OTTO

Con un cuore ribollente di fantasticherie

delle quali sono il comandante,

con una lancia fiammeggiante e un cavallo d’aria,

nella desolazione io vago.

Da un cavaliere di spettri e di ombre

vengo chiamato a un torneo

dieci leghe al di là della sterminata estremità del mondo

…io non penso affatto che sia un viaggio.

Mentre io canto

«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,

da mangiare, da bere o da vestire.

Vieni, dama o fanciulla,

non aver timore.

Il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom O’Bedlam

1

Jaspin era ingobbito in avanti. Stringeva la barra quanto più saldamente poteva, contorcendosi e dimenandosi con tutto il corpo per impedire che la macchina slittasse o si ribaltasse andando a finire contro un albero. Non c’era più nessuna strada, venivano sospinti in mezzo a una distesa d’erba inzuppata e viscida, una specie di prato ridotto a un acquitrino per l’effetto zangola dovuto alle ruote delle macchine davanti a lui. La pioggia stava scendendo con tanta forza da scorrere in un ininterrotto torrente giù per il parabrezza.

Jill disse: — Sono sicura che è qui che si trova mia sorella. Trova un posto dove parcheggiare, lo scendo a cercarla.

— Parcheggiare con le migliaia di macchine e forse più che stanno arrivando dietro di me?

— Non me ne importa. Fermati accanto a uno di quegli edifici. Io vado dentro a prenderla. Non è a posto con la testa. Se non la proteggo, qualcuno la troverà e la violenterà, o forse la ucciderà. Questa non è più una processione, Barry. Adesso è una folla impazzita.

— Me ne sono accorto.

— Bene, e allora fermati e lascia che vada a cercare April.

— Sicuro — disse lui, sfiorando la piastra del freno. — Puoi scendere qui e andarla a cercare.

La macchina slittò sopra il fango viscido e si arrestò con uno scivolone proprio a ridosso di un grosso cespuglio carico di foglie. Tenne in moto la macchina. — Parcheggia accanto a uno degli edifici — insisté Jill. — Non qui.

— Non ho intenzione di parcheggiare da nessuna parte — ribatté Jaspin. — Cercherò di girare intorno e di trovare qualche strada fuori da questo posto, su per quel lato. Ma tu vai pure. Vai a cercare tua sorella.

— Non hai intenzione di fermarti?

— Senti — lui le disse, — questo è un vicolo cieco, non vedi? Lo sa solo Cristo perché il Senhor abbia girato da questa parte, ma noi ci troviamo adesso con qualche edificio proprio davanti a noi e una stramaledetta foresta di sequoie dietro gli edifici, e alle nostre spalle c’è tutto il pellegrinaggio dei tumbondé che avanza col rombo d’una mandria di dinosauri impazziti. Se io rimango qui, verrò schiacciato, appiattito contro quegli edifici o quegli alberi. Perciò, tu vai pure a cercare tua sorella. Io girerò a sinistra su per quella strada di terra battuta e andrò avanti finché potrò, e se la strada dovesse finire, uscirò dalla macchina e proseguirò a piedi. Giacché quello che succederà qui stamattina è il Buco Nero di Calcutta. Verranno calpestati in migliaia. Adesso scendi e vai a cercare tua sorella, se è questo che vuoi. Su, fuori.

Lei gli lanciò un’occhiata velenosa: — E come farò a ritrovarti?

— Questo è il tuo problema. — Jaspin le indicò la sinistra. — Vai da quella parte, e forse quando le cose si saranno calmate un po’, tornerò a cercarti. Forse. Vai, adesso.

— Bastardo — lei sibilò. Tornò a fissarlo, furiosa. Poi scosse la testa e uscì dalla macchina. Lui la seguì per qualche istante con lo sguardo. La vide correre verso i vecchi edifici di legno grigio corroso dalle intemperie che si trovavano subito davanti a loro. In un attimo fu completamente inzuppata dalla pioggia. Pareva una gigantesca gallina semiannegata che procedesse a grandi balzi in mezzo alla pioggia.

Si chiese dove fosse Lacy.

Aveva la sua macchina da qualche parte, nel corpo principale della processione. Non troppo indietro, lui sperava. La sera prima, quand’era stata prevista pioggia, lui le aveva detto che avrebbe dovuto cercare di portarsi in avanti, guidando quanto più possibile vicino all’avanguardia dei marciatori. Lui sapeva fin troppo bene che la pioggia avrebbe sconvolto ogni cosa, anche se non si era aspettato questo, l’improvvisa deviazione dall’Autostrada Uno su quella strada di campagna, la cieca, devastante intrusione in quel pacifico circondario rurale. Era impossibile capire cosa mai, sempre che qualcosa ci fosse, avesse in mente il Senhor, per svoltare in quella direzione. Ma aveva girato, e basta. C’erano state barriere d’energia a bloccar loro la strada, e poi, per qualche ragione, le barriere si erano spente e tutti si erano rovesciati in avanti. E adesso si trovavano qui. Che schifoso pasticcio, pensò Jaspin.

Jill scomparve nel passaggio fra due edifici. Due a uno che non la rivedrò mai più, si disse Jaspin. Oh, be’, che andasse pure al diavolo. Rimise in moto la macchina, sentì che le ruote scavavano dei solchi nel prato e si liberavano dal fango con energici risucchi. Piano, piano… ecco, adesso era su una strada di ghiaia. Saliva, procedendo lungo il profilo d’una collina dal basso crinale… tieni giù la testa e continua a slittare finché non sarai fuori di qui, ragazzo…

Ma non c’era nessun posto dove lui potesse andare. La strada ghiaiosa terminava in una discarica di rifiuti, all’estremità opposta c’era quello che pareva un orto, e quindi la foresta. Un vicolo cieco, non importava in quale direzione andasse. Jaspin si voltò a guardare e vide migliaia di macchine e furgoni che si ammucchiavano follemente nell’area triangolare fra i due gruppi di edifici, e un numero sempre maggiore continuava ad arrivare da ovest. Quelli più indietro sembravano non rendersi conto che non c’era nessuna strada davanti, e continuavano ad avanzare sferragliando, spensierati, verso quello che, non c’era dubbio, sarebbe stato il più grande cataclisma veicolare della storia umana.

Non aveva senso ripercorrere la strada ghiaiosa e ricongiungersi con quella allegra baraonda. Jaspin abbandonò la sua macchina sul confine dell’orto e avanzò in mezzo ai rovesci di pioggia fino a un albero dalla gigantesca chioma. In piedi sotto di esso, riuscì a tenersi più o meno asciutto, con una buona panoramica della carneficina.

Laggiù si stavano speronando l’un l’altro senza poter far nulla, i grossi furgoni passavano direttamente sopra le macchine più piccole. Proprio come i dinosauri, pensò Jaspin, esattamente come una mandria di dinosauri impazziti. Vide l’autobus del Senhor e quello del Nucleo Interno proprio in mezzo a tutto. Gli stendardi sventolavano sotto la pioggia battente in cima all’autobus del Senhor e qualcuno aveva montato le statue di Narbail e di Rei Ceupassear sul cofano. Le enormi effigi di cartapesta cominciavano a sciogliersi.

Jaspin avrebbe desiderato trovarsi in macchina con Lacy invece che con Jill. Così almeno avrebbe saputo dove si trovava lei in un simile momento. Era probabile che la cosa a Jill non sarebbe importata per niente. Ma al Senhor sì. Il Senhor aveva scoperto che lui se la faceva con qualcun’altra e non con la moglie scelta per lui dal dio, Jill, e al Senhor la cosa non era affatto piaciuta. Bacalhau stesso l’aveva fatto sapere a Jaspin. Tocca la donna dai capelli rossi e farai arrabbiare molto il Senhor. Così Jaspin e Lacy c’erano andati piano durante gli ultimi due giorni. Non era mai saggio far arrabbiare il Senhor. E adesso Lacy era là sotto, smarrita in quella follia, e…

No. Eccola là. Chiaramente visibile, con i capelli rossi che spiccavano vividi nel mezzo d’una folla di almeno un migliaio di persone, le quali erano scese dalle loro macchine e si muovevano in un caos barcollante in mezzo al prato.

