CINQUE

La paralisi tormenta il mio polso

quando rubo i tuoi maiali o le tue galline

o le tue colombe, o rendo vedovo

il Cantore del tuo pollaio, o ti faccio cupo

quando voglio foraggio per Humphrey.

Così io ceno, e quando vengo sorpreso dal buio,

riposo come San Paolo con l’anima sveglia,

eppure non sono mai spaventato.

Mentre io canto

«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,

da mangiare, da bere o da vestire.

Vieni, dama o fanciulla,

non aver timore,

il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom o’ Bedlam

1

Senhor Papamacer disse: — L’inizio, ecco cos’è importante, Jaspin. Te l’ho già detto o no? Be’, ascoltami di nuovo: è la cosa più importante. Come gli dèi mi hanno fatto visita la prima volta, i nuovi dèi.

Jaspin aspettava paziente. Il Senhor gliel’aveva già detto, sì, più d’una volta. Più di due volte, in realtà. Ma Jaspin sapeva che quelle conversazioni non erano mai controllate da nessuna percentuale, il Senhor diceva soltanto quello che il Senhor voleva dire. Quello era il suo privilegio. Era lui il Senhor. Jaspin era soltanto il suo scriba.

Inoltre, Jaspin aveva imparato che, se si accontentava di starsene seduto immobile mentre il Senhor diceva le solite cose, presto o tardi il Senhor avrebbe tirato fuori qualche nuova rivelazione. Questo pomeriggio, per esempio, Jaspin aveva notato una grande cartella di cartone sul pavimento, vicino al Senhor. Il Senhor se ne stava seduto con le dita tozze della mano sinistra allargate sopra la cartella. Il segno sicuro che si trattava di qualcosa d’importante. Jaspin voleva sapere cosa c’era dentro, aveva l’idea che se fosse rimasto lì, seduto immobile ad aspettare, l’avrebbe scoperto. Sedeva immobile. Aspettava.

— All’inizio fu con un sogno — disse il Senhor Papamacer. — Giacevo al buio, una notte, e Maguali-ga si mostra a me e dice, io sono colui che apre il cancello, io sono il portatore di ciò che seguirà. Ed io so subito che questo è il dio che parla dall’altra parte dell’oceano delle stelle, e che io sono la voce scelta dal dio. Lo sai?

Si, pensò Jaspin. Lo sapeva. Sapeva anche che cosa sarebbe seguito. E quella notte mi alzai e andai alla finestra, e le nove stelle di Maguali-ga risplendevano nel cielo, ed io alzo le braccia e sento su di me la grande luce delle sette galassie. La conosceva tutta parola per parola, ormai. Il Senhor Papamacer gli stava dettando le scritture e voleva esser sicuro che lui le scrivesse giuste. Non c’era alcun dubbio: sentii subito la verità.

Studiò quel volto magro, scolpito, gli occhi d’ossidiana. Quell’ometto che aveva l’intenzione di cambiare il mondo e forse l’avrebbe fatto: questo profeta, questo mostro sacro, il più recente e forse l’ultimo di una lunga sfilza di profeti. Mosé, Gesù, Maometto, il Senhor Papamacer. Al Senhor piaceva mettersi nell’elenco con loro. Forse aveva ragione.

— Ed io mi alzai nella notte — disse il Senhor, — e andai alla finestra, e le nove stelle di Maguali-ga splendevano nel cielo… Ah, sì. E la grande luce delle sette galassie — disse ancora il Senhor, — fu che questi dèi sono veri, e verranno sulla Terra per governarci.

Era questa la cosa interessante, si disse Jaspin: questo grande balzo di fede. L’averlo saputo all’istante. La fede nell’esistenza delle cose sperate, la prova delle cose non viste. Sei mesi prima ciò sarebbe stato incomprensibile per Jaspin; ma anche lui aveva visto: Chungirà-Lui-Verrà sul fianco torrido della collina a San Diego, e poi Maguali-ga, tante volte nei suoi sogni, e Rei Ceupassear, Narbail dei tuoni, O Minotauro. Anche lui aveva visto, anche lui ci aveva creduto all’istante. Con suo vivo stupore.

— Come faccio a sapere questo, mi chiedi tu — proseguì il Senhor Papamacer. — Io so di saperlo, è tutto. Ed è sufficiente. Verdademente a verdad, davvero la verità. Sai di saperlo.

— Proprio come Mosé ha chiesto a Dio di dirgli il Suo nome — azzardò Jaspin, zelante, — e tutto ciò che Dio volle rispondere, fu: «IO SONO CIÒ CHE SONO», e questo a Mosé bastò.

Senhor Papamacer gli rivolse un’occhiata gelida. Jaspin era là per ascoltare, non per fornire commenti. Jaspin provò il vivo desiderio di farsi piccolo piccolo e di sparire alla sua vista.

Ma dopo un istante, il Senhor proseguì come se Jaspin non avesse mai parlato: — Bisogna credere, sai, Jaspin. Davanti all’assoluta verità si finisce per credere in assoluto. Così è stato con me. Mi sono arreso alla verità, e ad uno ad uno gli dèi mi si sono manifestati. Rei Ceupassear e Prete Noir il Negus, e O Minotauro e Narbail e gli altri. E ciascuno mi ha dato a turno la visione. Ho visto i loro mondi e le loro stelle e ho saputo che ci amano e si stanno preparando a venire fra noi. Sono stato il primo a saperlo, ma siccome io custodivo la verità, altri vennero a me e io divisi con loro le mie conoscenze. Adesso siamo molte migliaia, e un giorno tutto il mondo si unirà a noi: uniti nel sangue, con il rito dei tumbondé per renderci degni del dio ultimo che ci porterà la benedizione delle stelle.

Esitando, sentendo di dover dire qualcosa, Jaspin intonò: — Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà.

Una volta tanto fu la cosa giusta. Il Senhor annuì benevolo. — Maguali-ga, Maguali-ga — rispose. Insieme fecero i sacri segni.

Poi d’un tratto il Senhor disse, sorprendentemente: — Sai cos’ero, prima che gli dèi venissero da me? Ora lo saprai. Questo lo devi mettere nel tuo libro, Jaspin. Io guidavo un tassì, a Chula Vista. Vent’anni ho guidato lì, e prima guidavo a Tijuana, e quand’ero giovane guidavo a Rio, prima della grossa guerra. Portami qua, portami là, non puoi guidare più in fretta, tieni il resto. — Scoppiò a ridere. Mai prima di allora Jaspin aveva sentito ridere il Senhor: una risata asciutta, aspra e tremula, come canne sfregate insieme in un arroyo spazzato dal vento. — Tutto in una notte, vengo fatto nuovo dagli dèi, non guido mai più. Metti questo nel libro, Jaspin. Ti darò fotografie: il mio tassì, la mia patente di chauffeur. Maometto guidava cammelli. Mosé era un pastore. Gesù un carpentiere. E Papamacer un tassista.

Eccoli lì di nuovo i quattro grandi, Mosé, Gesù, Maometto, Papamacer. Jaspin cercò d’immaginarsi quell’uomo formidabile, dalla voce profonda, caricato come una molla, questo profeta carismatico dei grandi dèi delle stelle, che gironzolava per San Diego su un vecchio tassì sconquassato, scroccando tariffe e mance. Il Senhor allungò la mano verso la grande cartella di cartone. Jaspin immaginò che fossero le fotografie del tassì. Ma invece il Senhor Papamacer disse: — Quando chiudi i tuoi occhi, Jaspin, vedi gli dèi, sì?

— Qualche notte… sì. Sogno le visioni due, tre volte la settimana.

— Vedi tutte e sette le adorabili galassie?

— Ormai sì — disse Jaspin. — Tutte e sette.

— E credi che queste siano le case degli dèi, verdademente a verdad?

— Lo credo, sì — dichiarò Jaspin. Si chiese a cosa mai mirasse il Senhor.

— Ti chiedi mai, se forse è soltanto un sogno, forse è soltanto una follia della notte quella che hai, che io ho, che tutti abbiamo?

— Credo che gli dèi siano i veri dèi — confermò Jaspin.

— Perché tu hai la fede. Perché tu sai che io so.

Jaspin scrollò le spalle: — Sì.

— Ho qui la prova assoluta — disse il Senhor. Aprì la cartella. Jaspin vide all’interno una pila di riproduzioni olografiche. Senhor Papamacer passò la prima della pila a Jaspin. — Conosci questo posto? — gli chiese.

Jaspin fissò l’immagine. Perfino alla fioca luce là dentro l’autobus, l’olo irradiava una luminosità interiore. Mostrava una striscia di soli abbaglianti (Jaspin ne contò sei, sette, otto, nove), sparsi sopra un cielo purpureo scuro, e un paesaggio alieno, arcano e stupefacente, tutto aspre angolazioni e impossibili prospettive. E in primo piano c’era un’enorme figura con sei arti e un singolo, luccicante occhio composito al centro dell’ampia fronte. Jaspin cominciò a tremare dentro.

— Cos’è questa, una fotografia? — domandò.

— No, non una fotografia. Soltanto un dipinto. Ma un dipinto molto reale, non è vero? Cos’è questo luogo? Chi c’è là in piedi?

— Quello è Maguali-ga — mormorò Jaspin. — I nove soli. La Roccia del Patto.

— Ah, tu sai queste cose. Le riconosci.

— Sono esattamente come le ho viste io stesso.

— Sì. Sì. Com’è interessante… E adesso, guarda questa. — Passò a Jaspin un secondo olo. Era una veduta diversa dello stesso mondo di Maguali-ga: l’angolo era molto più accentuato, e invece di Maguali-ga da solo, c’erano cinque o sei di quegli esseri. Anche quella riproduzione avrebbe potuto passare per una fotografia. Ma adesso che Jaspin era stato messo sull’avviso, era in grado di avvedersi che in realtà si trattava di un dipinto, probabilmente generato da un computer e molto realistico, ma tuttavia un lavoro dell’immaginazione. — E questa — disse ancora il Senhor, mettendo una terza veduta del pianeta di Maguali-ga davanti a Jaspin: una tecnica un po’ differente, un soggetto notevolmente diverso… questa volta era visibile uno strano edificio irregolare di pietra, con un altissimo soffitto, e Maguali-ga era in piedi sulla soglia… ma non c’era nessun dubbio che raffigurasse lo stesso mondo delle altre due immagini.

— Adesso queste — disse il Senhor, e tirò fuori altre tre fotografie dal suo pacco. Sole rosso, sole azzurro, un fiammeggiante arco nel cielo, una figura dorata in primo piano con le corna d’ariete incurvate. Ognuna delle tre immagini era chiaramente opera d’un artista diverso; ma tutte e tre mostravano la stessa cosa, identica in ogni particolare. Jaspin fu scosso da un brivido: — Chungirà-Lui-Verrà.

— Sì. Sì. E queste?

Altre tre. Un mondo verde, dense volute di nebbia, fiammeggianti figure cristalline che si muovevano lì intorno. Tre fotografie di un mondo di luce abbacinante, l’intero cielo era un immenso sole. Tre immagini d’un mondo fiammeggiante il cui sole era azzurro, e c’era Rei Ceupassear, il quale si levava alto come una sfavillante bolla radiosa. Tre di un mondo i cui soli erano giallo e arancione…

— Cosa sono queste cose? — chiese Jaspin alla fine.

Il Senhor irraggiò come un Buddha d’ebano. Non era mai apparso tanto gioioso. — È davvero la verità, ed io so di saperlo. Ma altri non ne sono così sicuri, e ci sono alcuni che vorrebbero opporsi a noi. Così ho fatto in modo che la verità gli venisse presentata sotto forma di immagini. Tu sai che esistono congegni che trasformano le immagini nella mente di un uomo in un’immagine su uno schermo, e poi è possibile farle diventare così. Ho mandato a chiamare tre persone diverse e ho detto: producete immagini dei mondi degli dèi. Mettetele in questa macchina, cosicché tutti possano vedere le immagini che vedete voi. Bene, Jaspin: tu puoi vedere. Se tre persone fanno la fotografia, puntando la macchina sulla stessa strada di Los Angeles, otterranno la stessa immagine. E anche qui abbiamo la stessa immagine, anche se questa esce fuori dalla mente della gente. Così, tutti vedono la stessa cosa. Guarda, questo è Maguali-ga, questo è Narbail, questo è dove abita O Minotauro… chi può dubitare di questo, adesso? Queste cose sono vere e reali. Quando entrano nella nostra mente, provengono da posti veri. Perché tutti vediamo la stessa cosa. Adesso non può esserci nessun dubbio. Sei d’accordo? Non può esserci nessun dubbio!

