TRE

Con un pensiero che scambiai per sentimentale

e una scodella di frutti di mare,

con una cosa tanto eccezionale,

che il cielo vi benedica tutti,

mi sono rimbambito.

Non ho dormito fin dai tempi della Conquista,

e neppure mi sono mai svegliato,

fino a quando quel furfantesco amorino

mi trovò là dove giacevo,

e mi denudò.

Mentre io canto

«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,

da mangiare, da bere o da vestire.

Vieni, dama o fanciulla,

non aver timore,

il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom o’ Bedlam

1

Il furgone rosso e giallo a effetto-suolo stava fluttuando verso occidente, sempre più verso occidente. I grattatori non avevano voluto restare nella valle di San Joaquin dopo le uccisioni alla fattoria vicina alla biforcazione del fiume. Così avevano deciso, appunto, di proseguire verso occidente, su un carro d’aria, aleggiando un po’ al di sopra del fondo stradale dell’August. Tom si sentiva come un re, a viaggiare così. Salomone che avanzava con maestoso incedere.

L’avevano lasciato sedere davanti accanto al conducente. Charley guidava per qualche tratto, e Buffalo, e a volte quello chiamato Nicholas, il quale aveva un volto liscio da ragazzo e capelli completamente bianchi, e che se ne stava quasi sempre zitto. Di tanto in tanto guidavano anche Mujer, o Stidge, Tamale non guidava mai, e neppure lui, Tom. Comunque, per la maggior parte del tempo il guidatore era Rupe, nerboruto, le spalle ampie e il viso rosso. Se ne stava seduto, lì, per ore e ore, stringendo la sbarra. Quando Rupe guidava il furgone, questo non deviava mai, neppure d’un pelo, dal rettifilo della strada. Ma a Rupe non piaceva che Tom si mettesse a cantare quando lui guidava. A Charley invece sì: gli chiedeva sempre nuove canzoni durante i suoi turni. — Tira fuori quella tua vecchia tastiera, amico — gli diceva Charley, e Tom si metteva a frugare nello zaino. Aveva ricevuto il dita-piano giù vicino a San Diego tre anni prima, da uno dei profughi africani che si trovavano da quelle parti. Era soltanto una tavoletta cava con delle piastrine metalliche appoggiate sopra, ma Tom aveva imparato a farlo suonar bene come una chitarra: intonava le melodie palpeggiando le piastrine con i pollici. Conosceva le parole di un bel po’ di canzoni. Di molte canzoni non conosceva la musica, ma ormai aveva fatto abbastanza pratica così da potersi inventare delle melodie adatte alle parole. La sua voce era quella limpida d’un tenore. Alla gente piaceva ascoltarla, a tutti fuorché a Rupe. Ma questo era giusto. Non doveva disturbare Rupe mentre guidava.


O padrona mia, dove te ne vai?

Oh, rimani e ascolta! Il tuo vero amore arriva,

e canta acuto e basso.

Non andar oltre, soave dolcezza.

I viaggi finiscono in incontri amorosi:

il figlio di qualsiasi saggio lo sa.


— Ma dove le peschi, ’ste canzoni? — gli chiese Mujer. — Mai sentito canzoni del genere.

— Una volta ho trovato un libro — disse Tom. — Ho imparato un mucchio di poesie a forza di leggerlo. Poi, io ho inventato la musica.

— Non c’è da stupirsi se non ho mai sentito una sola di queste canzoni, allora — dichiarò Mujer. — No, non c’è proprio da stupirsi.

— Canta quella della spiaggia — intervenne Charley. Stava seduto alla destra di Tom. Mujer era alla guida, e Tom si trovava stretto fra i due sul sedile anteriore. — Mi è molto piaciuta. Quella triste, con la spiaggia al chiaro di luna. — Adesso si stavano avvicinando a San Francisco, forse ci sarebbero volute altre quattro o cinque ore, aveva detto Charley. C’erano un sacco di cittadine, là fuori, e la maggior parte erano abitate, anche se una su tre, all’incirca, erano state abbandonate molto tempo prima. Il suolo era ancora secco e caldo, la mano pesante dell’estate premeva ancora. L’ultima volta che erano scesi dal furgone, quella mattina verso le undici, Tom aveva sperato di sentire la prima fresca brezza soffiare da occidente, e di vedere sfilacciature di nebbia aleggiare nella loro direzione. L’aria di San Francisco, pulita e fresca. No, aveva detto Charley: tu non senti l’aria di San Francisco finché non sei arrivato là, e poi cambia tutt’a un tratto, un momento prima puoi magari arrostire, poi sbuchi fuori dalla galleria delle colline e fa fresco. È un tipo d’aria completamente diverso.

Tom vi si stava preparando, cominciava ad essere stanco del calore della valle. Le sue visioni si manifestavano meglio e più nitide quando l’aria era fresca… per qualche buon motivo.

Suonò un ritornello al dita-piano e cantò:

Il mare è calmo stanotte.

La marea è colma, la luna è splendida

sugli stretti; sulla costa francese la luce

luccica e si spegne; le scogliere dell’Inghilterra

si ergono

tremule ed enormi, fuori della baia tranquilla.

Vieni alla finestra:

dolce è l’aria della notte!

— Bellissima — commentò Charley.

— No, neanche questa dannata canzone mi piace — ribatté Mujer.

— E allora non ascoltare — lo rimbeccò Charley. — Tieni la bocca chiusa e basta.

Solo, dalla lunga linea degli spruzzi,

là dove il mare incontra la terra sbiancata dalla luna,

ascolta! Senti il rauco ruggito

dei ciottoli che le onde tirano indietro…

— No, non ne cavo fuori nessun maledetto senso — disse Mujer.

— Che ne dici del finale? — insisté Charley. — È là che è davvero bello. Se hai un minimo d’anima dentro di te. Salta alla fine, Tom. Ehi, qual è quella cittadina? Modesto, credo. Stiamo arrivando a Modesto. Salta alla fine della canzone, per favore, Tom.

Saltare alla fine andava benissimo a Tom. Poteva cantare le sue canzoni in qualunque ordine. Cantò:

Ah, amore, siamo sinceri

l’un con l’altro! Giacché il mondo che sembra

stendersi davanti a noi come una terra di sogno

così vario, così bello, così nuovo,

in realtà non ha né gioia, né amore, né luce,

né certezza, né pace, né aiuto contro il dolore…

— Bellissima — commentò Charley. — Ascoltatela. Questa è vera poesia. Dice tutto… Prendi la circonvallazione. Non vogliamo mica entrare a Modesto, non ti pare?

…e noi siamo qui, come una pianura al crepuscolo

spazzata da allarmi confusi di lotta e di fuga

dove eserciti ignoranti si scontrano di notte.

— Anche il resto — lo sollecitò Charley, quando Tom smise di cantare.

— È tutto — disse Tom. — È qui che finisce. Dove eserciti ignoranti si scontrano di notte. - Chiuse gli occhi. Vide l’Eternità levarsi verso di lui, quell’anello di luce avvampante che si stendeva da un’estremità all’altra dell’universo, e si chiese se non stesse per manifestarglisi una visione, ma no, no, si spense con la stessa rapidità con cui era sorta. Peccato, pensò. Ma sapeva che sarebbe tornata fra non molto; poteva ancora sentirla che si librava ai margini della sua consapevolezza, che si preparava a fare irruzione. Un giorno, si disse, arriverà una visione di grande splendore, mi avvolgerà completamente e mi trascinerà via verso il cielo, come Elia che venne sollevato in alto dal turbine, come Enoch, che camminò con Dio, e Dio lo…

— Guarda là — disse Charley. — Per San Francisco devi girare da quella parte.

Il furgone svoltò in direzione nord. Fluttuando, fluttuando… fluttuando verso il mare su un cuscino d’aria. Il mio carro, pensò Tom. Vengo condotto, immerso nello splendore, fin dentro la città bianca accanto alla baia. Un carro d’aria, non come quello che venne a prendere Elia… un carro di fuoco con cavalli di fuoco. Ed Elia salì in cielo in mezzo a un turbine… — C’è una specie di carro sul Quinto Mondo degli zygerone — disse Tom, — che è fatto d’acqua… voglio dire, l’acqua di quel mondo, la quale non è come l’acqua che abbiamo qui. Gli zygerone del Quinto Mondo viaggiano su quei carri come dèi.

— Ascoltatelo! — sbuffò Stidge, dal fondo del furgone, — ’sto lunatico fottuto. Per che cosa lo tieni a fare, Charley?

— Chiudi il becco, Stidge — lo rimbeccò Charley.

Tom fissò il cielo, e questo divenne il cielo bianco del Quinto Mondo degli zygerone, uno scudo risplendente d’una fulgida radiosità, quasi come il cielo del mondo del popolo dell’Occhio, salvo che non era un fulgore così totale, così compatto. I due soli giganteschi si stagliavano in alto nella volta del firmamento, quello giallo e il bianco, con un manto increspato che scorreva rosso fra essi e intorno ad essi. E gli zygerone del Quinto Mondo galleggiavano avanti e indietro fra i loro palazzi e i loro templi, poiché quella era la vacanza nota come il Giorno della Disconoscenza, quando tutti i dolori dell’anno trascorso venivano lanciati in mare.

— Riuscite a vederli? — mormorò Tom. — Sono come gocce di pioggia, quei carri, grandi abbastanza da contenere un’intera famiglia, i consanguinei e i conacquinei insieme. Tutto il popolo degli zygerone del Quinto Mondo fluttua nel cielo, come un’immensa torma di principi e padroni.

La sua mente pullulava di mondi. Distingueva ogni cosa chiaramente, fino alle singole parole sulle pagine dei loro libri; e riusciva a capire quelle parole perfino quando i libri non erano libri, e le parole non erano parole. Era sempre stato così per lui; ma le visioni diventavano di anno in anno più nitide, più ricche di particolari, più profonde.

Charley disse: — Tu continua a guidare, Mujer. Non fermarti per nessun motivo. E non dire niente.