— Lacy! Lacy!

In qualche modo lei lo sentì. La vide guardarsi intorno. Si mise a saltare su e giù, agitando freneticamente le braccia, fino a quando lei non lo vide.

— Barry!

— Esci fuori di lì! — le gridò. Lei cominciò a salire la stradina di ghiaia, venendo nella sua direzione, e lui le corse incontro. Era fradicia. I suoi riccioli compatti e ordinati si stavano disfacendo, i capelli le si erano appiccicati al cranio. Jaspin la strinse per un attimo, cercando di calmarla, poiché era scossa da un tremito violento. Non avrebbe saputo dire se per la paura o il freddo.

Aveva gli occhi spiritati. — Cos’è successo? Perché siamo venuti qui?

— Dio solo lo sa. Ma sarà meglio che questo sia il Settimo Posto, poiché è dannatamente sicuro che noi, da qui, non ci muoveremo più. — E aggiunse, in tono triste: — Gesù santo, che razza di catastrofe sta diventando?

— Sai cos’è questo posto?

— Una specie di collegio, non credi?

— È il Centro Nepenthe — disse lei. — Il luogo della mondatura. Ho visto il cartello quando abbiamo attraversato il cancello. È il posto dove il mio vecchio partner, Ed Ferguson, sta facendo il trattamento.

— Be’, in questo momento lo si può considerare fallito — dichiarò Jaspin. — Sarà in completa rovina fra poco. Guarda come stanno sciamando da tutte le parti.

— Devo trovare Ed — disse Lacy.

— Stai scherzando?

— Parlo sul serio. Probabilmente starà vagando stordito fra quella folla. Voglio tirarlo fuori e portarlo quassù prima che gli facciano del male. Vive in una specie di dormitorio. Dovremmo riuscire a trovarlo.

— Lacy, è pazzesco scendere là sotto.

— Ed potrebbe essere nei guai.

— Ma vale la pena rischiare la vita per lui? Pensavo che avessi detto che è un farabutto.

— Era il mio partner, il mio socio, Barry. Farabutto o no, devo tentare di tirarlo fuori. Non è che io l’ami, o anche soltanto che mi piaccia. Ma non posso starmene a guardare mentre questo posto viene demolito con lui dentro, senza che io provi ad aiutarlo.

— Come Jill — commentò Jaspin. — Jill si trova già là dentro, sta cercando sua sorella.

— Ci vado anch’io. Tu aspetti qui?

— No — esclamò Jaspin. — Che diavolo! Verrò con te.

2

Era tutta la mattina che Buffalo ripeteva: — Dobbiamo andarcene di qui, Charley. Quella folla sta arrivando, quella folla passerà dritta per di qua come una mandria impazzita… — Ma Charley aveva detto di no, restiamo ancora un po’, Tom dev’essere da qualche parte qui intorno, e io voglio portarlo con noi.

Stidge non riusciva a capire nessuno dei due. Quel Buffalo, era soltanto un culo-di-merda. Pareva un duro, sì, ma dentro aveva soltanto merda da diarrea dalla testa alle ginocchia. Appena c’era il più piccolo guaio, la prima cosa che voleva fare era scappar via. Charley, ecco, Charley non aveva paura di niente, questo bisognava riconoscerglielo, ma a volte era difficile capirlo. Come quella mania che si era preso per il matto, Tom. Portarselo dietro per tutta la strada dal lato opposto della Valle, fino a San Francisco, e adesso fin lassù a Mendo, per che cosa? Sì, dannazione, per che cosa? Mi fa venire i brividi, pensò Stidge, soltanto a guardarlo negli occhi… quel tipo. E adesso Charley si mette ad aspettare nella foresta, sotto la pioggia, per cercare di trovarlo, per portarlo via di nuovo. No, non aveva proprio nessun senso.

Charley disse: — Avevano innalzato le barriere d’energia. Poi le hanno spente. Mi chiedo perché mai abbiano fatto una cosa del genere. Adesso sono completamente scoperti.

— Forse è stato Tom a farlo — replicò Buffalo. — Ha trovato il generatore e l’ha spento, che passassero pure tutti per di là…

— E perché mai avrebbe voluto farlo? — ribatté Charley. — Non penso che sia da lui fare una cosa simile. Dev’essere stato qualcun altro, oppure semplicemente l’energia è venuta a mancare per conto suo. A Tom piace questo posto. Non avrebbe mai voluto che venisse invaso da una folla di scalmanati.

Stidge dichiarò: — Quell’uomo è pazzo. E un pazzo può fare qualsiasi cosa.

Charley sogghignò. — Tu pensi che Tom sia pazzo, Stidge. Questo dimostra quanto poco sai.

— È lui che dice d’esser matto, con la sua bocca. E le visioni che ha…

— Matto come una volpe — fece Buffalo.

— Già! — esclamò Charley. — Ascolta, Stidge, quelle sue visioni non sono di un matto, sono vere visioni. Lui vede dritto dentro le stelle. Ha qualche senso per te? No, scommetto di no. Ma ti dico, non è pazzo. Il solo modo in cui può evitare di spaventare la gente con quel suo potere è dire che è pazzo. Ma tu non puoi capire cose del genere, non è vero? L’unica cosa che capisci è come far male alla gente. A volte vorrei non averti mai incontrato, Stidge.

— La sola cosa che capisco — disse Stidge, — è che uno di questi giorni quel Tom finirà per rompermi troppo le scatole e allora gli pianterò una lancia in corpo. Mi hai scocciato per tutta l’estate, Stidge non far questo, Stidge non far quello, Stidge lascia stare Tom. Sono molto stufo del tuo Tom, mi hai sentito, Charley?

— E io sono molto stufo di te — ribatté Charley. — Te lo dico ancora una volta: se succede qualcosa a Tom sei finito, Stidge. Finito. — Si girò verso Buffalo. — Sai cosa dovremmo fare? Dovremmo dare un’altra occhiata intorno a quegli edifici, trovare Tom, prender su qualsiasi cosa leggera che possiamo portarci dietro e che valga qualcosa, e battercela da questo posto in tutta fretta.

— Sì — annuì Buffalo. — Prima che arrivino smaniando in mezzo al bosco e rovescino il nostro furgone o qualcosa del genere.

Stidge intervenne: — Invece di Tom, quella che dovremmo trovare è quella donna, quella alta che abbiamo visto prima. Oppure quella pupa bollente che era fuori in strada con quell’altro che zoppicava. Trovare una di loro, portarla con noi: ecco cosa ha senso per me.

— C’era da scommetterci che avresti detto qualcosa del genere — dichiarò Charley. — Proprio quello che ci serve, rapire una donna, adesso. È Tom quello che vogliamo. Trovare Tom e andarcene da qui. È chiaro, Stidge?

— Non so cosa diavolo…

— È chiaro, Stidge?

— Sì — disse Stidge. — Ti ho sentito.

— Spero proprio di sì. Vieni, adesso.

— Voi due andate a cercare Tom — rispose Stidge. — Io ho un’altra idea. Vedete quell’autobus là in mezzo, quello con le statue tutte storte sopra e tutte quelle bandiere? Credo che darò un’annusata là dentro. Scommetto che è l’autobus del tesoro.

— Di che tesoro vai cianciando? — chiese Charley.

— Il tesoro dei marciatori. Scommetto che è il loro autobus sacro, manciate di rubini, diamanti e smeraldi, là dentro. Andrò a darci un’occhiatina. Per te va bene, Charley? Mentre voi due cercate Tom qui in giro.

Charley rimase silenzioso per un momento. Alla fine, annuì: — Ma sicuro — esclamò. — Vai pure ad arraffarti un sacco di rubini.

3

Proprio mentre Jill saliva sulla veranda del lungo edificio di legno che riteneva fosse il dormitorio, un uomo lungo e magro, dai capelli scuri, uscì di corsa e andò dritto a sbattere contro di lei. Si urtarono con un tonfo sonoro e rimbalzarono indietro l’uno dall’altro, e rimasero là per un momento a guardarsi, entrambi alquanto storditi.

L’uomo indossava un camice bianco e aveva l’aspetto di qualcuno che poteva far parte del personale. — Scusi — disse Jill. — Ehi, mi può dire se è qui che tengono i pazienti?

