Le zone della città che si estendevano dalla parte occidentale del ponte erano molto differenti da quelle che avevo appena lasciato. Dapprima incontrai angoli illuminati da fiaccole e un andirivieni di carrozze e di carri simile a quello visto sul ponte. Prima di lasciare la bertesca, avevo domandato al lochage dove avrei potuto trascorrere la notte, perciò, nuovamente oppresso dalla stanchezza, procedevo alla ricerca della locanda indicatami.
Dopo un po', l'oscurità parve addensarsi a ogni passo e a un certo punto dovetti sbagliare strada. Non intendevo tornare indietro, così continuai ad avanzare cercando di puntare sempre verso nord, e mi dicevo che anche se mi ero perso, ogni passo mi avrebbe portato più vicino a Thrax. Finalmente scorsi una piccola locanda. Non vidi l'insegna, e forse non c'era nemmeno, ma avvertii un sentore di cucina e un tintinnio di bicchieri; entrai. Spalancai la porta e mi accasciai su una vecchia sedia senza badare troppo all'ambiente.
Quando mi fui ripreso abbastanza e non desideravo altro che potermi levare gli stivali, tre uomini che stavano bevendo in un angolo si alzarono e uscirono; un vecchio, accorgendosi che gli avrei rovinato gli affari per il resto della notte, venne a domandarmi cosa volessi. Gli risposi che avevo bisogno di una camera.
— Non ne abbiamo.
— Non importa — dissi, — tanto non ho i soldi per pagarla.
— Allora vattene.
Scrollai la testa. — Non ancora. Sono troppo stanco. — Avevo udito quel trucco da altri artigiani.
— Sei un carnefice, vero? Tagli la testa alla gente.
— Portami due pesci, ne sento l'odore, e non resteranno altro che le teste.
— Posso chiamare i Vigilanti della Città. Loro ti butteranno fuori.
Dal suo tono compresi che non diceva sul serio, perciò gli risposi di farlo, ma prima di portarmi il pesce, e lui se ne andò brontolando. Mi raddrizzai sulla sedia e tenni Terminus est tra le ginocchia. Nel locale c'erano ancora cinque uomini, ma nessuno di loro faceva caso a me, e due se ne andarono quasi subito.
Il vecchio tornò con un piccolo pesce su una fetta di pane scadente e disse: — Mangia questo e vattene.
Restò lì a guardarmi mentre mangiavo. Quando ebbi terminato domandai dove potessi dormire.
— Non abbiamo camere, te l'ho già detto.
Se anche ci fosse stato un palazzo con le porte spalancate a una catena di distanza, non penso che sarei riuscito a raggiungerlo. — Allora dormirò qui sulla sedia — dissi. — Tanto ormai non arriveranno più molti clienti.
— Aspetta — disse il vecchio, e si allontanò. Sentii che parlava con una donna in un altro locale.
Mi svegliò scuotendomi la spalla. — Sei disposto a dividere un letto con altre due persone?
— Con chi?
— Due ottimati, te lo garantisco. Uomini distinti che viaggiano insieme.
Dalla cucina la donna urlò qualcosa che non capii.
— Hai sentito? — riprese il vecchio. — Uno dei due non è nemmeno rientrato e ormai è probabile che non rientri più. Sarete solamente in due.
— Se hanno affittato una camera…
— Non protesteranno, ti assicuro. A dire il vero, Carnefice, sono in debito con me, perché sono qui da tre giorni e hanno pagato solo una notte.
Perciò, il locandiere intendeva servirsi di me per sfrattarli. L'idea non mi dispiaceva, anzi, mi pareva allettante… se l'uomo che occupava la stanza in quel momento se ne fosse andato, avrei avuto il letto tutto per me. Mi alzai e seguii il vecchio su una scala malandata.
La camera non era chiusa a chiave e l'interno era buio come una tomba. Udii un respiro pesante. — Buonuomo! — abbaiò il vecchio, scordandosi di avermi detto che si trattava di un ottimate. — Come ti chiami? Baldy? Baldanders? Hai compagnia. Se non paghi, devi accettare altri pensionati.
L'uomo non rispose.
— Aspetta, Maestro Carnefice, ti faccio luce — mi disse il vecchio. Accese un mozzicone di candela.
La stanza era piccola e arredata solo con il letto. Addormentato sul fianco (così sembrava), con la schiena verso di noi e le gambe piegate, c'era l'uomo più colossale che avessi mai visto… praticamente un gigante.
— Non vuoi svegliarti, Buonuomo Baldanders, per vedere chi sarà il tuo compagno?
