Il nome di Arthur Wilson Tucker non viene citato frequentemente tra i più popolari scrittori di fantascienza, e il massimo riconoscimento della sua carriera è stato solo il John W. Campbell Memorial Award 1976, attribuito — in via eccezionale — retroattivamente proprio a questo L’anno del sole quieto (1970): romanzo che entrò in finale al premio Hugo ma che venne penalizzato sia per la straordinaria carica eversiva, sia per lo scottante argomento — il razzismo, più o meno velato — che per l’America appena reduce dall’assassinio di Martin Luther King, in preda ai disordini razziali e in piena confusione post-kennediana, era un elemento scomodo e certo assai più inquietante delle complicate storie future o dei problemi astratti e à la page dello spazio interno e dei movimenti più o meno femministi. Non c’è da meravigliarsi, perché nella letteratura mainstream in quegli anni accadeva di peggio: a favore dei votanti dei premi Hugo di quel perìodo si può dire che essi peccarono per ignoranza, non per malafede.
Eppure L’anno del sole quieto, che coronava una straordinaria esperienza editoriale — quella dei primi “Ace Science Fiction Specials” delia coppia Donald A. Wollheim/Terry Carr (una collana che in pochi mesi presentò alcuni tra i migliori romanzi di un periodo poco illuminato della fantascienza, a cominciare da Infinito (1966) di Clifford Simak, La mano sinistra delle tenebre (1969) di Ursula K. Le Guin, Il sistema riproduttivo (1968) di John Sladek e molti altri autori) era solo un capitolo della carriera letteraria di Tucker, autore sottovalutato soprattutto in America, eppure tra i più compiuti romanzieri espressi dalla SF nel ventennio 1950–1970.
Scrittore lucido, elegante, dotato di una prosa forte di cristallina semplicità, Tucker esordì come romanziere di SF nel 1951, con La città in fondo al mare: si era nel periodo del timore atomico, Hiroshima e Nagasaki erano ancora accese nella memoria del grande pubblico americano, che si era svegliato un giorno con la sconvolgente consapevolezza che anche gli ’altri’, i Russi in pieno stalinismo, possedevano un’arma capace di produrre devastanti e forse irreparabili effetti sull’intera civiltà. Gli scienziati lanciavano inutili ammonimenti — come avrebbero fatto a proposito di inquinamento ed ecologia per tutti gli anni ’60 — il Sud-Est asiatico e il Medio Oriente erano altrettante polveriere, da un giorno all’altro ci si aspettava che i russi invadessero la parte occidentale della Germania, negli Stati Uniti il comunismo era divenuto quasi un pretesto per riesumare le gloriose imprese dell’Inquisizione, e gli scrittori di fantascienza erano, come sempre avrebbero dovuto essere, attenti all’estrapolazione e vigili nel lanciare i loro ammonimenti quasi sempre inascoltati, imitando in questo gli scienziati.
La città in fondo al mare (1951) è, tra i cosiddetti “classici minori” della fantascienza, uno dei più originali, incisivi e affascinanti. In un futuro post-atomico in una società di donne-guerriere giunge un uomo. Lupo, che apparentemente non sa parlare: gradualmente però egli conduce le smarrite guerriere in una sorta di quest che terminerà in una scoperta fondamentalmente ottimista sulle possibilità di far tesoro degli errori del passato per ricostruire una civiltà diversa. Scritto in maniera splendida, è tra i gioielli di un periodo nel quale abbondano le opere di SF realmente creative (pur se in molti casi più povere stilisticamente di quelle scritte in epoche successive). Eppure Wilson ’Bob’ Tucker era un nome già noto ai fans americani, e come avvenne ad altri successivamente, proprio questa sua apparizione fin dagli anni ’30 al nascente fandom fu una remora non indifferente per la carriera letteraria dell’autore; era talmente familiare ai frequentatori di conventions che nessuno, paradossalmente, lo prendeva abbastanza sul serio come ’scrittore’ d’impegno.
Eppure, se diamo un’occhiata alla sua carriera di romanziere (Tucker scriveva anche racconti, certo: a cominciare dal 1941, quando il suo primo racconto professionale, “Interstellar Way Station”, uscì sulla rivista Super Science Novels, ma congenialmente sceglieva il romanzo) troviamo romanzi sempre eccellenti, con alcune punte straordinarie: nella sua versione originaria Signori del tempo (scritto nel 1953: la revisione compiuta dall’autore nel 1971, nel tentativo di ’aggiornare’ il libro, ne ha tolto buona parte della carica emotiva) è una tra le migliori versioni della leggenda dell’Immortale — e de! mito di Gilgamesh — che mai sia stata scritta, e ne ritroviamo imitazioni a tutti i livelli, compreso il celebrato film Highlander che ne è una quasi fedele interpretazione; Alla ricerca di Lincoln, del 1957, è un perfetto romanzo sui viaggi nel tempo e sui possibili futuri alternati; Il lungo silenzio, del 1952, il suo secondo romanzo anch’esso basato sul pericolo atomico — è da molti critici, soprattutto europei, giudicato tuttora il suo capolavoro; Tele-Homo Sapiens, del 1954, è tra i primi e migliori romanzi sui fenomeni ESP; L’ultima stazione, del 1960, è forse l’ultimo grande romanzo interplanetario — successivamente la maggiore conoscenza dello spazio vicino e l’idea che le conquiste spaziali avrebbero irrevocabilmente datato le storie ambientate tra i pianeti del sistema solare avrebbe erroneamente dissuaso gli scrittori dallo scrivere sul nostro futuro all’interno del sistema: come dimostrò anni dopo Arthur (‘. Clarke (insieme a Stanley Kubrick) con 2001: Odissea nello Spazio, non poteva esserci nulla di più errato di questo presupposto.