— Si tolga di mezzo! — esclamò l’altro. Aveva una sorta d’espressione folle negli occhi.

— Voglio sapere se è qui che…

— Cosa vuole qui? Cosa ci fate voi tutti, qui? Se ne vada! — Agitò le braccia verso di lei. Era la cosa più folle che avesse mai visto.

— Sto cercando mia sorella, April Cranshaw. È una paziente qui da voi e voglio…

Ma lui se n’era già andato, schizzando via da lei come un matto, per scomparire in mezzo alla tempesta. D’accordo, pensò Jill: se siete così, me ne fregherò anch’io. Si chiese quanto dovessero esser matti i pazienti in quel posto, se il personale era così. Quell’uomo le era parso un dottore, forse uno psichiatra. Erano tutti matti, comunque. Naturalmente il fatto che migliaia di macchine avessero appena adesso invaso i terreni del Centro e tutta l’orda dei mongoli stesse caracollando sul prato là fuori poteva averlo scombussolato un po’.

Entrò nell’edificio. Sì, pareva proprio un dormitorio. Il tabellone per i bollettini, qualche avviso esposto, un sacco di stanzette che si aprivano sul corridoio.

— April? — chiamò. — April, tesoro, sono Jill. Sono venuta a prenderti, April. Esci fuori, se sei qui. April. April.

Guardò dentro alle stanze, una dopo l’altra. Vuota. Vuota. Vuota. Poi in una stanza in fondo al corridoio vide un uomo seduto sul pavimento, ma o era ubriaco, o era morto, non avrebbe saputo dire quale dei due. Lo scrollò, ma l’uomo non si svegliò. — Ehi, tu. Tu! Sto cercando di trovare mia sorella. — Ma era come parlare a una sedia. Fece per uscire, ma poi udì dei rumori provenire dal bagno, qualcuno che cantava e mugolava. — Ehi? — chiamò Jill. — Chiunque sia là dentro…

— Vuoi usare il bagno? Non posso lasciarti entrare. Devo starci io. Dovrei rimanere qui fino a quando non torna la dottoressa Lewis o il dottor Waldstein.

— April? Sei April?

— Dottoressa Lewis?

— Sono Jill. Per l’amore di Cristo… tua sorella Jill! Apri la porta, April.

— Devo rimanere qua dentro fino a quando il dottor Waldstein o la dottoressa…

— Allora rimani là dentro. Ma apri la porta. Devo fare la pipì, April. Vuoi che me la faccia nei calzoni? Apri.

Un momento di silenzio, e finalmente la porta si aprì.

— Jill?

Era come la voce di una ragazzina. Ma la donna dietro a quella voce era come una montagna. Jill si era dimenticata di quanto fosse grossa sua sorella maggiore oppure April aveva accumulato dell’altro grasso da quando era andata là. Un po’ tutte e due le cose, pensò Jill. April aveva uno strano aspetto… più strano di quanto Jill ricordasse, completamente estraniata, gli occhi luccicanti e bizzarri, il volto bianchissimo… le guance grasse erano afflosciate. — Sei qui per aiutarmi a fare la Traversata? — chiese April. — Il signor Ferguson ha fatto la Traversata poco fa. E Tom dice che la faremo tutti. Oggi andremo sulle stelle. Io non so se voglio andare sulle stelle, Jill. È questo che succederà oggi?

— Quello che succede oggi è che ti tirerò fuori da questo posto — dichiarò Jill. — Qui non è più sicuro. Dammi la mano. Ecco. Vieni, April. Brava April. Bella April.

— Dovrei restare qui nel bagno. Il dottor Waldstein tornerà subito e mi farà un’iniezione, e io mi sentirò meglio.

— Ho appena visto il dottor Waldstein che correva come un matto nell’altra direzione — disse Jill. — Su, vieni. Ti puoi fidare di me, facciamo una passeggiatina, April.

— Dove mi manderanno? Sui Nove Soli? Sul Mondo Verde?

— Li conosci? — domandò Jill, sorpresa.

— Li vedo ogni notte. Riesco quasi a vederli anche adesso. La Sfera di Luce. La Stella Azzurra.

— Sì, è esatto. Maguali-ga aprirà il cancello. Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà. Non c’è niente di cui preoccuparsi. Dammi la mano, April.

— Il dottor Waldstein…

— Il dottor Waldstein mi ha chiesto di venire a prenderti e portarti fuori — disse Jill. — Gli ho appena parlato. Un uomo alto, capelli scuri, camice bianco. Ha detto: Di’ ad April che non avrò tempo di tornare subito, perciò vai a prenderla tu.

— Ha detto questo? — April sorrise. Mise la mano in quella di Jill e fece un passo o due fuori del bagno. — Su, April, vieni, brava…

Jill condusse sua sorella attraverso la stanza, davanti all’uomo morto o privo di sensi seduto sul pavimento. Superarono la porta. Si avviarono lungo il corridoio. Avevano quasi raggiunto l’uscita, quando la porta che dava sull’esterno si aprì e due persone entrarono di corsa. Barry, per l’amor di Cristo! E quella sua donna con i capelli rossi.

— Jill?

— Ho trovato mia sorella. Questa è April.

— Allora è questo il dormitorio dei pazienti? — chiese la donna dalla chioma rossa.

— Sì. Cerchi qualcuno anche tu?

— Il mio partner. Ti ho detto che era un paziente qua dentro.

— Non c’è nessun altro qua dentro… No, aspetta: c’è un tizio. Nell’ultima stanza sulla sinistra, in fondo al corridoio. Potrebbe perfino essere morto. Se ne sta seduto sul pavimento, un gran sorriso sulle labbra. Cosa sta succedendo là fuori?

— Il Nucleo Interno sta cercando di calmare la massa — l’informò Jaspin. — Si sono sparpagliati tra la folla, portando le immagini sacre. È quasi una sommossa, ma potrebbero giusto riuscire a calmarli.

— E il Senhor? La Senhora?

— Nel loro autobus, a quanto ne so.

Jill disse: — Il Senhor dovrebbe venir fuori. È il solo modo per calmare le acque.

— Vado in fondo al corridoio — disse la donna dai capelli rossi.

Jill si rivolse a Jaspin: — Dovresti andare dal Senhor, e chiedergli di parlare alla folla, altrimenti sai che diventeranno tutti dei pazzi scatenati, dei forsennati… e dopo, cosa accadrà al pellegrinaggio? Vai a parlargli, Barry. Ti ascolterà.

— Non ascolterà nessuno, lo sai.

Dal fondo del corridoio l’altra donna chiamò: — Puoi venire qui, Barry? Ho trovato Ed, ma non credo che sia vivo.

— Ha fatto la Traversata — disse April, con una voce come se stesse parlando nel sonno.

— Sarà meglio che vada — fece Jaspin. — Cos’hai intenzione di fare?

— Portar via con me April, trovare un posto sicuro, aspettare che le acque si calmino.

— Questo non ti sembra un posto sicuro?

— No, quando diecimila persone decidono tutte assieme di mettersi al riparo dalla pioggia. Un vecchio edificio traballante come questo, lo faranno crollare subito.

La donna dai capelli rossi ora stava tornando verso di loro. — È morto — dichiarò. — Mi chiedo cosa sia successo… Povero Ed. Era un bastardo, ma anche così… morto.

— Vieni, April — ripeté Jill. — Dobbiamo andarcene da qui.

Guidò sua sorella intorno a Jaspin e poi fuori, sulla veranda del dormitorio. La scena davanti a lei era più incontrollabile che mai. Le auto si andavano ammucchiando come i relitti lasciati da un’inondazione. Gente dappertutto, che urlava disorientata, agitandosi come api in un alveare. Non c’era più spazio perché qualcuno potesse muoversi; erano tutti accalcati l’uno a ridosso dell’altro. E al centro di tutto c’era l’autobus del Senhor. Davanti ad esso erano visibili gli undici membri del Nucleo Interno, tutti agghindati nei loro costumi tumbondé da gran parata. Inalberavano le immagini inzuppate d’acqua dei grandi dèi. Stavano avanzando lentamente, aprendosi un sentiero tra la folla. La gente cercava di fare spazio davanti a loro, ma era difficile; non c’era più nessun posto dove andare.

