7

Ricordo quel ritorno a casa, l’ottobre scorso, dopo la prima diagnosi del dottor Noguchi. Fermai l’auto nel vialetto. Susan era già a casa; le rare volte in cui andavo in macchina al lavoro, chi tornava a casa per primo accendeva la luce della veranda per indicare che il garage era già occupato. Naturalmente avevo preso 1 auto per andare nello studio del dottor Noguchi, tra la Finch e la Bayview.

Scesi dall’auto. Il vento soffiava foglie secche sul vialetto e sul prato. Salii i gradini dell’ingresso ed entrai. Dallo stereo proveniva The Kiss di Faith Hill. Ero rientrato più tardi del solito. Susan era affaccendata in cucina, sentivo il rumore di pentole e padelle. Attraversai l’ingresso a palchetto e risalii la mezza rampa di scale del soggiorno; di solito mi fermavo nello studio per dare un’occhiata alla posta (se Susan rincasa per prima, mette la posta nella bassa scaffalatura appena dentro lo studio) ma quel giorno avevo altro a cui pensare.

Susan uscì dalla cucina per darmi un bacio.

Mi conosceva bene, però, dopo tanti anni. — Cosa c’è che non va? — disse subito.

— Dov’è Ricky? — Dovevo dirlo anche a lui, ma sarebbe stato più semplice parlarne prima a Susan.

— Dagli Nguyen. — Gli Nguyen abitavano due case più avanti e avevano un figlio, Bobby, della stessa età di Ricky. — Cosa c’è?

Stringevo la ringhiera, ancora sconvolto dalla diagnosi. Con un gesto invitai Susan a sedersi con me sul divano. — Sue — dissi — oggi sono stato dal dottor Noguchi.

Mi guardava negli occhi, cercava di leggervi un messaggio. — Perché?

— La tosse. Ero andato da lui la settimana scorsa e mi ha fatto fare degli esami. Mi ha detto di tornare oggi per i risultati. — Mi avvicinai a lei, sul divano. — Non te ne avevo parlato, mi pareva roba di nessuna importanza.

Susan aggrottò le sopracciglia, preoccupata. — Ebbene?

Le presi la mano. Sentii che tremava. Inspirai a fondo, riempii d’aria i polmoni rovinati. — Ho un tumore. Ai polmoni.

Susan sbarrò gli occhi. — Dio mio — disse, scossa. — Cosa… cosa facciamo?

Scrollai le spalle. — Altri esami. La diagnosi si basa su materiale nel mio escreato, ma vogliono fare biopsie e altri esami per stabilire… per stabilire quanto è diffuso.

— Come? — disse Susan, con voce tremante.

— Come mi è venuto? — Alzai le spalle. — Noguchi pensa sia colpa di tutta la polvere minerale che ho inalato negli anni.

— Oddio — disse Susan, tremando. — Oddio mio.

Donald Chen aveva lavorato per dieci anni nel Planetario McLaughlin, prima che lo chiudessero; ma a differenza dei colleghi, aveva ancora l’impiego. Era stato trasferito al dipartimento programmi educativi, ma il rom non aveva attrezzature per l’astronomia e quindi Don aveva poco da fare… anche se ogni anno, in occasione delle Perseidi, la cbc mandava in onda il suo viso sorridente.

Per tutto il personale, Chen era “il cadavere ambulante”. Aveva già un colorito spaventosamente pallido (rischio professionale, per un astronomo) e pareva solo questione di tempo che il rom gli desse il benservito.

Tutto il personale del museo era incuriosito per la presenza di Hollus, ma Donald Chen aveva un interesse particolare nell’alieno. Anzi, era chiaramente stizzito per il fatto che l’alieno fosse venuto a cercare un paleontologo anziché un astronomo. Il vecchio ufficio di Chen si trovava sopra il planetario, mentre il nuovo, lì nel centro amministrativo, era poco più di una bara in verticale… ma lui s’inventava di frequente un pretesto per venire a trovare me e Hollus: mi ero abituato a sentirlo bussare alla porta.

