Giù. Giù. Precipitarono attraverso il buio. Oltrepassarono soli scintillanti, trascinati come un giocattolo inerte… A bordo della VUL-XV, nove uomini aspettavano, nell’assoluta impotenza.
I comandi erano bloccati. I reattori non funzionavano, gli stabilizzatori erano fuori uso, gli indicatori di velocità non davano segno di vita. Non era nemmeno possibile eseguire la conversione in propulsione Daviot-Leeson e scivolare nell’iperspazio.
Niente da fare. Solo aspettare.
In silenzio. Che dire, del resto? Ciò che stava accadendo andava oltre la comprensione, oltre la ragione. E soprattutto oltre ogni possibilità di azione.
«Supponiamo l’esistenza di un enorme campo magnetico» arrischiò Dominici. «Qualcosa come cinquanta trilioni di gaus… un campo di un’intensità tale che non riusciamo nemmeno a concepirla. Il campo magnetico dell’intera costellazione, per esempio. E noi, in trappola, completamente in sua balìa.»
«I campi magnetici non interferiscono con i getti di un’astronave» obiettò Bernard. «Non immobilizzano i comandi. Nemmeno un campo del genere di quello che voi avete postulato. C’è dell’intelligenza dietro tutto questo, direi… e forse si tratta di un’intelligenza tanto superiore alla nostra quanto il vostro immaginario campo magnetico è al di là di tutto ciò che è stato fisicamente misurato finora.»
Sulla cuccetta, Havig si mosse, mormorando parole incoerenti. Poi si riaddormentò, senza aver ripreso conoscenza.
«A che velocità ci muoviamo?» chiese Stone.
Il Comandante Laurance rialzò la testa di scatto. «Non lo so. Però, andiamo velocissimi. I ragazzi stanno cercando di calcolarla alla meglio. Direi che stiamo andando a una velocità molto vicina a quella della luce.»
«E senza accelerare» disse Nakamura. «Questa è la cosa più sbalorditiva.»
La conversazione languì di nuovo.
Sullo schermo, le stelle correvano loro incontro a velocità incredibile, svanendo immediatamente. L’ipotesi di Laurance era esatta: l’astronave si dirigeva verso un sole giallastro che ingigantiva a ogni istante.
Avanti e avanti. Un’ora di quel viaggio involontario era già trascorsa, ne passò una seconda, e una terza. Hernandez riferì d’aver calcolato la velocità, regolandosi in base all’effetto doppler, a nove virgola sei decimi rispetto a quella della luce. Il che significava che stavano viaggiando alla velocità estrema dell’Universo normale… senza alcuna fonte di velocità apparente.
Era incredibile.
Non aveva senso.
Continuò a non avere senso per altre tre ore. Nel frattempo, Havig si era svegliato. Il linguista si rialzò a sedere sulla cuccetta, scuotendo la testa.
«Cosa…»
«State meglio, Havig?»
«Cosa succede? Mi guardate tutti in modo così strano! È accaduto qualcosa?»
«Niente di particolare» lo rassicurò Bernard. «Eravate un po’ sconvolto e vi abbiamo dato un tranquillante. Vi sentite più calmo, ora?»
Havig passò la mano tremante sugli occhi. «Sì… calmissimo. Sto cercando di ricordare. Ah, sì, sono stato assalito dal terrore… Scusatemi tanto. Ah, Bernard, voglio ringraziarvi per avere tentato di confortarmi. Siete stato molto generoso, e ammiro lo sforzo che avete dovuto fare. L’analogia con Giobbe… sì, era proprio un esempio adatto…»
«Sembrava adatto anche a me» confessò Bernard.
Havig sorrise. «Immagino che si possa mantenere il controllo dei propri nervi solo fino a un certo punto, e poi le forze cedono… anche se uno è forte, o crede di esserlo. Mi sono comportato come un debole, come un codardo. Eppure, per me è stata un’esperienza interessante. Mi ha dimostrato che la mia fede non è inamovibile, può sempre essere messa alla prova. Può venire scossa, anche brutalmente, ma non distrutta. Ora vedete, come vedo io, che a volte Dio può allontanarci i Suoi doni e la Sua grazia per il nostro stesso interesse, anche se noi possiamo non intuire i Suoi propositi? Giobbe non li intuiva, però obbedì. Così avrei dovuto fare io, se non avessi avuto un attimo di debolezza. Ma sono uscito dalla prova più forte di prima. Sono queste prove che ci confermano…» Havig s’interruppe, sorrise impacciato. «Ma io non devo trasformare i miei ringraziamenti in una specie di conferenza. Vi prego di considerare con indulgenza la scena alla quale vi ho fatto assistere senza volerlo.»
