XIII

Dan sapeva che era un incubo, ma era terrorizzato lo stesso.

Correva, o almeno tentava di correre. Era immerso in un liquido sciropposo che gli ostacolava i movimenti.

Dietro di lui qualche cosa ruggiva, sempre più forte, sempre più vicino. Si voltò un momento a guardare, e non vide altro che un paio di mani gigantesche che si allungavano per afferrarlo.

Tentò inutilmente di correre più forte. Il ruggito divenne assordante. Ci fu un lampo e le mani lo abbrancarono, buttandolo a terra, picchiandolo, tempestandolo di colpi. E lui non riusciva a respirare, non poteva urlare…

Si svegliò, inzuppato di sudore, tutto tremante. Mezzo metro sopra la sua faccia c’era il soffitto curvo del rifugio sotterraneo, e nella cuccetta sotto la sua sentì Cranston russare. Non c’erano altri rumori tranne il ronzìo delle macchine elettriche.

Il vento era cessato!

Dan si tirò su a sedere, facendo urlare di dolore i muscoli della schiena. Per un momento ebbe un terribile capogiro. Poi, vincendo dolore e stanchezza, puntò le mani sull’orlo della cuccetta e si lasciò scivolare sul pavimento di plastica. Come toccò terra, una nuova fitta di dolore lo attraversò tutto.

Scrollò Cranston.

— Oh… eh… cosa…?

— Credo che il temporale sia cessato — disse Dan. — Prova a metterti in contatto con l’astronave, mentre io mi vesto.

Cranston, ancora mezzo addormentato, buttò giù le gambe dalla cuccetta e rimase lì un po’, con la testa ciondolante.

— Cosa… Che ore sono?

Dan guardò l’orologio, regolato sull’ora dell’astronave. — Abbiamo dormito più di dodici ore. Su, mettiti alla radio.

— Come va? — chiese Cranston, calandosi dalla cuccetta.

— Sono tutto pesto, ma non c’è male.

— Colpa di questa maledetta gravità.

Strascicando i piedi, Cranston andò al ricetrasmettitore, lo accese e si mise a parlare. Dan, intanto, indossò l’unica tuta pressurizzata ancora utilizzabile.

Mentre controllava la guarnizione di tenuta del casco, sentì Cranston dire: — Niente da fare, non rispondono.

— La trasmissione è disturbata?

— Neanche tanto. — Cranston scosse la testa. — C’è silenzio. Credo che senza l’antenna e l’amplificatore su nella tenda, questo apparecchio non abbia abbastanza forza per arrivare all’astronave.

Dan non disse niente. Si avviò verso la camera di compensazione, ci entrò e chiuse il portello interno. La camera pompò l’aria nei serbatoi, poi fece lampeggiare le luci verdi.

Dan alzò le braccia, fece scattare il congegno d’apertura del portello esterno e spinse. Una pioggia di sabbia giallastra e cenere gli scrosciò sulla visiera.

Salì sulla scaletta a pioli incassata nella parete, aprì del tutto il portello, e cacciò fuori la testa.

Il campo sembrava aver subito un bombardamento. La tenda non c’era più, e anche i tavoli, le sedie, gli apparecchi radio, i video e tutto il resto erano chissà dove. Restava soltanto la base d’acciaio-plastica, e anche quella era sepolta sotto uno spesso strato di sabbia e cenere.

Il cielo era tutto grigio e cupo. Le nuvole erano alte, ma si muovevano a gran velocità. Rigidamente, per via della tuta che lo impacciava, Dan si girò per guardarsi attorno.

La raffineria era un disastro. I grandi cilindri e le cupole erano spaccati, anneriti, bruciati. C’era poco da ricuperare… Sapeva che avrebbe dovuto rallegrarsi di essere ancora vivo, ma si sentiva depresso, sconfitto.

L’antenna di comunicazione era crollata, naturalmente. Come quasi tutti gli alberi. Ma l’erba c’era ancora, e sporgeva da sotto la sabbia, assurdamente gialla e allegra in quella scena di cupa desolazione.

Dan ridiscese la scaletta, chiuse il portello e riattivò la camera di compensazione. L’aria solforosa del pianeta fu pompata fuori, e l’aria respirabile che era stata immagazzinata nei serbatoi tornò a riempire il piccolo spazio. Quando si accese la luce verde, Dan aprì il portello interno e rientrò nel rifugio.