Stavolta Hollus andò ad aprire. Ormai era abbastanza abile con le porte e riusciva ad azionare la maniglia usando uno dei sei piedi per non girarsi e usare la mano. Su una sedia, appena fuori la porta, c’era Bruiser, il Colosso… nomignolo di Al Brewster, un marcantonio della sicurezza del rom, ora assegnato a tempo pieno al dipartimento di paleontologia a causa della visita di Hollus. In piedi vicino a Bruiser c’era Donald Chen.

Ni hao ma? — disse Hollus a Chen. (Avevo avuto la fortuna di partecipare al Progetto Dinosauro, un’operazione congiunta cino-canadese, vent’anni fa, e avevo imparato abbastanza bene il cinese mandarino, quindi non badai alla lingua che usavano.)

Hao — disse Chen. Con un cenno di saluto a Bruiser, entrò nel mio ufficio e chiuse la porta. Passò all’inglese e salato: — Ciao, A.V.

— A.V.? — disse Hollus, guardando prima Chen e poi me.

Tossii. — È, ah, un soprannome.

Chen si rivolse a Hollus. — Tom guida la guerra contro l’attuale amministrazione del museo. Il “Toronto Star” l’ha battezzato l’Ammazza-vampiri.

—Il potenziale Ammazza-vampiri — lo corressi. — La Dorati continua a fare quasi sempre a modo suo. — Chen aveva in mano un libro antico, scritto in cinese, a giudicare dagli ideogrammi sulla copertina dorata; parlavo la lingua, ma sapevo leggere solo gli ideogrammi più facili. — Cos’è? — domandai.

— Storia cinese — rispose Chen. — Ho scocciato Kung per averlo. — Kung aveva la cattedra Louise Hawley Stone nel dipartimento civiltà mediorientali e asiatiche, un altro amalgama del dopo-Harris e dei suoi tagli.

— Ecco perché volevo vedere Hollus.

Il Forhilnor batté i globi oculari, pronto a rendersi utile.

Chen posò sulla mia scrivania il pesante libro. — Nel 1998, un gruppo di astronomi dell’Istituto di fisica extraterrestre Max Planck, in Germania, ha annunciato la scoperta dei residui di una supernova… ciò che resta dopo l’esplosione di una stella gigante.

— Conosco le supernovae — disse Hollus. — Ne parlavo di recente col dottor Jericho.

— Bene — disse Chen. — Il residuo scoperto da quei tizi è molto vicino, forse 650 anni luce, nella costellazione Vela. Lo chiamano RX J0852.0-4622.

— Notevole — commentò Hollus.

Chen aveva scarso senso dell’umorismo. Proseguì:

— La supernova che originò il residuo avrebbe dovuto comparire nel nostro cielo all’incirca nell’anno 1320. In teoria doveva essere più luminosa della luna e quindi visibile anche di giorno. — Esitò, per vedere se uno di noi metteva in dubbio l’affermazione. Restammo in silenzio e lui continuò: — Eppure non esiste nessun documento storico, di nessun genere, che la riguardi Non è mai stata trovata menzione dell’evento.

Hollus mosse i peduncoli oculari. — Ha detto che si trova in Vela? È una costellazione dell’emisfero meridionale, sia nel vostro cielo sia nel mio. Il vostro pianeta è scarsamente popolato, nell’emisfero meridionale.

— Vero — riconobbe Chen. — In realtà l’unica prova di questa supernova da noi trovata sulla Terra è un picco di nitrato nella neve dell’Antartide, che potrebbe esservi associato; picchi similari sono correlati ad altre supernovae. Vela però è visibile nel paese dei miei antenati! La si vede chiaramente dalla Cina meridionale. Ho pensato che, se esistevano documenti, erano documenti cinesi. — Mostrò il libro. — Qui però non c’è niente. Certo, il 1320 A.D. era nel periodo centrale della dinastia Yuan.

— Ah — dissi solennemente. — La Yuan.