Poi Jill vide un ometto tozzo e tarchiato, con una zazzera di capelli rossi, arrampicarsi su per il fianco dell’autobus del Senhor, e far qualcosa ad uno degli schermi protettivi dei finestrini, riuscendo in qualche modo a staccarlo, infilandosi poi, a furia di contorcimenti, all’interno.

— Oh, Gesù! — esclamò. — Barry, Barry. Vieni qui fuori. È importante!

Jaspin sporse la testa dalla porta. — Cosa?

— Il Senhor — disse Jill. — Ho appena visto una specie di grattatore che s’introduceva nel suo autobus. Il Nucleo Interno è fuori a portare in giro le statue, e nessuno protegge il Senhor, e qualcuno si è appena intrufolato nel suo autobus. Vieni. Dobbiamo far qualcosa.

— Noi?

— Gli altri? April, rimani qui fino a quando non torniamo, hai capito? Non andare da nessuna parte. Da nessuna parte in assoluto. — Jill chiamò Jaspin con un gesto perentorio della mano. — Vieni! Allora, vuoi venire? Vieni!

4

Tom sentiva l’estasi crescere, crescere e crescere sempre più in lui. Era come se tutti i mondi venissero a lui, nello stesso tempo, come se la luce di mille soli illuminasse il suo spirito. Ellullimiilu e i Nove Soli e il Doppio Regno e tutta la miriade di capitali dei poro e degli zygerone e dei kusereen che lo inondavano allo stesso tempo. Gli parve perfino che gli stessi antichi e temibili theluvara simili a dèi gli riscaldassero l’anima dal loro rifugio alle più remote distanze dello spazio.

L’aveva fatto, aveva iniziato il Tempo della Traversata, finalmente. Tremava ancora a causa dell’intensità della sensazione che l’aveva avvolto nel momento in cui aveva sentito l’anima di quell’uomo, quell’Ed, levarsi dal suo corpo ed inarcarsi verso l’alto, spiccando il volo verso la sua destinazione nelle lontane galassie.

Adesso, avvampante di gioia, Tom vagava attraverso il Centro come un Lama dell’Impero, passando da un edificio deserto all’altro. Due dei suoi seguaci erano con lui, due di quelli che gli avevano prestato le proprie energie quando aveva sollevato quell’uomo, quell’Ed, facendogli compiere la Traversata. Ma ce n’erano stati altri due, quando l’aveva fatto, il messicano e la donna grassa e grossa, e questi erano scomparsi quand’erano cominciate le grida e l’eccitazione.

Doveva assolutamente ritrovarli, pensò Tom. Con questi due soltanto avrebbe potuto trovarsi con forze insufficienti per intraprendere il resto della Traversata.

Ciò che aveva ricevuto dagli altri quattro, quando aveva spedito l’uomo sulle stelle, era stato essenziale. Questo lo sapeva. Erano state necessarie energie immense per attuare la Traversata. Nell’istante in cui c’era stata la separazione tra il corpo di Ferguson e la sua anima, Tom era stato in grado di avvertire il pericolo corso da ogni singola particella della sua vitalità. Era stato come il diventar fioco delle luci in una stanza, quando troppa energia veniva richiesta nello stesso istante. E poi gli altri quattro, il messicano e la donna grande e grossa, la donna artificiale e il prete, erano venuti in suo soccorso, avevano inviato la propria energia come un’onda ruggente attraverso la catena delle mani congiunte, e Tom era stato in grado di portare a compimento la Traversata per Ferguson. C’erano altre Traversate adesso da attuare. Doveva ritrovare i due che mancavano. Aggirandosi da un edificio all’altro si accorse appena della pioggia. Era vagamente conscio della grande folla di estranei che aveva fatto irruzione nei terreni del Centro e si stava rovesciando negli spazi aperti fra il dormitorio e le capanne del personale, ma la cosa non gli sembrava importante. Chiunque fossero, non significavano niente per Tom. Tra breve tutto sarebbe stato di nuovo calmo, tutti quegli estranei farneticanti sarebbero partiti per il loro viaggio verso le stelle.

Una voce al fianco di Tom disse: — Era la cosa vera, no? La Traversata vera e propria?

Tom abbassò lo sguardo e vide il prete. — Sì.

— Sai dov’è andato Ferguson?

— Il Doppio Regno — disse Tom. — Ne sono sicuro.

— E quale sarebbe?

— Un sole è azzurro e l’altro è rosso. È il mondo dei poro, che sono soggetti agli zygerone. I quali sono governati dai kusereen, che sono i più grandi di tutti, i re dell’universo. Lo hanno accolto. In questo momento si trova fra loro.

— Già, lassù, credi? — fece Alleluia. — Così lontano?

— Il viaggio è istantaneo — spiegò Tom. — Quando facciamo la Traversata, ci muoviamo alla velocità del pensiero.

— Un sole è azzurro e uno è rosso — mormorò Padre Christie. — Conosco quel posto, l’ho visto!

— Li hai visti tutti — disse Tom. Allargò le braccia verso di loro.

Là sotto, sul prato, automobili e camion si schiantavano gli uni contro gli altri con furore idiota. — Venite, seguitemi. Scenderemo là in basso a cercare altra gente pronta a fare la Traversata, e li guideremo verso le loro nuove case. Ma prima dobbiamo vedere dove sono finiti gli altri nostri aiutanti, la donna grassa, il messicano…

— Laggiù c’è April — l’avvertì Padre Christie. — Là, fuori del dormitorio.

Tom annuì. Era in piedi sulla veranda, esposta alla pioggia, voltandosi in continuazione su un lato e poi sull’altro, sorridendo incerta. Tom le corse incontro. — Abbiamo bisogno di te, per fare il resto della Traversata.

— Dovrei aspettare qui mia sorella.

— No — disse Tom. — Vieni con noi.

— Jill ha detto che sarebbe tornata subito. È andata da quella parte, dove tutta quella gente corre su e giù urlando. Mi manderai su qualche pianeta?

— Dopo — disse Tom. — Prima ci darai una mano a spedirne altri. E poi, quando avrò tempo per te, ti manderò dietro di loro. — La prese per mano. Le sue dita erano grassocce, molli e fredde, come salsicce. La mano giacque nella sua come un calamaro. La tirò. — Vieni. Vieni. Abbiamo del lavoro da fare. — Lentamente, con passi strascicati, April lo seguì là fuori, in mezzo alla pioggia.

5

Il prato davanti al dormitorio era un mare di fango. Jaspin, sguazzando nella melma alle spalle di Jill, ebbe un’improvvisa visione in cui ogni cosa diventava un’immensa sabbia mobile, con tutti che affondavano sotto la superficie del suolo, scomparendo, e la pace tornava di nuovo a regnare in quel luogo.

Jill si muoveva come un demonio sgombrando la strada, spingendo, premendo, dando di gomito. Jaspin la seguì. Tutti urlavano, niente di coerente, semplicemente una confusione ruggente priva d’un concreto significato che pareva lo sferragliare d’una macchina gigantesca. Piccoli varchi si formarono tra la folla per richiudersi di nuovo dopo un breve istante. Un paio di volte Jaspin incespicò e fu quasi sul punto di cadere, ma mantenne l’equilibrio afferrandosi al braccio più vicino e sorreggendosi in qualche modo. Se cadi, muori, pensò. Poteva già vedere gente che strisciava al livello del suolo, stordita, incapace di risollevarsi, scomparendo in una foresta di gambe. Ad un certo punto gli parve di aver lui stesso calpestato qualcuno. Ma non osò guardare in basso.

— Da questa parte! — gli gridò Jill. Adesso era praticamente arrivata all’autobus del Senhor.

Un braccio sventolato da qualcuno lo colpì alla bocca. Jaspin avvertì una violenta fitta di dolore e sentì il sapore salato del sangue. Rispose al colpo all’istante, automaticamente, vibrando entrambe le mani di taglio verso il basso, come accette, sulle spalle dell’uomo. Si rese conto che forse non era neppure quello che l’aveva urtato. Udì un grugnito. Jaspin non riuscì a ricordare quand’era stata l’ultima volta che aveva colpito qualcuno. Quando aveva nove, dieci anni, forse. Strano, quanta soddisfazione aveva provato, a colpire in risposta a quel dolore.

