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La polizia interrogò per ore Christine e me, ma lasciò che i quattro alieni tornassero subito alla loro nave madre, in modo che Barbulkan fosse curato. Alla fine tornai a casa in taxi (trenta dollari mancia compresa) e restai sveglio per altre due ore a raccontare a Susan ciò che era accaduto.

— Oddio — continuò a ripetere Susan. — Oddio, potevano ucciderti.

— Hollus mi ha salvato. Ci ha salvati tutti.

— Se rivedo quel grosso ragno, lo abbraccio fino a soffocarlo — disse Susan, con un sorriso.

Sorrisi anch’io e le diedi un bacio. Ma a quel punto ero sfinito, completamente distrutto. Avevo la vista confusa e mi sentivo girare la testa. — Mi spiace, tesoro, ma devo dormire un poco — dissi.

Susan annuì, mi baciò di nuovo e andammo a letto.

Dormii fino alle dieci di lunedì mattina. La sparatoria era avvenuta troppo tardi per comparire nei giornali del mattino, ma Susan mi disse che “Breakfast Television” e “Canada A.M,” avevano aperto con quella notizia. Non era andata in ufficio per essermi vicino quando mi sarei svegliato. Quando mi alzai, Ricky era già andato a scuola.

Finalmente a mezzogiorno riuscii ad andare al rom. Per fortuna, poiché era proprio lunedì, il museo era chiuso al pubblico ed era stato possibile ripulire tutto; quando vi entrai, pulivano ancora la Rotonda. Nel frattempo Jonesy e tutti i suoi aiutanti erano nella sala Garfield Weston a ricuperare il possibile degli scisti in frantumi. Alcuni paleontologi dello Smithsonian avevano preso l’aereo per venire a dare una mano; sarebbero giunti prima di sera.

Andai in ufficio, mi lasciai cadere sulla poltrona, mi massaggiai le tempie nel tentativo di farmi passare l’emicrania con cui mi ero svegliato. Mi ero appena seduto, quando il proiettore d’ologramma trillò e comparve il simulacro di Hollus.

Mi alzai, con la testa che pulsava. — Stai bene? — domandai, preoccupato.

La Forhilnor ballonzolò. — Sono spossata. Non ho dormito bene, malgrado la medicina che mi ha prescritto il medico della nave.

Annuii, comprensivo. — Anch’io ho dormito male. Ho continuato a sentire l’eco di spari. — Corrugai la fronte e mi sedetti. — Dicono che ci sarà un’inchiesta. La polizia poteva risparmiarsi di uccidere Cooter.

Hollus mosse i peduncoli oculari in un modo che non avevo mai visto prima. — Provo per lui simpatia limitata — disse, — Ha ferito Barbulkan e ha cercato di uccidermi. — Esitò. — Quanto sono seri i danni ai fossili del Burgess Shale?

Scossi lentamente la testa. — Tutto il contenuto delle prime cinque bacheche è andato distrutto — dissi. — Compresa quella che passavate allo scanner. — Sentivo la nausea, a pensare a quella perdita: non solo erano alcuni dei più importanti fossili del mondo, ma riguardavano alcune delle più affascinanti creature, fra le meglio conservate, quasi extraterrestri all’aspetto. Danneggiarle era stata una barbarie, un sacrilegio.

— Naturalmente i fossili erano assicurati — ripresi.

— Perciò giungerà un mucchio di denaro, al rom e allo Smithsonian; ma quegli esemplari sono insostituibili.

— In un certo senso è una fortuna — disse Hollus.

— Probabilmente hanno iniziato a sparare contro la bacheca in scansione proprio perché il coperchio era aperto. La scansione era in parte eseguita, così almeno alcuni esemplari possono essere ricuperati. Ve ne farò fare una ricostruzione.

— Grazie — dissi. Le ricostruzioni però, per quanto realistiche e accurate, non sarebbero mai state gli originali.

— È una perdita terribile — riprese Hollus. — Non ho mai visto fossili di quella qualità in nessun altro pianeta. Erano davvero…

Si interruppe a metà della frase e il simulacro rimase immobile, come se la vera Hollus, a bordo della nave in orbita geosincrona, fosse stata distratta da qualcosa accaduto lassù.

— Hollus? — dissi. Forse un collega le aveva rivolto una domanda, pensai.

— Solo un momento — disse il simulacro, di nuovo attivo. Udii alcune frasi musicali nella lingua forhilnor, rivolte da Hollus a un’altra persona e poi vidi che il simulacro si disattivava di nuovo.

