La prima volta che avevo sentito parlare dell'averli, mi ero fatto l'idea che venisse coltivato in filari, come nel conservatorio della Cittadella. In seguito, quando Agia aveva nominato i Giardini Botanici, avevo pensato a un posto simile alla necropoli in cui giocavo da ragazzo, con alberi e tombe in decadenza e sentieri pavimentati d'osso.
La realtà era completamente diversa… un lago scuro in un acquitrino infinito. I nostri piedi affondavano nel sentiero di carici e un vento freddo apparentemente inarrestabile ci soffiava contro. Ai lati del sentiero sorgevano le canne, e un paio di volte un uccello d'acqua ci oltrepassò volando, scuro contro il cielo nebbioso.
Stavo raccontando ad Agia di Thecla quando lei mi toccò il braccio. — Da qui riuscirai a vederli, anche se per riuscire a raccoglierne uno dovremo fare tutto il giro del lago. Vedi il luogo che sto indicando? Quella macchia bianca?
— Non sembrano pericolosi.
— Ti posso assicurare che hanno ucciso molta gente. Penso che alcune delle vittime siano sepolte nel giardino.
Così, dopotutto, le tombe c'erano davvero. Domandai dove fossero i mausolei.
— Non ci sono. E nemmeno sarcofagi, urne o cose del genere. Guarda l'acqua che ti bagna gli stivali.
La guardai. Era scura come il tè.
— Ha la proprietà di conservare i cadaveri. I corpi vengono resi pesanti con del piombo infilato in gola e poi fatti affondare qui. La loro posizione viene registrata, così che non sia più possibile ripescarli.
Ero pronto a giurare che non ci fosse nessuno entro il raggio di una lega. O per lo meno all'interno del Giardino del Sonno Eterno. Ma Agia aveva appena finito di parlare quando oltre le canne, a una dozzina di passi da noi, spuntarono la testa e le spalle di un vecchio. — Questo non è vero — urlò. — Lo dicono, ma non è vero.
Agia, che aveva lasciato penzolare il corpetto strappato del vestito, si affrettò a risollevarlo. — Non pensavo che ci fosse qualcuno ad ascoltarmi, oltre il mio compagno.
Il vecchio non si curò di quel rimprovero. I suoi pensieri erano completamente rivolti al commento che aveva fatto. — Ho qui i numeri… li volete vedere? Tu, giovane sieur, sei istruito, tutti lo capirebbero. Vuoi guardare? — Il vecchio pareva sostenersi a un bastone. Rimasi a osservare la sua testa che si alzava e si abbassava per parecchio tempo prima di capire che stava guidando un'imbarcazione verso di noi con una pertica.
— Ancora guai — disse Agia. — Andiamocene.
Suggerii che il vecchio avrebbe potuto traghettarci attraverso il lago risparmiandoci una lunga strada.
L'uomo scosse la testa. — Siete troppo pesanti. La mia barca può a malapena trasportare me e Cas. La fareste capovolgere.
La prua comparve e mi accorsi che aveva detto la verità: la barchetta era talmente piccola che faticava a tenere a galla l'uomo, per quanto curvo e rattrappito dagli anni. Mi sembrava che fosse addirittura più vecchio del Maestro Palaemon e non doveva pesare più di un bambino di dieci anni. Era solo.
— Scusami, sieur — disse, — ma non mi posso accostare maggiormente, la terra sarà anche bagnata, ma per me è comunque troppo asciutta. Puoi avvicinarti in modo che ti possa far vedere i numeri?
Ero curioso di scoprire cosa volesse da noi, perciò mi accostai. Agia mi seguì con riluttanza.
— Ecco. — Il vecchio si frugò nella tunica e ne estrasse un piccolo rotolo. — Ecco la posizione. Dai un'occhiata, giovane sieur.
Vidi un nome di persona e, sotto di esso, una lunga descrizione della sua vita, del luogo in cui l'aveva vissuta, del marito, di cosa facesse per vivere. Finsi di leggere. Alla fine della descrizione era disegnata una mappa rudimentale con due numeri.
— Bene, sieur, come puoi notare sembrerebbe abbastanza semplice. Il primo numero indica i passi dal Fulstrum. Il secondo i passi in salita. Ci crederesti che nonostante la stia cercando da tutto questo tempo non l'ho ancora trovata? — Il vecchio fissò Agia e si raddrizzò.