— Non ho mai dubitato — replicò Jaspin, stordito. Ma sapeva di mentire. Una parte di lui aveva conservato il proprio scetticismo per tutto il tempo. Una parte di lui insisteva a dire che ciò che lui provava era soltanto una forma di folle allucinazione. Ma se tutti stavano avendo le stesse allucinazioni, esattamente, fino al più piccolo particolare, quelle piccole, bizzarre cose simili a piante che lui aveva visto così spesso ma di cui non aveva mai parlato a nessuno, erano là, in questo olo e in quell’altro e in quell’altro ancora…

Ne fu completamente sbalordito. Lui non aveva chiesto queste prove; era stato disposto ad agire soltanto per fede. Ma gli ologrammi che aveva davanti erano davvero travolgenti.

— Veramente la verità — disse il Senhor Papamacer.

— Veramente la verità — mormorò Jaspin.

— Adesso vai pure. Scrivi quello che senti… quello che pensi in questo istante. Adesso. Vai, Jaspin.

Jaspin annuì e, incespicando, ripercorse in tutta la sua lunghezza l’autobus che sapeva di stantio, procedendo a tentoni nel buio della cappella, per poi uscire dalla parte anteriore. Alcuni uomini del Nucleo Interno erano stravaccati sui gradini dell’autobus: Carvalho, Lagosta, Barbosa. Sollevarono su di lui i loro volti scuri con un sorriso sciocco e canzonatorio. Jaspin passò fra loro con cautela, tenendosi di lato, senza prestare la minima maledetta attenzione ai loro sorrisetti idioti: la presenza degli dèi dominava ancora la sua mente. Vai a scrivere quello che senti, quello che pensi… Sì. Ma prima doveva dirlo a Jill.

Stava scendendo il crepuscolo. L’aria era fresca. Adesso si trovavano da qualche parte nelle vicinanze di Monterey, un po’ nell’entroterra, accampati in quello che era stato il campo di carciofi di qualcuno prima che centomila pellegrini l’invadessero con i loro autobus, furgoni, camion e relativi rimorchi. Jaspin sentì in distanza una cantilena. Tre enormi falò stavano avvampando, lanciando nere colonne di fumo nel cielo che si andava oscurando. Guardò dentro la sua macchina per vedere se c’era Jill. Non era là.

Sentì delle risate dietro di lui. Altri ancora del Nucleo Interno: Cotovela, Johnny Espingarda, appoggiati contro il loro piccolo autobus arancione e giallo. Lanciò un’occhiata nella loro direzione.

— Qualcosa di divertente?

— Divertente. Divertente.

— Uno di voi due ha visto mia moglie?

Risero di nuovo, un po’ forzatamente. Avevano deliberatamente cercato di farlo sentire a disagio. Lui disprezzava quei brasiliani bastardi, inscrutabili, dalle espressioni gelide, quegli apostoli del Senhor. Così compiaciuti della loro presunta santità superiore.

— Tua moglie — disse Johnny Espingarda, e la fece suonare come una parola sporca.

— Mia moglie, sì. Sapete dov’è?

Johnny Espingarda serrò la mano a pugno, la portò alla bocca, ci tossì dentro. Cotovela parve soffocare dalle risate. Jaspin sentì il timore reverenziale e la stupefazione che gli ologrammi del Senhor avevano destato in lui svanire sotto il peso della sua rabbia e irritazione. Si girò di scatto, voltando loro le spalle, scrutò il buio che si andava addensando, cercando Jill con lo sguardo. Andò sul lato opposto della sua macchina, pensando che potesse avere steso una coperta da quella parte. Jill non era neppure là. Però quando tornò di nuovo sul davanti della macchina la vide, che veniva verso l’auto dalla direzione dell’autobus del Nucleo Interno. Era eccitata, sudata, con i vestiti strapazzati, pareva intenta ad armeggiare con la cintura dei suoi jeans. Dietro di lei Bacalhau era uscito dall’autobus e stava dicendo qualcosa a Cotovela e a Johnny Espingarda: Jaspin sentì le loro rozze risate. Oh, Cristo, pensò. Cristo, non con Bacalhau.

— Jill? — fece.

Il suo sguardo era un po’ sfocato. — Hai fatto visita al Senhor?

— Sì. E tu?

Lei parve compiere uno sforzo per vedere dritto; e poi, d’un tratto, gli occhi si rinserrarono sui suoi, la sua espressione era gelida, di sfida. — Sono stata a intervistare il Nucleo Interno — disse. — Un po’ d’antropologia pratica. — Scoppiò in una risatina.

— Jill — disse lui. — Oh, Jill, Cristo.

2

In piedi fra quelle due nuove, strane persone, la bella donna dai capelli scuri che non era vera, e l’uomo aggrondato con la gamba ferita, Tom si sentì sicuro che stava arrivando una visione. Proprio là, davanti a tutti, su quella solitaria strada di campagna, mentre il sole stava calando.

Ma per qualche motivo, la visione non arrivò. C’era il rombo nel suo cervello, c’era un tremolio luminoso, ma questo era tutto. La visione rimase in attesa. Stava accadendo qualcos’altro, forse una specie di presagio si stava dispiegando dentro di lui. Guardò Charley. Guardò la donna dai capelli scuri e l’uomo dalla faccia aggrondata che si era fatto male alla gamba. Charley stava facendo domande sul posto che l’uomo dalla faccia aggrondata aveva chiamato un Centro. Cos’è, chi lo dirige, cosa fanno. Tom ascoltò con interesse. Si trovò a pensare che gli sarebbe piaciuto andare in quel Centro, andarci quella sera stessa, sedersi a riposare un po’ nei suoi giardini. Era stato per strada troppo a lungo, a vagare di qua e di là, ed era stanco.

— Vuoi dire che quel posto è una specie di manicomio? — chiese Charley.

— Non proprio — spiegò l’uomo dalla faccia aggrondata. — Hanno un sacco di gente che soffre di turbe, là dentro. Non credo tanto quanto il tuo amico, per lo meno la maggior parte di loro. Ma turbati lo stesso, sai. Scombussolati nell’intimo. E là li curano. Hanno sistemi per calmarli e guarirli.

Tom disse: — Anche Tom avrebbe bisogno di un po’ di cure. Povero Tom.

Nessuno parve accorgersi che aveva parlato. Gettò un’occhiata verso il cielo, ancora dominato dall’azzurro del pomeriggio, ma che si andava oscurando ai bordi. Adesso il sole era nascosto dalle cime delle enormi sequoie. La foresta cominciava subito, un po’ più in là della strada, e si perdeva fin dove arrivava lo sguardo. Sopra di lui vide comparire le prime stelle, puntini di luce colorati, rossi e verdi e arancione e turchese.

Minuscole scintille galleggianti. Ma ognuna nel cuore d’un impero che comprendeva migliaia di mondi, e ciascuno di quegli imperi era legato in una confederazione che conglobava intere galassie. E su quei mondi miliardi di miliardi di città meravigliose. Confrontata alla più piccola di quelle città, Babilonia era un villaggio, l’Egitto niente più d’una pozzanghera. E la luce di tutte quelle stelle era messa a fuoco su quel piccolo mondo senza importanza, quella triste Terra.

Charley domandò: — Ma voi, chi siete?

— Io sono Ed, e questa è Allie.

— Ed… Allie… D’accordo. A farvi una passeggiata fra i boschi?

— Uh. Uh. Una passeggiatina, sì. Ho messo un piede nell’imboccatura di una tana e mi sono storto la caviglia.

— Già. Dovevi stare più attento. — Charley li stava soppesando. — E qual è il nome di questo posto, di questo Centro?

— Il Centro Nepenthe — disse l’uomo chiamato Ed. — È gestito da una fondazione. Prendono gente da tutta la California. È quasi come un albergo di campagna, passeggiate, svaghi e tutto il resto, soltanto che, in più di tutto questo, ti curano. Mi piace il posto. Si trova subito oltre il lato opposto di questa foresta, fra i boschi e la costa. Sul davanti c’è un grande cancello, e ci sono le insegne. È impossibile che vi sbagliate. Se prima non vi dispiace accompagnare Allie e me fino a Ukiah, poi da lì c’è una strada che porta direttamente a Mendocino, e da Mendocino c’è uno svincolo che porta direttamente fino al Centro.

— Come mai ne sai così tanto? — domandò Charley.

— Laggiù c’è mia moglie in cura — disse Ed.

— Allie? E cosa c’è che non va con lei?

— No, non Allie. — Ed si mostrò a disagio. — Allie è un’amica. Mia moglie… — Scrollò le spalle. — Insomma, è una lunga storia.

— Già. Ci scommetto.

Tom si rese conto che Charley avrebbe ucciso quelle due persone quando avesse smesso di parlare con loro. Doveva farlo. Adesso potevano identificarlo. Se la polizia del luogo fosse arrivata e avesse chiesto: — Stiamo cercando dei grattatori che hanno ucciso un vigilante a San Francisco… avete visto qualcuno d’insolito passare da queste parti in macchina? — quei due avrebbero potuto rispondere: — Be’, abbiamo visto otto uomini su un furgone passare di qua e il loro aspetto è così e così. — Charley non poteva rischiare. Charley aveva detto che non gli piaceva uccidere. E molto probabilmente l’intendeva davvero così. Ma neppure si tirava indietro, se sentiva che doveva farlo.

La donna disse: — Ditemi una cosa. Voi, li fate mai dei sogni spaziali?

L’uomo si girò di scatto verso di lei, diventando rosso in faccia, ed esclamò: — Allie, per l’amor di Cristo…

Sì. Li avrebbe uccisi di sicuro. Tom lo sapeva. L’idea che doveva farlo cominciava ad apparire sulla faccia di Charley: che quell’uomo era pericoloso per lui, che quell’uomo poteva in qualche modo avvertire la polizia. Charley aveva fermato il furgone soltanto perché aveva creduto che la donna fosse sola per strada. I grattatori la volevano usare. Ma poi, quando quell’uomo era sbucato dal bosco, zoppicando, tutto era cambiato. Quell’uomo doveva morire perché era troppo pericoloso per Charley. E ciò significava che anche la donna dai capelli scuri doveva morire. Una volta che si uccideva qualcuno, bisognava continuare ad uccidere. Era questo che Charley aveva detto non molto tempo addietro.

La donna stava dicendo, intestardendosi più che mai: — No, voglio saperlo. È importante. Queste sono le prime persone che abbiamo visto da… da… Mi chiedo se fanno oppure no i sogni anche loro.

— Sogni spaziali? — disse Tom, come se avesse sentito per la prima volta ciò che la donna stava dicendo.

La donna annuì: — Come delle visioni, sì… visioni di altri mondi. Soli diversi nel cielo. Strani esseri che si muovono intorno. Io ho fatto sogni del genere, ma non sono la sola. Li ha fatti un mucchio di gente che conosco. Non Ed, però. Ma un mucchio di altra gente.

— Araldi — disse Tom. — Il Tempo della Traversata è vicino. — Vide Stidge che si girava verso Tamale, si batteva la fronte e descriveva un cerchio nell’aria con le dita. Insomma… quello era Stidge. Tom disse ancora: — Io ricevo le visioni in continuazione. Tu, vedi mai il Mondo Verde? E quello dei Nove Soli?

— E ce n’è uno con un sole rosso e anche un altro azzurro — annuì lei, mostrando d’essere in preda a un’eccitazione crescente. — Adesso mi torna alla mente. Pensavo di averli persi… ma no, adesso riesco a trovarli nella mia mente. Perché mai? Era tutto scomparso. Ma ricordo un grande sole azzurro che sfrigolava nel cielo, e città sfolgoranti, che parevano bolle galleggianti…

— Già — intervenne Charley. — Quello lo conosco anch’io. Tom me l’ha descritto. È il pianeta di Loollymoolly, giusto, Tom?