Subito davanti a lui Jill stava lottando con un tipo isterico, grande e grosso, un villico nell’aspetto, il quale l’aveva afferrata proprio davanti alla porta dell’autobus. — Maguali-ga, Maguali-ga — urlava con voce ruggente, stringendola con le braccia intorno alla vita. Non pareva voler difendere l’autobus del Senhor o fare qualunque altra cosa che avesse uno scopo; aveva soltanto perso il controllo. Jaspin gli arrivò alle spalle e gli serrò il braccio intorno alla gola. Strinse con forza finché non sentì un piccolo suono rauco e soffocato.

— Lasciala andare — gli ordinò Jaspin. — Toglile le mani di dosso.

L’uomo annuì. La lasciò andare. Jaspin lo fece girare su se stesso e spinse in direzione opposta, mandandolo a barcollare in mezzo alla folla. Jill si precipitò su per i gradini ed entrò nell’autobus, seguita da Jaspin.

L’interno dell’autobus era un’isola di arcana tranquillità in tutto quel caotico maelstrom. Buio e silenzio, con un odore d’incenso inacidito, un tremolio di candele. I pesanti tendaggi parevano filtrare il tambureggiare della pioggia e le grida tonanti della folla. Cautamente Jaspin e Jill si portarono in fondo all’anticamera e scostarono la tenda di broccato che nascondeva la sezione mediana dell’autobus, la cappella del Senhor Papamacer.

— Guarda, eccolo là — bisbigliò Jill. — Oh, grazie a Dio! Sta bene, non è vero?

Il Senhor pareva in trance. Sedeva immobile nella sua familiare posizione del loto, il volto girato verso la parete, fissando rigido un’immagine di Chungirà-Lui-Verrà. Intorno al suo collo c’era l’enorme pettorale d’oro costellato di smeraldi e di rubini, che indossava soltanto nelle occasioni più solenni. Chiaramente era partito per qualche altro mondo. Jaspin fece per avvicinarsi a lui, ma poi sentì un suono, come un uggiolio di panico, provenire dalla sezione più lontana, l’alloggio del Senhor e della Senhora. Una donna che gridava in una lingua sconosciuta, un’inequivocabile implorazione di aiuto…

Jill si girò di scatto verso di lui. — C’è la Senhora là dentro, Barry…

— Già. — Jaspin tirò un profondo sospiro e sollevò la tenda.

Sul lato opposto, il regno più intimo del Senhor, ogni cosa era in disordine, le tende penzolavano semistrappate, le immagini di legno di Maguali-ga e Chungirà-Lui-Verrà erano state rovesciate, e gli armadietti del Senhor erano ribaltati. Il contenuto degli armadietti era stato disseminato alla rinfusa sul pavimento: vesti cerimoniali, caschi, sciarpe e stivali decorati, tutte le sgargianti insegne dei riti dei tumbondé.

Nell’angolo in fondo la Senhora Aglaibahi era in piedi addossata alla parete, subito davanti a lei c’era il grattatore robusto e tarchiato, dai capelli rossi, quello che Jill aveva visto arrampicarsi dentro il finestrino laterale dell’autobus. L’ampio sari della Senhora era lacerato per il lungo sul davanti e le sue pesanti mammelle, luccicanti di sudore, erano saltate fuori in piena vista. I suoi occhi luccicavano di terrore. Il grattatore la stringeva per un polso e stava cercando di afferrarle l’altro. Probabilmente era entrato nell’autobus con l’idea d’un furto con scasso, ma non doveva aver trovato niente, là dentro, che valesse la pena di rubare, così adesso rivolgeva la sua attenzione allo stupro.

— Lasciala stare, figlio di puttana — esclamò Jill con una voce così feroce che Jaspin per un attimo ne rimase stupefatto.

Il grattatore si girò di scatto. I suoi occhi andarono da Jill a Jaspin, e poi di nuovo a Jill. Era l’espressione d’una bestia in trappola. — Stai attenta — fece Jaspin. — Sta per venirci dritto addosso.

— State indietro — disse l’uomo tozzo. Stringeva ancora la Senhora Aglaibahi per il polso. — Mettetevi lì contro la parete. Ora uscirò da qui e voi non tenterete di fermarmi.

Adesso Jaspin vide un’arma nell’altra sua mano, una di quelle cose che chiamavano lance, piccole ma micidiali, le quali proiettavano piccole ma letali scariche elettriche.

— Attenta — disse a Jill con voce sommessa. — È un assassino.

— Ma la Senhora…

— State indietro — disse di nuovo l’uomo dai capelli rossi. Tirò il braccio della Senhora. — Vieni, signora. Tu ed io scendiamo dall’autobus, va bene? Tu ed io. Andiamo.

Jaspin li guardò, non osando muoversi.

La Senhora cominciò a gemere e a ululare. Era un pianto acutissimo e ultraterreno che avrebbe potuto essere un canto dello stesso Maguali-ga, uno stridio intenso e altalenante, un suono terrificante che molto probabilmente avrebbe potuto esser udito fino a San Francisco. L’uomo dai capelli rossi la scrollò ferocemente per il braccio e ringhiò: — Taglia corto!

Poi le cose cominciarono ad accadere molto in fretta.

La tenda si sollevò e il Senhor comparve sulla soglia, con un’aria stralunata, come se in parte fosse ancora in trance profonda. Per un lungo istante fissò stupefatto ciò che stava accadendo; poi quella terribile espressione di gelo profondo gli affiorò negli occhi, e sollevò entrambe le braccia come Mosé sul punto di frantumare le tavole dei Dieci Comandamenti, e urlò parole inintelligibili con una voce colossale, come se cercasse di schiantare al suolo l’intruso con il puro impatto dei decibel. Nello stesso istante Jill balzò in avanti e cercò di liberare la Senhora strappandola alla sua stretta. Il grattatore si girò verso di lei e senza la minima esitazione, con un rapido movimento, passò la lancia sopra la gabbia toracica di. Jill da un lato all’altro. Vi fu un piccolo lampo di luce azzurra e Jill fini con uno schianto all’indietro, contro la parete. Poi il grattatore lasciò la Senhora Aglaibahi e si tuffò in avanti, cercando di oltrepassare il Senhor. Quando arrivò al suo fianco, ristette, come se avesse notato per la prima volta il pettorale ingioiellato che il Senhor indossava. Il grattatore gli diede uno strappo, ma il fermaglio resistette. Il grattatore non lo lasciò andare. Proseguì lungo la parete mediana dell’autobus diretto verso l’uscita anteriore, trascinando con sé il Senhor per il pettorale.

Jaspin si voltò a guardare Jill. Giaceva accartocciata e immobile, le braccia e le gambe contorte e annodate. La Senhora era raggomitolata sull’altro lato dell’autobus. Tremava e singhiozzava convulsamente. Adesso il grattatore, tirando con sé il Senhor Papamacer, aveva attraversato metà della cappella, diretto verso l’anticamera. Jaspin si guardò intorno alla ricerca di un’arma. La cosa migliore che riuscì a trovare fu la piccola statua di Maguali-ga. La prese su di scatto e si precipitò verso l’altra estremità dell’autobus.

Il Senhor e il grattatore avevano raggiunto lo scompartimento riservato al conducente. Mentre Jaspin andava verso di loro, entrambi uscirono sulla piccola piattaforma che conduceva giù, al livello del suolo. Qui si fermarono, sempre lottando: il grattatore che strattonava il pettorale, tentando di strapparlo via, il Senhor Papamacer che lanciava imprecazioni con voce tonante picchiando il grattatore con i suoi pugni, tutti e due in piena vista della folla stupefatta dei seguaci del Senhor.