Si tolse il casco, che sembrava pesare una tonnellata. Cranston era sempre seduto davanti alla radio. — Non rispondono proprio. Non riesco a mettermi in contatto.

— E non possono neanche vederci — disse Dan, tetro. — Siamo sempre coperti da nuvole fittissime.

— Ma non c’è un modo qualsiasi per avvertirli che siamo qui? E loro non possono trovarci col radar, i rivelatori a infrarossi, che so io?

Dan si lasciò cadere sulla cuccetta in basso e si mise ad aprire le cerniere sulle gambe della tuta. — Col radar non possono capire se siamo vivi o no. Se potessimo realizzare una sorgente di calore abbastanza intensa, allora forse i rivelatori a infrarossi la segnalerebbero…

— Una sorgente di calore? E con che cosa?

Dan si strinse nelle spalle. — Abbiamo solo i laser, e non bastano.

— Mmmm… — Cranston cominciava a spaventarsi. — Aria e acqua ne abbiamo?

— L’ossigeno lo si può ricavare dall’atmosfera del pianeta, ripulendola dallo zolfo e dalle altre porcherie — rispose Dan. — Ma l’acqua… l’impianto di purificazione è inservibile. E qui ne avremo al massimo per due giorni.

— E per quanto tempo ancora quelle nuvole ci copriranno?

Dan si strinse nelle spalle. — Direi che ci conviene trovare il modo di realizzare la sorgente di calore.


Larry camminava avanti e indietro sul ponte di comando, seguito da Joe Haller e Guido Lastella. Gli operatori ai pannelli di controllo erano intenti al lavoro.

— Non puoi abbandonarli laggiù senza fare nemmeno un tentativo di salvarli! — stava urlando Haller.

Larry si voltò di scatto e indicò uno schermo, dove si vedeva solo una massa di nuvole grigie in rapida corsa.

— Non abbiamo la minima prova che siano ancora vivi — ribatté seccamente. — E tu vuoi che rischi il nostro unico pilota qualificato e la nostra unica scialuppa d’atterraggio per l’improbabile caso che quei due siano sopravvissuti all’uragano?

— Sì, perdio!

— Io sono disposto a tentare — disse Lastella.

Larry scosse la testa. — Non abbiamo la più vaga idea di quello che c’è sotto le nuvole. L’intera superficie potrebbe essere sepolta sotto tonnellate di cenere vulcanica.

— Di scialuppe d’atterraggio ce ne sono altre — insistette Haller. — Puoi dare ordine che le tirino fuori dal deposito e le rimontino.

— E come sostituisco l’unico astronauta?

— Ma s’è offerto lui di andare!

— No. — Larry scostò Haller e si rimise a camminare sul ponte.

Haller lo seguì, ostinato. — Stai ammazzando due uomini!

— Sono già morti — disse Larry. — Altrimenti si sarebbero fatti sentire. L’uragano è finito da due giorni.

— Può darsi che gli impianti di comunicazione siano stati danneggiati. Può darsi che siano feriti, intrappolati sotto le macerie… chissà.

— Non possono essere sopravvissuti all’uragano — ribatté Larry. — Le hai viste anche tu le scariche elettriche. È stato tutto un lampeggiare. E la velocità del vento oltrepassava addirittura qualsiasi possibilità di misurazione degli strumenti. Quelle nuvole viaggiano ancora a cinquanta chilometri all’ora. Come facciamo a sapere quali sono le condizioni atmosferiche sotto?

Le spalle di Haller s’incurvarono di colpo. — Quanto pensi che dureranno ancora le nuvole?

— Non lo sa nessuno — disse Larry. — Vengono dalla catena di vulcani dall’altra parte del mare. Potrebbe essere questione di ore o di settimane. Non lo sa nessuno.

— Dunque, ce ne staremo qui pacifici ad aspettare.

— Non possiamo fare altro.

Haller parve sul punto di dire qualcosa, ma poi si voltò bruscamente e se ne andò con passo infuriato. Lastellà indugiò un momento, incerto, poi si strinse nelle spalle e lasciò il ponte anche lui.

Larry guardò il videoschermo che presentava la superficie del pianeta, quasi interamente coperta dalle nuvole grigie. Sono morti, si disse. Non è possibile che non siano morti.

Ma se non sono morti, pensò, li stai uccidendo.

— Io devo andar via — disse bruscamente a uno degli operatori. — Se c’è bisogno di me, chiamatemi con l’interfono.