Io volevo solo dormire, perciò chiesi al vecchio di andarsene. Lui fece obiezioni, ma lo spinsi fuori dalla porta e non appena se ne fu andato mi sedetti sul lato libero del letto e levai gli stivali e le calze.
La luce tenue della candela confermò che i miei piedi erano ricoperti di vesciche. Mi tolsi il mantello e lo stesi sulla coperta lisa. Mi domandai se fosse il caso di spogliarmi anche della cintura e dei pantaloni: la prudenza e la stanchezza mi suggerivano di non farlo, e notai che anche il gigante era completamente vestito. Oppresso da uno sfinimento incredibile e dal sollievo, spensi la candela e mi sdraiai per trascorrere la mia prima notte fuori dalle mura di Matachin.
— Mai.
La voce era talmente profonda e risonante (come le note basse dell'organo) che all'inizio non compresi il significato della parola. Anzi, non capii nemmeno se fosse una parola. — Cos'hai detto? — borbottai.
— Baldanders.
— Lo so… l'ha detto il locandiere. Io mi chiamo Severian. — Ero sdraiato sul dorso e tra noi stava Terminus est. L'avevo portata a letto per poterla meglio custodire. Al buio, non avrei saputo dire se il mio compagno fosse girato o meno verso di me, ma ero sicuro che avrei colto ogni minimo movimento di quella massa enorme.
— Tu… tagli le teste.
— Allora hai ascoltato le parole del locandiere. Credevo che dormissi. — Stavo per dire che non ero un carnefice bensì un artigiano della corporazione dei torturatori, ma mi sovvenni che ero caduto in disgrazia e spiegai: — Non devi aver paura di me. Io faccio soltanto quello per cui sono pagato.
— Allora a domani.
— Certo. Domani potremo fare conoscenza.
Sognai, e forse persino le parole di Baldanders furono un sogno. Ma non credo.
Ero a cavalcioni di un animale dalle grandi ali coriacee, il cielo era nuvoloso e stavamo planando su una collinetta d'aria sopra una terra crepuscolare. Mi pare che le ali non sbattessero mai. Davanti a noi c'era il sole morente e probabilmente uguagliavamo la velocità di Urth, perché l'astro restava immobile all'orizzonte.
Finalmente il panorama cambiò e si trasformò in quello che in un primo tempo mi parve un deserto. Non si scorgevano fattorie, campi o boschi, ma solo una distesa piatta, porpora scuro e quasi statica. Anche l'animale la vide, o forse aveva avvertito qualche odore nell'aria. I suoi muscoli si tesero sotto di me, quindi diedero tre colpi d'ala.
La distesa purpurea era screziata di bianco. Dopo un po' mi resi conto che l'apparente immobilità era dovuta all'uniformità… il paesaggio era uguale dappertutto, ma dappertutto era in movimento… il mare, l'Uroboros che avvolgeva il mondo e cullava Urth.
Mi voltai indietro e vidi l'intero territorio dell'umanità inghiottito dalla notte.
Quando scomparve e sotto di noi rimase solo quella distesa ondeggiante, la bestia si voltò a guardarmi. Aveva il becco di un ibis, la faccia di una megera e sulla testa c'era una mitera d'osso. Ci guardammo per un istante e mi parve di intuire il suo pensiero: Tu stai sognando, ma se ti svegliassi io sarei là.
Cambiò andatura come un'imbarcazione che sta per invertire la rotta. Un'ala si abbassò, l'altra si levò verso il cielo; io cercai di aggrapparmi al dorso squamoso ma precipitai in mare.
La violenza dell'impatto mi svegliò. Mi sentivo tutto intorpidito e sentii il gigante borbottare nel sonno. Borbottai anch'io, allungai a tentoni la mano per verificare che la mia spada ci fosse ancora e mi riaddormentai.
L'acqua si chiuse sopra di me, ma non annegai. Avevo la sensazione di poter respirare l'acqua, ma non lo feci. Era tutto talmente limpido che mi sembrava di precipitare in un vuoto più trasparente dell'aria.
In lontananza torreggiavano grandi forme… centinaia di volte più grandi di un uomo. Alcune parevano navi, altre nuvole; una era una testa viva priva del corpo. Una nebbiolina azzurra le velava e sotto di me potevo vedere una distesa di sabbia scolpita dalle correnti. Vidi un palazzo più imponente della nostra Cittadella; era in rovina, con le sale prive di tetto simili a giardini, e nel suo interno si aggiravano sagome immense, bianche e come lebbrose.