— Gli zygerone del Quinto Mondo sono i più importanti, i padroni. Li riuscite a vedere adesso, no, mentre escono dai loro carri? Hanno teste come soli, e braccia che spuntano tutt’intorno alle loro cinture, una dozzina e mezza di braccia, come fruste… sì, quelli sono loro. Sono giunti a questa stella millecento milioni di anni fa, all’epoca della signoria dei veltish, quando il loro vecchio sole cominciò a sbuffare e a diventare rosso e gigantesco. Il loro vecchio sole divorò i suoi mondi uno ad uno, ma ormai gli zygerone se n’erano andati sul loro nuovo pianeta. Il Quinto Mondo è il più grande, ma tutt’insieme raggiungono il numero di diciannove. Gli zygerone sono i signori dei poro, sapete, il che è stupefacente, se ci pensate, poiché i poro sono così grandi che, se uno dei loro servi più piccoli venisse sulla Terra, uno dei loro più infimi convincolati, sarebbe un re al nostro confronto. Ma per gli zygerone i poro non sono niente. Eppure, esiste anche una razza che signoreggia sopra gli zygerone. Ve l’ho detto, non è vero? Sono i kusereen, i quali dominano intere galassie, dozzine di galassie, centinaia, l’autentico Impero. — Tom scoppiò a ridere. Aveva spinto indietro la testa, chiuso strettamente gli occhi. — Tu pensi, Charley, che i kusereen s’inchinino anch’essi a un signore? E così via, sempre più in alto? A volte penso che esista una galassia lontanissima dove regnano ancora i re dei theluvara, e ogni mezzo miliardo d’anni il signore dei kusereen si presenta davanti a loro e piega il ginocchio davanti al loro trono. Soltanto che i kusereen, in realtà, non hanno ginocchia. Sono come fiumi, ognuno d’essi come un fiume risplendente che si tiene insieme come un nastro di ghiaccio. Ma d’altronde, chi sono i re ai quali i re dei theluvara offrono obbedienza? E c’è anche un Dio maestoso, alla sommità della creazione, trionfante su tutte le cose vive e morte e che ancora non esistono. Non scordatevi di Lui.

— Hai mai sentito qualcuno di più matto? — chiese Stidge. — Ecco com’è un matto, un matto vero.

— Mi piace più delle sue canzoni — dichiarò Mujer. — Le canzoni mi fanno male. Con questa roba, invece, è come guardare uno spettacolo laser, con la differenza che sono parole. Ma lui dice che è davvero una bella cosa, no?

— Lo vede come se per lui fosse vero… già — annuì Buffalo.

Charley intervenne: — Lo vede in quel modo perché è vero.

— Ti ho sentito giusto, uomo? — chiese Mujer.

— Mi hai sentito giusto, già. Lui vede dei mondi. Guarda fuori in mezzo alle stelle. Legge il Libro dei Soli e il Libro delle Lune.

— Ehi, ehi! — esclamò Stidge. — Ehi, ascoltate Charley, adesso!

— Chiudi il tuo buco — lo rimbeccò Charley. — So quello che sto dicendo, Stidge. Chiudilo, o farai il resto della tua strada a piedi fino a Frisco, uomo.

— Frisco — disse Buffalo. — Non è molto lontana, ormai. Gente, me la spasserò un mondo a Frisco!

Charley disse ancora, parlando con voce sommessa, rivolto a Tom: — Tu non badarci, Tom. Continua a raccontarci quello che vedi.

Ma era finito. Adesso Tom vedeva soltanto la strada per San Francisco, quasi nessun traffico, il calore che faceva tremolare il fondo stradale e grosse sfere di soffioni che rotolavano in mezzo all’autostrada andando a fermarsi contro il vecchio reticolato di filo spinato. Il Quinto Mondo degli zygerone era scomparso. Non aveva importanza. Sarebbe tornato, quello, o uno degli altri. Lui non aveva nessun timore che non accadesse più. Quella era una delle cose di cui non aveva timore, che le visioni potessero tutt’a un tratto abbandonarlo. Ciò che temeva, era che quando fosse venuto il momento, per i popoli della Terra, di abbracciare i mondi dell’Impero, lui sarebbe stato lasciato indietro, perché incapace di compiere la Traversata. C’era una profezia, in proposito. Era una vecchia storia, no? Mosé, il quale era morto all’ingresso della Terra Promessa. Ho fatto in modo che tu la vedessi con i tuoi occhi, ma tu non ci arriverai, aveva detto il Signore. Le lacrime cominciarono a scorrere giù per le guance di Tom. Se ne restò seduto là, in silenzio, piangendo, guardando la strada snodarsi davanti a loro. Il furgone continuava ad avanzare in silenzio verso San Francisco, galleggiando, galleggiando, avanti… avanti.

— San Francisco, quarantacinque minuti — annunciò Buffalo. — Mio o mio o mio!

2

L’uomo dei tumbondé disse: — Tu aspetta qui. Ti chiamerò quando il Senhor Papamacer sarà pronto a parlarti. Non uscire da questa stanza, hai capito?

Jaspin annuì.

— Hai capito? — ripeté l’uomo dei tumbondé.

— Sì — disse Jaspin, con voce roca. — Ho capito. Aspetterò qui fino a quando il Senhor Papamacer non sarà pronto per me.

Non riusciva a convincersi che quel posto esistesse davvero. Era una baracca, niente più, quattro o cinque stanze diroccate, fatiscenti; era il genere di roba che ci si sarebbe aspettati di trovare a Tijuana, soltanto che Tijuana, dopo cinquant’anni, non era ancora ridotta in quelle condizioni. Quello, il quartier generale di un culto che contava migliaia di fedeli… che registrava nuove conversioni a migliaia, ogni giorno. Quella baracca.

L’edificio si trovava all’angolo sud-est di National City, in qualche punto vicino a Chula Vista, sulla cima sabbiosa, bassa e piatta, d’una collina dietro la vecchia autostrada. Pareva vecchio di duecento anni e probabilmente risaliva al massimo alla prima parte del ventesimo secolo, rattoppato e riparato mille volte… non aveva la minima traccia di modernità. Niente schermo di protezione, niente finestre a diffusione di calore, niente antenna sul tetto, neppure i soliti controlli della ionizzazione che tutti avevano, i totem che, si pensava, tenessero lontana qualunque raffica di radiazioni dure che potesse venir soffiata da est. Da quanto Jaspin poteva vedere, quel posto non aveva neppure l’elettricità, niente telefono, e forse neppure i tubi dell’acquedotto. Non si era aspettato niente di così remotamente primitivo. — Uomo — gli avevano detto, — tienti pronto per oggi. Potrai venire ad ascoltare la parola che il Senhor Papamacer ha per te. Verremo noi a prenderti, uomo, per portarti alla casa del dio. — Quella? La casa di Dio? Non ce n’era il più piccolo segno. Guardando dal davanti, non era visibile nessuna delle iconografie dei tumbondé. Soltanto quando si salivano i gradini di legno, crepati e coperti di erbacce, e si oltrepassava l’ingresso laterale, era possibile dare una sbirciata dentro l’autoporto dove le statue di cartapesta delle divinità venivano tenute appoggiate con noncuranza contro la parete di legno, come dei materiali di scena scartati da qualche programma dell’orrore ai laser, vecchi mostri buttati da parte. Con una rapida occhiata Jaspin aveva individuato le forme familiari di Narbail, o Minotauro, Rei Ceupassear… Forse tenevano i grandi Chungirà-Lui-Verrà e Maguali-ga in qualche altro posto più sicuro. Ma in quel circondario, dove il Senhor Papamacer era come un re, chi mai avrebbe osato fare qualcosa alle statue degli dèi?

Jaspin aspettò. Era nervoso. Per lo meno, nell’anticamera di un medico ti davano qualcosa da leggere… qualche vecchia rivista, un cubo da suonare, qualcosa. Qui, niente del tutto. Jaspin aveva molta paura e cercava, con tutte le forze, di non ammetterlo a se stesso.

Questa è un’escursione sul campo, pensò. È come se tu stessi facendo il tuo dottorato e dovessi avere un colloquio con il grande sacerdote, l’uomo del mumbo. È tutto qui. Quest’oggi stai facendo una ricerca antropologica.

Il che era vero, in un certo senso. Lui sapeva perché voleva incontrare il Senhor Papamacer. Ma perché, per l’amor di Dio, il Senhor Papamacer voleva vedere lui?

Uno dei tumbondé tornò nella stanza. Jaspin non riusci a capire quale fosse: a lui parevano tutti uguali, una tecnica molto scarsa per qualcuno che si piccava di essere un antropologo. Con addosso i suoi gambali rossi e neri, la sua giacca d’argento, gli stivaletti dai tacchi alti, il tumbondé avrebbe potuto essere un torero. Il suo volto era la faccia d’un dio azteco, gelida, inscrutabile, zigomi come coltelli. Jaspin si chiese se quello non fosse uno degli undici apostoli che stavano al vertice, il Nucleo Interno. — Il Senhor Papamacer è quasi pronto per te — disse a Jaspin. — Alzati e vieni qui.

Il tumbondé lo tastò per controllare se non avesse addosso delle armi, non tralasciando una sola parte del suo corpo. Jaspin annusò la fragranza d’un qualche tipo di olio dolce fra i capelli folti e scuri, raccolti a crocchia, dell’uomo. Olio di pirola, essenza di cedro, qualcosa del genere. Cercò di non tremare mentre il tumbondé esplorava i suoi indumenti.

L’avevano fermato dopo i riti mentre lui e Jill se ne stavano andando. Era successo un paio di settimane prima. Cinque di loro l’avevano circondato senza dare nell’occhio, mentre lui aveva ancora la testa piena delle visioni di Maguali-ga. Ecco, aveva pensato allora, mezzo stordito: adesso stanno per fare un sacrificio umano, e hanno notato il ragazzo ebraico con l’aria dello studioso, e la sua amica shiksa tutta pelle e ossa, i tipi etnici sbagliati in mezzo a quella folla molto etnica, e in cinque minuti ci troveremo nella capanna del sangue, accanto al toro bianco, e noi tre, Jill, il toro ed io, ci troveremo con la gola recisa. Con il sangue che scorrerà tutto insieme in un unico calice. Ma non era stato così. — Il Senhor ha delle parole da dirti — l’avevano informato. — Quando sarà il momento, uomo, desidera parlare con te. — Per due settimane Jaspin si era preoccupato fin quasi ad impazzire, al pensiero di cosa mai potesse essere quella faccenda. Adesso era giunto il momento.

— Adesso entra — disse il tumbondé. — Tu molto fortunato, faccia a faccia con il Senhor.

Altri due toreri in gran tenuta entrarono nella stanza. Uno si piazzò davanti a Jaspin, uno dietro, e lo scortarono lungo un corridoio buio che puzzava di legno marcio e di muffa. Non pareva probabile che avessero intenzione di ucciderlo, ma lui non poteva scuotersi di dosso il timore. Aveva detto a Jill di chiamare la polizia, se non fosse tornato entro le quattro di quel pomeriggio. Gli sarebbe proprio servito a tanto! Ma per lo meno avrebbe potuto farne uso per minacciare i tumbondé nel caso in cui la faccenda avesse cominciato a farsi paurosa.

— È questa la stanza. Qui è molto sacro. Tu vai dentro.

— Grazie — disse Jaspin.