— Luiiliimeli — lo corresse Tom. Adesso anche lui si sentiva eccitato. Forse Charley non li avrebbe uccisi, dopotutto, adesso che aveva scoperto che anche la donna faceva i sogni. Charley poteva interessarsi alla gente, e a volte questo faceva molta differenza. Tom disse alla donna: — Quali altri posti hai visto? Ce n’è uno dove il cielo è pieno di luce che s’irradia giù da ogni punto.

— Sì — lei disse. — Ce n’è anche uno proprio così. E…

— Si sta facendo tardi — intervenne Charley. D’un tratto gli occhi di Charley si erano incupiti, e socchiusi, e la sua voce era priva d’inflessione. Tom conosceva quell’espressione e quella voce. Un’espressione gelida. Un’espressione che faceva paura. — Non c’è dubbio che abbiamo fatto una simpatica conversazione, ma si sta facendo tardi.

Li ucciderà comunque, pensò Tom. Nient’altro ha importanza.

Non andava affatto bene, uccidere in quel modo. Tutti quegli assassinii, dovevano smettere. Lui l’aveva già spiegato a Charley. Adesso il Tempo della Traversata incombeva troppo da vicino. Non era giusto privare qualcuno, chiunque fosse, della sua possibilità di raggiungere le stelle, adesso che il Tempo della Traversata era quasi arrivato.

Charley si voltò e disse: — Stidge, Mujer…

— Aspetta — disse Tom. Sapeva che doveva far qualcosa, adesso, subito, in quell’istante. — Ecco. Ecco. Comincia ad arrivare. Sento che l’ondata sta per cominciare.

Mai prima di allora aveva simulato una visione. Sperava di riuscirci fino in fondo.

Charley ribatté: — Risparmiala per un’altra volta, Tom. Abbiamo cose da fare.

— Ma quello che vedo adesso è speciale — insisté lui, pregando che gli venisse concesso tempo. Era tutto quello che poteva fare adesso, pregare che gli venisse concesso del tempo e sperare che accadesse qualcosa. — Tutto il cielo si sta muovendo! Vedi le stelle? Là in alto stanno andando alla deriva come tanti pesciolini d’oro. — Buttò indietro la testa ed agitò le braccia tutt’intorno, cercando di apparire estatico, sperando di riuscire in qualche modo ad evocare una vera visione. Ma non arrivò niente. Disperato, continuò, forzando l’esibizione: — Riuscite a vedere i prìncipi dei kusereen? Si spostano liberamente attraverso l’Impero. Non hanno bisogno di navi spaziali… di niente del genere. Impiegherebbero troppo tempo a spostarsi da un mondo all’altro a bordo di astronavi, ma loro sanno come fare la Traversata, sapete. Tutti loro lo sanno. Possono lasciarsi alle spalle il corpo ed entrare in qualunque altro tipo di corpo disponibile sul mondo ospitante.

— Tom…

— Questa donna qui, questa Allie. È una vera zygerone, Charley. È una Lama dell’Impero. E l’uomo è un Ispettore dei kusereen. Sono venuti a farci visita, a prepararci per la Traversata. Riesco a sentire la loro presenza interiore. — Tom cominciò a tremare. Era sul punto di credere alla sua stessa storia. L’uomo e la donna lo stavano fissando, stupiti, disorientati. Avrebbe voluto strizzargli l’occhio, per dir loro di assecondarlo in tutto, ma non osava. Le parole continuarono a sgorgare dalle sue labbra: — Ho sentito la consapevolezza di questi due fin troppe volte, Charley. Lei stessa è una vera zygerone del Quinto, anche se in questo momento, a livello cosciente, non ha accesso alla propria identità. L’hanno accantonata, messa sotto chiave, così da non trovarsi nei guai. E lui, non posso neppure cominciare a dirti cos’è, tanto è potente nella gerarchia dei kusereen. Ti dico che qui siamo in presenza di esseri grandissimi. E potrebbe anche darsi che tutto il destino della razza umana venga determinato proprio qui, su questa strada, stanotte stessa, e…

— Merda, ma sentitelo! — esclamò Mujer.

Charley disse: — Riportatelo nel furgone. Nicholas, Buffalo. Non fategli nessun male, soltanto riportatelo dentro e tenetelo occupato. Su, su. Adesso.

— Aspetta — disse Tom. — Per favore, aspetta.

D’improvviso, udirono un ronzio nel cielo.

— Cristo — disse Mujer. — Cos’è? Un elicottero?

Tom sbatté le palpebre e guardò in alto. Una forma scura e luccicante si librava sopra di loro e stava scendendo con la leggerezza d’una piuma.

— Figlio di puttana — borbottò Charley.

— Polizia? — chiese Buffalo.

Charley lo fissò: — Hai intenzione di restare qui per chiederglielo? Dobbiamo sparpagliarci. Sparpagliarci. Nel bosco. Ognuno di noi in una direzione diversa. Su, via, correte, idioti!

I grattatori scomparvero in mezzo alle ombre dell’imbrunire mentre l’elicottero scendeva fluttuando e atterrava sul ciglio della strada. Tom rimase immobile, fissando affascinato la scena. Sentì Charley che gli urlava qualcosa dal folto ma non gli prestò nessuna attenzione. L’elicottero era piccolo e snello. Sui suoi fianchi lucidi, color perla, spiccava la scritta Centro Nepenthe. Contea di Mendocino, in lettere d’un colore azzurro sgargiante.

Uno sportello si aprì e due uomini balzarono fuori, poi una donna, e infine un terzo uomo. — Va bene, Ed — disse uno di loro. — Alleluia, adesso è ora di tornare a casa.

— Per l’amore di Gesù Sofferente — esclamò l’uomo chiamato Ed. — Avete volato sopra tutta la contea per darci la caccia?

La donna replicò: — Non è così difficile rintracciarvi. Avete tutti e due dei chip per la localizzazione vettoriale automatica inseriti addosso, sapete. Immagino che ve lo siate dimenticato, giusto?

— Gesù — mormorò Ed. — Come puoi batterli, se ti mondano? — Si voltò di scatto e s’incamminò verso il bosco con andatura impacciata e zoppicante, in preda alla disperazione. Dopo aver fatto otto o nove passi, inciampò nella sua stessa gruccia, finendo lungo disteso per terra, imprecando e picchiando i pugni contro il suolo. La donna e uno degli uomini lo raggiunsero, lo aiutarono a rimettersi in piedi, e cominciarono a condurlo verso l’elicottero.

A tutta prima, la donna chiamata Allie non si mosse affatto. Tom si era aspettato che anche lei cercasse di fuggire nella foresta, ma era rimasta lì immobile, come se fosse stata trasformata in una statua. E quando si mosse, non lo fece nella direzione opposta alla gente che era venuta a prenderla, ma direttamente verso di loro, con una velocità stupefacente. In un istante fu loro addosso. Con un braccio colpì uno degli uomini facendolo volare fin quasi sul lato opposto della strada, e agguantò l’altro serrandogli il braccio intorno al collo.

— Va bene — esclamò. — Lasciateci in pace, per l’inferno… altrimenti gli stacco la testa dal collo, avete capito? Adesso togliete le mani da Ferguson. Mi hai sentito, Lansford? Lascialo andare.

— Certo, Alleluia — rispose l’uomo che sorreggeva Ed, dal piede sofferente. Si scostò da lui, e lo stesso fece la donna che si trovava sull’altro lato. — Nessun problema — disse l’uomo. — Vedi? Nessuno trattiene il signor Ferguson.

— D’accordo — disse Allie. — E adesso, voglio che risaliate su quel vostro elicottero e ve ne torniate dritti da dove…

— Alleluia? — fece la donna.

— Tu non stare a parlarmi, Dante. Fai giusto quello che ti ho detto.

— Sicuro — annuì la donna chiamata Dante. Sollevò la mano e qualcosa di luminoso saettò dentro di essa, e la donna chiamata Allie produsse un piccolo suono sommesso e crollò a terra.

— L’hai uccisa? — chiese Tom.

— Una pallottola di anestetico. Dormirà circa un’ora. Tempo a sufficienza per riportarla dentro e farle smaltire i bollori. Tu, chi sei?

— Mi chiamo Tom. Il povero Tom. L’affamato Tom. Siete del Centro? Dove la gente trova riposo e tranquillità?

— Proprio così — confermò la donna.

— Voglio andarci. È là che ho bisogno di andare. Porterete Tom con voi, non è vero? Il povero Tom. L’affamato Tom. Tom non farà del male a nessuno. Tom è rimasto con i grattatori anche troppo. — Lo stavano fissando. Lui sorrise. — È il loro furgone, quello dei grattatori. Charley e i suoi ragazzi. Sono scappati tutti in mezzo alla foresta, ma non sono lontani. Pensavano foste la polizia. Quando ve ne andrete torneranno a prendermi, se mi lascerete qui. Sono rimasto con loro a sufficienza. Talvolta fanno male alla gente, e a me non piace. Tom ha fame. Tom avrà freddo, qua fuori, tutto solo. Per favore. Per favore.

3

Per un po’, quella mattina, mentre stava cercando di prepararsi all’incontro con Kresh e Paolucci, Elszabet aveva soppesato seriamente la possibilità di chiedere di sottoporsi lei stessa alla mondatura. Tanto l’aveva spaventata uscire dal sogno del Mondo Verde e scoprire che le vestigia di quella stranezza le erano ancora appiccicate addosso, un sogno che non voleva scomparire.

La mondatura non era una scelta disponibile, naturalmente, e lei lo sapeva. Nessuno del personale era mai stato mondato; era rigorosamente riservato ai pazienti. Non si poteva farsi una mondata così come ci si faceva un martini o si prendeva un tranquillante tutte le volte che si sentiva il bisogno di distendere i nervi. Preparare qualcuno per una mondata era un affare complicato che comportava settimane di test, per regolare le curve elettroneurali con la massima precisione cosicché non ne risultasse nessun danno. La mondatura doveva essere una cura terapeutica, non qualcosa di distruttivo. Quando si resecavano i banchi mnemonici di qualcuno, bisognava essere ben sicuri di resecare soltanto ciò che era patologico, e ciò richiedeva elaborate misurazioni e analisi pre-mondatura.

Cionondimeno, il momento del risveglio era stato talmente terrificante per lei, che avrebbe voluto dissipare quel sogno quanto più in fretta possibile, così, semplicemente, con qualunque mezzo disponibile. Obliterarlo. Dimenticarlo per sempre.

Era la bellezza del sogno che l’aveva terrorizzata.

Era fin troppo attraente, quel mondo avvolto in una verde nebbia, fresca e seducente. Irresistibili, quelle eleganti creature luccicanti dai molti occhi. Squisita l’intricata danza barocca della loro quotidiana esistenza. Quegli esseri magnificamente civilizzati, che si muovevano con grazia vivendo un’esistenza indenne da conflitti, brutture, rovine, disperazione: una civiltà milioni di anni più oltre rispetto ai meschini, sordidi, nauseanti, opprimenti difetti dell’umana esistenza, tutte quelle cose sgradevoli come l’invecchiamento, le malattie, la gelosia, la cupidigia e la guerra. Essendosi una volta tuffata in quel mondo, Elszabet non avrebbe più voluto lasciarlo. Svegliarsi, era stato come venir espulsi dall’Eden.

Naturalmente, lei sapeva che non esistevano posti come quello, salvo che nel mondo dei sogni. Era fantasia pura, un fantasma della notte. Tuttavia, voleva tornare in quel luogo. Le pareva ingiusto, un’imposizione brutale, doversi svegliare… crudele come una tempesta di neve in un pomeriggio d’estate.

