XII

La furia del vento continuava ad aumentare.


Dan tentò di appiattirsi nella rientranza tra due cisterne, ma si sentì strappare via, come se il vento volesse tirarlo fuori dalla nicchia e giocare a bocce con lui, come aveva fatto coi pannelli solari. Non ce la faceva quasi più a stare in piedi. Il rumore dell’uragano era assordante, la polvere gli impediva di vedere a dieci metri. Sentiva la sabbia raschiare contro la tuta. Una pellicola giallastra gli si stava formando sulla visiera, e quando, goffamente, ci passò sopra una mano per pulirla, non fece che peggiorare le cose.

Non posso rimanere qui, pensò. Devo in qualche modo arrivare al rifugio.

Sporse appena la testa dal fianco curvo di una cisterna per guardare la tenda, e per poco il vento non lo buttò a terra. La tenda, sbatacchiata dal vento, si agitava all’impazzata, schioccando e sventolando come un enorme lenzuolo. A un certo punto flagellò uno dei sottili tubi metallici che uscivano dalla tozza centrifuga, e il tubo, con un rumore secco, si spezzò in due. Dan ebbe la visione nitida di quello che sarebbe successo a lui se la tenda-frusta l’avesse colpito.

Non riusciva quasi più a muovere le braccia. Ho i muscoli stanchi… o sono le giunture della tuta bloccate dalla sabbia? Probabilmente tutte e due le cose.

Poi cominciò a chiedersi che cosa sarebbe successo se nella tuta si fosse aperta una fenditura, se l’aria solforosa avesse corroso i tubi di plastica dell’ossigeno, se la sabbia avesse tolto ogni mobilità alla tuta, se…

Basta! s’impose. Cerca di pensare con calma. Sei abbastanza al sicuro qui o devi tentare di arrivare al rifugio? La risposta non venne da lui. Mezza dozzina di lampi guizzarono in lontananza, ancora al largo del mare, ma non tanto distanti, perché il tuono esplose quasi subito, assordante.

I fulmini! A Dan venne in mente una cosa che aveva sentito dire dopo l’ultimo uragano. I fulmini erano attirati dai grandi impianti metallici della raffineria. L’avevano colpita a decine.

Se mi faccio sorprendere dai fulmini qui fuori…

Capì che doveva arrivare al rifugio.

Lentamente, con concentrazione, si piegò in ginocchio e poi si sdraiò a pancia in giù. Vicino a terra la sabbia agitata dal vento era anche più fitta, e non ci si vedeva a un palmo. Il vento tentò di sollevarlo, di farlo volare come un aliante.

Resistendo, schiacciandosi contro il terreno, Dan cominciò a strisciare verso la tenda, guidato, più che dalla vista, dagli schiocchi della plastica.

Gli parve di strisciare per ore, e sapeva che la tenda era solo a pochi metri dalle cisterne. Per un attimo, un lampo scolorì tutto di un bianco accecante, e quando scoppiò il tuono, Dan ebbe l’impressione di spaccarsi come un guscio d’uovo. Avvertiva dolore in tutto il corpo, ed era inzuppato di sudore.

Devo fermarmi… riposare… Ma qualcosa dentro di lui si ribellò. Se ti fermi sei morto. Avanti, maledizione! Avanti!

E continuò ad avanzare, centimetro per centimetro. Un fulmine colpì del metallo vicino a lui, con un bagliore vivido e uno scoppio assordante. Qualcosa gli frustò la gamba destra, e in quel punto la tuta s’irrigidì e non si fletté più.

Sarà la tuta o la gamba? Non sentiva male, ma poteva essere il torpore provocato dallo choc. E poi, aveva male dappertutto…

La sua mano destra urtò qualcosa. La base circolare d’acciaio-plastica della tenda.

Alzò la testa e vide, davanti a sé, la tenda, che sventolava furiosamente, simile a un mostro da incubo. Si gonfiava, ingigantiva, riempiendogli la vista della sua grinzosa immensità. Poi, con uno schiocco, si appiattì, per rialzarsi quasi subito.

Quella mi spacca in due, pensò Dan.

Armeggiò goffamente con la cintura, e dopo molti tentativi riuscì a prendere dalla borsa degli attrezzi il piccolo laser a forma di pistola che usava per tagliare e saldare.