La stanza era assolutamente quadrata, illuminata soltanto da candele. Delle tende di pesante broccato coprivano le finestre. Quando gli occhi di Jaspin si furono abituati, vide un tappeto sul pavimento, a disegni frastagliati rossi e verdi, e un uomo seduto a gambe incrociate sul tappeto. Era completamente immobile. Alla sua destra c’era una piccola figura del dio cornuto, Chungirà-Lui-Verrà, scolpita in qualche tipo di legno esotico. Maguali-ga, tozzo e con un aspetto da incubo, con il suo grande occhio sporgente, si trovava alla sinistra dell’uomo. Non c’era nessun mobile. L’uomo sollevò lo sguardo molto lentamente, trafiggendo Jaspin con un’occhiata. La pelle era molto scura, ma i lineamenti non erano esattamente negroidi, e il suo sguardo immobile era il più feroce che Jaspin avesse mai visto. Era il volto d’ebano del Senhor Papamacer, non c’erano dubbi. Ma il Senhor Papamacer era un gigante, per lo meno quando si stagliava in cima alla collina dei tumbondé, sul luogo della comunione, mentre quell’uomo, da quanto Jaspin poteva giudicare, considerato che era seduto, pareva assai ristretto, snello. Be’, sanno creare molto bene delle illusioni, pensò. Probabilmente gli avevano infilato delle scarpe a trampoli e l’avevano vestito d’imbottiture, facendolo apparire grande e grosso. Jaspin cominciò a sentirsi un po’ più calmo.

— Chungirà-Lui-Verrà — disse Senhor Papamacer, con la ben nota voce sotterranea, tre registri al disotto del basso. Quando parlava, niente si muoveva, salvo le sue labbra, e anche queste molto poco.

— Maguali-ga. Maguali-ga — rispose Jaspin. Un sorriso glaciale.

— Tu sei Jaspin. Siediti. Por favor.

Jaspin sentì un vento gelido spazzare la stanza. Sicuro, pensò: un vento gelido dentro una stanza senza finestre, a San Diego, in agosto. Sapeva che il vento non era reale: lo sapeva; ma il gelo che stava provando lo era. Manovrò per sedersi sul tappeto rosso e verde, riuscendo con qualche scricchiolio ad assumere la posizione del loto per uguagliare quella del Senhor Papamacer. Gli pareva che qualcosa stesse per scoppiargli in uno dei fianchi, ma si costrinse a conservare quella posizione. Era di nuovo spaventato, ma in una maniera molto calma.

Il Senhor Papamacer disse: — Perché sei venuto da noi tumbondé?

Jaspin esitò, poi rispose: — Perché questo è stato un periodo buio e tormentato della mia anima. E mi è parso, tramite Maguali-ga, di riuscire a trovare la giusta via.

Come spiegazione suona piuttosto bene, disse in silenzio tra sé.

Senhor Papamacer lo fissò senza parlare. I suoi occhi scuri e lucidi come ossidiana, lo scrutavano spietati.

— È merda quello che dici — dichiarò poi esplicitamente a Jaspin, scodellando le parole con calma, senza malizia né rancore, quasi con gentilezza. — Mi hai detto quello che pensi che io voglia sentire. No. Adesso mi dici perché professore bianco viene da tumbondé.

— Perdonami — disse Jaspin.

— Non c’è da perdonare niente — replicò Senhor Papamacer. — Tu prega Rei Ceupassear, lui dà perdono. A me, tu dai solo la verità. Perché vieni da noi?

— Perché non sono più un professore.

— Ah, bene, la verità.

— Lo ero. UCLA. Sì. — Era come parlare a un idolo di pietra. L’uomo era completamente impassibile, la più formidabile presenza che Jaspin avesse mai incontrato. Arrivato in California da qualche puzzolente, rissosa favela sul fianco d’una collina vicino a Rio de Janeiro, così dicevano, quando gli argentini avevano spolverato il Brasile, e adesso era venerato dalle moltitudini. E sedeva sul lato opposto di quel tappetino rosso e verde, quasi a portata di mano. — Hai lasciato UCLA. Quando?

— All’inizio dell’anno scorso.

— Ti hanno licenziato?

— Sì.

— Lo sappiamo. Sappiamo di te. Perché fatto questo, eh?

— Non mi presentavo a tenere le lezioni. Facevo un sacco di cose strane. Non so. Un periodo buio e tormentato nella mia anima. Davvero.

— Davvero. Sì. E tumbondé, perché?

— La curiosità — farfugliò Jaspin, e quando la parola gli uscì di bocca, fu come se la corda che lo stringeva intorno al petto si fosse spezzata. — Sono un antropologo. Ero. Sai cos’è, l’antropologia?

Lo sguardo gelido dell’altro gli disse che aveva commesso un grave errore.

Jaspin proseguì: — A volte non so se capisci le mie parole. Mi dispiace. Un antropologo. Anni di addestramento. Anche se non ero un professore, mi consideravo ancora come tale. — Il colore gli stava tornando alle guance. Prosegui, digli la verità, pensò. Ha il tuo numero, comunque. — Così, volevo studiarvi. Studiare il vostro movimento. Capire cos’è veramente questa cosa dei tumbondé.

— Ah. La verità. Fa sentire bene, la verità.

Jaspin sorrise, annuì. Il sollievo era enorme.

Senhor Papamacer disse: — Scrivi libri?

— Avevo in mente di scriverne uno.

— Tu non ancora scritto uno?

— Articoli. Saggi. Recensioni. Per riviste di antropologia. Non ho ancora scritto il mio libro.

— Scrivi un libro su tumbondé?

— No — disse lui. — Non adesso. Pensavo che forse l’avrei fatto, ma adesso non lo farei più.

— Perché no?

— Perché ho visto Chungirà-Lui-Verrà — spiegò Jaspin.

— Ah. Ah. Anche questa è la verità. — Di nuovo un lungo silenzio, ma non gelido. Jaspin si sentiva totalmente alla mercé di quello strano ometto. Era del tutto terrorizzante, questo Senhor Papamacer. Alla fine disse, come da una distanza remota: — Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà.

Jaspin diede la risposta rituale: — Maguali-ga. Maguali-ga.

La collera balenò in quegli occhi di ossidiana: — No, adesso intendevo qualcos’altro! Lui verrà, sto dicendo. Presto. Marceremo verso nord. Ce ne andremo, ormai, uno di questi giorni, o quasi. Dieci, cinquantamila di noi, non so, centomila. E giunto il tempo del Settimo Posto, Jaspin. Andremo verso nord. California. Oregon. Washington. Canada. Fino al Polo Nord. Sei pronto?

— Sì. Davvero.

— Davvero, sì. — Il Senhor Papamacer si sporse in avanti. I suoi occhi avvampavano. — Ti dirò cosa fare. Tu marci con me, con Senhora Aglaibahi, con il Nucleo Interno. Tu scrivi il libro sulla marcia. Tu hai le parole, hai il sapere. Qualcuno deve raccontare la storia per quelli che vengono dopo, come fu Papamacer ad aprire la strada a Chungirà-Lui-Verrà. Questo è quello che voglio, che tu marci accanto a me e racconti quello che abbiamo fatto. Tu, Jaspin. Tu! Ti abbiamo visto sulla collina. Abbiamo visto il dio entrare dentro di te. E tu hai le parole, tu hai la testa. Sei un professore e sei anche un tumbondé. È la verità. Tu sei il nostro uomo.

Jaspin lo fissò.

— Di’ quello che farai — disse Senhor Papamacer. — Rifiuti?

— No. No. No. No. Lo farò. Da luglio mi sono impegnato a partecipare alla marcia. Davvero. Tu sai che sarò là. Sai che scriverò quello che vorrai.

Con calma, il Senhor Papamacer disse, con una voce ricca di bui misteri al di là della comprensione di Jaspin: — Io ho camminato con i veri dèi, Jaspin. Conosco le Sette Galassie. Gli dèi sono veri dèi. Io chiudo gli occhi ed essi vengono a me… e adesso, quando neppure sono chiusi. Tu dirai questo, la verità?

— Si.

— Hai visto tu stesso gli dèi?

— Ho visto Chungirà-Lui-Verrà. Le corna. Il blocco di pietra bianca.

— In cielo, cosa c’è?

— Un sole rosso… da qui a qui. E da questa parte un sole azzurro.

— È la verità. Tu hai visto. Non gli altri.

— Non gli altri. No.

— Lo farai. Li vedrai tutti, Jaspin. A mano a mano che marciamo, tu vedrai ogni cosa, le Sette Galassie. E scriverai la storia. — Il Senhor Papamacer sorrise. — Tu dirai solo la verità. Sarà molto male per te se non lo farai, tu capisci? La verità, solo la verità. Altrimenti quando il cancello sarà aperto, Jaspin, ti consegnerò agli dèi che servono Chungirà-Lui-Verrà, e gli dirò quello che hai fatto. Sai, non tutti gli dèi sono gentili. Tu non scrivi la verità? Ti darò a degli dèi che non sono gentili. Lo sai, Jaspin. Lo sai. Ti dico questo: non tutti gli dèi sono gentili.

3

Il giro del mattino, uno dei compiti regolari. La routine era importante, qualcosa di fondamentale per l’intera struttura, per loro e talvolta perfino per lei. In questo momento specialmente per lei. Passare attraverso i dormitori, stanza per stanza, controllare che tutti i pazienti uscissero, vedere come se la cavano dopo che la loro mente tornava dalla mondata mattutina. Fargli coraggio se era possibile. Farli sorridere un po’. Sarebbe servito ad aiutare la loro ripresa, se avessero sorriso un po’ di più. Il sorriso era una cura ben nota per un mucchio di cose: attivava lo scorrere verso l’esterno degli ormoni placanti, ecco cosa faceva quella piccola contrazione dei muscoli facciali, faceva schizzare ogni tipo di sostanze benefiche nei loro stanchi flussi sanguigni.

Anche tu… si, anche tu dovresti sorridere un po’ più spesso, pensò Elszabet.

Stanza Sette. Ferguson. Menendez. Doppio Arcobaleno. Bussò. — Posso entrare? Sono la dottoressa Lewis.

Aspettò fuori della porta. Dentro, silenzio. A quell’ora del mattino, molto spesso non avevano granché da dire. Be’, nessuno aveva detto che non poteva entrare, giusto? Appoggiò la mano sulla piastra. La piastra di ogni porta dell’edificio era predisposta per accettare la sua impronta, quella di Bill Waldstein, e di Dan Robinson. La porta si aprì, scivolando di lato.