La possente attrazione del Mondo Verde l’aveva svuotata della sua vitalità per tutta la mattina. Fare il suo solito giro, visitare Padre Christie e Philippa e April e Nick Doppio Arcobaleno e tutti gli altri… era riuscita appena appena a prestare attenzione ai loro problemi e bisogni e lamentele. La sua mente continuava a tornare a quell’altro luogo, con i suoi duchi e le contesse, le sue feste, le sue sinfonie di forme e colori e d’interazioni psichiche. Si era già dimenticata i nomi di coloro in mezzo ai quali si era trovata durante il suo sogno, e gli stessi particolari stavano diventando confusi: sapeva che avevano più di due sessi, e c’era qualcosa su un nuovo palazzo d’estate, e un poeta e la sua poesia. Sapere che cominciava a dimenticare la riempiva di disperazione. Cercò di aggrapparsi ai ricordi che stavano svanendo. Ardeva dal desiderio di tornare in quel mondo benedetto.

Nessuno le aveva mai detto che i sogni spaziali erano così meravigliosi. Era forse dovuto al fatto che lei aveva sognato più intensamente di chiunque altro? Oppure perché loro se ne dimenticavano dopo un’ora o due dal loro risveglio. Oppure perché tenevano per sé la ricchezza e la complessità di quanto avevano visto, un tesoro intimo e dolce che conservavano rinchiuso nel proprio cuore come in uno scrigno?

Elszabet aveva temuto i sogni prima ancora di farne uno. Adesso li temeva ancora di più, adesso che sapeva quale rischio rappresentassero per il suo senno. Come poteva permettere che i sogni fossero la risposta? Si rendeva conto che un sogno splendido come quello poteva facilmente attirarla e farla cadere nella follia. Il ciglio era sempre vicino, pericolosamente vicino. I sogni erano irreali. I sogni, sì, erano la negazione della realtà. Quella Terra di sogno, aveva detto il poeta, così bella, così nuova: nella realtà non offriva né gioia, né amore, né luce, né sollievo dal dolore.

Verso la metà del mattino, comunque, cominciò a pensare di essersi scrollata di dosso quel mondo di sogno. Aveva la distrazione dei due visitatori, Paolucci da San Francisco e Leo Kresh da San Diego, a riportarla alla realtà.

Dave Paolucci era arrivato con un fascio di tabelle e di grafici che mostravano le ultimissime informazioni in suo possesso sull’estensione geografica dei sogni spaziali, e un pacchetto di cubi che contenevano registrati i resoconti verbali dei pazienti del suo Centro di San Francisco. Elszabet si sentiva rassicurata e a proprio agio in presenza di Paolucci. Era un tipo d’uomo tranquillo, robusto, il volto rotondo, la pelle olivastra scura e occhi profondamente infossati e amabili. Lei aveva seguito dei corsi di addestramento a San Francisco sulla tecnica della mondatura, prima di venire a Mendocino. In un certo senso Paolucci era stato il suo mentore. Quello stesso giorno, più tardi, aveva intenzione di raccontargli la propria esperienza con il sogno della notte precedente, e di chiedergli consiglio.

Kresh, l’uomo di San Diego, non era affatto il tipo con cui ci si potesse sentire a proprio agio. Minuto, pignolo, un po’ sul pedante, pareva avere un controllo completo delle proprie emozioni, e probabilmente non provava una grande simpatia per quelli che non l’avevano. Era stata una considerevole concessione da parte sua aver fatto un viaggio così lungo, sette od ottocento chilometri, per arrivare fin lassù. Forse aveva voluto semplicemente uscire dalla California Meridionale, brulicante di moltitudini di profughi della seconda generazione della Guerra della Polvere, per passare qualche giorno in mezzo all’aria fresca e pulita del paese delle sequoie. Quando Elszabet si era incontrata con lui poco prima che la riunione generale dello staff stesse per cominciare, aveva mostrato un interesse assai relativo per ciò che stava accadendo a Nepenthe. Invece aveva voluto parlare d’un fenomeno religioso che era accentrato nelle città abitate da profughi intorno a San Diego vera e propria. — Sa niente dei tumbondé? — le aveva chiesto Kresh.

— Non sono sicura di saperne qualcosa — aveva risposto lei.

— Non ne sono sorpreso. Si tratta d’una cosa puramente locale, limitata a San Diego. Ma non lo sarà ancora per molto.

— Tumbondé? — chiese Elszabet.

— È un culto ibrido, brasiliano-africano, con qualche influsso caraibico e messicano. Un ex conducente di tassì di San Diego che si fa chiamare Senhor Papamacer lo dirige, e ci sono migliaia di seguaci. Tengono cerimonie rituali, a quanto pare si tratta di cose piuttosto sfrenate, fra le colline a est di San Diego. Il nucleo essenziale di questa religione è apocalittico: la nostra attuale civiltà è vicina alla fine e noi stiamo per venir condotti alla prossima fase del nostro sviluppo da divinità che faranno irruzione nel nostro mondo, provenienti da remote galassie.

Elszabet riuscì ad abbozzare un sorriso. Sentì un viticcio del Mondo Verde sfiorarle la coscienza, e fu colta da un brivido. — Questi sono tempi molto strani…

— È vero. Ci sono due aspetti interessanti che ci riguardano, dottoressa Lewis. Uno è il fatto che sembra esserci una straordinaria correlazione fra gli dèi spaziali che il Senhor Papamacer e i suoi seguaci invocano e venerano, e gli insoliti sogni e visioni che sono stati riferiti di recente da un gran numero di persone, sia nei centri di mondatura che fra la popolazione in genere. Voglio dire che il linguaggio delle immagini sembra essere lo stesso: è evidente che i tumbondé ricevono anch’essi i sogni spaziali, e li hanno usati per creare le basi della loro… ah, teologia. In particolare Maguali-ga, che si dice sia colui che aprirà il cancello, rendendo possibile l’accesso alla terra delle divinità spaziali, sembra identico all’enorme essere extraterrestre che viene invariabilmente visto nel cosiddetto sogno dei Nove Soli. E la loro suprema figura redentrice, il dio supremo conosciuto come Chungirà-Lui-Verrà, sembra essere la creatura cornuta incontrata da coloro che hanno fatto il sogno definito Stella Doppia Uno, con il sole rosso e quello azzurro.

Elszabet corrugò la fronte. Per qualche motivo quei nomi le erano familiari: Maguali-ga, Chungirà-Lui-Verrà. Ma dove mai li aveva sentiti? Era così affaticata, quella mattina, così preoccupata con le visioni che le si erano manifestate durante la notte…

Kresh proseguì: — Come spiegherò più compiutamente durante la riunione, è possibile che queste manifestazioni dei tumbondé, che sono state ampiamente pubblicizzate nella contea di San Diego e altrove nella California Meridionale, possano in effetti incoraggiare la diffusione su scala più ampia di questi sogni spaziali tramite la suggestione di massa: vale a dire, la gente pensa di fare spontaneamente i sogni, mentre in realtà ciò che accade è dovuto soltanto all’influenza della diffusione che ne fanno i mezzi di comunicazione. Naturalmente, questo non può essere un fattore qui da voi, dove i tumbondé non sono stati ancora ampiamente reclamizzati. Ma questo mi porta al secondo punto, che è piuttosto urgente. Un aspetto significativo della teologia dei tumbondé è la rivelazione che il punto d’ingresso per Chungirà-Lui-Verrà è il polo Nord, identificato nella terminologia dei tumbondé come il Settimo Luogo. Il Senhor Papamacer ha promesso che condurrà il suo popolo verso il Settimo Luogo in tempo per l’avvento di Chungirà-Lui-Verrà. E, anche se è evidente che lei non ha ancora sentito la notizia, adesso la migrazione è cominciata. Qualcosa fra i cinquantamila e i centomila seguaci dei tumbondé si trovano in viaggio, lentamente, verso nord, in una carovana di macchine e di autobus, raccogliendo nuovi sostenitori a mano a mano che avanzano. A quanto capisco a quest’ora devono trovarsi da qualche parte nelle vicinanze di Monterey o Santa Cruz… è probabile che il dottor Paolucci abbia delle informazioni più accurate in proposito.

Maguali-ga, pensò Elszabet. Chungirà-Lui-Verrà. Adesso ricordava. Tomás Menendez… il cubo che aveva suonato al suo auricolare osseo, lo strano, barbarico canto africano che aveva udito. Quei nomi erano stati ripetuti più e più volte: Maguali-ga, Chungirà-Lui-Verrà. Menendez aveva amici nella comunità latino-americana di San Diego, che gli mandavano diverse cose. Così, era chiaro che i tumbondé avevano almeno un associato lì, nella California Settentrionale, pensò Elszabet. Uno proprio qui al Centro, in effetti.

— … ma è molto probabile che i tumbondé in marcia passino proprio da questa parte, lungo la costa, a Mendocino. E sono talmente tanti che potrebbero benissimo sbordare dentro i terreni del vostro Centro. Credo sarebbe una buona idea pensare a qualche specie di misura precauzionale.

Elszabet annuì. — Dovremmo sicuramente farlo. Se centomila persone si dirigono dalla nostra parte — aggiunse. — Oggi solleverò la questione all’incontro con lo staff. Vorrei poter parlare di tutte queste cose alla riunione. Che sta giusto per incominciare, a proposito.

Come risultò poi, Elszabet non fu in grado di discutere di molte cose, durante la riunione. Ciò che maggiormente temeva la tormentò durante tutto il tempo. Il Mondo Verde che cercava un’altra volta di levarsi attraverso la sua mente conscia e di trascinarla via. Lo combatté fintanto che poté. Ma quando alla fine ne fu sopraffatta, fu costretta a lasciare la stanza. Dopo di ciò, per qualche tempo, non fu ben sicura di quel che le era accaduto. Le avevano dato un sedativo e l’avevano fatta stendere, e quando riprese conoscenza c’era un pasticcio da risolvere: Ed Ferguson e la donna sintetica, Alleluia, erano scappati. Comunque, grazie all’impiego di traccianti a vettore direzionale, i fuggiaschi erano stati localizzati a est del Centro, nella foresta delle sequoie. Fra un’ora o giù di lì, non appena fossero emersi in uno spazio aperto, Dan avrebbe mandato fuori l’elicottero a raccoglierli.

— Chi ci andrà? — volle sapere Elszabet.

— Teddy Lansford, Dante Corelli e uno degli uomini del servizio di sicurezza. E suppongo che ci andrò anch’io.

— Conta anche me nella partita.

Dan Robinson scosse la testa. — L’elicottero può contenere soltanto sei persone, Elszabet. Dobbiamo lasciare lo spazio per Ferguson e Alleluia.

— Allora lascia giù Dante. Io devo supervisionare le operazioni di recupero.

— Dante è una donna robusta e piena di risorse. Potrebbero essere pericolosi, specialmente Alleluia. Preferirei che andasse Dante.

— Allora Lansford…

— No, Elszabet.

— Non vuoi che io vada?

Robinson annuì. Come se parlasse a una bambina, le disse: — Bene, alla fine l’hai capito. Non voglio che tu vada. Sei praticamente caduta in preda al delirio durante l’incontro dello staff, sei rimasta per le ultime due ore sotto l’effetto di un sedativo, tremi da matti. Non ha senso che tu vada a dar la caccia in elicottero a un paio di fuggitivi indisciplinati che, si dà il caso, sono i più imprevedibili e amorali individui che abbiamo qui in casa. Va bene. Sei d’accordo che salterai l’operazione di recupero?

No, non poteva mettersi a discutere. Ma il resto del pomeriggio fu agitato, per lei. I fuggitivi erano una faccenda grave: lei era responsabile non soltanto delle condizioni mentali dei pazienti, ma anche del loro benessere fisico. Era del tutto contro i regolamenti che uno di loro lasciasse il terreno del Centro senza permesso, e il permesso veniva concesso soltanto con le più rigorose precauzioni. C’erano aspetti legali: Ferguson era lì in sostituzione d’una condanna alla prigione, dopotutto. E la donna sintetica, malgrado non fosse considerata una criminale, diventava a volte incontrollabilmente violenta, e perciò estremamente pericolosa per gli altri a causa della sua forza sovrumana. Nei giorni che avevano preceduto il suo soggiorno al Centro, aveva provocato non pochi danni alle persone durante i suoi incontrollabili momenti di obnubilamento mentale. Elszabet non voleva che nessuno dei due se ne andasse in giro in libertà. Avrebbero avuto bisogno di una doppia mondatura in profondità quando fossero tornati, e forse anche di un po’ di ricondizionamento preventivo… e se per caso fossero in qualche modo riusciti a sfuggire alla squadra di recupero, o avessero ferito un membro dello staff mentre venivano catturati…

Così, aveva questo di cui preoccuparsi. E i postumi del suo sogno con cui ancora lottare. E immaginò che avrebbe potuto pensare un po’ anche a quell’orda di tumbondé diretta da quella parte, anche se in quel momento si trattava di un problema ben lontano dall’essere urgente, se davvero si trovavano ancora da qualche parte a sud di San Francisco. Al momento le bastavano i mal di testa che ciò comportava.