«Non ci pensate più, Havig» disse Dominici. «A turno, ciascuno di noi ha perso il controllo dei nervi. Voi avete sopportato tutto con più pazienza degli altri, e alla fine anche la reazione è stata più violenta.»
Havig assentì. «Sì. Però grazie, grazie lo stesso. Ma c’è qualcosa che non mi dite, qualcosa di nuovo che si è verificato mentre dormivo. Lo vedo dalle vostre espressioni. Sembrate così pallidi, così spaventati…»
«Sarà meglio dirglielo» disse Dominici.
«Coraggio» disse Stone.
Con la massima concisione possibile, Bernard spiegò la nuova situazione. Havig ascoltava attento, accigliandosi sempre più ad ogni nuovo particolare.
«E così, la nave è fuori del nostro controllo» concluse bruscamente Bernard. «Questa, più o meno, è la situazione. E non possiamo fare altro che aspettare pazientemente. Se mai c’è stato un momento in cui era necessario tutto il vostro stoicismo Neopuritano, è questo.»
«E adesso dobbiamo mostrarci tutti molto coraggiosi» dichiarò Havig con fermezza. «Dobbiamo convincerci che ciò che ci è stato destinato, lo è per il nostro bene, e quindi non abbiamo niente da temere.»
Bernard annuì. Ora cominciava a intravvedere il vero Havig; un uomo un po’ cupo e austero, d’accordo, ma sempre un individuo che Barnard poteva rispettare, nonostante gli atteggiamenti ascetici. Rispettare, anche senza condividere i suoi punti di vista. C’era qualcosa di veramente solido in Havig. Quell’uomo non si serviva delle sue convinzioni come di una gruccia che lo aiutasse a zoppicare lungo il cammino della vita, ma come di una guida che lo mettesse in grado di affrontare l’esistenza in modo franco e coraggioso. E Bernard si rendeva conto che, prima di affrontare quel viaggio, non sarebbe mai stato capace di ammettere una qualità del genere in Havig.
Dominici bisbigliò rivolto a Bernard: «Aveva ragione riguardo a quella storia di Giobbe. Gli fa bene, lo aiuta a venirne fuori.»
«Ne è venuto fuori, ormai» disse Bernard. «È più in gamba di quanto pensassimo.»
Fa piacere pensò Bernard, sapere che a bordo c’è almeno una persona capace della massima calma, di una rassegnazione fatalistica dinanzi a qualsiasi evento… No si corresse, non fatalistica. Il termine è sbagliato. Ora Havig è molto più sereno. Fede e rassegnazione non sono la stessa cosa.
Per un’altra ora la corsa continuò, tanto che parve dovesse durare per sempre, che l’astronave dovesse rimanere in eterno in caduta libera: come la caduta di Lucifero verso l’inferno… o verso quel sole giallo che sembrava fosse la destinazione della VUL-XV.
Gli uomini a bordo si costringevano a ignorare la situazione. Tanto, che senso aveva preoccuparsi?
Nakamura preparò la cena. Mangiarono tutti, senza entusiasmo.
Clive tirò fuori un sintetizzatore sonoro e suonò vecchi motivi, accompagnandoli con voce un po’ roca e nasale che tuttavia aveva una strana qualità artistica. Bernard, affascinato, ascoltava le parole delle canzoni: molte erano nei vecchi linguaggi delle nazioni della Terra, i linguaggi sepolti del medioevo antico, e i brani che il sociologo riusciva ad afferrare erano deliziosi, mettevano una grande nostalgia.
Ma alla fine anche il canto scemò. Clive ripose il sintetizzatore. Il passatempo gli era venuto a noia.
Era impossibile, infatti, dimenticare, che l’astronave era in balìa di forze misteriose, e trasportava i suoi passeggeri verso una fine quasi certamente catastrofica. Era impossibile tentare di dimenticare che essi stavano cercando di tenere testa a forze che l’immaginazione non poteva concepire. Era impossibile vivere in condizioni simili, eppure essi continuavano a vivere…
Il rosgollano salì a bordo.
Laurence e l’equipaggio erano tornati a prua, e tutti e cinque lottavano invano con i comandi, con appena l’ombra di una speranza di riuscire a riguadagnare il controllo di quello scafo che li trascinava verso l’ignoto. Nella cabina passeggeri il tempo scorreva lentissimo. Bernard lesse un poco senza potersi concentrare. Lasciò cadere il libro e prese a fissare il nulla, come se stesse meditando.