Menendez sedeva sull’orlo del letto con gli occhi chiusi. Aveva degli auricolari ossei appiccicati alle guance e stava muovendo la testa con scatti violenti da parte a parte, come se stesse ascoltando una musica fortemente ritmata. Sull’altro lato della stanza, Nick Doppio Arcobaleno giaceva steso a pancia in giù sulla sua coperta indiana rosso vivo, gli occhi fissi nel vuoto, il mento sollevato sui pugni e i gomiti. Elszabet si avvicinò a lui, fermandosi accanto al suo letto per attivare lo schermo dell’intimità intorno a lui. Una crepitante luminosità rosata, sottile ma densa, eruppe nell’aria, trasformando quell’angolo della stanza di Doppio Arcobaleno in un cubicolo privato.

Nel medesimo istante, proprio mentre lo schermo s’innalzava fulmineo tutt’intorno a loro, Elszabet sentì che la sua mente veniva invasa da un verde viticcio di nebbia. Quasi come se l’energia dello schermo avesse permesso a quell’impalpabile sostanza verdastra di passare. Sorpresa, paura, shock, rabbia. Qualcosa che sorgeva dal pavimento per infilzarla. Trattenne il fiato. La sua colonna vertebrale si tese.

No, pensò con ferocia. Per l’inferno, vattene via da qui. Vattene. Vattene.

Quel verdeggiare vagante se ne andò. E una volta scomparso, Elszabet trovò difficile credere che fosse stato dentro di lei soltanto un attimo prima, anche se così fugace. Si permise di respirare; impose alla propria schiena e alle spalle di rilassarsi. L’indiano pareva non aver notato niente. Ancora a pancia in giù, ancora con lo sguardo fisso.

— Nick? — disse lei.

Lui continuò ad ignorarla.

— Nick, sono la dottoressa Lewis. — Gli toccò delicatamente la spalla. Nick sussultò come se fosse stato punto da un calabrone. — Elszabet Lewis. Mi conosci?

— Già — fece lui, senza guardarla.

— Brutta mattina.

Con voce priva d’inflessione, Nick replicò: — È tutto sparito. Tutto.

— Cosa, Nick?

— La gente. La cosa che avevamo. Dannazione, tu sai che avevamo una cosa e che ci è stata portata via. Perché dev’essere successo? Che diavolo di ragione c’è perché dovesse succedere?

Così, era di nuovo immerso nella fissazione dell’Uomo Rosso che svanisce. Era smarrito nella contemplazione della suprema ingiustizia di quel fatto. Si poteva mondarlo, e rimondarlo, e stramondarlo, ma per qualche motivo non si riusciva mai a mondarlo abbastanza a fondo da togliergli via quella roba. Era soprattutto questo il motivo per cui lo avevano scaricato lì al Centro: era arrivato lì che soffriva di una forma di disperazione profonda e costante, quella che Kierkegaard aveva descritto come la malattia del pensiero della morte, definendola qualcosa di peggiore della morte stessa, e che al giorno d’oggi veniva chiamata la sindrome di Gelbard. Come sindrome di Gelbard aveva un nome assai più scientifico. Nick Doppio Arcobaleno aveva perso la fede nell’universo. Pensava che tutta quella maledetta cosa fosse inutile e senza scopo, se non addirittura malevola. E non stava migliorando. Certo, adesso la sua memoria era ridotta a un colabrodo, ma la malattia del pensiero della morte rimaneva, ed Elszabet sospettava che non avesse niente a che fare con la sua presunta eredità indoamericana, ma soltanto col fatto che era stato abbastanza sfortunato da nascere nella seconda metà del ventunesimo secolo, quando tutto il mondo, esausto dopo centocinquant’anni di stolte brutture autodistruttive, cominciava a venir sopraffatto da questa epidemia di disperazione onnicomprensiva. Era possibile che Bill Waldstein avesse effettivamente ragione quando diceva che Doppio Arcobaleno non era affatto indiano. Ma non aveva importanza. Quando si era in preda alla malattia del pensiero della morte, ogni pretesto era buono per trascinarti giù dentro il pozzo.

— Nick, sai chi sono?

— La dottoressa Lewis.

— Il mio nome?

— Elsa… Ezla…

— Elszabet.

— Ecco. Sì.

— E chi sono?

Una scrollata di spalle.

— Non te lo ricordi?

Lui la guardò, uno sguardo scentrato, gli occhi scuri a fuoco sulla sua guancia. Era un uomo grosso e tarchiato, con le spalle robuste, un ampio naso camuso e una pelle grigiastra, non esattamente la sfumatura color rame della sua presunta razza, ma abbastanza vicina. Da quando le aveva sferrato un pugno, un paio di settimane prima, non era più stato capace di guardarla dritto negli occhi. Da quanto si riusciva a capire, non aveva nessun ricordo di aver dato in escandescenze, di averla colpita e ferita. Ma lei sospettava che alcune vestigia del fatto dovessero ancora perdurare in lui. Quando lei era intorno, lui si mostrava afflitto e imbarazzato e anche risentito, come se si sentisse colpevole di qualcosa, ma non fosse sicuro di cosa, e fosse un po’ arrabbiato con la persona che gli faceva provare questa sensazione.

— Professore — disse. — Dottore. Qualcosa del genere.

Lei replicò: — Abbastanza vicino. Sono qui per aiutarti a sentirti meglio.

— Sì? — Un guizzo d’interesse, che si spense in fretta.

— Sai cosa voglio che tu faccia, non è vero, Nick? Che tu esca da quel letto e scenda in palestra. Giusto adesso Dante Corelli ha in corso la sua lezione di ritmo e movimento. Tu sai chi è Dante, vero?

— Dante? Già. — Un po’ dubbioso.

— Conosci l’edificio della palestra?

— Tetto rosso. Sì.

— Proprio quello. Tu scendi là sotto e comincia a ballare, e balla fino a consumarti il culo, mi hai capito, Nick? Balla fino a quando non sentirai la voce di tuo padre che ti dice di smettere. O fino al campanello del pranzo, qualunque cosa venga per prima.

A queste parole Nick s’illuminò un po’. La voce di suo padre. Il senso della struttura tribale. Gli faceva bene pensare alla voce di suo padre.

— Sì — annuì. Nella sua maniera greve, cominciò a spingersi su dal letto.

— Hai fatto qualche sogno stanotte? — gli chiese lei con noncuranza.

— Sogni. Quali sogni… come? Non ho nessun modo di saperlo.

Aveva sognato della Gigante Azzurra, con la sua luce aspra e penetrante: era sul rapporto che lei aveva ricevuto quella mattina dalla stanza della mondatura. Comunque, pareva sincero quando diceva di non ricordare.

— D’accordo — disse Elszabet. — Adesso vai pure a ballare. — Gli sorrise. — Fai la danza della pioggia, magari. In questo periodo dell’anno un po’ di pioggia non ci starebbe affatto male.

— Troppo presto — replicò lui. — È uno spreco di tempo mettersi a danzare per la pioggia adesso. Le piogge non arrivano fino a ottobre. E ad ogni modo, cosa ti fa pensare che danzare porti la pioggia? Ciò che porta la pioggia è il sistema di basse pressioni che arriva dall’Alaska in ottobre.

Elszabet scoppiò a ridere. Così, non dà ancora completamente i numeri, pensò. Bene. Bene. — Vai a ballare lo stesso — lo sollecitò. — Ti farà sentire meglio. È garantito. — Tirò un calcio all’interruttore per far sparire lo schermo della privacy e andò sul lato della stanza in cui si trovava Tomás Menendez. Sedeva nella stessa posizione di prima, intento ad ascoltare i suoi auricolari ossei. Quando attivò il suo schermo della privacy, si preparò ad un altro assaggio della nebbia verde, ma questa volta il fenomeno non si manifestò. Adesso, press’a poco un giorno sì e un giorno no ne subiva una folata, una sensazione bizzarra, quell’allucinazione che le girava intorno come un avvoltoio in attesa di posarsi. Era arrivata al punto da aver paura di addormentarsi, chiedendosi tutte le volte se quella non sarebbe stata la notte in cui il Mondo Verde sarebbe finalmente penetrato nella sua coscienza. Ciò continuava a terrorizzarla, la paura di attraversare il confine che separava il guaritore dall’allucinato.

— Tomás? — chiamò con voce sommessa.

Menendez era uno dei casi più interessanti: quarant’anni, seconda generazione messicana-americana, un uomo forte, grande e grosso, goffo, con braccia come quelle di un gorilla, ma gentile, sì, gentile, l’uomo più gentile che lei avesse mai conosciuto: parlava con voce affabile, dolce, calda. A modo suo era uno studioso e un poeta, profondamente coinvolto nel proprio retaggio etnico allo stesso modo in cui Nick Doppio Arcobaleno sosteneva di essere con il proprio, ma Menendez pareva facesse sul serio. Aveva trasformato l’area intorno al proprio letto in un piccolo museo di cultura messicana, olostampe di dipinti di Orozco e Rivera e Guerrero Vasquez, un paio di sogghignanti scheletri del Giorno dei Morti, un branco di animali d’argilla dipinti a vivaci colori, cani, lucertole e uccelli.

Due anni prima Menendez aveva strangolato la moglie nel loro grazioso piccolo soggiorno giù a San José. Nessuno sapeva perché, e meno di tutti Menendez, il quale non aveva il minimo ricordo di averlo fatto, non sapeva neppure che sua moglie era morta, continuava ad aspettarsi che lei gli facesse visita il prossimo fine settimana o quello successivo. Quella era una delle più strane manifestazioni della sindrome di Gelbard, l’assassinio di parenti prossimi da parte di gente che, all’apparenza, non sembrava esser capace neppure di schiacciare una mosca. Se si diceva a Menendez che lui aveva ucciso sua moglie, vi guardava come se gli aveste parlato in turco o in babilonese: quelle parole semplicemente non avevano significato per lui.

— Tomás, sono io, Elszabet. Mi puoi sentire attraverso quegli auricolari, non è vero? Voglio sapere come stai.

— Molto bene, gracias. — Gli occhi ancora chiusi, le spalle che sussultavano ritmicamente.

— È una buona notizia. Cosa stai suonando?

— È la preghiera a Maguali-ga.

— Non la conosco. Cos’è: un antico canto azteco?

Menendez scosse la testa. Per un attimo parve scomparire, le ginocchia ballonzolanti, i pugni picchiati leggermente l’uno contro l’altro.