Furono due ore lunghissime.

L’elicottero ritornò verso il tramonto. Elszabet, sentendosi stanca ma molto più calma di quanto lo era stata durante il giorno, uscì fuori ad accoglierlo. Alleluia era priva di sensi: avevano dovuto colpirla con un dardo anestetico, l’informò Dante. Ferguson, con un aspetto strapazzato, umiliato e imbronciato, emerse dall’elicottero zoppicando: si era storto la caviglia piuttosto malamente correndo in mezzo alla foresta, anche se per il resto stava benissimo. — Dategli un pax e lasciatelo dormire — disse Elszabet. — Gli daremo una doppia mondata domattina, dopo che avremo scoperto dove pensava di andare. Chiedi a Bill Waldstein di dare un’occhiata alla sua caviglia. Preparate una mondata immediata per Alleluia non appena si sveglierà, e assicuratevi che sia legata saldamente in previsione di qualunque reazione improvvisa e violenta. Domani rimonderemo anche lei. — Elszabet s’interruppe. Qualcosa d’inaspettato stava uscendo dall’elicottero: un uomo alto, magro, dall’aspetto trasandato, con occhi intensi, ardenti. Elszabet lanciò un’occhiata a Dan Robinson. — Questo, chi è?

— Si chiama Tom — spiegò Robinson. — Se ha qualche altro nome, non lo conosciamo. Era insieme ad una banda di grattatori quando abbiamo trovato Ferguson e Alleluia. I grattatori sono scappati, ma Tom è rimasto e ci ha chiesto di portarlo dentro. È a uno stadio molto avanzato, se vuoi la mia opinione: paranoico e schizofrenico è la diagnosi rapida da due dollari. Ma molto gentile, innocuo e affamato.

— Suppongo che possiamo offrirgli un bagno e qualche pasto — disse Elszabet. — Il povero bastardo pezzente. Guarda quegli occhi… guardali! Hanno visto la gloria, non c’è dubbio!

Fece per incamminarsi verso il nuovo venuto, il quale si stava aggirando lì intorno incerto e perplesso. Poi si fermò e guardò di nuovo Robinson. — Ehi, credevo che mi avessi detto che l’elicottero conteneva soltanto sei persone!

Lui le sorrise. — Fammi causa, allora. Ho mentito.

— Tom ha fame — disse il grattatore. — Tom ha freddo. Vi prendete cura di me, qui?

— Ci prenderemo cura di te, sì — lo rassicurò Elszabet. Gli si avvicinò. Com’è strano, pensò. La stranezza pareva irradiarsi da lui come un’aura. Forse era schizofrenico: era, come aveva detto Dan Robinson, una buona diagnosi da due dollari. Di sicuro era un po’ scentrato. Quegli occhi, quei fiammeggianti occhi biblici: gli occhi di un pazzo, certo, oppure gli occhi di un profeta, o entrambe le cose. — Tu sei Tom — gli disse. — Tom cosa?

— Tom o’ Bedlam — lui rispose. — Il povero Tom. Il pazzo Tom.

E sorrise. Perfino il suo sorriso aveva una strana, violenta intensità. Gli porse la mano. — Su, vieni allora, Tom o’ Bedlam — disse. — Andiamo dentro a darti una ripulita. Va bene?

— Tom è sporco. Tom ha freddo.

— Non per molto — lei disse. Lo prese per il polso. Mentre lo toccava, avvertì una curiosa sensazione, come se qualcosa si stesse contorcendo e agitando nel fondo della sua mente; e per un istante pensò che l’allucinazione del Mondo Verde l’avrebbe riposseduta lì, subito. Ma questa svanì con la stessa rapidità con cui era venuta. Ancora una volta Tom sorrise. Gli sguardi s’incontrarono e qualcosa, non aveva nessuna idea di cosa fosse, passò fra loro in quell’attimo, un silenzioso trasferimento di forze, di energie. Credo che forse, qui, abbiamo qualcosa di speciale, si disse Elszabet. Ma cosa? Cosa?

4

La mattina dopo Tom si svegliò un po’ prima del sorgere del sole, come faceva di solito. Ma per un momento rimase disorientato: non riusciva a vedere il cielo dell’alba, il nero che sfumava nell’azzurro sopra la sua testa e le ultime stelle che ardevano ancora fievoli. Adesso, tutto quello che riusciva a distinguere sopra di lui era il buio, e sotto il proprio corpo sentì l’inusitata morbidezza di un letto… e si chiese dove mai si trovasse e ciò che gli era successo.

Poi ricordò. Quel posto chiamato il Centro. La donna chiamata Elszabet, che la sera prima l’aveva condotto fino alla piccola capanna di legno ai margini del bosco, dicendogli: — Questo è il posto dove alloggerai, Tom. — Gli aveva mostrato come funzionavano il lavandino e la doccia e gli altri infissi. Ricordava che lei gli aveva anche detto: — Tu pulisciti, intanto. Io tornerò fra mezz’ora più o meno, e ti accompagnerò alla mensa, va bene? — Gli aveva dato perfino degli indumenti puliti. Un paio di jeans, alcune camicie di flanella. Gli stavano a pennello. Ed era tornata a prenderlo per accompagnarlo nel grande edificio in cui servivano da mangiare. Una cena servita su dei piatti, non qualcosa cotto su uno stecco tenuto sopra il fuoco ai bordi di una strada. Adesso ricordava tutto.

Dunque non era stato un sogno. Lui si trovava davvero là. Quel bellissimo posto tranquillo. Si alzò in piedi e uscì fuori sulla piccola veranda. Si era sentito splendidamente… poter dormire di nuovo su un letto, un vero letto d’albergo con i cuscini e le lenzuola pulite e un filo da sonno da stringere in mano nel caso in cui non si avesse sonno, e tutto il resto. Tom non riusciva davvero a ricordare l’ultima volta in cui era stato a letto. No davvero. Mentre era con quei grattatori aveva dormito sui materassi pneumatici che tenevano in fondo al furgone. E ancora prima, quand’era arrivato fin lì dall’Idaho, aveva dormito soprattutto all’aria aperta. Qua e là sotto gli alberi o in piccoli anfratti oscuri oppure direttamente fuori nei campi, e talvolta, ma non spesso, in qualche vecchia casa bruciata in una delle città morte. E prima di allora? Non ne era sicuro. Ma questo non aveva importanza. Adesso lui era là.

Era un buon posto, questo Centro. Qui si sentiva diverso, più in pace, più in comando di se stesso, più vicino al nocciolo interiore del suo essere. Era interessante il modo in cui si sentiva diverso in quel luogo.

Nell’oscurità riusciva a cogliere il profilo indistinto degli edifici, alcune capanne come la sua lì vicino, poi un grande prato spazioso, alcune capanne più piccole, e infine degli edifici più grandi, più in distanza, sulla collina laggiù.

Sollevò lo sguardo verso il cielo, attraverso la nebbia.

Qui le stelle parevano molto vicine alla Terra. Non riusciva a vederle, non più, con lo spuntare del sole ormai imminente. Ma riusciva a sentire la loro splendente presenza, come una serie d’invisibili sfere scintillanti allineate l’una accanto all’altra là sopra. Quello doveva essere un posto molto sacro per avere le stelle così vicine, pensò. Tutti i mondi che aveva visitato tanto spesso nelle sue visioni parevano praticamente alla sua portata: bastava allungare la mano, bastava toccare!

Tom provava tutto un formicolio di reverenziale timore. Quelle meravigliose galassie, quei milioni di milioni di mondi che traboccavano di vita. — Ehi! — gridò. — Ehi, voi poro e voi zygerone. Voi popolo dei thikkummuuru. E voi favolosi kusereen, ehi, ehi! — Il firmamento proclamava la gloria di Dio: il firmamento mostrava la Sua opera. Quale privilegio era stato contemplare tutta quella meraviglia, quella moltitudine di mondi, la pienezza dell’universo! Per quanti miliardi di anni quelle grandi razze erano state padrone delle stelle, edificando le loro civiltà e i loro imperi, collegando mondo a mondo, levandosi attraverso quegli incredibili spazi neri, diventando loro stesse divinità. E lui aveva visto tutto, immagine dopo immagine ogni meraviglia si era riversata dentro il suo stupefatto cervello. Certo, a tutta prima gli era parsa una pura follia. Ma poi aveva cominciato a riconoscere i modelli; eppure anche così c’erano troppe cose da comprendere o perfino da cominciare a comprendere. Era come se quelle parole si fossero riversate tutte insieme dentro la sua mente con il rombo d’una cascata. Ma lui era vissuto con queste cose talmente a lungo che era arrivato a trarne un po’ di senso. Adesso sapeva quali razze dominavano i regni delle stelle, e quali avevano governato nei molti eoni trascorsi. Sapeva quali erano i sudditi obbedienti che aspettavano il tempo della propria grandezza ancora da venire. Era tutto là, nel Libro dei Soli e nel Libro delle Lune, che gli era stato concesso di leggere. Soltanto lui era stato prescelto, e soltanto attraverso lui i popoli dell’universo avrebbero acconsentito a farsi conoscere sulla Terra. Adesso però la notizia si stava diffondendo, e ben presto tutti l’avrebbero saputa; e poi sarebbe giunto il momento per il quale Tom viveva, quando gli stessi popoli della Terra sarebbero partiti verso quei mondi scintillanti, salpando attraverso i golfi dello spazio, per diventare cittadini dell’immenso regno galattico.

La prima luce dell’alba si affacciò in cielo e le nebbie cominciarono a dissiparsi. Tom sentì recedere e dileguarsi la falange delle galassie. Per un momento là, in piedi sulla veranda, avvertì una terribile fitta di separazione e perdita. Poi la sensazione si allentò e divenne nuovamente calmo. Tornò dentro, si lavò, s’infilò i nuovi jeans, la nuova camicia. Rimase inginocchiato a lungo accanto al proprio letto, in preghiera, per ringraziare il cielo delle benedizioni ricevute. E infine si decise ad uscire per vedere se poteva trovare qualcosa per far colazione.

Non era sicuro di quale fosse l’edificio della mensa. Alla luce del giorno ogni cosa pareva diversa. Mentre andava in giro, s’imbatté nell’uomo con la gamba malconcia, l’uomo chiamato Ed, quello che aveva tentato di fuggire. Anche Ed dava l’impressione di andarsene in giro senza uno scopo preciso. Quella mattina non aveva un gran bell’aspetto. Aveva il volto gonfio e gli occhi rossi e velati, e la bocca storta in un’espressione corrucciata. Si muoveva ondeggiando come se fosse ubriaco. A quell’ora del mattino!

Si fermarono l’uno di fronte all’altro sul sentiero, squadrandosi.

— Ehi — disse Tom. — Ti sei svegliato sul lato sbagliato del letto?

Ed Io fissò in silenzio per un lungo istante. Visto da vicino non pareva ubriaco. Malato, forse, ma non ubriaco. — Chi diavolo sei? — gli chiese alla fine.

— Sono Tom. Ieri ero sull’elicottero con te, quando ci hanno portato qua dentro dall’esterno. Non te lo ricordi?

— Non lo so — rispose Ed. — Non so un accidenti di niente, in questo momento. Sto giusto arrivando dalla mondata. Sai cos’è, no, amico?

— Mondata?

— Sei nuovo, qui?