Chen mi fissò come se fossi un filisteo, — La Yuan fu fondata da Kublai Khan a Pechino. I governi cinesi erano di norma generosi nel sostegno alle ricerche astronomiche, ma durante quel periodo le sovvenzioni erano state ridotte, sotto il dominio dei Mongoli. Più o meno come accade oggi nell’Ontario.

— Senza amarezza, vero? — dissi.

Chen scrollò le spalle. — Non ho trovato altro, per spiegare come il mio popolo non abbia lasciato documenti riguardanti la supernova. — Si rivolse a Hollus. — La supernova doveva essere visibile da Beta Hydri come da qui. Il suo popolo ha lasciato documenti sull’evento?

— Controllerò — rispose Hollus. Il simulacro smise di muoversi, perfino il tronco smise di espandersi e di contrarsi. Aspettammo circa un minuto, poi il ragno gigante tornò in vita: Hollus aveva ripreso possesso del suo avatar. — No — disse.

— Nessun documento riguardante una supernova di 650 anni fa?

— Non in Vela.

— Parlavo di anni terrestri, naturalmente.

Hollus parve offeso dell’insinuazione che potesse essersi sbagliato. — Naturalmente — replicò. — La più recente supernova osservata a occhio nudo dai Forhilnor o dai Wreed si trovava nella Grande Nube di Magellano, circa quindici anni fa. Prima di quella, tutt’e due le razze ne videro una nella costellazione che chiamate Serpente, nei primi anni del vostro XVII secolo.

Chen annuì. — La supernova di Keplero. — Guardò me. — Qui era visibile dal 1604. Era di sicuro più luminosa di Giove, ma non certo visibile durante il giorno. — Sporse le labbra, riflettendo. — È affascinante. La supernova di Keplero non si trovava certo nelle vicinanze della Terra o di Beta Hydri o di Delta Pavonis, eppure su tutti e tre i pianeti è stata vista e documentata. La supernova 1987 A, naturalmente, non era nemmeno in questa galassia, eppure tutt’e tre l’abbiamo documentata. Ma l’evento nella costellazione Vela intorno al 1320 era abbastanza vicino. Pensavo che qualcuno l’avesse visto.

— Forse si è frapposta una nube di polvere — disse Hollus.

— Non ci sono nubi di polvere da quelle parti, ora — replicò Chen — e ci sarebbe voluta una nube molto vicina alla stella esplosa oppure molto estesa, per oscurare l’evento alla Terra e a Beta Hydri e a Delta Pavonis. Qualcuno dovrebbe averla vista.

— Un bel rompicapo — disse Hollus. Chen annuì. — Vero, eh?

— Sarò lieto di fornirle tutta la documentazione raccolta dalla mia razza sulle supernovae — disse Hollus. — Forse getterà un po’ di luce su questa faccenda.

Mi domandai se Hollus avesse fatto volutamente la battuta.

— Sarebbe magnifico — disse Chen.

— Farò mandare giù dalla nave madre del materiale — disse Hollus, agitando i peduncoli oculari.

Quando avevo quattordici anni, il museo aveva lanciato una gara per bambini interessati ai dinosauri. Il vincitore avrebbe avuto un mucchio di premi connessi con la paleontologia.

Se fosse stata una gara di banalità sui dinosauri o una prova di normali conoscenze sui dinosauri o se i partecipanti avessero dovuto riconoscere dei fossili, avrei vinto io di sicuro.

Invece era una gara per il migliore pupazzo di dinosauro.

Sapevo di quale dinosauro si trattava: il Parasaurohphus, l’emblema del rom.

Tentai di costruirne uno, usando plastilina e polistirolo e perni di legno.

Fu un disastro. Il cranio, con la sua lunga cresta, continuava a cadere. Non lo terminai mai. Un ciccione vinse la gara; ero presente alla cerimonia della consegna dei premi, uno dei quali era un modellino di Sauropode. Lui disse: “Bello! Un brontosauro!”. Rimasi disgustato: anche nel 1960 nessuno che sapesse qualcosa di dinosauri avrebbe chiamato brontosauro un Apatosaurus.