L’anno del sole quieto, però, è di tutti i romanzi di Tucker il più aggressivo, il più forte, il più amaro. Tucker attacca l’America e il mondo di quel periodo con inusitata forza ed estrema sobrietà: non c’è carica di affettuosa ironia, come in altre opere del periodo, ma un senso compiuto della tragedia, concepita e sviluppata attraverso cadenze parabibliche, fino a un finale tra i più belli e ricchi di respiro letterario della fantascienza dell’epoca.
Gli elementi sui quali è costruito il romanzo sono tra i più compositi (Tucker è scrittore dai molti interessi, abituato a documentarsi scrupolosamente prima d’iniziare la stesura di un’opera): dai Manoscritti del Mar Morto (i rotoli ritrovati nella zona del Monastero di Qumran nella prima metà del secolo, e che tante controversie hanno provocato tra gli studiosi biblici) alla situazione politica in Asia, dalla stolidità della White America alla passività delle masse. Il quadro che ne risulta, per quanto collocato temporalmente nel “vicino” futuro e quindi consapevolmente destinato a una datazione epidermica, è d’impressionante vigore e chiarezza, plausibile fino a diventare “reale”: e ciò avviene per contrasto anche a una lettura fatta dieci anni dopo l’epoca in cui l’azione è collocata, dando in più la possibilità d’interpretare un periodo storico e le sue possibili conseguenze, elemento questo tra i più preziosi della fantascienza nel contesto della cultura contemporanea (i romanzi migliori di ogni periodo offrono infatti una possibilità di risalire dall’estrapolazione alle cause, fornendo un’interpretazione storica del nostro tempo assai più incisiva di quelle tentate a posteriori e quasi sempre scritte in maniera parziale e preconcetta).
Se un difetto dobbiamo trovare in questo tipo di costruzione, che è il tipico presunto difetto del romanzo di “idee” — difetto non sempre presente nella SI, che spesso è riuscita a fondere romanzo di personaggi e romanzo d’idee — è una certa schematicità nel disegnare i personaggi. Tucker, intento a divinare e descrivere il mondo del futuro in base al mondo che lo circonda, non ha scavato molto in profondità nei sentimenti: ha suggerito senza concludere. Brian Chaney, il maggiore Moresby, Gilbert Seabrooke, Arthur Saltus e Kathryn Van Hise sono appena credibili e vivi, ma appaiono in due dimensioni; e in alcuni punti ci si domanda se l’autore non abbia inteso servirsi del cliché per dare forza al contesto, soprattutto nel personaggio nel quale l’autore si identifica (Arthur Saltus) e nei peraltro credibilissimi maggiore Moresby e Gilbert Seabrooke.
Il sospetto che certe forzature siano volute e acquistino una valenza simbolica viene corroborato, a esempio, dall’uso della macchina del tempo, affettuoso ricordo wellsiano che l’autore pone come puro espediente narrativo, circondandolo d’ironiche annotazioni fuorvianti (il serbatoio d’acqua polimerica, il pedale di avviamento, lo stretto pertugio d’entrata, le maniglie, l’esiguo spazio nel quale si muove il viaggiatore, tutti tocchi di raffinato humor in un conte, io disperatamente tragico): ma tutto scompare nella dimensione agghiacciante che l’intera opera ci offre dì un’America mutata confusa senza capirne il perché, attonita in imo dei momenti di maggiore crisi morale di tutta la sua storia. Gli anni del ritrovato orgoglio reaganiano sono annua lontani: dopo L’anno del sole quieto l’America — e con essa la fantascienza — avrebbero dovuto affrontare gli anni più bui della loro storia; gli anni del Watergate e di Jimmy Carter per l’America, gli anni di un profondo ripensamento e di una problematica relazione con il mainstream per la SF.
Testimonianza inquietante, dunque, ma anche opera viva, bella, colta e pregna d’idee: insomma, una tappa fondamentale nello sviluppo e nella maturazione di un ampio movimento letterario com’è stato, e come sta ritornando a essere la fantascienza.
Ugo Malaguti