S’infilò nel corridoio che portava al suo ufficio. Ebbe un attimo di esitazione, poi entrò e andò dritto al telefono.

— Voglio Valery Loring nel mio studio, subito.

La voce impassibile dell’elaboratore disse: — Eseguito. Valery apparve sulla porta dopo dieci penosissimi minuti.

— Mi hai fatto chiamare?

Larry avrebbe voluto buttarle le braccia al collo, e stringerla a sé. Invece disse, in tono inespressivo: — Credono che voglia uccidere Dan.

— Chi lo crede?

Larry vide le sue mani agitarsi nervosamente. — Haller, Lastella, e per quel che ne so, tutti quanti su questa maledetta astronave.

Sempre ferma sulla porta, Valery chiese: — Vuoi ucciderlo?

— No, maledizione! No! Che domanda è questa?

— E allora perché hai paura di quello che pensano gli altri?

— Tu non capisci — disse Larry sottovoce. — Nessuno può capire.

— Capire cosa, Larry?

— Io sono il presidente. Ti rendi conto di cosa significa? Sono io che devo prendere le decisioni. Io, e io solo. Devo decidere se mandare Lastella sul pianeta, col rischio che rimanga ucciso. Oppure no, trattenerlo a bordo, contro la sua volontà, finché non sapremo con certezza in che condizioni è la superficie. Ma così probabilmente ucciderei Dan, se non è già morto.

— Non ha ancora dato notizie?

— Niente. Abbiamo esplorato la zona con tutti gli strumenti che abbiamo, e non c’è il minimo segno che lui e Cranston siano sopravvissuti.

— Potrebbero essere nel rifugio.

— Lo so. — Larry scostò la poltroncina della scrivania e vi si lasciò cadere.

Valery era sempre ferma sulla porta.

— Sono io che devo prendere le decisioni — ripeté Larry.

— Lastella è disposto a tentare un atterraggio?

— Sì, ma la decisione la devo prendere io.

— Lo so, Larry, e vorrei poterti aiutare, in qualche modo.

— Nessuno può aiutarmi.

Val fece un passo esitante, entrando nel minuscolo ufficio. — Larry… tu che cosa vorresti fare?

Larry la guardò sorpreso. La risposta era ovvia, per lui. — Io vorrei mandare Lastella a vedere se sono vivi. Credi anche tu che voglia uccidere Dan?

— Io credo che tu voglia fare quello che è giusto, ma che ti lasci fuorviare dalle tue responsabilità di presidente.

— Ma se tentando di atterrare Lastella resta ucciso? Non sappiamo in che stato sia la superficie…

— Si è offerto lui di andare — disse Val. — E tu vuoi fare il tentativo. Se resta ucciso, avrete almeno provato. È sempre meglio che stare qui seduti a far niente, no? A non tentare, sappiamo per certo che Dan morirà. A tentare…

Larry annuì, cupo. — Hai ragione… lo sanno tutti…

— C’è qualcosa che so solo io — disse Valery.

— Cosa?

— Che nonostante quello che è successo e succederà, tu non faresti mai del male a nessuno. Nemmeno a Dan.

— Dan… era il mio migliore amico. Eravamo tutti amici, un tempo.

— Milioni di anni fa. — La voce di Val era debole e lontana.

Larry respirò a fondo, e alzandosi in piedi, disse: — Va bene, faremo questo tentativo di salvataggio. Ma ci vado anch’io con Lastella, là fuori, alla sua ricerca.

Valery non parve sorpresa. — Non ce n’e bisogno. Non devi dimostrare niente, né a me ne a nessun altro.

Voglio andarci.

— Ma non puoi, sei il presidente. E poi porteresti via spazio prezioso a bordo della scialuppa. L’unica cosa che puoi fare per aiutare Dan e Cranston… è prendere una decisione.


Dan, protetto dalla tuta, era sulla superficie del pianeta. Aveva la faccia smunta, e una barba ispida e scura gli macchiava il mento. Si sentiva la bocca secca, arsa.

Guardava il mare, a pochi metri dalla base distrutta. Le onde lambivano la spiaggia sabbiosa, indolenti e benigne. Sarebbero bastati pochi passi per immergersi nell’acqua fino alla vita.

Ma non si può bere, si diceva Dan. È infetta, velenosa. Dev’essere purificata, prima.

— Ancora qualche ora — mormorò, con la voce rauca e impastata, — e saremo ridotti a berla così com’è.