Imparai però una lezione preziosa: non puoi scegliere il modo in cui ti metteranno alla prova.

Donald Chen e Hollus erano affascinati dalle supernovae, ma io ero più interessato a ciò che avevo discusso con il Forhilnor nei giorni precedenti. Appena Don uscì, dissi: — Allora, Hollus, a quanto pare voi sapete un mucchio di cose sul dna.

— Immagino sia vero — mi rispose.

— Cosa… — Mi s’inceppò la voce. Deglutii e riprovai.

— Cosa sapete sui problemi del dna, sugli errori nella sua replicazione?

— Non è il mio campo, ovviamente — disse Hollus — ma il nostro medico di bordo, Lablok, è ragionevolmente esperto in questo campo.

— E questo Lablok… — Deglutii. — Questo Lablok sa qualcosa del, ah, del cancro?

— Sul nostro pianeta la cura del cancro è una disciplina specialistica — disse Hollus. — Lablok ne sa qualcosa, è ovvio, ma…

— Potete curare il cancro?

— Lo curiamo con radiazioni e con prodotti chimici. A volte sono efficaci, spesso no. — Parve piuttosto rattristato.

— Come sulla Terra — sospirai. Rimasi in silenzio per un poco; mi ero augurato una risposta diversa, lo ammetto. Be’, pazienza. — A proposito di dna — ripresi — potrei avere un campione del tuo? Se non è faccenda troppo personale, beninteso. Mi piacerebbe studiarlo.

Hollus distese il braccio. — Prego, serviti pure!

Quasi ci restai secco. — Tu non sei realmente qui. Sei una semplice proiezione.

Hollus abbassò il braccio e mosse in un’onda a S i peduncoli oculari. — Scusa il mio umorismo — disse.

— Certo, se desideri dei campioni di dna, te li fornirò volentieri. Me li farò mandare giù dalla nave.

— Grazie.

— Posso dirti cosa troverai, però. Troverai che la mia esistenza è altrettanto improbabile della tua. Forme di vita così complesse non possono semplicemente essere sorte per caso.

Trassi un respiro profondo. Non volevo discutere con l’alieno, però, maledizione, lui era uno scienziato. Doveva sapere come va il mondo. Girai sulla poltroncina per avere di fronte il computer posto su quello che, quando avevo iniziato a lavorare lì, era il tavolino di una macchina per scrivere. Avevo una di quelle ingegnose tastiere divise della Microsoft: il museo aveva dovuto fornirle a chiunque ne facesse domanda, dopo che il personale aveva iniziato a denunciare casi di sindrome del tunnel carpale.

Il mio computer aveva un sistema Windows NT, ma passai sul dos e battei un comando. Iniziò un’applicazione che mostrò sul monitor una scacchiera.

— Questa è una normale scacchiera da gioco — dissi.

— Noi vi giochiamo due giochi di strategia: gli scacchi e la dama.

Hollus portò a contatto i globi oculari. — Degli scacchi ho sentito parlare; se ho ben capito, ritenevate la maestria in quel gioco uno dei massimi successi intellettuali dell’umanità, finché un computer non è riuscito a battere i più abili giocatori. Voi umani tendete a rendere del tutto elusiva la definizione d’intelligenza.

— Lo immagino — replicai. — Comunque, voglio parlare di qualcosa di più simile agli scacchi. — Premetti tan tasto. — Questa è una disposizione casuale di pezzi in gioco. — In circa un terzo delle 64 caselle spuntarono occupanti circolari. — Ora, guarda: ogni casella occupata è a contatto con altre otto caselle, giusto?

Hollus accostò di nuovo i globi oculari.

— Ora tieni presenti tre semplici regole: una data casella non subisce cambiamento, occupata o libera, se due caselle adiacenti sono occupate. Se una casella occupata ha adiacenti tre caselle occupate, rimane occupata. In tutti gli altri casi, la casella diventa vuota se non è già vuota; se è già vuota, rimane vuota. Chiaro?