Ne appoggiò il muso rincagnato contro la base della tenda, e premette il grilletto. Non ci furono né rumori né vibrazioni, ma dopo qualche istante la plastica brillò e si lacerò, staccandosi dal basamento.

Poi, gonfiandosi, si lasciò prendere dal vento, scomparendo nell’uragano urlante come un gigantesco uccello liberato da una gabbia.

Per un lungo, terribile momento, Dan rimase fermo dov’era, poi lentamente si issò sulla base della tenda e si trascinò verso il portello del rifugio sotterraneo. Le scrivanie, le sedie, gli schermi, i pannelli di controllo erano stati rovesciati dal vento e sparpagliati come sassolini. Un altro fulmine esplose, con accecante, assordante veemenza.

Poi le mani di Dan trovarono il portello. Intorpidito dal dolore e dalla stanchezza, si tirò su sui gomiti e annaspò cercando l’interruttore di comando. Lo trovò e vi si lasciò cadere sopra. L’interruttore non si mosse. Dan pigiò con tutte le sue forze. Niente.

Bloccato dalla sabbia.

Dan alzò un pugno e con uno sforzo enorme lo picchiò sul portello. Se Cranston è dentro… se non è morto… I pensieri gli si confondevano nella testa. Picchiare. Alzare il pugno e lasciarlo cadere. Alzare il… pugno e… lasciarlo cadere.

Il portello si mosse! Dan lo sentì spingere contro il suo braccio inerte, lo vide sollevarsi lentamente. Una mano guantata lo apriva da dentro.

Tutto si fece indistinto, caliginoso, rosso sangue e poi nero seppia. Dan sentì il suo corpo muoversi, e l’urlo del vento gli giunse affiochito, smorzato. Qualcuno gli parlava, parole pressanti gli crepitavano nella cuffia. Poi il nero lo avvolse e lo fece affondare nell’incoscienza.


Quando si svegliò, era senza casco: e Cranston non aveva nemmeno la tuta, solo la sua uniforme azzurra. Il piccolo rifugio sotterraneo era fresco, comodo e sicuro. Il vento era un mugolio lontano. Le pareti curve e il soffitto del rifugio erano protettivi, la cuccetta morbida e comoda.

Ross Cranston era ritto in piedi davanti all’unità di cottura.

— Hai fame? — chiese guardando Dan con aria preoccupata.

Dan si accorse di essere seduto su una delle cuccette, appoggiato alla parete curva del rifugio.

— Eh?… sì. — Gli dolevano tutti i muscoli. Aveva un mal di testa feroce, la bocca secca e incrostata di polvere.

Guardandosi le gambe, vide che Cranston gli aveva tolto, oltre al casco, la parte inferiore della tuta.

— C’era una brutta ammaccatura sulla gamba — disse Cranston. — Ho voluto accertarmi che la tua gamba, sotto, non fosse ferita. Hai un livido, niente di grave.

— Quando… — Dan tentò di leccarsi le labbra ma aveva secca anche la lingua. — Quando sei… sceso nel rifugio?

Cranston lo sbirciò con evidente disagio, poi riportò l’attenzione sulla cucina. — Ehm… ho tentato di avvertirti… ma tu non rispondevi. Non sapevo cosa fare, avevo paura che ti fosse successo qualcosa. E poi… ehm… la tenda pareva lì lì per crollare…

— Infatti è crollata — disse stancamente Dan. — Hai fatto benissimo a metterti al sicuro.

— Oh… be’… — Cranston sorrise, sempre un po’ vergognoso.


L’alloggio del dottor Hsai somigliava a certe case giapponesi che Valery aveva visto sui nastri di scuola.

Era un comparto singolo, non più grande degli altri, ma tutto diverso. Verdi rampicanti salivano su per una parete fino al soffitto, dove s’insinuavano tra i pannelli luminosi. Sulla parete c’era un disegno, che rappresentava amene colline verdeggianti e un fiume con un ponticello civettuolo. I rampicanti sembravano fondersi col disegno, animandolo. La cuccetta era austera, ma alla parete contro cui poggiava era appeso un bellissimo drappo rosso. Non c’erano altri arredi, tranne due cuscini per terra e un tavolino nero laccato.

Anche il dottor Hsai era pittoresco, in una morbida vestaglia bianca e nera, con un brillìo di fili d’oro al collo.