— Ci credo — rispose Agia. — E se ti può far piacere saperlo, me ne dispiace. Ma non ci riguarda.
Si volse per andarsene, ma il vecchio allungò la pertica per impedirmi di seguirla. — Non darle retta. Li mettono nel luogo indicato dai numeri ma poi si spostano. Alcuni addirittura sono stati avvistati nel fiume. — Guardò l'orizzonte. — Là fuori.
Gli dissi che non lo ritenevo possibile.
— Da dove credi che venga tutta quest'acqua? C'è una conduttura sotterranea che alimenta il lago, perché altrimenti si prosciugherebbe. Quando iniziano a muoversi, cosa può impedire loro di uscire? La corrente non è forte. Voi due siete venuti per raccogliere un avern, giusto? Sai per quale motivo li hanno piantati?
Scossi la testa.
— Per i manati. Sono nel fiume ed entravano a nuoto passando dalla conduttura. Si impaurivano tutti nel vedere i loro musi spuntare dall'acqua, così Padre Inire ordinò ai giardinieri di piantare gli avern. Io ero presente e lo vidi. È un omino piccolo, con il collo secco e le gambe arcuate. Adesso, se un manato entra, i fiori durante la notte lo uccidono. Una mattina ero venuto a cercare Cas come al solito e ho visto due curatori sulla riva armati di arpione. Un manate morto nel lago, mi hanno spiegato. Io sono andato a tirarlo fuori con il mio grappino, ma non si trattava di un manate, bensì di un uomo. Aveva risputato il piombo, o forse non ne avevano messo abbastanza. Pareva vivo come te o come lei, certo più di me.
— Era morto da molto?
— Impossibile dirlo, perché l'acqua li conserva. Avrai sentito dire che trasforma la pelle in cuoio, ed è la verità. Ma non pensare alla suola dei tuoi stivali; la pelle rimane morbida come il guanto di una donna.
Agia si era allontanata e io mi avviai per raggiungerla. Il vecchio ci seguì, guidando la barchetta parallelamente al sentiero.
— Ho detto ai curatori che ero stato più fortunato per loro in un solo giorno di quanto lo fossi stato per me in quarant'anni. Ecco di cosa mi servo. — Mi fece vedere un grappino di ferro fissato a una corda. — Certo, ne ho presi molti, e di tutti i generi. Ma mai Cas. Iniziai a cercarla nel punto indicato dai numeri, l'anno successivo alla sua morte. Non c'era e così ho continuato a cercare, sempre più lontano… almeno, lo credevo… dal luogo segnato sulla cartina. Poi mi è venuta paura che lei fosse al suo posto e che io non l'avessi vista, e ho ricominciato. Quindi mi sono nuovamente allontanato, e così via per dieci anni. Dopo mi è tornata la paura, e ora inizio ogni mattina nel punto indicato, vado avanti fino al posto in cui mi sono fermato la volta precedente e cerco ancora un po'. Lei non è più dove dovrebbe essere, ormai ne sono sicuro… conosco tutti quelli che sono là e alcuni li ho ripescati centinaia di volte. Ma lei gira e io continuo a credere che un giorno tornerà.
— Era tua moglie?
Annuì e, con mio stupore, tacque.
— Perché vuoi recuperare il suo corpo?
Lui continuava a tacere. La pertica non produceva il minimo rumore, muovendosi nell'acqua; la barchetta lasciava una scia quasi invisibile, fatta di minuscole increspature che lambivano il sentiero di carici come lingue di gattini.
— Sei sicuro che la riconosceresti, dopo tanto tempo?
— Sì… sì. — Annuì, dapprima adagio, poi energicamente. — Tu pensi che potrei averla già ripescata e averla ributtata in acqua senza averla riconosciuta? Ma non è possibile. Non riconoscere Cas? Mi hai domandato perché la voglio rivedere. Uno dei motivi è che il ricordo più vivo che ho di lei è proprio quest'acqua scura che si chiude sul suo volto. I suoi occhi chiusi. Lo sai?
— Non ti capisco.
— Ricoprono le palpebre di cemento per tenerle chiuse. Ma quando l'acqua le sfiorò, si aprirono. Prova a darmi una spiegazione. È questo che ricordo, questo che mi torna in mente quando cerco di dormire. Quest'acqua scura che le ricopriva la faccia e i suoi occhi azzurri che si aprivano. Mi sforzo di addormentarmi anche cinque o sei volte per notte. Prima di venire immerso anch'io in quest'acqua, vorrei avere un'altra immagine… il suo volto che risale, anche solo all'estremità del grappino. Capisci quello che dico?