— Sì.

—Bene. Ora, espandiamo la scacchiera. Invece di una matrice 8x8, ne usiamo una 400x300; su questo monitor, ogni casella è così rappresentata da una cella di due per due pixel. Indicheremo con celle bianche le caselle occupate e con celle nere le caselle libere.

Premetti un tasto: la scacchiera parve allontanarsi e nello stesso tempo estendersi fino ai quattro angoli dello schermo. La griglia della scacchiera scomparve, a quella risoluzione, ma il disegno casuale di celle illuminate e non illuminate era evidente.

— Ora — ripresi — applichiamo le nostre tre regole. — Premetti la barra spaziatrice e il disegno cambiò. — Di nuovo — dissi, ripetendo l’operazione, e il disegno cambiò. — Ancora una volta. — Un’altra nuova configurazione di puntini sullo schermo.

Hollus guardò lo schermo e poi me. — Ebbene?

— Ecco — dissi. Premetti un altro tasto e il procedimento iniziò a ripetersi in automatico: applicare le tre regole a ogni pezzo sulla scacchiera, mostrare la nuova configurazione, applicare di nuovo le regole, mostrare la configurazione modificata e così via.

Occorsero solo alcuni secondi perché comparisse il primo glider. — Vedi quel gruppo di cinque celle? — dissi. — Lo chiamiamo glider e… ah, ce n’è un altro. — Lo indicai, toccando lo schermo. — E ancora un altro. Guarda come si muovono.

Infatti parevano muoversi, rimanendo in gruppo, mentre passavano da una posizione all’altra.

— Se fai girare questa simulazione abbastanza a lungo — dissi — vedrai ogni sorta di disegni realistici; infatti questo gioco si chiama Game of Life, Fu inventato nel 1970 da un matematico, John Conway. Usavo questo gioco quando insegnavo teoria dell’evoluzione all’università di Toronto. Conway era stupito di ciò che generavano quelle tre semplici regole. Dopo un numero sufficiente di ripetizioni, comparirà una cosa detta “glider gun”, una struttura che a intervalli regolari spara nuovi glider. E in realtà i glider gun possono essere creati da collisioni di tredici o più glider, perciò, in un certo senso, i glider si riproducono. Si ottengono anche degli eater che possono spezzare oggetti di passaggio; nel procedimento, l’eater rimane danneggiato, ma dopo alcuni giri si ripara. Il gioco dà movimento, riproduzione, nutrizione, crescita, guarigione delle ferite e altro, tutto grazie all’applicazione di quelle tre semplici regole a una selezione inizialmente casuale di pezzi.

— Non capisco dove vuoi arrivare — disse Hollus.

— A questo: la vita, in tutta la sua apparente complessità, può essere generata da regole semplicissime.

— E queste regole che continui a ripetere cosa rappresentano esattamente?

— Be’, le leggi della fisica, per esempio…

— Nessuno mette in dubbio che un ordine apparente possa provenire dall’applicazione di regole semplici. Ma chi ha scritto le regole? Per l’universo che mi mostri, hai fatto un nome…

— John Conway.

— Sì. Bene, John Conway è il dio di quell’universo e tutta la sua simulazione dimostra solo che ogni universo necessita di un dio. Conway era il programmatore. Anche Dio era un programmatore; le leggi e le costanti fisiche da lui stabilite sono il codice sorgente del nostro universo. La presunta differenza fra il tuo signor Conway e il nostro Dio è che, come hai notato, Conway non sapeva che cosa il suo codice sorgente avrebbe prodotto finché non l’ha compilato ed eseguito e per questo si stupì dei risultati. Ammettiamo pure che le cose non siano andate esattamente come progettato… le estinzioni di massa sembrano indicarlo. Ciononostante, pare chiaro che Dio ha progettato deliberatamente l’universo.

— Ci credi davvero? — domandai.

— Sì — rispose Hollus, guardando altri glider danzare sullo schermo del mio computer. — Ci credo davvero.

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