— Che magnifica vestaglia! — esclamò, suo malgrado, Valery, entrando nel comparto.

Il medico sorrise amabilmente. — Apparteneva al mio trisnonno ed è stata tramandata di padre in figlio da molte generazioni.

— È molto bella.

Il dottor Hsai sorrise ancora e s’inchinò leggermente. — Purtroppo — disse, — non ho sedie dove farvi sedere. Di solito ricevo nel mio ufficio all’infermeria. Ma voi avete tanto insistito…

— Starò comodissima sul pavimento — disse Valery, e si accovacciò vicino alla cuccetta.

Il dottor Hsai le offrì uno dei cuscini, e Val si sedette sopra e si appoggiò all’orlo della cuccetta.

— Le domande che avete da farmi sono di carattere medico? — chiese il dottor Hsai, sedendosi in mezzo alla stanza.

— Psicologico, direi.

Il dottor Hsai annuì. — Lo immaginavo. Purtroppo le mie nozioni di psicologia sono scarse, anche se in queste ultime settimane ho studiato a fondo tutti i nastri della materia.

— Perché? — chiese Val. — Pensate anche voi che ci sia un assassino a bordo dell’astronave?

Il dottor Hsai sorrise pacatamente. — No, no. Ma qualcuno lo pensa, e sto cercando d’individuare la causa di queste paure.

— Ci sono stati… gli incidenti.

— Sì.

Valery cominciava a sentirsi a disagio. La domanda che era venuta a fare le pareva improvvisamente stupida, e quel che era peggio, aveva l’impressione che il dottor Hsai sapesse quello che voleva chiedergli e compitamente aspettasse che fosse lei a entrare in argomento.

— Dan Christopher ha subito forti scosse emotive — disse lo psicotecnico, più che altro per non far languire la conversazione. — È un giovane che ha molti problemi. Forse converrebbe rianimare uno psichiatra e farlo esaminare a fondo.

— È quello che penso anch’io. Come mai non è stato fatto? — chiese Val.

— Larry Belsen non lo ritiene necessario. E come presidente, spetta a lui decidere sulle richieste di rianimazione.

— Ha detto esplicitamente di no?

— Sì. Gli ho chiesto se voleva che rianimassimo uno psichiatra… È stato quando Dan Christopher era in osservazione all’infermeria, e io non trovavo niente per cui si potesse considerare malato.

— E Larry ha detto che non voleva?

Il dottor Hsai si accigliò leggermente. — Non si è espresso così. Ha detto che secondo lui non era necessario. Voi sapete quante difficoltà comporti rianimare una persona, soprattutto con le risorse limitate che abbiamo. Non è una cosa da farsi alla leggera. Anche perché non si può richiedere alla persona rianimata di tornare a dormire dopo pochi giorni o settimane. Non è consigliabile nemmeno dal punto di vista medico.

— Lo so. — Valery si accorse che stava mordicchiandosi il labbro. — La domanda che volevo farvi…

— Sì?

Non le sembrava più una domanda tanto sciocca… — È possibile… che una persona commetta atti violenti… senza saperlo?

Hsai parve sconcertato.

— Voglio dire, è possibile che uno commetta un assassinio e poi non se ne ricordi?

Hsai si strinse impercettibilmente nelle spalle. — So, dai miei studi, che casi del genere si sono verificati, ma… io non ne ho mai avuto esperienza diretta.

Senza stare a pensarci due volte, Valery sbottò: — Potrebbe essere che Larry non abbia voluto far rianimare uno psichiatra perché in realtà ha paura che salti fuori che il malato è proprio lui, Larry?

Hsai restò un attimo sorpreso, poi si impose una maschera di calma orientale e professionale. — Credete che Larry Belsen sia uno squilibrato mentale?

— La caduta di mio padre non è stata una disgrazia — disse Valery sentendosi sprofondare. — È stata provocata da qualcuno. Dan o Larry… o qualcun altro.

Il dottor Hsai rimase a lungo in silenzio, con gli occhi chiusi. Poi guardò Valery e disse: — Farò immediatamente i passi necessari per far rianimare i migliori psichiatri che abbiamo. Se i vostri sospetti sono anche vagamente fondati, si tratta di una situazione d’emergenza, e non c’è nemmeno più bisogno dell’approvazione del presidente.

— Il guaio è — disse Valery — che forse Dan è già morto.

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