Jaspin sbirciò fuori in mezzo alla folla tumultuosa, fradicia di pioggia. Adesso vi regnava un autentico isterismo. Li sentiva gridare: — Papamacer! Papamacer! — Ma nessuno andava in aiuto del Senhor. Gesù, pensò Jaspin, dov’è il Nucleo Interno? Devono pur vedere quello che sta succedendo. Perché non vengono ad aiutare il Senhor? Poi si rese conto che era impossibile muoversi per chiunque si trovasse intorno all’autobus, tanto erano schiacciati gli uni addosso agli altri. Un reticolato umano a maglie fittissime.

Allora tocca a me, si disse Jaspin.

Sollevò la statua di Maguali-ga come un randello e manovrò per trovare un varco, cercando di portarsi in posizione per colpire il braccio che reggeva la lancia. Ma i due si agitavano in maniera troppo incontrollabile perché lui potesse riuscire a colpire con precisione l’arma.

Forse adesso… adesso…

Jaspin vibrò la statua con tutte le sue forze. Calò giù la mazzata, ma sul braccio sbagliato, quello con cui il grattatore cercava di strappare il pettorale al Senhor Papamacer. Il grattatore cacciò un forte grugnito e lasciò andare il Senhor, che venne sbattuto dal suo stesso slancio contro la portiera aperta dell’autobus. Jaspin cercò di spingerlo di nuovo dentro, ma con suo stupore il Senhor Papamacer scosse la testa e si precipitò in avanti, afferrando il grattatore per entrambe le spalle, costringendolo a girarsi, scuotendolo furiosamente, tempestandolo di quelle che parevano oscenità brasiliane. Tutta la mostruosa intensità dell’anima del Senhor Papamacer si stava riversando fuori in un frenetico attacco contro quel lurido estraneo che aveva osato violare il suo sacro santuario. Il grattatore, sbattendo gli occhi e con la bocca spalancata, pareva non sapesse cosa fare davanti a un’aggressione così folle.

Un paio di membri del Nucleo Interno si stavano facendo largo in mezzo alla folla. Jaspin li vide più in basso, a dieci, quindici metri dai gradini dell’autobus.

Anche il grattatore li vide. Sollevò la lancia e con un colpo improvviso e disperato la premette contro il petto del Senhor Papamacer. Vi fu un altro sbuffo di luce azzurra, e il Senhor, con le braccia e le gambe scosse dalle convulsioni, schizzò in alto nell’aria e ricadde giù, abbattendosi pesantemente sul terreno. Il grattatore, senza fermarsi, balzò giù accanto a lui, fece un ultimo, non riuscito tentativo di strappargli il pettorale, poi sfrecciò via sulla sinistra, scomparendo tra la folla proprio mentre Bacalhau e Johnny Espingarda arrivavano di corsa.

Bacalhau si chinò accanto al Senhor Papamacer. Con mani tremanti toccò la guancia del Senhor, la fronte, la gola, poi sollevò lo sguardo, e il suo volto aveva l’aspetto di qualcuno che avesse visto la fine del mondo.

— È morto! — gridò Bacalhau, con voce tonante. — È morto, il Senhor!

E poi ogni cosa impazzì.

6

Elszabet si rese conto che in qualche modo aveva attraversato il tratto che separava il dormitorio dalla palestra, anche se non ricordava di averlo fatto. Adesso, si trovava in piedi proprio sull’orlo del piccolo giardino di rose, appena fuori della palestra. Intorpidita, osservava incredula la folla dei tumbondé che demoliva il Centro.

Tutto era molto simile a un sogno. Non un sogno spaziale, ma il consueto sogno ansioso, pensò, del tipo «primo giorno di scuola», e non sapete in quale aula si svolga il corso al quale vi siete iscritti, oppure quello in cui cercate di passare da un lato all’altro di una stanza affollata per parlare a qualcuno d’importante, e l’aria è densa come la melassa, e voi nuotate e nuotate e nuotate e non arrivate da nessuna parte.

Quella gente, quei cultisti, avrebbero distrutto ogni cosa. E non c’era assolutamente niente che lei potesse fare in proposito. Lei sapeva ciò che invece avrebbe dovuto fare: radunare i pazienti, portarli in un luogo sicuro, sempre che esistesse ancora qualcosa del genere. E trovare Tom prima che attuasse qualche altra Traversata. Ma era paralizzata là dove si trovava. Si sentiva pietrificata. Aveva tentato di proteggere il Centro, e aveva fallito, e adesso pareva fosse troppo tardi per riuscire a fare qualcosa. Salvo che starsene là immobile a guardare.

Adesso le cose là fuori stavano impazzendo sul serio.

Era stato già abbastanza brutto all’inizio, quando si erano semplicemente riversati dentro con le loro auto e i loro furgoni parcheggiando dappertutto, tamponandosi a vicenda con grande stridio di metallo schiacciato, e poi erano scesi e si erano messi a girare li intorno fino a quando non c’era più stato posto perché qualcuno riuscisse ancora a muoversi. Ma adesso era molto peggio: adesso si era passati ad una fase completamente diversa e più frenetica.

Il vero guaio era cominciato dopo che quell’ometto nero con quello strano costume era stato ucciso sui gradini dell’autobus multicolore che si trovava proprio nel mezzo di ogni cosa. Elszabet decise che doveva essere stato il loro capo, il loro profeta. Aveva visto tutto proprio mentre usciva dal dormitorio per andare a cercare Tom. L’ometto nero e quell’altro, il teppista dai capelli rossi che l’aveva avvicinata in precedenza, erano sbucati dall’autobus e si erano messi a lottare subito fuori della portiera. Il terzo uomo uscito dall’autobus che agitava tutt’intorno la pesante statua di legno, cercando di colpire con essa il grattatore… E poi il grattatore che fulminava il capo del culto con la sua lancia… era stato allora che le cose erano diventate davvero forsennate.

Nel loro dolore i tumbondé stavano facendo a pezzi tutto quanto. Andavano avanti e indietro a ondate come la marea d’un oceano umano, schiantando le capanne e svellendole dalle loro fondamenta, strappando dal suolo cespugli e arbusti, rovesciando i loro stessi autobus. La follia si stava autoalimentando; i tumultuanti pareva cercassero di superarsi a vicenda nelle loro dimostrazioni di rabbia e di dolore, e pareva che anche quelli che non avevano nessuna idea di cosa avesse scatenato quell’accesso di violenza stessero unendosi alla furia distruttrice.

Dal punto favorevole in cui si trovava ai margini del Centro, Elszabet aveva modo di vedere quasi ogni cosa che stava accadendo. Pareva che l’edificio del quartier generale fosse in fiamme. Una colonna di fumo nero s’innalzava da esso in mezzo alla pioggia. In basso, sul lato opposto, le capanne della mondatura venivano fracassate e ridotte in schegge… tutte quelle apparecchiature complesse e costose, rifletté con tristezza Elszabet, ogni cosa tanto minuziosamente misurata e calibrata, e tutto l’archivio, tutta la documentazione… e più oltre riusciva appena a distinguere le capanne del personale, la sua stessa capanna, annidate in mezzo al bosco, la gente che sciamava dappertutto, scagliando oggetti fuori dalle finestre, sfondando le pareti a calci, strappando dal suolo perfino le felci sul fianco della collina nelle immediate vicinanze. I suoi libri, i suoi cubi, le sue registrazioni, il piccolo diario che a volte teneva… immaginò che ormai ogni cosa giacesse là fuori, in mezzo al fango, calpestata sotto i piedi di quella marea umana…

Non c’era niente che potesse fare, se non guardare. Con spettrale freddezza ispezionò l’intera scena da nord a sud, da sud a nord, stranamente tranquilla, paralizzata dallo shock e dalla disperazione, osservando… osservando.

Poi vide Tom. Era Tom quello laggiù, sì, proprio lui. Comparso dal nulla un po’ in alto, lungo il fianco della collina: stava passando davanti al lato più lontano del dormitorio, girando poi intorno ad esso sulla sinistra. Giù, verso il colmo di quella follia.

Come chiunque altro era chiazzato di fango e fradicio fin dentro la pelle, con i vestiti appiccicati al corpo scarno e ossuto. Eppure appariva del tutto indifferente, invulnerabile alle intemperie, come se fosse circondato da un’invisibile sfera protettiva. Camminava lentamente, quasi come se niente fosse. C’era una specie di seguito intorno a lui: Padre Christie, Alleluia, April, Tomás Menendez. Si tenevano tutti per mano come se stessero andando a un allegro pic nic nella foresta, e parevano tutti straordinariamente sereni.