Continuai la mia caduta e quelle figure si voltarono verso di me. I loro volti erano simili a quelli che avevo visto una volta in fondo al Gyoll: donne nude, con i capelli verdi come la spuma del mare e gli occhi di corallo. Mi guardavano precipitare ridendo, e la loro risata arrivava gorgogliando fino a me. Avevano denti bianchi e aguzzi, lunghi come un dito.
Caddi in mezzo a loro e mi sentii accarezzare maternamente. I giardini del palazzo erano pieni di spugne, anemoni di mare e altre meraviglie delle quali non conoscevo il nome. Le donne mi circondarono e io ero come una bambola in mezzo a loro. — Chi siete? — chiesi. — E cosa fate qui?
— Siamo le spose di Abaia. Le innamorate, i ninnoli e le valentine di Abaia. La terra non aveva posto per noi. I nostri seni sono arieti da assedio, le nostre natiche spezzerebbero la schiena dei tori. Cresciamo qui finché diventiamo abbastanza grandi per accoppiarci con Abaia, che un giorno divorerà i continenti.
— E io chi sono?
Risero, e la loro risata sembrava la risacca su una spiaggia di vetro. — Te lo faremo vedere! — dissero. — Te lo faremo vedere! — Due di loro mi presero per mano, come una sorella prende per mano il figlio della sorella, e mi condussero a nuoto attraverso il giardino. Avevano le dita palmate e lunghe come il mio avambraccio.
Si fermarono e scesero come caracche che affondano fino a toccare la sabbia con i piedi e io feci altrettanto. Davanti a noi sorgeva un basso muro sopra al quale era allestito un piccolo palcoscenico con un sipario, simile a quelli che si usano per far divertire i bambini.
I nostri movimenti facevano muovere quel sipario piccolo quanto un fazzoletto. Come tirato da una mano invisibile, si aprì e subito comparve un minuscolo omino fatto di stecchi. Le sue membra erano fuscelli ancora ricoperti dalla corteccia e con le gemme verdi. Il corpo era un pezzetto di ramo, spesso come il mio pollice, e la testa era un nodo del legno, mentre le spirali creavano gli occhi e la bocca. Portava una clava, che brandì per salutarci, e si muoveva come se fosse vivo.
Dopo che l'uomo di legno ebbe saltato a lungo percuotendo il palcoscenico per mettere in mostra la sua ferocia, comparve un ragazzo armato di spada. Diversamente dall'altra, questa marionetta era rifinita nei particolari… sembrava un bambino vero ristretto alle dimensioni di un topolino.
Dopo aver fatto un inchino verso di noi, i due si batterono. L'uomo di legno spiccava salti incredibili e sembrava riempire il palcoscenico con i suoi colpi di clava; il bambino danzava come una particella di polvere in un raggio di sole per evitare l'avversario e sferrava fendenti con una spada non più grande di uno spillo.
Infine la figura di legno piombò al suolo. Il bambino si accostò come per mettergli il piede sul petto ma l'altro si rialzò e, roteando lentamente, s'innalzò fino a sparire, abbandonando il suo avversario, la clava e la spada… entrambe spezzate. Mi sembrò di udire (ma doveva trattarsi dello stridio delle ruote sulla strada sottostante) uno squillo di trombe giocattolo.
Mi svegliai: nella stanza era entrato qualcuno. Si trattava di un uomo piccolo e vivace, con i capelli rosso-fiamma e ben vestito, addirittura ricercato. Quando si accorse che ero sveglio aprì gli scuri e lasciò entrare la luce rossa del sole.
— Il mio socio ha il sonno pesante — disse. — Non ti ha dato fastidio con il suo russare?
— Ho dormito profondamente anch'io — risposi. — Se ha russato, non me ne sono reso conto.
L'ometto parve gradire le mie parole e sorrise, mettendo in mostra diversi denti d'oro. — Russa. Russa tanto forte da far tremare Urth, te lo posso assicurare. Sono contento che tu sia riuscito ugualmente a riposarti. — Allungò una mano ben curata. — Sono il dottor Talos.
— Artigiano Severian. — Tirai indietro le coperte e mi alzai per stringergli la mano.
— Vedo che sei vestito di nero. Che corporazione indica?
— È la fuliggine dei torturatori.
— Ah! — L'uomo piegò il capo di lato, come un uccellino, e mi saltellò intorno per studiarmi meglio. — Sei alto… che peccato… ma la tua fuliggine è davvero impressionante.
— Io la trovo semplicemente pratica — dissi. — La segreta è sporca, e poi non si vedono le macchie di sangue.
— Sei spiritoso! Eccellente! Ti garantisco che sono poche le doti che giovano all'uomo più dello spirito. Lo spirito attira le folle. Lo spirito calma un'orda e tranquillizza un asilo infantile. Lo spirito aiuta a cavarsi d'impaccio e attira gli asimi più di una calamita.