— Sono arrivato qui ieri sera, con te, sull’elicottero.

— Allora hai un mucchio di cose da imparare. — Ed spostò il peso del corpo, dando sollievo alla gamba che gli faceva male. Era appoggiato a una stampella bianca, di plastica. — La mondata è quando ti applicano degli elettrodi alla testa — spiegò, — e ti fanno lampeggiare una luce negli occhi e ti mandano una specie di sugo nel cervello. Spazza via tutti i tuoi ricordi a breve termine. Ti dimentichi la maggior parte di quello che ti è capitato il giorno prima. Ti dimentichi perfino di quello che hai sognato durante la notte. Ecco quello che ti fanno in questo posto.

Tom chiese: — Ma perché dovrebbero farlo? Dovrebbe essere contro la legge, fare una cosa simile al cervello di qualcuno.

— Lo fanno per guarirti. Per curarti quando pensano che il tuo cervello è confuso. Ecco come ti curano: confondendolo ancora di più. Aspetta. Monderanno anche te, amico… Tom, qualunque sia il tuo nome. Non appena avranno misurato le tue onde cerebrali, si metteranno al lavoro anche su di te.

— Io? No — disse Tom, un po’ innervosito. Quell’uomo lo faceva sentire molto a disagio. Quell’uomo, quell’Ed. C’era qualcosa di sbagliato con lui… dentro di lui. Tom se n’era accorto subito la prima volta, quando Ed era uscito fuori dal bosco, trascinandosi sulle gambe, là sulla piccola autostrada. La sua anima era ferita; il suo spirito era tutto rinchiuso in se stesso, colmo di dolore e di odio. Come Stidge, ecco com’era, un uomo cattivo e amareggiato il quale era convinto che tutti cercassero di fregarlo. Tom gli sorrise, e disse: — Non io. A me non lo faranno.

— Aspetta.

— Non io — ripeté Tom. Rìse. — Il povero Tom, nessuno vuole fare del male a Tom. Tom non fa male a nessuno.

— Sei proprio matto, vero?

— Povero Tom… Tom è matto, sì. Povero Tom. Stupido Tom.

— Cristo, dov’è che ti hanno trovato? — Ed si aggrondò ancora di più. — Hai detto che sei arrivato qui stanotte, con me, sull’elicottero. Da dove? Tanto per cominciare, cosa ci facevo fuori del Centro?

— Hai cercato di scappare — spiegò Tom. — Tu e una donna chiamata Allie. Ti hanno preso.

— Ah — replicò Ed, annuendo. — Ecco cos’è stato.

— Ti hanno riportato dentro in elicottero. Proprio ieri sera. Non te ne ricordi?

— Non una dannata cosa di niente — ribatté Ed. — È proprio quello che ti fanno qui: ti portano via la memoria.

— No — disse Tom. — Non ci credo. Questo posto è un buon posto. Qui non farebbero del male alla mente di nessuno.

— Aspetta, amico. Lo scoprirai.

Tom scrollò le spalle. Non valeva la pena discutere con lui. Era malato in testa, in lui ogni cosa era contorta. Bastava guardarlo per capirlo. Tom provava dispiacere per la gente come lui. Una volta che avremo fatto la Traversata, pensò, tutti verranno davvero guariti dal dolore. Nell’abbraccio del popolo delle stelle, tutti i sofferenti riceveranno finalmente la pace.

— Sai dove posso trovare un po’ di colazione?

— Lassù. Quell’edificio grigio sulla collina, gira sulla destra.

— Molto grato. Tu vai da quella parte?

Ed mostrò un’espressione stomacata. — Mi hanno rimpinzato di droghe ieri sera. La sola idea del cibo mi procura il mal di pancia.

— Allora, ci vediamo — disse Tom. Si diresse verso la collina con passo veloce. L’aria del mattino era fresca e carezzevole, anche se sospettava che più tardi la giornata si sarebbe scaldata parecchio. Mentre si avvicinava al complesso degli edifici a metà strada lungo il fianco della collina, la donna, Elszabet, uscì fuori da uno di questi e lo salutò con la mano.

— Tom?

— Buongiorno, te.

Lei gli si avvicinò. Una donna simpatica, pensò Tom. Non bella in maniera sensazionale quanto Allie, ma naturalmente Allie era artificiale, potevano fabbricarle belle quanto volevano. Ed Elszabet era graziosa. Alta e snella, con le gambe molto lunghe, e un paio di splendidi occhi grigi, meravigliosamente caldi. Ed era anche una persona molto brava, gentile e buona. Si vedeva subito quant’era affettuosa e amorevole, e piena di vita. Lui non aveva conosciuto molta gente di questo tipo, da cui gentilezza e bontà trasparivano chiaramente, al punto di poterle sentire. Anche se c’era qualcosa di chiuso, serrato in lei, come un pugno stretto. Tom avrebbe voluto accedere alla sua anima e aprire quel pugno. Allora, Elszabet sarebbe apparsa ancora più graziosa.

— Vai su a far colazione? — gli disse.

Tom annuì. — È là dentro, giusto?

— Proprio così. Vengo su con te, hai fatto un buon sonno?

— Il migliore da molti mesi… da molti anni, anzi. Un vero sonno profondo.

— Scommetto che era così profondo che non hai neppure sognato.

— Oh, ma sì che ho sognato — rispose Tom. — Sogno sempre.

Lei gli rivolse quel suo piacevole sorriso. — Scommetto che fai dei sogni interessanti, vero?

Tom continuò a camminare al suo fianco senza dire niente. Ricordava che anche la sera prima lei gli aveva detto qualcosa sui sogni, quando lo aveva accompagnato alla sua capanna, dopo cena. Era stata soltanto un’osservazione casuale, qualcosa sul fatto che lei stessa sarebbe andata subito a dormire, perché era stanca, aveva fatto uno strano sogno la notte prima e ne era rimasta scombussolata. Aveva pensato, allora, che lei sperasse che lui le chiedesse maggiori particolari di quel sogno… ma lui non se l’era sentita. Adesso, stava parlando di nuovo dei sogni. Ed entrambe le volte era parsa tesa quando l’argomento era saltato fuori, le sue narici avevano vibrato un po’, le sue guance avevano acquistato una tinta un po’ più carica. Perché mai s’interessavano tanto ai sogni, in quel posto? Ricordava che quell’uomo, Ed, gli aveva parlato della faccenda della mondata. Ti dimentichi perfino di quello che hai sognato la notte prima. Tom cominciò a sentirsi un po’ a disagio.

Qualche istante dopo, Elszabet aggiunse: — Non appena ti è possibile, Tom, vuoi venire nel mio ufficio a fare una chiacchierata? Il mio ufficio è in quell’edificio proprio là in fondo… basterà che tu lo chieda a chiunque, là dentro, e ti diranno dove puoi trovarmi. Vorrei sapere qualcosa di più su cosa è successo ieri con Ed e Alleluia laggiù, oltre la foresta, d’accordo? E ci sono alcune altre cosine di cui mi piacerebbe parlare con te.

— Sicuro — rispose Tom. — Sicuro, mi fermerò da te. — E perché no? Quella gente gli dava da mangiare e gli offriva un riparo. Aveva tutti i diritti di chiedergli qualcosa.

Si fermarono fuori del grande edificio grigio. Lei era proprio al suo fianco e lo guardava dritto negli occhi. Era alta quasi quanto lui e gli era vicinissima. Tom si trovò a sperare che lei lo prendesse tra le braccia e lo stringesse a sé; ma si limitò soltanto ad appoggiargli la mano sull’avambraccio per un istante ed a strizzarglielo fuggevolmente. E vide vibrare di nuovo le sue narici, e due minuscole chiazze rosse comparvero sulle sue guance. Come se avesse un po’ paura di lui. Come se sapesse che, in qualche modo, lui poteva arrivare dentro di lei ed aprire quel pugno serrato dentro la sua anima. E aveva paura di questo, paura di lui.

Be’, in questo modo siamo in due, lui pensò. Siccome ho un po’ paura di te, signorina Elszabet.

Lei lo lasciò andare e si allontanò, voltandosi per salutarlo con un gesto della mano. Lui le rispose con un uguale gesto ed entrò nella mensa. C’erano soltanto poche persone, là dentro, quasi tutte sedute molto distanti l’una dall’altra. Tom si sedette da solo su un lato. Una macchina si accese sul tavolo e gli chiese quello che voleva. Tom scelse caffè e panini. La macchina gli disse quali pulsanti doveva premere. Lui aveva imparato come farlo la sera prima, durante la cena. Si era anche aspettato che una macchina arrivasse lungo la corsia portandogli la cena, ma non era così che funzionava: era arrivato un ragazzo con un carrello. Questa mattina era invece di turno una ragazza. I panini erano così saporiti che ordinò una seconda colazione, identica alla prima ma con in più un pompelmo. Pareva che lì si potesse avere qualunque cosa si voleva, e quanto si voleva, senza pagare. Povero Charley, pensò, spaventarsi e scappar via a quel modo. Se non fosse scappato, adesso forse si sarebbe trovato lì con lui, stamattina, a mangiare pompelmo e panini e a bere caffè, tutto gratis. Tom si chiese cosa fosse avvenuto di loro, Charley, Buffalo e Stidge e gli altri. A quest’ora era probabile che si trovassero a Ukiah, o forse sulla strada dell’Oregon, continuando a vagare senza una meta. Sperò che si tenessero lontani dai guai dovunque andassero. Che se la prendessero con calma, sperò Tom, senza farsi uccidere proprio quando il Tempo della Traversata era così vicino, poiché tutte le loro preoccupazioni sarebbero finite una volta che fossero andati sulle stelle. Se fossero vissuti abbastanza a lungo per farlo.

Una volta che ebbe finito di mangiare, Tom rimase seduto da solo per un po’, limitandosi ad assaporare, appunto, il piacere di restare seduto lì immobile senza dover saltare di nuovo dentro il furgone e andare da qualche altra parte insieme ai grattatori. Si chiese quanto a lungo gli avrebbero permesso di rimanere là. Una settimana, forse. Sarebbe stato bello potersi fermare in quel luogo per una settimana. E forse sarebbe anche riuscito a farsi dare un passaggio per San Francisco. Gli era sempre piaciuta quella città, così pulita, così graziosa. Peccato che si fossero fermati lì soltanto un paio d’ore. Ma ci sarebbe tornato: era quasi ottobre, ormai. L’inverno stava per arrivare in quelle parti del paese che avevano un vero inverno. Se avesse dovuto passare un altro inverno sulla Terra, pensò, che per lo meno fosse un inverno californiano. Non sapeva quando sarebbe incominciata la Traversata: forse la settimana prossima, forse per Natale, forse non prima della primavera. Si poteva morire congelati vagando a est delle montagne, ma qua fuori, lungo la costa, si era al sicuro dal brutto tempo.

— Ehi, tu, Tom?

Sollevò lo sguardo. L’uomo chiamato Ed era in piedi accanto alla porta della mensa. C’era un altro uomo con lui, un uomo basso, tozzo e grasso, con i capelli riccioluti, il quale indossava un abito da prete cattolico. Parevano cercare compagnia. Tom gli fece segno di avvicinarsi.

— Credevo che in questo momento l’idea del cibo ti desse il voltastomaco — disse Tom.

— Be’, dopo un po’ comincio a sentirmi meglio. Effetto dell’aria fresca. Tom, questo è Padre Christie. Padre, questo è Tom.

— Sei il cappellano di qui? — chiese Tom.

Il prete sorrise. Pareva un ometto triste. — Cappellano, io? Oh, no, no, no: soltanto un paziente, come te. Tom scosse la testa: — Non sono un paziente.

— No, non lo sei? Ma non puoi far parte del personale, di sicuro.

— Sono soltanto un visitatore — spiegò Tom. — Passavo soltanto di qua. Ma sono molto contento di fare la tua conoscenza, Padre. Ho fatto anch’io il predicatore, per un po’, su nell’Idaho, e anche nello stato di Washington. Una cosa diversa dalla tua, naturalmente. Ma ero piuttosto bravo. La congregazione non badava mai molto al fatto che diventavo sempre più matto. Pensavano che più matto ero, meglio ero. Più matto ero, e più ero santo.