Sospirai, impaziente. Era peggio di “Attendere, prego”: avevi in più il simulacro a occupare quasi tutto l’ufficio. Presi dalla scrivania una rivista (l’ultimo numero di “New Scientist”: la copia del dipartimento aveva iniziato il giro e da me sarebbe passata giù per tutta la scala gerarchica). Avevo appena girato la prima pagina, quando il simulacro di Hollus tornò attivo. — Notizia terribile — disse, una parola per bocca, tono stranamente attenuato. — Non… Mio Dio, è terribile.

Lasciai perdere la rivista. — Cosa?

Hollus agitò avanti e indietro i peduncoli oculari. — La nostra nave madre non è impacciata dalla diffusione di luce dell’atmosfera del tuo pianeta; anche durante il giorno, i sensori della Merelcas vedono con chiarezza le stelle. E una di quelle stelle…

Mi sporsi. — Sì?

— Una di quelle stelle ha iniziato la conversione in… qual è la parola? Per indicare l’esplosione di una stella?

— Supernova?

— Sì.

— Fantastico! — Ricordai l’entusiasmo nel planetario, nel 1987, quando Ian Shelton dell’università di Toronto aveva scoperto la supernova nella Grande Nube di Magellano. — Meraviglioso.

— Tutt’altro che meraviglioso! — replicò Hollus. — La stella che ha iniziato a esplodere è Alpha Orionis.

— Betelgeuse? Ha iniziato la trasformazione in supernova?

— Esatto.

— Sei sicura?

— Non ci sono dubbi — confermò Hollus, con voce scossa. — Ha già una lucentezza un milione di volte più grande del normale e continua a crescere.

— Oddio — dissi. — Devo… devo telefonare a Donald Chen. Saprà come renderlo pubblico. C’è un ufficio centrale per telegrammi astronomici o qualcosa del genere… — Presi il telefono e composi l’interno di Chen. Donald rispose al terzo squillo: ancora un altro e sarebbe scattata la segreteria telefonica.

— Don, sono Tom Jericho. Hollus mi ha rivelato che Betelgeuse sta per diventare supernova.

Qualche istante di silenzio. — Betelgeuse è… era… una prima candidata a supernova — disse Chan. — Nessuno però sapeva con esattezza quando sarebbe accaduto. — Una pausa, poi, con ansia, come se avesse appena capito la notizia: — Hollus ha detto proprio Betelgeuse? Alpha Orionis?

— Sì.

— Sicuro? Assolutamente sicuro?

— Sì, nessun dubbio.

— Maledizione — disse Chen, ma non mi parve che si rivolgesse davvero a me. — Maledizione.

— Cosa c’è?

Dal tono, parve teso. — Ho studiato quei dati sulle supernovae inviati da Hollus, in particolare l’emissione di raggi gamma. Per l’ultima supernova, quella del 1987, avevamo dati pidocchiosi; si verificò prima che avessimo satelliti d’osservazione dedicati ai raggi gamma… Compton è stato lanciato solo nel 1991. Gli unici dati sui raggi gamma della Supernova 1987A provenivano dal satellite Solar Maximum Mission, che non era progettato per osservazioni extragalattiche.

— E allora?

— E allora l’emissione di raggi gamma di una supernova è molto maggiore di quanto non pensassimo; i dati di Hollus lo provano.

— Cosa significa? — Lanciai un’occhiata a Hollus, che ballonzolava con grande rapidità; non l’avevo mai vista così sconvolta.

Chen emise un lungo sospiro. — Significa che la nostra atmosfera resterà ionizzata. Significa che lo strato di ozono si esaurirà. — Esitò. — Significa che moriremo tutti.

Ricky Jericho si trovava alcuni chilometri a nord del rom, nel parco giochi della Churchill Public School. Era a metà dell’intervallo di novanta minuti per il pranzo; alcuni suoi compagni andavano a casa, ma Ricky mangiava a scuola, in una sala dove permettevano ai bambini di guardare Gli antenati sulla CFTO. Dopo avere terminato il panino di mortadella e la mela, era uscito sul cortile a prato. Varie maestre giravano fra gli alunni, ponendo fine a litigi, coccolando chi si era spellato il ginocchio, facendo le altre cose che le maestre fanno di solito. Ricky guardò il cielo. Su in alto c’era un puntino molto luminoso.