Devo andare da loro, pensò Elszabet. April e gli altri non sono in condizioni di venir lasciati a vagare da soli in mezzo a questo disordine. E devo allontanare Tom da loro prima che aiuti qualcun altro a fare la Traversata. Devo trovare un posto sicuro per loro, pensò. E poi prendere Tom e mettere anche lui al sicuro da qualche parte, dove non possa far del male a nessuno, e nessuno possa fare del male a lui.

Ma non fece nessun movimento per lasciare il giardino delle rose. Riuscire a fare anche un singolo passo le parve impossibile.

— Elszabet? — qualcuno la chiamò.

Si girò lentamente. Bill Waldstein, rosso in viso, il camice bianco tutto inzaccherato di fango nero.

— Cosa fai qua fuori? — le chiese.

— Sto guardando. È ancora peggio di quanto avevamo immaginato.

— Per l’amor di Cristo, Elszabet. Sembri assolutamente inebetita, lo sai? Dov’è April?

Elszabet indicò con un gesto vago la parte centrale del prato.

— L’avevo lasciata con te — disse Waldstein. — Stavo giusto andando in infermeria a prenderle un sedativo. Come hai potuto lasciarla sola? Perché sei uscita qua fuori? Cosa ti sta succedendo, Elszabet?

Lei scrollò le spalle: — Puoi guardare da te quello che sta succedendo.

— Su, svegliati, dobbiamo radunare i pazienti prima che venga loro fatto del male. E dobbiamo trovare Tom e rinchiuderlo da qualche parte, cosicché non possa…

— Tom? — fece Elszabet. — Tom è laggiù.

Waldstein sbirciò nella penombra. — Gesù, è vero. E c’è April con lui, e anche Menendez, e Padre Christie… — La fissò. — Hai intenzione di lasciare che vada in giro, così, con loro? Sai cos’è probabile che faccia? — D’un tratto Waldstein parve forsennato almeno quanto i tumbondé. — Lo ucciderò, Elszabet. Ha trascinato su di noi tutta questa follia e molta altra ancora arriverà. Deve essere fermato… lo ucciderò!

— Bill, per l’amor di Dio…

Ma Bill Waldstein aveva già ripreso a correre. Elszabet l’osservò precipitarsi attraverso il prato paludoso, cadere, rialzarsi aiutandosi con le mani, cadere un’altra volta, rialzarsi. Evitò con un agile guizzo un gruppo di tumbondé che impugnavano quelli che sembravano tubi strappati al sistema di riscaldamento di qualche edificio, agitandoli in aria come mazze da baseball. Si precipitò infine verso Tom, urlando e gesticolando. Elszabet vide Tom voltarsi verso Waldstein con un sorriso benigno. Vide Waldstein che balzava addosso a Tom ed entrambi gli uomini cadere lunghi distesi. Poi vide Alleluia strappare via Waldstein da Tom, allo stesso modo in cui si sarebbe potuto strappar via un insetto dal proprio braccio, scagliandolo in aria a una distanza di almeno quindici o venti metri, mandandolo a schiantarsi contro il tronco di un pino torreggiante.

Perfino a quella distanza Elszabet sentì distintamente lo schianto dell’impatto, quando Waldstein colpì il pino con la testa. Cadde senza una sola convulsione e rimase immobile.

Proprio in quel momento Dante Corelli arrivò di corsa da dietro l’angolo della palestra e si arrestò accanto a Elszabet. Elszabet si voltò verso di lei e le disse, quasi stesse facendo una normalissima conversazione: — Quello era Bill, hai visto? È saltato addosso a Tom e Alleluia l’ha semplicemente afferrato, e…

— Elszabet, dobbiamo andarcene da qui. Verremo tutti calpestati a morte.

— Credo che Bill sia morto, Dante. Ho sentito come la sua testa ha battuto contro l’albero…

— Dan sta arrivando dal quartier generale. Sarà qui tra un minuto e poi noi tre scapperemo nel bosco… mi hai sentito, Elszabet? Guarda, c’è una nuova marmaglia che sta salendo la collina proprio adesso. Non vedi che stanno arrivando? Santo Cristo, non li vedi?

Elszabet annuì. Il suo spirito era in preda alla confusione. Sapeva che stava affondando sempre più in quella strana paralisi della volontà. Semplicemente, prestare attenzione a ciò che stava accadendo, era diventato uno sforzo impossibile. Una marmaglia, aveva detto Dante. Dove? Sì. Oh, sì: laggiù. Stavano risalendo dal caos centrale come un’inarrestabile torrente, travolgendo ogni cosa al loro passaggio. Si stavano dirigendo verso il punto in cui si trovavano Tom e la sua piccola banda di seguaci. — Oh, Dio — mormorò Elszabet. — Tom, Tom!

Padre Christie corse in avanti, incontro ai tumbondé, agitando le braccia, gridandogli qualcosa. Offrendo una benedizione, forse. Il conforto della Chiesa in un’epoca di caos. Loro continuarono a venire avanti, passandogli sopra, e lui scomparve sotto i loro piedi. Poi toccò ad Alleluia. La donna si piantò saldamente in mezzo alla pista della folla che avanzava e con una stupefacente energia, che sembrò quasi diabolica, cominciò a prenderli su e a scagliarli contro gli alberi, uno, cinque, una dozzina di loro, facendoli volare verso la loro morte, fino a quando anch’essa non venne trascinata giù, scomparendo alla vista.

— Tom — disse Elszabet, con calma. Non riusciva più a vederlo. Né a vedere April o Menendez.

Sentì Dante che diceva a qualcuno: — È come se fosse uscita di senno. Se ne sta qui a guardare e basta.

— Ehi, Elszabet. — Era Dan Robinson. Le toccò il braccio. — Dobbiamo andarcene mentre ancora possiamo, Elszabet. Il Centro è in rovina. La folla è completamente senza controllo. Ce la squaglieremo in mezzo alla foresta e seguiremo la pista dei rododendri. D’accordo? Dovremmo riuscire a inoltrarci abbastanza in profondità cosicché loro lassù non possano darci fastidio, e…

— Devo trovare Tom — disse Elszabet.

— Probabilmente a quest’ora Tom è già morto.

— Forse. Ma forse no. E se è vivo dobbiamo trovarlo. E scoprire cos’è. Ci sono molte cose che dobbiamo sapere su di lui, su quello che sta facendo, non capisci? Per favore, Dan. Pensi che sia matta? Sì, lo pensi, lo pensate tutti e due, lo vedo. Ma ti dico che devo trovare Tom. Poi potremo andarcene. Non fino ad allora. Per favore, cercate di capire. Per favore.

7

Tom teneva la donna grassa con una mano e il messicano con l’altra, e rimase lì, fermo, calmo, mentre quella massa di gente impazzita gli passava accanto. Sapeva che non gli avrebbero fatto del male. Non adesso. Non mentre la Traversata era in corso. Lui era al sicuro, perché era il veicolo prescelto dal popolo delle stelle, e sicuramente tutti lo sapevano.

Era stato un peccato, pensò, aver perso il prete e la donna artificiale. Adesso non avrebbero mai più avuto la possibilità di fare la Traversata. Ma anche senza di loro sarebbe stato ancora possibile per lui invocare il potere. Stava diventando più facile. Tutte le volte che ne spediva un altro, la sua forza cresceva. Una grande tranquillità dominava la sua anima, il senso della divina giustezza della sua missione.

— Ecco — disse Tom. — Questo è il prossimo che spediremo.

— Doppio Arcobaleno — disse il messicano. — Sì, è un brav’uomo. Lo daremo a Maguali-ga.

Quello era un pellerossa, Tom se ne rese conto subito. Aveva visto un mucchio di pellirosse durante la sua vita. Questo era un uomo tarchiato dal naso appiattito, con i capelli scuri e lucidi, forse un navajo, forse di qualche altra tribù, ma di sicuro un indiano.