La prima sensazione che qualcosa di strano si stesse verificando a bordo l’ebbe nel percepire un improvviso fiotto di luce che entrava dall’angolo in fondo alla cabina, su per giù nel punto dove si trovava la cuccetta di Dominici. Quello strano chiarore dorato si riverberava vagamente nello scompartimento, e Bernard si voltò per vedere di che si trattava.
Prima che avesse fatto in tempo a girare la testa, la voce terrorizzata di Dominici risuonò carica di disperazione e di sgomento.
«Madre di Dio, proteggimi!» urlò il biofisico. «Sto diventando pazzo!»
Bernard ristette a bocca aperta, paralizzato dallo stupore.
Nella cabina si era materializzata una figura, direttamente dietro la brandina di Dominici. Restava sospesa a circa un metro dal suolo, proprio all’intersezione dei piani della parete. L’improvviso bagliore s’irradiava appunto da quella figura.
Era un essere di piccola statura, alto forse un metro e venti, che se ne stava là, calmissimo, sospeso a mezz’aria. Sebbene fosse completamente privo di vesti, non si riusciva a considerarlo nudo. Un indumento di luce lo rivestiva, di luce morbida e fluida, che velava la figura senza proprio nasconderla. Il volto era un insieme di piani e di angoli che si spostavano e si componevano in modo pazzesco. Dopo averlo fissato solo per qualche istante, Bernard provò un senso di capogiro e dovette abbassare gli occhi.
La creatura non solo irradiava luce, ma anche un senso di totale serenità, di assoluta sicurezza di sé.
«Che… diavolo… è?» chiese Stone con voce strozzata. Dominici, prostrato al suolo, parlava rapidamente tra sé con voce rapida e monotona. Havig, ancora capace di dominarsi ma pur sempre visibilmente scosso, pregava in ginocchio. Bernard riusciva solo a boccheggiare.
«Non dovete avere paura» disse lo strano visitatore. «Non vi accadrà niente di male.»
Le parole non furono pronunciate distintamente. Parevano semplicemente emanare dalla creatura, chiare e inconfondibili come il chiarore emesso.
Nonostante il tono pacato e rassicurante, Bernard si sentì attraversare da un brivido di terrore. Le gambe non lo sostenevano più. Si lasciò cadere sulla cuccetta, tenendosi strettamente abbracciato. Capiva, senza possibilità di dubbio, d’essere in presenza di una creatura che superava in perfezione l’umanità più di quanto l’umanità stessa superasse il più infimo degli insetti. E forse la distanza era ancora più grande. Bernard provava timore, riverenza, e soprattutto una paura folle, inesprimibile.
«Non dovete temere» ripeté la creatura, e ogni parola giungeva precisa e distinta. Per un attimo la luce che emanava da essa si fece più intensa, più carica, fino a prendere una colorazione quasi bruna. Bernard sentì che la paura si dissolveva.
Esitando alzò lo sguardo, e con voce rotta e rauca chiese: «Chi… che cosa siete?»
«Sono un rosgollano, terrestre. Sarò la vostra guida fino a che atterreremo.»
«E… dove veniamo trascinati?»
«A Rosgolla, terrestre.» La risposta fu pacata, piana, una dichiarazione fatta in tono ineluttabile, indifferente.
Bernard scosse la testa. È un’allucinazione, ecco cos’è pensò disperato. Questa è l’unica spiegazione possibile. Nemmeno nella Nuvola Magellanica Maggiore possono esistere esseri che se ne entrano attraverso le pareti di una astronave e partano perfettamente il terrestre.
Riuscì a rimettersi in piedi.
«Dominici!» disse. «Alzatevi! Havig! Non restate in ginocchio! Non vedete che non può essere reale? Stiamo avendo un’allucinazione collettiva, ecco la verità!»
«Ma lo credete sul serio?» disse gentilmente il rosgollano. Nelle parole c’era una traccia di risata divertita. «Voi esserini degni di pietà, credete di poter decidere da soli che cosa può o non può essere reale? Nell’Universo esistono ben più cose di quante un terrestre possa capire, anche se voi siete convinti di dominare su tutto. Noi non siamo allucinazioni. Toglietevelo dalla testa, poveri Terrestri.»
Bernard aveva le guance in fiamme. Chinò il capo, e rimase silenzioso, mordendosi le labbra.