Scese dal castello di tubi metallici e andò a cercare la maestra. — Signorina Cohan — disse, tirandola per la gonna. — Cos’è quello?

La maestra si schermò gli occhi e guardò. — Solo un aereo, Ricky.

Ricky Jericho non era un bambino che contraddicesse alla leggera la maestra. — No, non è un aereo — disse. — Non si muove.

Mi sentivo turbinare la testa e attorcigliare le viscere. Spuntava un nuovo giorno, non solo su Toronto, ma sull’intera Via Lattea. In realtà, perfino osservatori in remote galassie avrebbero sicuramente visto l’aumento di luminosità, trascorso il tempo sufficiente perché la luce li raggiungesse. Superava ogni immaginazione. Betelgeuse diventava davvero supernova.

Inserii il vivavoce e lasciai che Don e Hollus conversassero, limitandomi a intervenire di tanto in tanto, con domande piene di preoccupazione. A quanto capii, succedeva questo: in ogni stella attiva, idrogeno ed elio sottostanno a fusione, producendo elementi più pesanti. Se però la stella è abbastanza grande, quando la fusione a catena arriva al ferro, l’energia inizia a essere assorbita, anziché rilasciata, e provoca la formazione di un nucleo ferroso. La stella diventa troppo densa per sostenersi: la spinta esplosiva esterna della fusione interna non contrasta più l’enorme attrazione della propria gravità. Il nucleo collassa in materia degenere: i nuclei atomici si schiantano l’uno sull’altro, formando una sfera del diametro di soli venti chilometri, ma con massa molte volte maggiore di quella del sole. E quando idrogeno ed elio, confluendo dagli strati esterni, colpiscono all’improvviso questa nuova e dura superficie, si fondono all’istante. L’onda d’urto della collisione si propaga all’esterno, soffia via l’atmosfera gassosa della stella e rilascia un torrente di disturbi radio, luce, calore, raggi X, raggi cosmici e neutrini… una micidiale grandine che si riversa in tutte le direzioni, uno sferico guscio di morte e di distruzione che continua a espandersi, più luminoso di tutte le altre stelle della galassia messe insieme: una supernova.

E pareva che proprio questo accadesse ora a Betelgeuse. Il suo diametro si espandeva rapidamente; in pochi giorni avrebbe superato il diametro dell’intero sistema solare.

Per un poco la Terra sarebbe stata protetta: la nostra atmosfera avrebbe impedito che l’iniziale bombardamento giungesse sul terreno. Ma non avrebbe potuto assorbirlo tutto. Solo una piccola parte.

Nel mio ufficio avevo sintonizzato la radio su cftr, una stazione di sole notizie. Mentre le stazioni radiotelevisive della Terra trasmettevano i primi resoconti, alcuni si rifugiarono nelle grotte e nei pozzi minerari. Non avrebbe fatto differenza. Stava per giungere la fine del mondo… con un boato, non con un gemito.

I Forhilnor e i Wreed al momento in visita sulla Terra, forse con alcuni passeggeri umani, si sarebbero potuti salvare, almeno per un certo tempo; potevano spostare la loro astronave in modo da tenere fra sé e Betelgeuse la massa del pianeta, che avrebbe funzionato come uno scudo di roccia e di ferro del diametro di tredicimila chilometri. Ma non avevano modo di battere in velocità il guscio di morte in espansione; la Merelcas avrebbe dovuto accelerare per un anno intero solo per avvicinarsi alla velocità della luce.

Anche se l’astronave fosse riuscita a scamparla, però, i pianeti natali dei Forhilnor e dei Wreed non ce l’avrebbero fatta; presto avrebbero dovuto affrontare lo stesso bombardamento, lo stesso flagello. Gli asteroidi, 65 milioni di anni fa, avevano colpito Sol III e Beta Hydri III e Delta Pavonis II… ma quelli erano buffetti al confronto, semplici ferite superficiali che l’ecosistema avrebbe risanato nel giro di alcuni decenni.

Stavolta pero non ci sarebbe stato risanamento. Sarebbe stata la sesta grande estinzione, su tutti e tre i pianeti. E non aveva alcuna importanza che la vita nel nostro sistema fosse iniziata su Marte anziché sulla Terra, che fosse davvero sorta varie volte sul pianeta dei Forhilnor, che i Wreed sapessero o non sapessero che si trattava della sesta grande estinzione.

Infatti sarebbe stata anche l’ultima grande estinzione, il capitolo conclusivo, la pulizia della lavagna, la mossa finale nel Game of Life.

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