— Non dovremmo usare la parola matto qua dentro — disse Padre Christie.

— Una parola perfettamente a posto — replicò Tom. — Cosa c’è di male a dire matto? Cosa c’è di male ad essere matto?

— Ci stai dicendo che sei matto? — chiese Ed.

— Tu lo sai. Io ho delle visioni. Non è forse esser matti? Altri mondi che galleggiano davanti ai miei occhi. Le ho sempre avute, le visioni, da quando ero bambino, visioni che arrivavano a cascata come… come una pazzia.

Ed e Padre Christie si scambiarono un’occhiata. Ed domandò: — Altri mondi, hai detto, come… sogni spaziali?

— Sogni spaziali, sì. Ma non soltanto quando dormo.

— Anche Padre Christie fa dei sogni spaziali. Tutti, in questo fottuto posto, li fanno. Mi scusi, Padre… Tutti, tranne me, voglio dire. Io non li faccio. Ma conosco tutti i sogni. Il Mondo Verde, i Nove Soli, la stella rossa e quella azzurra.

— Un momento — intervenne Padre Christie in tono pacato. — Tu dici che ci sono parecchi tipi di sogni spaziali?

— Sette — spiegò Ed. — Tu non lo sai perché ti mondano ogni mattina, non ricordi niente dei sogni che hai fatto. Ma sono sette. Ho i miei sistemi per tenere delle piccole registrazioni. Ne hai fatto uno stamattina, padre. Di nuovo il Mondo Verde. Ma te l’hanno mondato, quei bastardi. Mi scusi di nuovo, Padre.

Tom stava ascoltando meravigliato. Il prete scrollò la testa, e disse: — Non so, proprio non so. Ehi, che ne diresti di fare colazione?

— Ho un’idea migliore — replicò Ed. Portò la mano al taschino della giacca e ne tirò fuori alcuni flaconi a spremere. — Troppo presto, forse. Una bevutina veloce. Ho del bourbon canadese, scotch, ecco, ecco, qui ce n’è una di speciale per te, Padre: una fiala d’irlandese. Tom, sei uno che beve?

Padre Christie dichiarò, immusonito: — Non posso farlo, Ed. Lo sai.

— Non puoi?

— Immagino che te lo sia dimenticato perché ti hanno mondato. Ma sono un alcolizzato. Ho un chip della coscienza nella gola. Qualunque alcol mi arrivi in gola, quel chip me lo farà vomitare. Non te lo ricordi, uhm? Ecco, forse il tuo amico Tom ne vuole un po’.

— Chip della coscienza — borbottò Ed. — Per l’appunto me n’ero dimenticato. Tutti questi affari scientifici che ci cuciono dentro. Implantazioni di vettori direzionali nel caso che scappiamo. I bastardi: ci cacciano dentro una fettina di questo e una di quello, e ci manovrano come se fossimo macchine. Fatti furbo, Tom. Vattene da qui al più presto, hai capito?

— Finora sono stati gentili con me.

— Fatti furbo lo stesso. Ne vuoi una?

— Grazie — fece Tom. — No.

— Be’, io sì. Giù per il boccaporto! — Ed premette la linguetta e s’infilò la fiala in bocca. — Ah, quanto mi ci voleva! — Parve subito un po’ più allegro. — Così, anche tu ricevi le visioni degli altri mondi, eh? Dio, quanto vorrei vederne uno! Soltanto uno. Solo per scoprire cosa sono tutte queste storie.

— Non li hai mai visti?

— Non una sola volta — rispose Ed. I suoi occhi cerchiati di rosso parvero avvampare d’un tratto di rabbia e di angoscia. — Neppure una volta. Sapete quanto vi invidio tutti, con tutti i vostri Mondi Verdi e i vostri Nove Soli e tutto il resto? Perché non li vedo anch’io? C’è qualcosa di dannatamente enorme, di fantastico, che accade intorno a me, qualcosa di bizzarro e colossale che nessuno riesce a capire ma che è chiaramente d’una importanza gigantesca e tremenda, ed io ne sono tagliato fuori in pieno. E questo puzza, sai. Puzza.

Così, ecco di che si tratta, pensò Tom.

Adesso capiva dove si celava il dolore dentro quell’uomo, e quello che avrebbe potuto fare per lui, forse. Voleva fare qualcosa per lui.

Tom disse: — Dammi una di quelle fiale.

— Quale vuoi?

— Non ha importanza.

— Bourbon — disse Ed. — Ecco, prendi il bourbon.

Tom prese il flacone a spremere dalle sue mani, lo studiò per un momento, schiacciò la linguetta. L’estremità si aprì. Tom se la portò alle labbra, e lasciò che il liquore scuro gli scivolasse in gola. L’effetto fu immediato, si sentì colpire con forza, il liquido era buono e rovente. Era passato molto tempo da quando Tom aveva bevuto qualcosa, e rimase seduto là ad assaporarlo, sentendo che si metteva al lavoro tra i crepacci della sua anima. Bene, pensò: ce la faccio a berlo. Questo mi farà proprio bene.

Si girò verso Ed: — Devi smetterla di preoccuparti di quei sogni spaziali, d’accordo?

— Smettila di preoccuparti, dice questo qui. Non sono preoccupato, sono soltanto un po’ scocciato. Cosa sono, un anormale, o qualcosa del genere? Perché non vedo quello che tutti gli altri vedono?

— Calmati — disse Tom. Tirò un profondo respiro e appoggiò la sua mano sopra quella di Ed. Si sporse verso di lui e proseguì: — Vedrai. Te lo prometto. Anche tu farai i sogni, Ed, proprio come chiunque altro. So che lo farai. Ti farò vedere come, d’accordo? D’accordo?

5

— Lunedì otto ottobre 2103 — scandì Jaspin. Se ne stava quasi accovacciato sul sedile posteriore della sua macchina, intento a parlare alla griglia dorata d’una capsula mnemonica portatile. — Adesso siamo bene in alto nella California del Nord, accampati all’aperto a circa cinquanta miglia dalla Baia di San Francisco. La marcia sta per assumere un nuovo aspetto, poiché il Senhor Papamacer ha deciso di deviare verso ovest e passare per Oakland prima di riprendere il nostro viaggio verso nord. Finora abbiamo evitato di passare attraverso le città, da quando abbiamo lasciato San Diego. Credo che al Senhor piacerebbe attraversare la Baia ed entrare a San Francisco. Ma perfino lui capisce che è logisticamente poco saggio, forse perfino impossibile, poiché San Francisco è così piccola ed è accessibile soltanto attraverso i ponti, salvo che da sud. Cercare di condurre una folla di queste dimensioni dentro San Francisco causerebbe scompiglio sia alla città che a noi. Non ci sarebbe nessun posto dove accamparci, e le strade principali verso l’esterno potrebbero venir bloccate, causando forse un’interruzione della marcia. Così non andremo più in là di Oakland, la quale è facilmente accessibile per via di terra e ha spazi adeguati per accamparci fra le colline subito ad est della città. Mentre saremo là, naturalmente, migliaia di suoi cittadini si uniranno di sicuro alla marcia, e forse un numero ancora maggiore arriverà da San Francisco. È un bene che non ci siano altri grossi centri popolati lungo la costa fra qui e Mendocino, poiché stiamo arrivando rapidamente al punto in cui non sarà più possibile controllare e dirigere il nostro numero. Questa è già diventata di sicuro la più grande migrazione di massa dalla fine della Guerra della Polvere, e siccome il Senhor Papamacer intende arrivare almeno fino a Portland più a nord prima dell’arrivo dell’inverno, e forse perfino a Seattle, esiste la possibilità che dei gravi disordini…

— Barry?

Jaspin sollevò lo sguardo, infastidito da quell’interruzione. Jill era in piedi accanto al finestrino e stava battendo sul tetto della macchina per attirare la sua attenzione.

— Cosa c’è? — Ormai erano passati due o tre giorni da quando aveva avuto la possibilità, l’ultima volta, di aggiornare il suo diario, e c’era un mucchio di materiale importante che voleva registrare. Qualunque cosa lei volesse, pensò, non avrebbe potuto aspettare un’altra mezz’ora?

— C’è qualcuno che vuole vederti.

— Digli che aspetti cinque minuti.

— Una lei — disse Jill.

— Cosa?

— Una donna. Capelli rossi crespi. Sembra un po’ puttana d’alto bordo. Dice che è arrivata qui da San Francisco.

— Sto cercando di dettare i miei appunti — replicò Jaspin. — Non conosco nessuna testarossa di San Francisco. Cosa vuole da me?

— Niente. Vuole un’udienza col Senhor. È arrivata fino a Bacalhau, e Bacalhau dice che dovrebbe parlare con te. Credo che adesso sia tu il grande sporcaccione incaricato delle anglo-ragazzotte eccitabili che capitano da queste parti.

— Oh, Cristo — esclamò Jaspin. — D’accordo. Dille che aspetti cinque minuti. Lasciami finire questo. Dov’è, adesso?

— All’altare di Maguali-ga — disse Jill.

— Cinque minuti — lui ripeté.

Ma la sua concentrazione era stata interrotta. Avrebbe voluto discutere nelle annotazioni del suo diario la maniera in cui la composizione razziale della processione dei tumbondé stava cambiando a mano a mano che la marcia procedeva: il gruppo originario dei seguaci di Papamacer nella contea di San Diego aveva avuto un’origine etnica prevalentemente sudamericana e africana, ma adesso era stata diluita da orde di chicanos delle comunità agricole della valle di Salinas, nell’entroterra di Monterey; e dopo, quassù al nord, c’era stato anche un afflusso anglo, i contadini bianchi, i quali avevano causato una certa alterazione al tono generale dell’avvenimento. I nuovi venuti non mostravano nessuna sensibilità nei confronti del sottofondo dionisiaco dei tumbondé, della loro frenesia e del loro fervore pagano; tutto quello a cui sembravano prestare orecchio era la promessa di ricchezze e di una vita immortale quando Chungirà-Lui-Verrà fosse finalmente arrivato a passo di valzer attraverso il cancello del polo Nord, e volevano far parte di quel numero, oh, sì, se lo volevano, Signore! Ciò stava già creando disordini nella marcia, e la cosa sarebbe peggiorata se il Senhor Papamacer avesse continuato a regnare rimanendo chiuso, ed erano giorni che lo faceva, nell’autobus di testa. Ma adesso non era possibile annotare tutte queste osservazioni nella capsula mnemonica. Jaspin si rese conto che avrebbe dovuto allontanarsi da solo per un’ora o due per dettare quelle note, ed era ormai troppo tardi. Spense la capsula e uscì dalla macchina.

Era un pomeriggio caldo e soffocante. Il calore li aveva tormentati per tutta la strada fino al centro dello stato, e non c’era ancora nessun segno della stagione delle piogge. Dicevano che lassù spesso cominciasse a piovere in ottobre, ma non quell’ottobre, a quanto pareva. Le colline basse e arrotondate di quel paesaggio per niente spettacolare erano rossicce a causa dell’erba estiva disseccata. Lì ogni cosa era appassita, incartapecorita, e di un bruno dorato, in attesa dell’inverno. Da collina a collina, attraverso l’intera insellatura di quella valle, tutto quello che si poteva vedere erano i tumbondé: pellegrini dappertutto, un mare sempre più gonfio di pellegrini. Al centro di tutto quel circo c’erano gli autobus in cui viaggiavano il Senhor, la Senhora, il Nucleo Interno e le immagini sacre. Lì vicino c’era l’ampio tratto di terreno consacrato con gli altari e la capanna del sangue e il Pozzo del Sacrificio e tutto il resto messo su come se quella fosse la collina originaria di San Diego. Dovunque andassero, erigevano tutta quella roba. E poi, al di là di quella zona sacra centrale, c’era un’orda di tende rattoppate, migliaia e migliaia di pellegrini, innumerevoli falò fumiganti, bambini che gridavano, cani e gatti che correvano in giro, ogni immaginabile genere di sgangherato veicolo parcheggiato in grappoli caotici affidati al caso. Jaspin non aveva mai visto tanta gente tutta insieme in un solo posto. E il numero cresceva di giorno in giorno. Quanto sarebbe stato grande, si chiese, l’esercito dei tumbondé, di lì a un mese? E fra due mesi? Inoltre, talvolta si chiedeva cosa sarebbe successo quando avessero raggiunto il confine canadese, il confine della Repubblica della Columbia Britannica, in pratica. E cosa sarebbe successo se avessero continuato ad andare a nord e a nord e sempre più a nord mese dopo mese, e l’inverno si fosse chiuso su di loro, e Chungirà-Lui-Verrà non avesse fatto la sua comparsa? Non ci sarebbe mai più stato nessun inverno, aveva promesso il Senhor Papamacer, una volta che Maguali-ga avesse aperto il cancello. Ma il Senhor Papamacer aveva passato tutta la sua vita a Rio, a Tijuana, a San Diego. Cosa ne sapeva, comunque, dell’inverno?

