Ben Bova L’astronave dei 20.000

I

— Al fuoco… lo spazio sei brucia!

— Emergenza. Emergenza. Emergenza.

— Attenzione. Emergenza nello spazio crionico sei. Le squadre di Controllo Avarie e Mantenimento Ambiente si portino subito nello spazio crionico sei. Emergenza.

— Brucia tutto! L’equipaggiamento di riserva è inutilizzabile! Mandate altri uomini, presto!

L’astronave non aveva un nome. La gente a bordo la chiamava semplicemente la nave. All’origine era stata un enorme satellite orbitante intorno alla Terra, una metropoli minore nello spazio che si teneva stretta al pianeta madre. Poi era stata trasformata in una prigione per migliaia tra i più grandi scienziati del mondo e le loro famiglie, e adesso era un’astronave che viaggiava silenziosamente verso il sistema stellare triplo di Alpha Centauti.

Al centro di comando c’era fermento. — Nelle criocuccette moriranno tutti se non si spegne l’incendio!

Larry Belsen era ritto sul ponte di comando, costituito da una lunga fila curva di consolle a cui stavano seduti i tecnici addetti a manovrare i dispositivi che controllavano e regolavano ogni parte del mastodontico veicolo. Le funzioni di Larry erano quanto di più vicino ci fosse a quelle di un Comandante dell’astronave: dirigeva quel Centro di Comando e Vigilanza, e la sua mano tastava il polso dell’astronave.

I tecnici erano chini sulle consolle, con le dita che volavano sui tasti che collegavano elettronicamente tutta l’astronave, uomini e macchine. Ciascuno aveva davanti un video a cui arrivavano fotografie, carte, grafici, informazioni di tutti i generi da ogni comparto e da ogni pezzo dell’equipaggiamento di bordo: motori, elaboratori, controlli d’usura, alloggi, zone di lavoro, unità crioniche, generatori di potenza… tutto in evidenza sulle centinaia di schermi.

Di solito, Larry si raffigurava l’anello di videoschermi come l’occhio di un gigantesco insetto elettronico, un occhio multisfaccettato capace di vedere in tutte le parti dell’astronave. Aveva imparato molte cose sugli insetti della Terra dai nastri studio di un corso di biologia. In quel momento, però, la sua attenzione era concentrata su un particolare schermo, dove infuriava l’incendio dello spazio crionico sei. Non che vedesse gran che, perché il fumo oscurava tutto.

Mise una mano sulla spalla della ragazza che lavorava a quella consolle. — Non riesci a far funzionare l’equipaggiamento d’emergenza?

La ragazza era esile, bruna di pelle e coi capelli cortissimi. Alzò la testa. — Avrebbe dovuto mettersi in funzione automaticamente. Ma non risponde. Ho tentato… — Aveva gli occhi sbarrati dalla paura, ansiosi.

— Non è colpa tua — disse Larry, calmo. — Non sentirti responsabile.

— Ma ci sono cinquanta uomini che dormono, là dentro!

Larry scosse la testa, e senza prendersi la briga di andare a controllare i dati dell’ambiente, disse: — Sono certamente morti, ormai, Tania. Non tormentarti.

Fece un passo e si rivolse al tecnico seduto alla consolle successiva. — Sei in contatto col gruppo Controllo Avarie?

— Sì… hanno inserito un telefono del corridoio centrale, appena fuori dello spazio sei.

— Che unità è?

— Quella di Mort Campbell, ma non c’è lui al telefono.

— Fammi parlare…

— È il sei che brucia? — Larry si voltò e vide Dan Christopher fermo sulla porta di fondo, all’estremità del ponte di comando. Per un istante, tutto parve fermarsi: i tecnici congelati alle consolle, gli altoparlanti zitti, i video immobili.

A prima vista, Larry e Dan sembravano fratelli. Larry era alto e magro, con i capelli scuri, che teneva tagliati corti, e gli occhi grigi, freddi come lo spazio. Dan era alto e magro come lui, ma aveva i capelli più chiari, un po’ ondulati, e lunghi fin quasi alle spalle. E i suoi occhi erano neri, profondi, lampeggianti. Tutti e due portavano la tuta da lavoro: Larry quella grigioazzurra del personale del Centro Comando e Vigilanza, Dan quella arancione vivo del gruppo Propulsione e Potenza.

