accecanti agglomerati di stelle, e forse, tra tante, un puntolino corrispondeva al Sole della Terra.

E adesso, sospeso dinanzi a loro come una palla incandescente, c’era un bel sole giallo-oro oscurato a tratti dalle ombre dei pianeti in orbita attorno al suo disco infuocato.

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