Cranston era nel rifugio, sdraiato nella sua cuccetta, paralizzato dalla paura di morire.

A un certo punto Dan non ce l’aveva fatta più a dividere con lui l’angusto spazio del rifugio. Molto meglio star fuori, nonostante l’impaccio della tuta. E nonostante la puzza del suo corpo, che cominciava a diventare insopportabile.

Gli venne quasi da sorridere. E così l’avrà vinta Larry, alla fine. Mi sembra di vederlo. È un pianeta micidiale, dirà. Troppo pericoloso. Bisogna proseguire, cercarne un altro. Ci lascerà morire, non muoverà un dito per salvarci.

Lo schianto e il brontolìo di un tuono in lontananza gli fecero alzare la testa. Un altro uragano? No, il cielo non era cambiato negli ultimi tre giorni: grigio, fitto di nuvole, ma non tempestoso. E il vento era leggero, agitava appena l’erba.

Dan strizzò gli occhi. Una sottile linea bianca rigava la massa di nuvole. Ma certo, era la scia di un razzo!

Se la tuta glielo avesse permesso, Dan avrebbe fatto un salto di gioia. Gli venne voglia di urlare, di ballare, di far capriole.

Invece rimase inchiodato dov’era a guardare la linea bianca fare una giravolta sopra la sua testa. Distingueva ormai chiaramente la sagoma appuntita del razzo, via via più grande. E nonostante il casco e la cuffia, sentiva il dolcissimo ruggito dei turbogetti ausiliari. Il razzo s’inclinò, e sorvolando il mare andò verso di lui, con le ruote d’atterraggio fuori. Toccò terra sollevando un polverone, e oltrepassò rullando la base semidistrutta.

Poi si girò lentamente, tornò indietro verso Dan, coi motori che urlavano, e una tempesta di sabbia e cenere in coda.

Infine il ruggito si spense, il tettuccio si aprì, e una figura in tuta pressurizzata si alzò in piedi.

Per tutto il tempo Dan era rimasto assolutamente immobile. Scuotendosi bruscamente, portò una mano all’interruttore della radio sulla cintura.

— …stai lì fermo? Di’ qualcosa, agita una mano, fa’ qualcosa! Sei mica congelato?

— Sto bene — gracchiò Dan, con una voce rauca che non riconobbe. — Ho solo sete.

— Sei vivo! — Era la voce di Lastella, trionfante. — Non muoverti, aspettami lì. Ho tant’acqua da nuotarci dentro.

Se Dan avesse avuto abbastanza liquido in corpo, avrebbe pianto di gioia.


Quella sera sull’astronave si fece festa.

Tutti quelli che poterono essere esonerati dal lavoro si radunarono nel self-service e mangiarono e bevvero insieme. Dan dovette lottare per sottrarsi alle insistenti attenzioni del personale medico: ma fece la sua scena, su una sedia a rotelle.

Per la prima volta da mesi, Dan, Valery e Larry si trovarono insieme nello stesso posto, perfino allo stesso tavolo. E per qualche ora, fu come ai vecchi tempi. Nessuno accennò alle esitazioni di Larry a mandare la scialuppa sul pianeta. Le tensioni e le paure furono dimenticate, almeno temporaneamente.

Ma poi, quando la festa cominciò a calare di tono, e la gente, in punta di piedi, o barcollando, cominciò ad andarsene, qualcuno disse a voce alta, abbastanza alta da farsi sentire da tutti: — Abbiamo avuto la prova che su questo pianeta non si può stare. È troppo pericoloso. I nostri due festeggiati l’hanno scampata per un pelo.

Dan si rabbuiò immediatamente. — Abbiamo avuto la prova che occorrono impianti più resistenti e molte precauzioni. Ma se siamo sopravvissuti a un uragano simile, niente può farci paura.

— Io dubito… — cominciò Larry.

Valery lo interruppe. — Abbiamo bisogno di altre scorte di deuterio, no? Perciò qualcuno dovrà per forza tornare sulla superficie, possibilmente meglio attrezzato.

— Sarà un lavoro lungo e duro.

— Ma dev’essere fatto.

Dan si alzò dalla sedia a rotelle e sovrastò gli altri, smunto, con gli occhi cupi e spiritati. — Tutto quello che si deve fare, si farà. E i nostri figli ci giocheranno, sul pianeta, quando li avremo adattati a viverci.

Larry sbirciò Val, vide che guardava Dan, e si sentì ribollire d’odio.

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