Pensai a Thecla e al filo di sangue che scorreva sotto la porta della sua cella e annuii.
— E poi c'è un'altra cosa. Io e Cas avevamo un piccolo negozio. Vendevamo soprattutto lavori di cloisonné. Suo padre e suo fratello, che sono esperti in quel genere di cose, ci avevano aperto quella bottega in Via del Segnale, vicino alla sede delle aste. La casa c'è ancora, anche se è disabitata. Io andavo dai miei parenti a prendere le casse e le trasportavo, in spalla, poi riponevo i singoli pezzi sugli scaffali. Cas decideva i prezzi e teneva tutto in ordine. Sai quanto durò? Per quanto tempo tenemmo quel negozietto?
Scossi la testa.
— Quattro anni, meno un mese e una settimana. Poi Cas morì. Durò pochissimo, ma fu la parte più importante della mia vita. Adesso dormo in un solaio. Un uomo che conobbi poco dopo la morte di Cas mi permette di vivere lì. Non ho più un pezzo di cloisonné o un indumento o un chiodo del vecchio negozio. Avevo cercato di conservare un medaglione e i pettini di Cas, ma adesso non mi è rimasto più niente. Dimmi una cosa: come posso avere la certezza che non si trattasse di un sogno?
Pensai che il vecchio poteva essere parte di un incantesimo, come i tre nella palafitta, perciò risposi: — Non lo so. Forse è stato veramente un sogno. Credo che ti stai tormentando troppo.
Mutò umore di colpo, come fanno i bambini, e scoppiò a ridere. — È evidente, sieur, che sotto le vesti che indossi non c'è un vero torturatore. Veramente, mi farebbe piacere poter traghettare te e la tua bella. Non posso, ma più avanti c'è un tale con la barca più spaziosa. Viene qui molto spesso, e qualche volta parliamo, come abbiamo fatto noi due. Digli che vi mando io.
Lo ringraziai e mi affrettai a seguire Agia, che era ormai molto distante. Zoppicava, e mi resi conto che dal momento in cui si era fatta male alla gamba aveva continuato a camminare. Stavo per raggiungerla e offrirle il braccio quando feci un passo falso, una di quelle situazioni che al momento sembrano terribilmente umilianti e che più tardi suscitano il riso. Con quello scivolone misi in moto gli eventi più strani della mia strana vita. Mi misi a correre e, seguendo una curva, arrivai troppo vicino all'orlo del sentiero.
Stavo avanzando a balzi lungo il bordo elastico… quando improvvisamente mi ritrovai immerso nell'acqua scura e gelida, ostacolato dal mantello. Per il tempo di un respiro venni riassalito dalla paura di annegare, poi mi raddrizzai ed emersi con la testa. La forza dell'abitudine acquisita con le nuotate estive nel Gyoll ebbe la meglio: soffiai l'acqua dal naso e dalla bocca, respirai a fondo e mi levai il cappuccio fradicio dalla faccia.
Non appena riuscii a calmarmi, mi accorsi che avevo lasciato andare Terminus est, e in quel frangente perdere la spada mi parve ancora più terribile che morire. Mi tuffai, senza nemmeno togliermi gli stivali, affondando nel liquido color terra d'ombra che non era solo acqua, bensì acqua tramata dagli steli fibrosi delle canne. Quegli steli, nonostante accrescessero il rischio di annegare, furono la salvezza di Terminus est che senza di loro sarebbe caduta sul fondo e si sarebbe sepolta nel fango prima che potessi recuperarla. Così, invece, a otto o dieci cubiti sotto la superficie, la mia mano convulsa incontrò la forma benedetta dell'impugnatura d'onice.
Contemporaneamente, l'altra mano entrò in contatto con un oggetto del tutto diverso. Si trattava di una mano umana e la sua stretta coincise in maniera così perfetta con il recupero di Terminus est che ebbi l'impressione che fosse stato il proprietario della mano a restituirmi la spada, come era accaduto con la signora delle pellegrine. Provai uno slancio di folle gratitudine, poi la paura tornò, dieci volte più intensa: la mano trascinava la mia verso il fondo.