— Maguali-ga, Maguali-ga — cantò. — Chungirà-Lui-Verrà! — Elszabet si chinò più vicina a lui, cercando di sentire quello che lui sentiva, ma gli auricolari ossei trasmettevano i suoni soltanto a chi li portava. La custodia del cubo che Menendez stava suonando giaceva accanto a lui sul letto. La raccolse. Recava un’etichetta rozzamente stampata che pareva fatta in casa, una mezza dozzina di righe in una lingua che a tutta prima pensò potesse essere spagnolo; ma lei sapeva leggere un po’ lo spagnolo, e questo non riusciva a leggerlo. Portoghese? L’etichetta portava un indirizzo di San Diego. Tomás riceveva sempre dei pacchi dai suoi amici della comunità ’chicana: musica, poesie, stampe. Era un uomo molto amato. A volte lei si chiedeva se non avrebbero dovuto controllare tutti quei cubi e quelle cassette che riceveva. Potevano aver a che fare con cose in grado di ostacolare la sua guarigione, pensò. Ma naturalmente, qualunque cosa suonasse veniva mondata dalla sua mente il giorno successivo; e ovviamente lo rendeva felice il fatto di potersi tenere aggiornato con gli sviluppi culturali del suo popolo. — Maguali-ga è colui che apre il cancello — disse Menendez, con voce chiara e ferma, come se la frase potesse spiegarle tutto. Poi aprì gli occhi, soltanto per un momento, e corrugò la fronte. Parve sorpreso di aver compagnia.

— Tu sei Elszabet? — le chiese.

— Sì.

— Hai un messaggio da mia moglie? Viene questo fine settimana, Carmencita?

— No. Non questo fine settimana, Tomás. — Non serviva a niente stare a spiegare. — Cos’era quello che stavi suonando?

— Mi è arrivato da Paco Real, San Diego. — Parve un po’ evasivo. — Paco mi manda un sacco di cose interessanti.

— Musica?

— Canzoni, inni — spiegò Menendez. — Cose molto belle, molto forti. Dimmi, questa notte ho sognato degli altri mondi?

— No, non stanotte.

— La notte precedente, però.

— Me lo stai chiedendo o me lo stai dicendo?

Menendez ebbe un sorriso triste. — I sogni sono così belli. È quello che annoto: i sogni sono così belli. Anche se devo perderli, la bellezza è la cosa che rimane. Quando mi verrà permesso di conservare i miei sogni, Elszabet?

— Quando starai meglio. Migliori continuamente, ma non sei ancora arrivato alla meta, Tomás.

— No. Suppongo di no. Così non devo sapere quando sogno di quei mondi. Va bene se annoto che i sogni sono così belli. So che non dovremmo neanche scriverne qualcosa a noi stessi. Ma questa è soltanto una piccola cosa, dire a me stesso dei miei sogni, anche se non dico a me stesso il sogno vero e proprio. — La fissò con ansia. — Oppure posso annotarmi anche i sogni?

— No. Non i sogni. Non ancora — lei rispose. — Ti spiace se ascolto il cubonotiziario?

— No, naturalmente no, ecco… Ecco qua. — Le applicò gli auricolari ossei alle guance, premendoglieli addosso con mano leggera, con un tocco tenero, quasi amoroso. Poi lui toccò una manopola, ed Elszabet sentì una profonda voce maschile, così profonda che pareva il tuonare d’una grande rana toro, o forse un coccodrillo, che cantilenava qualcosa di costante e ripetitivo, vagamente africano, un po’ barbaro, ma molto potente e inquietante. Sentì le parole che Menendez aveva mormorato: Maguali-ga, Chungirà. Poi vi fu parecchio di ciò che avrebbe potuto essere portoghese, il rullare di tamburi e il suono acuto di alcuni strumenti, e i rumori d’una folla che ripeteva la cantilena.

— Ma che cos’è — gli chiese.

— È come un incontro — spiegò Menendez. — Una preghiera sacra. Ci sono gli dèi. È molto bello. — Le tolse gli auricolari ossei con la stessa tenerezza con cui glieli aveva applicati. — Mia moglie non verrà a farmi visita questo fine settimana, eh?

— No, Tomás.

— Ah, peccato.

— Sì — disse Elszabet, spegnendo lo schermo. — Forse vorrai andare giù in palestra. Adesso c’è un gruppo di danza. Dovrebbe piacerti.

— Forse per un po’.

— Va bene. Sai per caso dov’è Ed Ferguson?

— Ed Ferguson? No. Credo che se ne vada fuori a passeggiare tra i boschi.

— Da solo?

— A volte la donna grossa. A volte la donna artificiale. Mi dimentico i nomi.

— April. Alleluia.

— Una di loro, sì. — Menendez prese con molta attenzione la mano di Elszabet nella propria. — Sei una donna molto gentile — disse. — Mi farai visita domani?

— Naturalmente — promise lei.

Quella strana cantilena discordante le risuonava ancora negli orecchi mentre s’incamminava lungo il corridoio per finire il suo giro. Philippa. Alleluia. April. Alleluia non c’era. E va bene: fuori in mezzo al bosco con Ferguson: quella era una vecchia storia. Si meritavano a vicenda, si disse: il truffatore a sangue freddo e l’essere artificiale a sangue freddo. Ma, subito dopo, si rimproverò per quella mancanza di carità. Che razza di guaritore sei, se pensi questo dei tuoi pazienti? Ma con la stessa rapidità con cui aveva aggredito se stessa, Elszabet si disincagliò. Hai diritto di essere umana, si disse. Non ti si chiede di amare tutti quelli che si trovano al Centro. O anche soltanto di trovarli simpatici. Ti si chiede soltanto di assicurarti che ricevano il trattamento di cui hanno bisogno.

Il suo passo divenne un lento trotto e poi uno jogging, quando ripercorse in salita la collina che conduceva al suo ufficio. La mattinata era bellissima, limpida e calda. Era il periodo dell’anno in cui una giornata dorata si succedeva a un’altra senza nessuna variazione o interruzione. La stagione estiva delle nebbie era terminata, e come Nick Doppio Arcobaleno le aveva saggiamente ricordato, alla stagione delle piogge mancava ancora un mese.

Questo pomeriggio andrò alla spiaggia, pensò Elszabet. Mi stenderò al sole, cercando di tirar fuori un po’ di senso da tutte queste cose.

La turbava immensamente il fatto che quelle stranezze si stessero insinuando in maniera strisciante nel Centro: i sogni condivisi, che lasciavano perplessi non soltanto perché erano condivisi, ma anche per il loro stupefacente contenuto, tutti quegli altri soli e pianeti e mostri alieni. E il diffondersi dei sogni tra il personale: Teddy Lansford e Naresh Patel, e appena ieri Dante Corelli, che, stupefatta, aveva confessato il sogno con i Nove Soli. Elszabet sospettava che anche altri membri del personale avessero fatto sogni spaziali, ma lo nascondessero, proprio come lei non era stata ancora capace di ammettere con qualcuno che di tanto in tanto veniva invasa (e addirittura anche quando era sveglia) da sbavature fantastiche che parevano provenire dal sogno del Mondo Verde. Ogni cosa stava diventando strana. Perché? Perché?

Per Elszabet il Centro era l’unico luogo al mondo in cui si sentiva in pace, dove il folle subbuglio esterno veniva tenuto a bada. Era per questo che era venuta lì a fare il suo lavoro, per essere utile e allo stesso tempo sfuggire all’asprezza e ai dolori di quel mondo bruciato fuori dei cancelli del Centro. C’erano momenti in cui riusciva quasi a dimenticare ciò che accadeva là fuori, malgrado il costante influsso delle vittime della sindrome di Gelbard, in preda a convulsioni continue e con lo sguardo vacuo, che glielo ricordava senza scampo. Tuttavia, il Centro era un luogo tranquillo. Eppure… eppure sapeva che era folle sperare di riuscire a sottrarsi per sempre al mondo reale, in quel luogo. Il mondo reale era dappertutto. E adesso il mondo reale stava diventando irreale, e l’irrealtà si stava insinuando attraverso i cancelli come nebbia.

Mentre Elszabet si stava avvicinando al proprio ufficio, Bill Waldstein le venne incontro proveniente dalla direzione del Quartier Generale, e chiese: — Dove sono tutti?

— Chi? Il personale? I pazienti?

— Proprio tutti. Questo posto mi sembra terribilmente silenzioso.

Elszabet scrollò le spalle. — Dante sta giusto lavorando con un grosso gruppo di danza. Immagino che quasi tutti siano in palestra. Chi stavi cercando? Tomás e l’indiano sono nella loro stanza. Philippa e April anche. Ferguson si sta divertendo nel bosco con Alleluia…

Waldstein aveva un aspetto tirato e stanco. — È vero che Dante ha fatto un sogno spaziale l’altra notte?

— Farai meglio a chiederlo a lei — rispose Elszabet.

— L’ha fatto, allora. L’ha fatto. — Strascicò i sandali sul terreno. — Possiamo andare nel tuo ufficio, Elszabet?

— Certo. Cosa sta succedendo, Bill?

Non parlò, fino a quando non si trovarono nella stanzetta. Poi, lasciandosi crollare accanto alla dati-parete, le rivolse un’occhiata stranita e disse: — Confidenziale?

— Assolutamente.

— Ricordi quando dicevo che i sogni spaziali dovevano essere un imbroglio, che i pazienti se li inventavano soltanto per farci ammattire? Già da un po’ non ci credevo più, immagino. Ma di certo non ci credo adesso.

— Oh — disse lei.

— Adesso ne ho uno anch’io.

— Tu?

— Ne ho fatto uno con la Stella Doppia Tre, la scorsa notte. Con tutto, le campane, i fischi, il sole arancione alto nel cielo e quello giallo più vicino all’orizzonte, le doppie ombre. Poi il sole giallo è calato e ogni cosa è diventata di fiamma.

Elszabet lo guardò da vicino. Pensò che sarebbe scoppiato in lacrime.

— Aspetta — lui le disse. — C’è dell’altro. L’ho migliorato. Quando April l’ha fatto la settimana scorsa, non c’erano forme di vita, giusto? Io ho ricevuto anche le forme di vita. Creature azzurre a forma di sfera con piccoli tentacoli da calamaro all’estremità più alta. Non è affascinante…? E passeggiavano in una specie di anfiteatro come Aristotele e i suoi discepoli. Affascinante, molto affascinante.

— Come ti senti? — gli chiese Elszabet.

Waldstein scrollò le spalle. — Sporco dentro la testa. Come se avessi dei granelli di sabbia raschiami su tutta l’imbottitura del mio cranio.

— Bill…

La compassione la invase. Quello era il momento di dirgli che non era solo, che lei aveva percepito il sogno del Mondo Verde pruderle ai margini della mente… che lei stessa temeva l’identica cosa che temeva lui. Non riuscì a farlo. Era una cosa schifosa non dirglielo quand’era fin troppo chiaro quanto soffriva. Ma non poteva farlo. Permettere a lui, a chiunque, di sapere che anche la sua mente era vulnerabile a quella roba: no. No, non l’avrebbe fatto. Non poteva. Si sentiva ipocrita. E allora preferiva esserlo davvero. Sì, preferiva esserlo. Esteriormente rimase fredda, calma, la comprensiva amministratrice che ascoltava la confessione di un membro del personale in preda al turbamento.