Compresi solo vagamente il senso delle sue parole, ma vedendo che era di buon umore mi azzardai a dire: — Mi auguro di non averti creato dei fastidi. È stato il locandiere a dirmi che avrei potuto dormire qui, che c'era posto per un altro nel vostro letto.
— Nessun problema. Non sono rientrato… ho trovato un posto migliore per passare la notte. Dormo pochissimo, devo dire, e ho il sonno leggero. Ma ho passato una splendida notte. Dove andrai adesso, ottimate?
Stavo cercando gli stivali sotto il letto. — Innanzitutto in cerca della colazione, penso. Poi uscirò dalla città, verso nord.
— Magnifico! Il mio socio apprezzerà sicuramente la colazione… gli farà bene. E anche noi siamo diretti a nord. Abbiamo fatto un giro fortunato qui in città, sai, e adesso ce ne torniamo a casa. All'andata abbiamo recitato lungo la riva orientale, ora passeremo per quella occidentale. Può darsi che ci fermeremo alla Casa Assoluta. È il sogno di tutti noi commedianti, lo sai. Recitare nel palazzo dell'Autarca. O tornarci, se ci si è già stati. Crisii a palate.
— Ho conosciuto un'altra persona che sognava di farci ritorno.
— Non fare quella faccia… una volta o l'altra me ne parlerai. Ma adesso, se vogliamo fare colazione… Baldanders! Sveglia! Vieni, Baldanders! Svegliati! — Si accostò ai piedi del letto e strinse la caviglia del gigante. — Baldanders! Non toccarlo sulla spalla, ottimate! — Avevo cercato di farlo. — Qualche volta si dimena. BALDANDERS!
Il gigante bofonchiò e si mosse.
— Un nuovo giorno, Baldanders! È tempo di mangiare, defecare e fare l'amore… tutto! Forza, alzati o non torneremo più a casa.
Il gigante parve non averlo sentito. Era come se il brontolio che aveva emesso un momento prima fosse stato semplicemente un verso durante il sogno o un rantolo di morte. Il dottor Talos afferrò con entrambe le mani le coperte insudiciate e le tirò.
La sagoma mostruosa del suo compagno apparve per intero. Era ancora più alto di quanto avessi immaginato, quasi troppo lungo per quel letto, nonostante stesse dormendo con le ginocchia rannicchiate contro il mento. Le spalle erano larghe un'alna, alte e curve. Non potevo vedere il suo volto, sepolto nel cuscino, ma notai delle strane cicatrici sul collo e sugli orecchi.
— Baldanders!
Aveva folti capelli brizzolati.
— Baldanders! Scusami, ottimate, potresti darmi la tua spada?
— No — dissi. — Non posso.
— Oh, non ho intenzione di ucciderlo o cose del genere. Voglio solo prenderlo a piattonate.
Scossi la testa e il dottor Talos, quando capì che ero irremovibile, iniziò a frugare nella stanza. — Ho lasciato il bastone di sotto. Quei ladri me lo ruberanno. Dovrei imparare a zoppicare sul serio. Qui non c'è niente…
Uscì di corsa e fece ritorno quasi subito con un bastone da passeggio con il pomo d'ottone dorato. — Ecco. Baldanders! — I colpi si abbatterono sull'ampia schiena del gigante come le grosse gocce che annunciano il temporale.
Improvvisamente il gigante si mise a sedere. — Sono sveglio, dottore. — Il suo volto era largo e volgare, anche se sensibile e triste. — Hai intenzione di uccidermi?
— Cosa stai dicendo, Baldanders? Ah, ti riferisci a questo ottimate. Non ti farà nessun male… ha diviso il letto con te e adesso ci terrà compagnia mentre facciamo colazione.
— Ha dormito qui, dottore?
Il dottor Talos e io annuimmo.
— Allora capisco da dove venivano i miei sogni.
Ancora assorto nel ricordo delle donne gigantesche sul fondo del mare, gli domandai che cosa avesse sognato, pur sentendomi un po' in soggezione.
— Caverne sotterranee con denti di pietra che sgocciolavano sangue… Braccia smembrate su sentieri di sabbia e catene che scuotevano nel buio. — Baldanders sedette sull'orlo del letto, pulendosi con un grosso dito i denti sorprendentemente piccoli e radi.
— Venite tutti e due — disse il dottor Talos. — Se vogliamo mangiare, parlare e concludere qualcosa… dobbiamo sbrigarci. C'è molto da dire e molto da fare.
Baldanders sputò in un angolo.