Scrosci di risa silenti riempivano ora la cabina. Lo strano essere sembrava incredibilmente divertito dalla presunzione dell’Uomo. «Eravamo come voi, un tempo, Terrestri… centinaia di migliaia di anni fa. Eravamo piccoli esseri pieni di sussiego, insolenti, meschini, rumorosi. Proprio come voi ora. Poi superammo quello stadio del nostro sviluppo. Forse, un giorno, lo supererete anche voi.»
Stone rialzò la testa. Pallidissimo. Si bagnò le labbra e riuscì a chiedere: «Come… come ci avete trovati? Siete voi che ci avete fatto smarrire la strada?»
«No» replicò il rosgollano. «Vi osservavamo in distanza, mentre la vostra razza si sviluppava, ma non avevamo nessun desiderio di metterci in contatto con voi. Fino al momento in cui apprendemmo che una delle vostre astronavi si stava avvicinando alla nostra galassia. Dapprima, tememmo che foste venuti a cercarci, ma capimmo subito che vi eravate smarriti. Sono stato inviato per guidarvi verso la salvezza. Ci sono molte cose che dovete ascoltare, vedere, capire.»
«Dove… come…» chiese Stone.
«Basta così» ribatté il rosgollano. «La risposta l’avrete più tardi. Ogni cosa a suo tempo.»
La luce si spense.
Il rosgollano era scomparso.
Lo schermo indicava che il sole giallo copriva ormai un quarto dello spazio.
Nella cabina, i quattro uomini si guardarono confusi e allibiti.
Stone ritrovò la voce per primo. «L’abbiamo visto davvero?» chiese, sbarrando gli occhi.
«Sì, l’abbiamo visto» disse Havig. La sua faccia era ancora più lugubre del solito. «È apparso là in quell’angolo. Mandava uno strano chiarore. Ci ha rivolto la parola.»
Tutt’a un tratto, Bernard cominciò a ridere. Era una risata secca, rauca. Gli altri lo guardarono accigliati.
«Si diverte» disse Stone.
«Possiamo ridere anche noi?» chiese Dominici.
«È di noi stessi che bisogna ridere» disse Bernard. «Di tutti noi qui in questa cabina, e nell’impero terrestre. Di quel povero sciocco del Tecnarca McKenzie. Dei Norglani: verdi, azzurri, viola. Ricordate cosa ci dissero Skrinri e Vortakel? I termini del loro ultimatum?»
«Certo» disse Stone. Imitò il tono dei Norglani. «Tenetevi pure questi mondi. Tutti gli altri appartengono a Norgla.»
«Appunto» disse Bernard. «In uno slancio di cosmica superbia, noi siamo corsi attraverso lo spazio per preporre ai Norglani, con magnanimità tutta terrestre, la divisione in parti uguali dell’Universo. Con orgoglio ancora più grande, … e più stupido, loro ci hanno rispediti via con le pive nel sacco. Ma chi eravamo noi per dire: l’Universo è nostro? Insetti! Formiche! Esserini in lento sviluppo, senza nessuna importanza.»
«Ma siamo uomini» tuonò Havig con ostinazione.
Bernard si girò di scatto e affrontò il Neopuritano. «Uomini!» schernì. «Voi, che dite di conoscere le vie del Signore. Proprio voi, Havig. Che cosa sapete? Che gliene importa a Dio di voi, di tutti quanti siamo? Siamo una parte addirittura insignificante della sua creazione. Lui esiste, e ci considera solo come una delle tante forme di vita. Niente di più, niente di speciale. Siamo vermi in una pozzanghera, e siccome ci sentiamo signori e padroni della nostra particolare pozzanghera abbiamo creduto di potere affermare che possedevamo il cosmo!»
«Tacete un momento, Bernard» disse Dominici. «È il vostro turno, adesso, di dare segni di squilibrio? Si può sapere, una buona volta, che cosa state cercando di dirci?»
Con voce quieta Bernard disse: «Non sono ben sicuro di quello che voglio dire… almeno per ora. Ma credo di sapere quello che ci aspetta. Penso che verremo rimessi al posto che ci compete nell’Ordine delle cose. Non siamo i signori della creazione. Agii occhi di questa gente, siamo sì e no esseri civili! Avete sentito quello che ha detto il rosgollano? Erano come noi, alcune centinaia di migliaia di anni or sono! Sulla loro scala del tempo, noi siamo scesi dagli alberi un paio di minuti fa, e da due o tre secondi abbiamo imparato a leggere e a scrivere, e appena da una frazione di secondo abbiamo cominciato ad avere un minimo di controllo su quanto ci circonda.»