— È il sei? — chiese di nuovo Dan, a voce più alta.

Larry non rispose, annuì soltanto, lentamente.

— C’è mio padre, là!

Larry aveva intanto attraversato il pavimento di mattonelle di plastica e si era avvicinato a Dan. — C’è anche il mio! — disse, prendendogli un braccio. — Non ci puoi fare niente, Dan. Quelli del Controllo Avarie sono già là, ma…

— Mio padre!

Dan si strappò alla stretta e spalancò la porta. Larry rimase fermo, a guardarlo correre via lungo il corridoio, finché la porta non si richiuse da sola.

Poi, scuotendo tristemente la testa, Larry tornò alle consolle e agli schermi.

— Sei sempre in contatto col gruppo Controllo Avarie?

Il tecnico annuì e indicò, sopra la sua consolle, uno schermo al centro di sette, più grande degli altri. Vi si vedeva un ragazzo dall’aria spaventata che, tossendo per il fumo che lo avvolgeva, guardava qualcosa fuori campo.

— Che succede, lì? — chiese Larry brusco.

Il ragazzo trasalì, poi, voltandosi con la faccia allo schermo, disse: — Il signor Campbell e i suoi uomini sono dentro… Fino a pochi minuti fa dal portello uscivano fiamme, ma adesso si vede solo fumo.

— Qualcuno si è fatto male?

— Non so. Sono tutti dentro… non è uscito ancora nessuno.

— Hanno le maschere antifumo?

— Sì…

— La tua dov’è?

Il ragazzo parve di nuovo colto di sorpresa. — Io… ehm… è qui… ce l’ho…

In tono più mite, Larry disse: — Non credi che ti convenga metterla? Non può proteggerti, appesa alla cintura.

Accorgendosi che era chino sulla spalla del tecnico seduto, Larry si raddrizzò e gettò un’occhiata ai controlli dello stato dell’ambiente sulla consolle vicina: i visori erano vuoti, spenti.

Cinquanta persone. Il padre di Dan… e il mio.

— Larry… guarda.

Larry rivolse di nuovo l’attenzione al video. Gli uomini di Controllo Avarie cominciavano a uscire, trascinandosi a fatica, nel corridoio, con le facce sporche e le tute annerite. Le pompe schiumogene e gli altri attrezzi antincendio che si tiravano dietro sembravano pesare tonnellate.

Dal portello non usciva quasi più fumo. L’ultimo uomo che sbucò nel corridoio si slacciò lentamente la maschera, e Larry riconobbe Mort Campbell, grosso e lento nei movimenti, ma sempre sicuro di sé. Aveva quasi trent’anni, ed era stato uno dei più vecchi del suo gruppo.

Poi, impetuosamente, entrò in scena Dan Christopher. Senza una parola, si fece largo tra i primi uomini del Controllo Avarie, con lo sguardo allucinato, la bocca aperta in una smorfia di disperazione.

Al portello, Campbell lo fermò. Dan tentò di schivarlo, ma Campbell lo afferrò per le spalle esili e lo bloccò.

— Non entrare. Non è un bello spettacolo.

— Mio padre…

— Sono tutti morti.

Guardandoli sul video, Larry provò un cedimento dentro. Lo sapevi che era morto, si disse. Ma saperlo con la testa e sentirselo nelle viscere erano due cose completamente diverse.

Avvertiva che tutti i tecnici, da un capo all’altro della lunga fila di consolle, lo stavano guardando, e rimase immobile, con la faccia irrigidita in una maschera di concentrazione, gli occhi fissi allo schermo. Dentro continuava a ripetersi: non l’avevi mai conosciuto. Era stato congelato che tu eri tanto piccolo da non ricordartene neppure. Ma non c’è motivo di farne un dramma. La reazione di Dan fu molto diversa.

— No! — urlò, e divincolandosi si strappò alla morsa di Campbell e penetrò nello spazio sei. Campbell si rimise la maschera e lo seguì.

— Le telecamere dello spazio sei non funzionano — disse la ragazza alla consolle a voce bassa, continuando a battere accanitamente le dita sui tasti, per tentare d’infondere vita alle macchine morte.

— Non importa — disse Larry, con voce atona. — Non c’è niente che ci serva vedere, là dentro.

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