Dagli qualcosa, pensò Elszabet.

— Posso dirti che non sei solo in questa faccenda — gli disse un attimo dopo.

— Lo so. Teddy Lansford, Dante. E anche Naresh Patel, credo, da qualcosa che si è lasciato sfuggire qualche settimana fa. E probabilmente altri di noi.

— Probabilmente — lei disse.

— Così, non è soltanto un fenomeno psicotico limitato ai pazienti.

— Non è mai stato limitato ai pazienti. Sin quasi dall’inizio ha colpito membri del personale.

— E allora sono psicopatici anche loro. Pensi che siano i primi stadi della sindrome di Gelbard?

Elszabet scosse la testa: — Punto primo, smettila di usare parole grevi come psicopatico, d’accordo? Secondo, il fatto di condividere una manifestazione come questa con delle vittime della sindrome di Gelbard non significa necessariamente che anche tu ne sia affetto, significa soltanto che sta accadendo qualcosa di molto peculiare, che tende a colpire i pazienti con maggiore velocità rispetto al personale, ma colpisce anche il personale. Terzo…

— Elszabet, ho paura.

— Anch’io. Terzo, quello che abbiamo qui è un fenomeno che non è confinato nel Centro Nepenthe, come intendo mettere bene in chiaro all’incontro di domani dello staff.

Waldstein parve sorpreso. — Cosa vuoi dire?

— Spostati indietro e guarda la dati-parete — l’invitò Elszabet.

Si alzò lentamente in piedi e si girò. Elszabet attivò la parete. Comparve una mappa degli stati del Pacifico.

— Questi sogni — disse, — sono stati segnalati dai Centri di mondatura di San Francisco, Monterey, e Eureka. — Toccò un tasto, e lo schermo s’illuminò in quei tre punti. — Sono stata in contatto con i direttori di laggiù. Le stesse sette visualizzazioni, non necessariamente tutte e sette in ciascun centro. Soprattutto sperimentate dai pazienti, mentre la frequenza tra i membri del personale è inferiore.

— Ma cosa…

— Aspetta — lo fermò Elszabet. Altre luci comparvero sullo schermo. — Dave Paolucci a San Francisco ha raccolto i rapporti sull’incidenza dei sogni spaziali fuori della California Settentrionale, e sembra che molti nuovi dati stiano affluendo proprio in questo momento. — Disegni colorati sbocciarono all’estremità inferiore dello stato. — Guarda là — disse ancora Elszabet. — Devo chiamarlo. Devo ottenere i particolari. Vedi: un’intensa concentrazione di segnalazioni nell’area di San Diego. E alcune da Los Angeles. E anche lassù… cos’è? Seattle. Vancouver. Oh, Cristo. Bill: guarda! È dappertutto. È una pestilenza.

— Anche Denver — disse Waldstein, indicando con il dito.

— Già. Denver. Che si trova press’a poco all’estrema area sud dalla quale possiamo ancora ricevere comunicazioni attendibili, ma chissà cosa mai sta succedendo al di là delle Rocciose. Perciò non sei soltanto tu, Bill. Quasi tutti, maledizione, sognano quei sogni.

— Per qualche motivo, questo non mi fa affatto sentir meglio — dichiarò Waldstein.

4

Ferguson disse: — Quello che mi piacerebbe fare, sarebbe battermela da questo posto quanto più in fretta possibile, e cominciare a fare un po’ di soldi sfruttando tutte queste sciocchezze.

— Come lo faresti? — chiese Alleluia.

— Diavolo, non ci vorrebbe poi una grande abilità. Sul lato principale del Centro c’è un cancello, ma su questo lato c’è soltanto la foresta. Potresti tagliare la corda al pomeriggio e trovare la via d’uscita, basta tenere dietro di sé il sole al pomeriggio e davanti la mattina, forse per due o tre giorni soltanto, se hai un minimo di buon senso. Basta arrivare fino alla vecchia superstrada e poi attraversare fino a Ukiah… diciamo…

— No, voglio dire, come faresti a farci i soldi?

Ferguson sorrise. Giacevano in mezzo al muschio, in una tranquilla radura a una ventina di minuti di cammino a est del Centro, sequoie, felci e un piccolo ruscello. In quella zona il terreno era accidentato e inclinato in maniera tale che sarebbe stato difficile per chiunque imbattersi in loro. Era il suo posto favorito. Si era assicurato di averne indicato la posizione sul suo anello registratore, così da non aver problemi a trovarlo di nuovo, anche se poteva capitare che gli mondassero i dati dalla mente dopo tutte le volte che era andato là. Alcune cose venivano dimenticate, altre no: non si poteva mai essere sicuri.

Disse: — È una cosa certa. I sogni spaziali non capitano soltanto ai pazienti di qui. Lo so di sicuro.

— Davvero?

— Io ascolto con molta attenzione. Conosci il tecnico, Lansford? Li ha avuti due o tre volte. Li ho sentiti parlare, Waldstein, Robinson, Elszabet Lewis. Credo che quel piccolo medico indù li abbia fatti. E perfino Waldstein, credo. Ma i sogni accadono anche fuori del Centro.

— Lo sai? — chiese Alleluia.

— Ho delle buone ragioni per pensarlo — insisté Ferguson. Le passò leggermente la mano sulla coscia, fermandosi subito prima dell’inguine. La sua pelle era liscia come seta. Ancora più liscia, forse. Era passata mezz’ora da quando l’avevano fatto e lui si sentiva ancora sudato, ma non Alleluia. Ecco il vantaggio che avevano quelle donne artificiali: erano perfette, non sudavano mai neppure tanto. — Ho un’amica a San Francisco. Mi ha parlato di un sogno che ha fatto una settimana fa, lo stesso che tu hai fatto una volta. Ricordi di aver fatto quel sogno? Le corna, il blocco di pietra bianca, i due soli?

— Pensavo che fossi stato tu a fare quel sogno.

— Io? No. Sei stata tu. Io non ho mai fatto nessuno dei sogni. Neanche uno. Quella volta che te l’ho detto è stato quando l’ha fatto quella mia amica di San Francisco. Se li fanno là, e li fanno qui, puoi scommettere che li fanno dappertutto.

— E allora?

Fece scivolare la mano fino al suo petto. Lei si mosse e si agitò contro di lui. Gli piaceva. Si sentiva quasi pronto a rifarlo. Proprio come un bambino, pensò: sempre pronto per un «ancora», perfino di questi giorni.

— Sai per quale motivo mi hanno mandato qui? — chiese.

— Me l’hai detto, ma me l’hanno mondato.

— Avevo messo su un imbroglio. Offrivo di mandare gente sugli altri pianeti, dove potevano farsi una nuova vita, sfuggire a questo casino della Terra, sai. Versatemi qualche migliaio di verdoni, e non appena il procedimento sarà perfezionato, sarete in grado di…

Alleluia chiese: — Riesci ancora a ricordare di averlo fatto?

— Sembra che non scompaia quando mi mondano.

— E tu ricominceresti un’altra volta la tua truffa, giusto?

— Come può mancare di funzionare? Tutti si sono già prenotati, ormai : i sogni sono la miglior pubblicità dei pianeti che posso fornire, capisci. C’è il mondo con i soli rosso e azzurro, c’è il pianeta con il cielo verde, c’è il mondo con i nove soli… capisci, li conosco tutti. Ho i miei sistemi, Allie. Sono sette, sì… sette pianeti da sogno. Tu fai la tua scelta, mi dai i soldi, io mi occupo dei particolari, mi assicuro che tu venga spedita al posto giusto. I sogni, dico io, sono soltanto gli altri pianeti che trasmettono manifesti turistici pubblicitari per dire di sé alla gente quanto sono formidabili. Non può fallire, ragazzina. Te lo dico io : non può fallire.

— Ti prenderanno di nuovo — disse lei. — Ti hanno preso una volta, lo faranno di nuovo. E questa volta non si limiteranno a buttarti nel Centro Nepenthe.

— Non succederà più, che mi prendano.

— No?

— Mai. Per prima cosa uscirò da questa giurisdizione. Andrò su al nord, Oregon, Washington. Poi userò una società di comodo, sai cos’è? E un’altra società di comodo dietro la prima, una serie di gusci, tutti gestiti tramite prestanome. Con una casella postale a Portland, diciamo, o forse a Spokane, e…

— Ed.

— Sì?

— Non me ne importa un fico secco, Ed. Lo sai.

— Be’, e perché mai dovrebbe importarti? A te non importa niente di niente, vero?

— Una cosa.

— Già — commentò lui. — Una cosa. Sia ringraziato Dio. Ma non capisco: a cosa serve l’impulso sessuale in un sintetico? In origine il sesso è stato messo dentro di noi perché potessimo riprodurci, giusto? E tu non ti riproduci, non col sesso comunque, giusto? Giusto.

— Si trova là per una ragione — disse lei.

— E sarebbe?

— Per farci pensare che siamo umani — spiegò Alleluia. — Cosicché non diventiamo infelici e disadattati e cerchiamo di prendere possesso del mondo. Potremmo farlo, sai. Siamo esseri altamente superiori. Qualunque cosa voi possiate fare, noi possiamo farla cinquanta volte meglio. Se non provassimo sensazioni sessuali, potremmo pensare di essere perfino ancora più diversi di quanto siamo in realtà, una specie di razza padrona, sai. Ma ci hanno dato il sesso, ci tiene rappacificati, ci fa rimanere al nostro posto.

— Già — fece lui. — Questo posso capirlo. — Ferguson si sporse di traverso, le baciò la punta di ciascun capezzolo, le baciò con levità le labbra. — È tutto molto sensato — dichiarò. Mai prima di allora aveva passato tanto tempo intorno ad una sintetica, e stava imparando un mucchio di cose da quell’esperienza. Come la maggior parte della gente, aveva avuto la tendenza a mantenere le distanze, considerando i sintetici degli esseri bizzarri, orripilanti. Comunque, non ce n’erano molti in giro, forse mezzo milione, una cifra così. O meno ancora. Ricordava quand’erano stati prodotti, trent’anni prima o giù di lì, poco prima della Guerra della Polvere. Ricordava che erano stati concepiti per usi militari. Esseri perfetti per combattere una guerra perfetta. Un esperimento interrotto dei bei vecchi tempi. Ma a quanto pareva non erano del tutto perfetti. Avevano un mucchio di genuine fisime umane. Umane quel tanto che bastava per farli finire nei centri terapeutici, com’era capitato a questa. Bene, umani quanto bastava perché gli piacesse anche fottere. Si dovevano prendere i più e i meno e sperare per il meglio. Le strinse le mammelle fra le mani. Con voce sommessa disse: — Quando me ne andrò da qui, tu verrai con me, d’accordo? Ti mostrerò tutti i miei piccoli trucchi.