«D’accordo, d’accordo» disse Dominici. «Perciò, loro sarebbero molto avanti rispetto…»
«Molto?» Bernard scosse la testa. «La differenza è inconcepibile. Il baratro d’evoluzione tra… tra quell’essere e noi è talmente enorme che non possiamo nemmeno tentare di immaginarcelo. È sufficiente a demolire tutta la nostra arroganza. È divertente vero, scoprire di non essere affatto gli arbitri della situazione?»
«La Terra riceverà una bella sorpresa» disse tranquillamente Havig.
«Se mai torneremo a rivederla» disse Dominici.
«La Terra resterà sorpresa, e come!» riprese Bernard. «E questa sorpresa sarà sufficiente, almeno spero, a vanificare tutti i suoi piani di conquista e di egemonia. C’è andata bene per troppo tempo. Per troppo tempo abbiamo pensato di essere gli arbitri supremi di tutto ciò che cadeva sotto la nostra conoscenza… È stato già un bello schiaffo scoprire un’altra razza: i Norglani. Una razza che, come noi, pretende di dominare il nostro Universo. Ma adesso, imbatterci nei Rosgollani…»
«E chissà quali e quant’altre razze potrebbero esserci» disse Stone all’improvviso, con uno sguardo sgomento, quasi folle. «In Andromeda, per esempio, o nelle altre galassie. Creature ancora più evolute dei Rosgollani.»
Un’ipotesi allucinante.
Bernard guardò altrove, provando un senso di vertigine di fronte all’improvisa conferma dell’immensità dell’Universo. L’Uomo non era solo. Tutt’altro. Su altri pianeti, in altri Universi, a distanze incredibili, esseri più antichi osservavano e commentavano i primi passi tanto buffi quanto arroganti dell’Uomo nello spazio. Bernard sentiva gli occhi schizzargli dalle orbite. Aveva la gola secca, le labbra gonfie.
Vedeva ancora, con gli occhi della mente, quello spettrale bagliore dorato. Gli sembrava ancora di sentire quella voce calma, sicura. Ricordava ancora le parole infinitamente umilianti…
«Andiamo a prua» disse. «Dobbiamo informare Laurance.»
«Sì, certo» disse Stone.
Si recarono tutti a prua. Ma non c’era bisogno di informare il Comandante sulla presenza dello strano visitatore. L’equipaggio, tutto riunito nella cabina di comando, sembrava stravolto, sbigottito.
«L’avete visto anche voi?» chiese Dominici.
«Il rosgollano?» disse Laurance. «Sì. Certo, l’abbiamo visto anche noi.» La sua voce era incredibilmente atona, incolore.
Clive cominciò a ridere piano. La risata cominciò come un suono rauco che partiva dall’interno del petto, e saliva rapidamente fino ad assumere tutte le caratteristiche dell’attacco isterico. Per un attimo nessuno si mosse. Poi Bernard attraversò la cabina rapidamente, afferrò Clive per il colletto della camicia e lo schiaffeggiò tre volte, forte, senza intervallo.
«Basta! Smettetela, Clive!»
La risata si spense. Clive batté le palpebre, scosse la testa, si massaggiò la guancia rossa. Bernard fissava sorpreso la propria mano, le dita che ancora gli prudevano per la forza dei colpi. Si rendeva conto che per la prima volta in vita sua aveva colpito un suo simile. Però, era stato un intervento necessario; senza di quello, la risata convulsa di Clive avrebbe finito per contagiare tutti, e proprio in un momento in cui ciascuno di loro era pericolosamente in bilico sull’orlo della follia. Bernard s’inumidì le labbra.
«Dobbiamo assolutamente evitare che tutto questo ci faccia uscire di senno.»
«Perché mai?» chiese Laurance sempre con voce incolore. «È la fine, no? La fine di tutti i nostri bei discorsi. Dei nostri sogni imperiali. Ora sappiamo fino a che punto siamo insignificanti. Siamo solo mammiferi che vivono su un infimo pianeta di un piccolo sole giallo, in una piccola galassia laggiù, nell’angolo dello schermo. Può darsi che abbiamo occupato qualche altro pianetino, ma questo non significa certo che siamo i padroni dell’Universo. Vero?»
Bernard non rispose. Fissava lo schermo principale sul quadro di comando. Un pianeta appariva proprio al centro: bene a fuoco. La VUL-XV era entrata in orbita attorno a quel pianeta, in un’orbita decrescente.
«Stiamo per atterrare» chiese Bernard.