Che cavolo, pensò Jaspin. Ci avrebbero pensato gli dèi. E se cosi non fosse stato, allora no. Non sta a me ragionarci sopra e cercare di capire il perché. Sono vissuto secondo la ragione per tutti questi anni, e a cosa mai mi è servito? Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà. Sì. Sì.

Gli fu facile trovare la donna. Era in piedi accanto all’altare di Maguali-ga, proprio come aveva detto Jill: fissava i nove globi di vetro colorato come se si aspettasse che quel dio dagli occhi strabuzzati si materializzasse davanti a lei da un istante all’altro. Era più bassa di quanto Jaspin si era aspettato… per qualche motivo lui aveva pensato che sarebbe stata alta, ma non ne sapeva il perché… e non era neppure appariscente come aveva creduto. Ma era molto attraente. Jill aveva detto che era una specie di puttana d’alto bordo. Jaspin conosceva le puttane e conosceva l’alto bordo, ma questa donna non era né l’uno né l’altro. Pareva furba, piena d’energia, dava l’impressione d’essere stata in giro parecchio. Immaginò che fosse una donna intraprendente.

— Voleva vedermi? — le domandò. — Sono Barry Jaspin. L’aiutante addetto ai collegamenti del Senhor.

— Lacy Meyers — si presentò lei a sua volta. — Sono appena arrivata qui da San Francisco. Devo vedere il Senhor Papamacer.

— Deve?

— Voglio — dichiarò la donna. — Lo voglio molto.

— Sarà molto difficile — volle spiegarle Jaspin. Si rese conto che per qualche motivo era più vicino a lei di quanto fosse davvero necessario, ma non si ritrasse più indietro. In effetti, era una donna piuttosto attraente. Sulla trentina, forse un po’ di più, i capelli rossi raccolti sulla testa in una crocchia simile a un berretto fatto di riccioli fitti fitti, i suoi occhi erano d’un verde vivido, il naso era delicato, affusolato, le guance sottili, la bocca forse un po’ troppo greve. — È per una intervista per i media? — s’informò.

— No, per un’udienza. Voglio essere ricevuta in sua presenza. — Era tesa: una minima punzecchiata, e sarebbe esplosa. — Potrebbe essere la creatura umana più importante che sia mai vissuta, sa? Certamente lo è per me. Voglio soltanto inginocchiarmi davanti a lui e dirgli ciò che significa per me.

— Così vorrebbero fare tutte le persone che vede qui intorno, signorina Meyers. Lei capisce che le responsabilità del Senhor sono molto grandi, e che malgrado lui desideri rendersi disponibile per tutto il suo popolo, se fosse possibile… ma non lo è.

Quegli occhi verdi balenarono. — Soltanto per un minuto! Mezzo minuto!

Voleva aiutarla. Ma era del tutto impossibile, lo sapeva. Anche così, però, si trovò a chiedersi se per caso non sarebbe riuscito a trovare una maniera per farlo. Perché la trovi attraente, è questo il motivo? Se fosse una donna comune, o vecchia, o un uomo, prenderesti mai in considerazione la possibilità di farlo?

Disse: — Perché è così urgente?

— Perché mi ha aperto gli occhi. Perché ho vissuto tutta la mia vita senza credere in una sola maledetta cosa, salvo come addolcire la vita a Lacy Meyers, e tutto d’un tratto mi ha fatto vedere che c’è qualcosa di davvero santo in questo universo, che ci sono dei veri dèi che guidano il nostro destino, che tutto non è soltanto uno stupido gioco, che… che… non c’è davvero bisogno che glielo dica, non è vero, cos’è una conversione religiosa. Dev’esserci passato anche lei, altrimenti non si troverebbe qui.

Jaspin annuì. — In effetti, credo che abbiamo molte cose in comune.

— So che le abbiamo. Me ne sono accorta subito.

— E ha seguito la pista dei tumbondé perfino quassù, nella zona della Baia. Non pensavo che fosse…

— Non sapevo niente dei tumbondé fino a un paio di settimane fa, quando la vostra gente ha cominciato ad arrivare in questa parte dello stato. Ma sapevo degli dèi già da tutta l’estate. Ho avuto una visione in luglio, un sogno, un sole rosso e uno azzurro, e un blocco di pietra bianca, e una creatura con le corna dorate che si protendeva verso di me…

— Chungirà-Lui-Verrà — annuì Jaspin.

— Sì. Soltanto che allora non lo sapevo. Non sapevo cosa diavolo fosse. Ma il sogno continuava a ripetersi, e a ripetersi, e a ripetersi, e ogni volta lo vedevo con maggior chiarezza. La creatura si muoveva tutt’intorno e pareva dirmi qualcosa, e poi ci sono stati altri sogni… ho visto i nove soli di Maguali-ga. Ho visto la luce azzurra di… come si chiama… Rei Ceupassear… Ho visto ogni genere di cose. Le assicuro che ero ormai convinta che stavo impazzendo. Che tutto il mondo stesse impazzendo, poiché sapevo che tutti stavano avendo le stesse visioni. Ma non sapevo cosa pensare. Nessuno lo sapeva. Fino a quando non ho letto del Senhor Papamacer. Ho visto le fotografie che aveva… le fotografie degli dèi…

— Quelle generate dal computer, le riproduzioni olografiche?

— Sì. E ogni cosa è andata al suo posto. La verità della cosa, che gli dèi stavano per arrivare sulla Terra, che avrebbero portato il giubileo, che il millennio stava per arrivare. E capii che il Senhor Papamacer era davvero il loro profeta. E seppi che sarei venuta fin qui per unirmi al pellegrinaggio fino al Settimo Luogo ed essere parte di ciò che stava per accadere. Ma voglio ringraziare il Senhor di persona. Voglio inginocchiarmi davanti a lui. Ho cercato una specie di dio per tutta la mia vita, sa. Ero assolutamente certa che non ne avrei mai trovato uno. E adesso… adesso…

Jaspin vide Jill venire verso di loro. Era preoccupata, forse, che lui potesse combinare qualcosa con quella donna? Era lusinghiero che le importasse anche soltanto un po’, lei che ogni notte arrivava con addosso il puzzo del sudore di Bacalhau e dei suoi capelli unti di olio, con il sudore di Bacalhau mischiato al proprio. Lei, che si era aperta la strada in mezzo al Nucleo Interno facendosi fottere, per poi ripercorrere a ritroso la stessa strada, e lui a malapena riusciva a ricordare l’ultima volta che era stata disposta a far l’amore con lui, sua moglie Jill. Gelosa, adesso, Jill? Era poco probabile.

E anche se lo fosse stata, cosa diavolo gl’importava? Jill non aveva il più piccolo diritto di lamentarsi. Si era sentito maledettamente avvilito per tutto il mese, a causa di Jill. Se adesso gli capitava di trovare attraente qualche altra donna, e capitava che questa provasse lo stesso per lui…

Lacy stava dicendo ancora: — La cosa ironica, tutta questa roba spaziale… è che un paio d’anni fa ero effettivamente coinvolta in una frode, un imbroglio che comprendeva la promessa di mandare la gente sulle stelle. Era come se gli avessimo venduto una proprietà immobiliare che non esisteva, la vecchia idea dello sviluppo subacqueo: dateci i vostri soldi, e noi vi metteremo sull’espresso per Betelgeuse Cinque. Un uomo di nome Ed Ferguson, un vero truffatore, dirigeva l’operazione, ed io mi lavoravo le vittime per suo conto. Be’, l’hanno preso, e lo avrebbero mandato a Riabilitazione Due, ma lui aveva un buon avvocato…

Jill si avvicinò a Jaspin. — Le è di qualche aiuto? — chiese, rivolta a Lacy.

— Stavo giusto raccontando al signor Jaspin l’ironia della cosa, che io lavoravo per un uomo che dirigeva un imbroglio il quale comportava dei viaggi sulle altre stelle. Prima che queste visioni delle stelle cominciassero ad arrivare sulla Terra. L’avrebbero cacciato in prigione, ma lui invece è riuscito a farsi mandare in uno di quei posti per la mondatura della mente, su, vicino a Mendocino, dove dovrebbero trasformarlo in un essere umano decente. Hanno voglia!

— Mia sorella April si trova nello stesso posto — dichiarò Jill. — Nepenthe, si chiama quel posto? Sì, è vicino a Mendocino.

— Tua sorella? — fece Jaspin. — Non sapevo che tu avessi una sorella.

Lacy scoppiò a ridere. — È proprio piccolo il mondo, non è vero? Scommetto che sua sorella e Ed stanno avendo un formidabile e sconvolgente rapporto proprio in questo momento. Ed ha sempre avuto un occhio di riguardo per le donne.

— Non avrà nessun occhio per April — ribatté Jill. — È grassa come un maiale. Lo è sempre stata. E anche molto strana in testa. Sono sicura che il suo amico Ed può trovare assai di meglio che April. — Rivolta a Jaspin, l’informò: — Quando hai finito qui, Barry, vai nell’autobus del Nucleo, eh? Stanno preparando per stanotte il rito delle Sette Galassie e Lagosta vuole che tu gli dia una mano a collegare il generatore polifase.

— D’accordo — annuì Jaspin. — Cinque minuti.

— È stato un piacere incontrarla, signorina… uh… — disse Jill e si allontanò.

— Non è molto amichevole, vero? — commentò Lacy.

— Del tutto sgarbata e cattiva — confermò Jaspin. — In qualche modo la religione l’ha inacidita. È mia moglie.

— Sua moglie?

— Così per dire. Un giorno il Senhor Papamacer ha deciso che avremmo dovuto sposarci. Sull’impulso del momento ci ha sposati… in quattro e quattr’otto, un mese fa o giù di lì. È per i rituali, l’iniziazione, almeno in parte: bisogna essere una coppia. Non è quello che si potrebbe chiamare un matrimonio felice.

— Non mi pare proprio.

Jaspin scrollò le spalle. — Non ha importanza. Una volta che il cancello sarà aperto, vero… Ma fino ad allora… fino ad allora…

— Può esser dura, già.

— Senti — le disse. — Devo andare a dare una mano a metter su le apparecchiature per stanotte. Ma voglio dirti che cercherò di farti avere un’udienza con il Senhor Papamacer. Non sarà facile perché è stato assai poco disponibile in queste ultime settimane. Ma forse riuscirò a farti entrare. Non è soltanto una vanteria. Se potrò farlo, lo farò. Perché so cosa si prova ad essere una creatura mediocre e scialba del ventiduesimo secolo che cerca di farsi strada nella vita a forza di fingere, per poi venir d’un tratto sollevati in alto e scoprire che c’è qualcosa per cui vale la pena di vivere, al di là del proprio merdoso conforto. Come ho detto, abbiamo un mucchio di cose in comune. Cercherò di farti avere quello che mi hai chiesto.

— Lo apprezzerò — disse lei.

Gli porse la mano. Lui la prese e la strinse forte per un attimo di troppo. Dibatté dentro di sé se attirarla o no a sé, così d’impulso, e baciarla. Non lo fece. Ma non c’erano equivoci circa il calore e la gratitudine negli occhi di lei. E le possibilità. Specialmente le possibilità.

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