— Ti farò vedere alcuni dei miei — rispose lei.

5

La strada formava un cappio come un grande serpente grigio attraverso l’acqua, qui levandosi alta, là livellandosi, passando in un punto attraverso una galleria, balzando poi su per diventare, più avanti, un paio d’immensi ponti sospesi. All’estremità opposta di essi c’era, bianca e vivida alla luce del pomeriggio, San Francisco, tutta rannicchiata sul suo pezzettino di pianeta. Un’aria fresca, freschissima, cominciò ad entrare a fiotti attraverso i finestrini aperti del furgone.

— Questo ponte — disse Charley, — risale a moltissimo tempo fa. Lo hanno costruito negli evi medi e guardatelo come regge ancora. Con tutti i terremoti che ci sono stati e chissà quante altre cose, e regge ancora.

— Il Golden Gate Bridge — disse Buffalo. — Incredibile!

— No, non il Golden Gate — lo corresse Charley. — Il Golden Gate è quello laggiù su quel lato, che prosegue verso nord. Questo è il Bay Bridge. Giusto, Tom?

— Non lo so — rispose Tom. — Non sono mai stato prima d’ora a San Francisco.

Stidge rise. — Sei stato nell’Undicesima Galassia degli Zorch, ma non sei mai stato a Frisco. Bella davvero.

— Io non sono mai stato in nessuna delle due — ribatté Buffalo. — E allora?

— Bene, bene, siamo arrivati — intervenne Charley. — Bella città. — La più bella e graziosissima città che ci sia. Quand’ero ragazzino ci sono vissuto sei anni. Scommetto che non è cambiata di molto. Per qualche motivo, questo posto non cambia mai.

— Neppure quando ci sono i terremoti? — chiese Buffalo.

— I terremoti non contano niente — gli rispose Charley. — Fanno un po’ di casino e poi la città viene rimessa in piedi com’era prima. Avevo dieci anni, quand’è stata pestata. Dopo sei mesi non vedevi più la differenza.

— Eri qui con quello Grosso? — chiese Mujer.

— No — disse Charley. — Quello Grosso è stato cent’anni fa. L’hanno avuto nel 2006. Grosso Secondo l’hanno chiamato, due giorni prima dell’anniversario. Il Primo Grosso era stato nel 1906, con il fuoco e tutto il resto, che ha bruciato tutto il dannato posto. Cent’anni dopo si stavano preparando a celebrare l’anniversario, sai, parate e discorsi… Quel figlio di puttana del Grosso Secondo, due giorni prima dell’anniversario, ha buttato giù tutto di nuovo. Ecco che razza di città è questa.

— Non ti trovavi qua, allora — osservò Mujer.

— È stato novantasette anni fa — disse Charley. — Credo proprio di essermelo perso. Poi hanno avuto il Piccolo Grosso, trent’anni più tardi, quaranta, non so. Anche quello è stato prima della mia epoca. Il terremoto durante il quale mi trovavo qui, quello non ha avuto nessun nome. Non era così grosso, ma grosso abbastanza. Ha fatto cascare tutto dagli scaffali, ha rotto i vetri, mi ha spaventato a morte. Avevo dieci anni. La casa dall’altra parte della strada è uscita dritta dritta dalle fondamenta. Se ne stava lì, con un muro completamente crollato, che pareva una casa delle bambole, con tutte le stanze visibili. Dissero che quello era stato qualcosa di più del solito terremoto, ma non grosso come il Grosso. Il Grosso non viene più di una volta ogni cento anni, o giù di lì.

— Allora è quasi il momento — osservò Tamale dal fondo del furgone.

— Già — aggiunse Choke. — Domani pomeriggio, a quanto mi dicono. Alle tre e mezza.

— Merda rovente! — esclamò Buffalo. — È proprio quello che mi ci vuole, il mio primo giorno a San Francisco. Che cominci con un vero bang!

— Ecco quello che faremo — disse Mujer. — Saliremo sul furgone un momento prima che cominci. Accenderemo il motore. Poi ce ne staremo là a galleggiare sul cuscino d’aria finché il terreno non avrà smesso di muoversi, uh. D’accordo? E poi, quando tutto sarà finito, usciremo e andremo a dare un’occhiata alle case crollate e riempiremo il furgone con tutto quello che ci piace e ce ne andremo da qualche parte a nord.

— Sicuro — disse Charley. — Ma tu, sai cosa fanno qui agli sciacalli, quando c’è il terremoto? Li appendono per le palle. Qui è la regola, lo è sempre stata e lo sarà sempre.

— E se non hanno le palle? — chiese Choke. — Non tutti hanno le palle, Charley.

— Ti sbattono nel reparto dell’ospedale dove cambiano il sesso, e poi ti ci appendono. In questa città non scherzano affatto con gli sciacalli. Ehi, Tom, hai mai visto una città più graziosa di questa?

Tom scrollò le spalle. Era lontano.

— Ehi, Tom. Dove stai adesso, Tom?

— Nell’Undicesima Galassia degli Zorch — disse Stidge.

— Stai zitto! — gl’intimo Charley. Rivolto a Tom, insisté: — Dicci cosa vedi, uomo.

Le cose si stavano agitando, e sorgevano nella mente di Tom. Vedeva la città chiamata Meliluiilii su un mondo chiamato Luiiliimeli, sotto la torrida gigante azzurra conosciuta come Ellullimiilu. Quello era uno dei mondi dei Thikkumuuru della Dodicesima Poliarchia. Luuiiliimelli dei Grandi Re aveva regnato in quel luogo per settecentomila grandi cicli del Pontentastium. — Lì hanno terremoti tutto il giorno — disse Tom. — Ma non gli dà nessuna noia. Il suolo è come lava, bolle e si solleva come in un calderone, ma la città ci galleggia sopra alla deriva.

— Dov’è — domandò Charley. — Quale pianeta?

— Meliluiilii, su Luiiliimeli — tornò a spiegare Tom. — È uno dei Mondi dell’Asse, i grandi che plasmano il Disegno. La luce del sole sopra Luiiliimeli è talmente intensa che ti colpisce come un maglio. Luce azzurra… un maglio che brucia. Noi, lassù, fonderemmo in un lampo. Ma gli abitanti di Luiiliimeli non sono neppure minimamente come noi. Così, quella luce non gli dà nessun fastidio. Non è un pianeta per gli esseri umani. È un pianeta per loro. Questo è il solo pianeta per gli esseri umani, quello su cui ci troviamo adesso. La gente, su Luiiliimeli, è come fantasmi smaglianti e la città è soltanto una bolla galleggiante. È tutto. Soltanto una bolla.

— Oh, ascoltatelo — esclamò Charley. — Voi magari pensate che San Francisco sia bella. Loollymooly… è come una gigantesca, magnifica bolla. Quando io sto qui, ad ascoltarlo, riesco quasi a vederla che galleggia lassù e risplende tutta. Fantastico.

E Tom riprese a dire: — Tutte le città sono splendide, dappertutto per la Galassia. Non esiste qualcosa come una città brutta, da nessuna parte. Quella là, adesso, è Shaxtharx, la capitale degli irikiqui. Si trova sul grande mondo del sistema di Sapiil, l’Impero dei Nove Soli. Lassù, ogni cosa è costruita con una materia che sembra una tela di ragno, ma dieci volte più forte dell’acciaio. Luccica, e rimbalza, e tutte le volte che c’è un terremoto… perché lassù hanno terremoti, spesso, molto spesso, la forza di gravità dei Nove Soli tira sempre il pianeta in direzioni continuamente diverse… quando c’è un terremoto, sapete, la città diventa ancora più bella, per il modo in cui si muove. Quasi come un arazzo, mostrando tutti i diversi colori dei soli. Quando ci sono i terremoti, il popolo dei sapiil arriva da ogni parte per guardare Shaxtharx che trema.

— Ci sei stato, uh? — chiese Buffalo.

— No, non io. Ma la vedo, capisci? Le visioni arrivano. Vedo tutti i mondi, e forse un giorno farò la Traversata. — Gli occhi di Tom scintillavano. — Non puoi attraversare lo spazio in carne e ossa. Moriresti come un moscerino in una fornace su uno qualsiasi di quei mondi. L’unico mondo adatto agli umani è questo, capisci cosa sto dicendo? Ma quando verrà il Tempo della Traversata, saremo in grado di abbandonare i nostri corpi ed entrare nei loro.

— Non era affatto male la storia di quelle città, che ci stava raccontando — dichiarò Buffalo. — Ma non ce la fa proprio a smetterla con la sua logorrea, vero? Abbandoniamo i nostri corpi, entriamo nei loro.

— Proprio come è scritto nella Bibbia — proseguì Tom. — È detto nei Corinzii. Che verremo cambiati in un momento, in un batter d’occhio. Giacché questo corpo corruttibile deve indossare l’incorruttibilità, e questo corpo mortale deve indossare l’immortalità. È la Traversata di cui parlano, quando passeremo sugli altri mondi. Non in paradiso: non è questo che intendono. Intendono che andremo su Luiiliimeli, alcuni di noi, e che assumeremo proprio la loro forma, e alcuni di noi andranno sui mondi dei sapiil, e altri su quelli degli zygerone, o dei poro, o diventeranno kusereen, addirittura… Verremo sparpagliati per l’universo, perché è questo il piano divino, la dispersione dello Spirito…

— Va bene, Tom — disse Charley con gentilezza. — Basta così per adesso, Tom. Stiamo per lasciare il ponte. Siamo a San Francisco. Giusto nel mezzo della città.

— Ehi! Guardate! — gridò Buffalo. — Avete mai visto qualcosa di così bello? Tutti quegli edifici bianchi. Tutti quegli alberi verdi. Basta respirare l’aria. Quest’aria… è come il vino, uh. Come il vino. Il vino.

Tamale intervenne: — Parlavi sul serio, Choke? Di quel terremoto domani alle tre e mezzo?

— Be’, sanno prevederli, no? — rispose Choke. — Possono misurare i gas del terremoto che escono fuori dal suolo con molti giorni di anticipo.

— Così, lo sai di sicuro. Ce n’è uno domani. E allora, cosa cavolo ci facciamo, qui?

— Non so una merda di domani — ribatté Choke. — Stavo soltanto facendo funzionare la bocca, uomo. Se ci fosse un terremoto domani, non pensi che tutti avrebbero fatto le valigie e lasciato la città? Gesù Cristo, Tamale, come puoi essere così stupido? Stavo soltanto facendo funzionare la bocca.

— Già — disse Tamale con una risatina. — Già. Lo sapevo. Lo sapevo, uomo.

Tom sedeva silenzioso in mezzo a loro. La meraviglia suscitata da quelle visioni aleggiava ancora sulla sua anima. Quelle stupefacenti città non umane, quegli esseri nobili che si spostavano da un punto all’altro sulla superficie dei loro mondi stupefacenti… Pensò a ciò che aveva detto, che non c’era niente che potesse venir definito una città brutta, da nessuna parte. Prima di allora non ci aveva mai pensato, ma era vero, e non soltanto nelle lontane galassie. La bellezza era dappertutto, in ogni luogo, in tutte le cose. Ogni cosa irradiava il miracolo della creazione. San Francisco era bellissima, certo, ma lo erano anche le desolate cittadine della valle abbandonata alle loro spalle, le cittadine arrugginite, sbriciolate, vuote, e così era ogni altra cosa al mondo, poiché ogni altra cosa al mondo recava la mano di Dio nel suo disegno. Mujer era bello, Stidge era bello. Una volta che si cominciavano a guardare le cose con occhi che erano stati aperti, si disse Tom, da qualunque parte ci si voltava, si vedeva soltanto la bellezza.

— Fermati qui — ordinò Charley. — Possiamo parcheggiare sull’altro lato della strada, darci un’occhiata intorno, fare qualche domanda e trovare un posto dove alloggiare. Rupe, tu sorveglia il furgone, tu e Nicholas. Torneremo fra dieci, quindici minuti, forse. Tom, tu rimani vicino a me. Sei con noi, Tom. Sei tornato sulla Terra, uomo?

— Sono qui! — disse Tom.

— Bene. Assicurati di rimanere qui per un po’, d’accordo? — Charley sogghignò. — Cosa pensi di San Francisco? Graziosa città.

— Molto graziosa — annuì Tom. — L’aria. Gli alberi.

Risalirono la strada, sparpagliandosi. Buffalo per primo, con Choke subito dietro di lui, poi Stidge e Tamale, l’uno accanto all’altro. Mujer vicino a loro, e Charley con Tom un po’ più indietro. Era importante, aveva detto Charley, non dar l’impressione di essere una banda d’invasori. A volte i bandido arrivavano dall’entroterra in bande di dieci o di venti per ripulire la città, e finivano in guerra con i gruppi dei vigilantes. Charley non voleva che accadesse. — Qui ci limiteremo a passare l’estate, ci terremo defilati, calmi e con i nervi a posto, per non attirare l’attenzione, d’accordo? Questo è un bel posto per passare l’estate. E forse, quando cominceranno le piogge, andremo da qualche altra parte, su a nord, oppure giù fino a San Diego. È piacevole e fa caldo laggiù, a San Diego, durante l’inverno.

Tom si guardava intorno. Era passato molto tempo da quando era stato in città, in una vera città. Qui le cose parevano vecchie, perfino antiche. Tutti quei piccoli edifici di legno che sembravano uscire da un’era scomparsa, quando la vita aveva avuto certezze e stabilità. San Francisco aveva qualcosa di molto tranquillo, di molto confortevole. Forse erano le dimensioni, ogni cosa così piccola e accostata insieme. O forse era il modo in cui ogni cosa sembrava vecchia. Le città che aveva già visitato non erano niente del genere, quelle nello stato di Washington, nell’Idaho, negli altri posti su al nord dov’era stato. Perfino le città che erano comparse nelle sue visioni non erano così.

Una cosa che particolarmente lo colpiva erano le colline. Qui le colline erano sorprendenti. Tom sollevò lo sguardo e vide i minuscoli edifici bianchi che si arrampicavano su per le colline, ed era difficile credere che costruissero su colline come quelle. Naturalmente aveva visto mondi dove costruivano case su montagne dai fianchi di vetro che salivano dritti fino al cielo, con le case che sporgevano dai fianchi come nidi d’aquila, ma ciò avveniva su altri mondi dove ogni cosa era diversa, l’aria, la gravità. Alcuni non avevano neppure aria. Forse ce n’erano che non avevano neppure la gravità. C’erano mondi di ogni genere. Ma questa era la Terra e per lungo tempo Tom era vissuto in luoghi che erano pianeggianti e adesso si trovava in una città che sembrava tutta picchi e valli.

Raggiunsero guardinghi l’estremità della strada e poi attraversarono. Non c’era molto traffico. Qualche vecchia auto a combustione e qualcuna a effetto-suolo. Il cielo era di un azzurro duro e splendente e l’aria era sorprendentemente limpida, la luce del sole rimbalzava quasi visibilmente dalle abbacinanti facciate bianche. Un vento asciutto, freddo, molto tagliente, soffiava da occidente, là dove le colline nascondevano l’oceano alla vista.

Charley disse, camminando al fianco di Tom: — È stato molto bello, sai, quello che ci hai raccontato sul ponte. Di quelle città. A volte diventi un pochino matto, ma hai lo stesso un cervello meraviglioso, Tom. Le cose che vedi… le cose che ci racconti.

— So quanto sono fortunato — replicò Tom. — Mi è stato conferito il dono da Dio.

— Vorrei vedere un decimo delle cose che vedi tu, sai. Alcune soltanto, anche. — Charley parlava a bassa voce, come faceva talvolta quando non voleva che gli altri grattatori lo sentissero. Ma erano tutti più avanti, verso la metà dell’isolato. — Ho fatto dei sogni quasi ogni notte. Sogni fantastici. Sai, ho visto quel fiammeggiante mondo luminoso, quello di cui mi hai parlato, dove vive il Popolo dell’Occhio. Non volevo dirtelo mentre stavamo viaggiando. Ma l’ho visto proprio come l’hai raccontato tu, la marea di luce che riempiva ogni cosa. E ne ho visto un altro dove c’erano due soli nel cielo, uno bianco e uno giallo, e su ogni cosa le più dannate ombre che si possano immaginare, e il cielo era tutto rosso.

— Il quinto mondo degli zygerone — dichiarò Tom, annuendo. — Sì, pensavo proprio che l’avresti sognato. Arriva a noi con molta forza.

— Tu conosci i loro nomi e ogni altra cosa.

— Li ho visti praticamente durante tutta la mia vita. Fin da quand’ero bambino, quando ero convinto che tutti vedessero cose del genere. Più tardi mi ha fatto paura… quando ho saputo che nessuno li vedeva. Ma adesso ci sono abituato. E adesso anche altri li vedono. E quello che io vedo, diventa di momento in momento sempre più chiaro.

— Pensi che io cominci a vederli perché viaggio vicino a te? Può essere?

— Potrebbe essere — rispose Tom. — Non lo so. Sono io l’origine? Oppure stiamo avendo tutti le visioni allo stesso tempo? Forse adesso gli altri mondi stanno irrompendo su tutta l’umanità e non più soltanto su di me. Non so.

Charley annuì: — Credo che anche alcuni degli altri facciano i sogni, ma non vogliano ammetterlo. Choke, credo; e forse Nicholas. Forse li fanno tutti. Ma hanno tutti paura di parlarne. Ci sono delle mattine in cui hanno un’aria strana, ma nessuno dice niente. Pensano che si sentirebbero dare dei pazzi, se dicessero di vedere le cose che vedi tu. Pensano che verrebbero presi in giro. Ed è la cosa che odiano di più, questi ragazzi. Peggio ancora che venir chiamati pazzi.

— A me non importa. Ci sono abituato. Sia all’uno che all’altro: ad esser preso in giro; e ad essere chiamato pazzo. Povero Tom. Povero pazzo Tom. Talvolta essere pazzi è una salvezza: nessuno vuole fare del male a un pazzo. Ma le cose che il povero pazzo Tom vede, sono vere. Io lo so, Charley. E un giorno anche tutto il mondo lo saprà. Quando verremo chiamati alla Traversata, voglio dire. Quando i cieli si apriranno e partiremo per i mondi del Sacro Impero.

Charley sorrise e scosse la testa. — Ora è proprio a questo punto che comincio a sentirti strano, quando parli così. Quando attacchi a parlare in quel certo modo e non la smetti più… — Si fermò di botto. — Senti niente là dietro, Tom?

— Cosa?

— No, tu non sentiresti proprio. — Charley si girò guardando verso il punto in cui avevano lasciato il furgone. Mujer, che si trovava in fondo alla strada, davanti a loro, era tornato indietro di corsa, e si fermò ansante al fianco di Charley.

— Era Nicholas — disse Mujer. — Chiamava aiuto.

— Già. Dannazione.

Charley si girò di scatto, insieme a Mujer e agli altri, tornando indietro di corsa in direzione del furgone. Stidge avanzava a balzi, gli occhi spiritati, la lancia in pugno. Tom sentì accapponarglisi la pelle. Guai in vista, non c’erano dubbi. Si mise ad inseguirli con passo veloce, anche lui verso il punto in cui era parcheggiato il furgone. Adesso Nicholas stava urlando, ripetutamente. Tom guardò davanti a sé e vide due strani individui, con addosso dei jeans logori e ampie camicie bianche, sul lato opposto del furgone. Stavano scappando, e mentre scappavano lanciavano lampi di calore rossastro. Il corpo voluminoso di Rupe giaceva lungo disteso sul selciato, bocconi. Nicholas era rannicchiato dietro il furgone, intento a sparare. Quando Tom ebbe raggiunto il furgone, era tutto finito, quegli strani uomini scomparsi alla vista, le armi rinfoderate. Charley aveva la fronte corrugata e picchiava i pugni l’uno contro l’altro, inferocito.

— Li hai visti bene? — chiese rivolto a Nicholas.

— Non ci sono dubbi. I due ragazzi della fattoria, quelli che ci sono scappati quando Stidge ha ammazzato il padre e la madre.

— Merda — disse Charley. — La nostra tranquilla vita a San Francisco. Merda. Merda. Rupe è morto?

— Morto, già — annuì Mujer. — Bruciato in pieno attraverso lo stomaco.

— Merda — ripeté Charley. — E va bene. Dobbiamo dargli la caccia. Stidge, tu ci hai cacciato in questo pasticcio, tocca a te braccarli, dovunque siano. Se noi non li troviamo, ci perseguiteranno e ci faranno fuori ad uno ad uno, nella maniera più facile. Muovi il culo, uomo. Devi liquidarli. — Charley scosse la testa. — Vai, vai. — Guardò verso Tom. — Vedi cosa voglio dire quando parlo di uccidere? Una volta che hai cominciato, devi finire. — Toccò il braccialetto laser che gli cingeva il polso destro. — Tu rimani qui con il furgone — gli disse. — Dentro il furgone, e non aprirlo a nessuno. Cerca di tenere la testa sulle spalle, mi hai sentito, Tom? Torneremo subito. Dannazione — aggiunse Charley. — E tutto andava così bene.

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