L’indiano era in piedi, la schiena rivolta a un edificio in fiamme, intento a scagliare zolle di fango contro quella folla sfrenata che passava di corsa, gridando loro qualcosa in una lingua che Tom non capiva. Il messicano si avvicinò al pellerossa e gli parlò, e il pellerossa sollevò le sopracciglia e rise; poi il messicano disse qualcos’altro, e i due uomini si diedero pacche sulla schiena, e il pellerossa si avvicinò a Tom a grandi passi.

— Dove mi manderai? — chiese.

— Sui Nove Soli. Camminerai con i sapiil.

— Troverò i miei padri, lassù?

— I tuoi nuovi padri ti accoglieranno — disse Tom.

— I sapiil — ripeté il pellerossa. — Di quale tribù si tratta?

— Della tua — disse Tom. — Da questo momento in avanti.

— Andrai da Maguali-ga — aggiunse il messicano. — Non conoscerai mai più il dolore, o la sofferenza, o il vuoto del cuore. Vai con Dio, amico Nick. Adesso per te è giunto il momento più felice.

— Stringetevi intorno a lui — li invitò Tom. — Tenetevi tutti per mano.

— Maguali-ga, Maguali-ga — intonò il messicano. Il pellerossa annuì e sorrise. C’erano lacrime ai suoi occhi.

— Adesso — disse Tom.

Fu un’ondata veloce, fulminea, e l’uomo grande e grosso scivolò facilmente al suolo e ne se andò…

Ogni volta è più facile, pensò Tom.

Condusse la donna grassa e il messicano in basso, verso il fulcro degli avvenimenti, passando davanti a un basso edificio che era stato completamente demolito e ridotto a un ammasso di assi frantumate, e verso l’autobus fermo proprio nel mezzo. Tom pensò che avrebbe potuto sedersi sui gradini dell’autobus, usandolo come una specie di piattaforma per attuare la Traversata. Ma aveva fatto soltanto pochi passi quando un uomo e una donna si avvicinarono a lui. Erano pallidi e incerti, e si tenevano per mano come se la loro vita fosse legata al fatto di riuscire a rimanere insieme. La donna era minuta e carina, con i capelli rossi e riccioluti e un volto grazioso. L’uomo era magro, la pelle scura e un’aria da intellettuale.

L’uomo indicò il pellerossa, il quale giaceva nel fango con il sorriso della Traversata sul volto. — Cosa gli avete fatto?

— È andato da Maguali-ga — dichiarò Menendez. — Quest’uomo ha nelle mani il potere degli dèi.

L’uomo e la donna dai capelli rossi si guardarono. L’uomo chiese: — È questo che è successo all’altro uomo, quello nel dormitorio?

— È andato nel Doppio Regno — disse Tom. — Oggi ho mandato qualcuno anche su Ellullimiilu, e qualcun altro a vivere con il Popolo dell’Occhio. Adesso tutto l’universo è aperto a noi.

— Mandaci sui Nove Soli! — lo supplicò la donna. — Lacy… — disse l’uomo.

— No, ascoltami, Barry. Questo è vero, lo so. Loro si uniscono per mano e lui ti spedisce. Vedi il sorriso su quel volto? Lo spirito l’ha lasciato, questo l’hai visto anche tu. Dov’è andato? Scommetto che è andato da Maguali-ga.

— Quest’uomo è morto, Lacy.

— Quest’uomo ha lasciato il corpo dietro di sé. Ascolta, se rimarremo qui ancora un poco, verremo comunque calpestati a morte. Hai visto come stanno facendo a pezzi ogni cosa da quando hanno visto il Senhor che veniva ucciso. Facciamolo, Barry. Hai detto che avevi fede, che avevi visto la verità. Bene, la verità è qui, questo è il nostro momento, Barry. Il Senhor l’aveva capito all’incontrano, tutto qui. Gli dèi non vengono sulla Terra, capisci. Siamo noi che dobbiamo andare da loro. E qui c’è l’uomo che ci manderà.

— Vieni — disse Tom. — Adesso.

— Barry? — ripeté la donna.

L’uomo pareva stordito. Aveva paura, non si fidava. Sbatté le palpebre, scosse la testa, si guardò intorno. Per aiutarlo, Tom gli mandò una visione, solo marginalmente: i nove maestosi soli in pieno fulgore. L’uomo esalò un profondo sospiro e si premette entrambe le mani contro la bocca, inarcando le spalle. Poi parve rilassarsi. La donna pronunciò di nuovo il suo nome, e un attimo dopo lui annuì. — E va bene — disse con calma. — Sì, diavolo, perché no? Non era proprio questo che cercavamo, no? — Rivolto a Tom, chiese: — Dove andremo?

— Nel regno dei sapiil — disse Tom. — L’impero dei Nove Soli.

— Da Maguali-ga — aggiunse Menendez.

Tom prese per mano la donna grassa e il messicano. Per qualche istante oscillò sui talloni.

— Adesso — disse.

Entrambi nello stesso tempo, stavolta. Prelevò l’energia dalla donna grassa e dal messicano e la fece passare attraverso il proprio corpo e mandò l’uomo e la donna dai sapiil. La facilità della cosa lo sorprese. Non l’aveva mai fatto prima di allora, due allo stesso tempo.

L’uomo e la donna dai capelli rossi scivolarono al suolo e giacquero là, supini, sorridendo del meraviglioso sorriso della Traversata. Tom s’inginocchiò e sfiorò leggermente le loro guance. Era un bellissimo sorriso, quel sorriso. Li invidiò, pensando che adesso stavano passeggiando fra i sapiil sotto quei nove soli maestosi, mentre lui era ancora lì che sguazzava nel fango. Ma questo andava bene, pensò Tom. Prima, lui aveva il suo compito da svolgere.

Riprese a scendere il pendio. Tutt’intorno a lui c’era gente che gridava e imprecava agitando istericamente le braccia nell’aria. — Pace a tutti voi — disse Tom. — Quest’oggi è il Tempo della Traversata e ogni cosa va bene. — Ma la gente continuava a passargli accanto di corsa, confusa e rabbiosa. Per un attimo Tom venne trascinato via in mezzo alla confusione, spinto e urtato violentemente da tutte le parti, e quando si trovò di nuovo fuori della calca non riuscì più a vedere la donna grassa o il messicano. Be’, presto o tardi li avrebbe ritrovati, si disse. Sapevano che era diretto verso l’autobus, e sarebbero andati là ad aspettarlo, siccome erano i suoi assistenti per effettuare la Traversata, erano parte del grande avvenimento che stava accadendo, in mezzo alla pioggia, al fango, al caos.

Qualcuno l’afferrò per il braccio, lo trattenne, lo fermò.

— Tom.

— Charley… Sei ancora qui?

— Te l’ho detto. Ti stavo aspettando. Adesso vieni con me, abbiamo il furgone che ci aspetta ancora là in mezzo alla foresta, nella radura. Devi andartene da qui.

— Non adesso, Charley. Non capisci che la Traversata è in corso?

— La Traversata?

— Sei, otto persone sono già partite per il viaggio. Ce ne saranno molte di più. Sento la forza crescere in me, Charley. Questo è il giorno per il quale sono nato.

— Tom…

— Vai al furgone e aspettami là — disse Tom. — Verrò da te fra poco e ti aiuterò a fare la tua Traversata, non appena riuscirò a ritrovare la mia gente, i miei aiutanti. Fra un’ora sarai sul Mondo Verde, te lo prometto. Lontano da tutta questa follia, lontano da tutto questo rumore.

— Uomo, tu non capisci. Qui c’è gente che rimane uccisa. Ci sono corpi calpestati dappertutto. Vieni con me, uomo. Qui per te non è sicuro, non sai come badare a te stesso. Non voglio che ti capiti qualcosa, Tom, sai. Tu ed io abbiamo viaggiato a lungo insieme, e… non so, sento che devo badare a te. — Charley prese di nuovo il braccio di Tom e lo tirò con gentilezza. Tom sentì il calore dell’anima di quell’uomo, quel grattatore, quell’assassino errante. Sorrise. Ma non poteva andarsene con lui. Non adesso. Scostò la mano di Charley dal suo braccio. Charley corrugò la fronte e scosse la testa, e fece per dire qualcos’altro.

Poi la folla impazzita sopraggiunse di nuovo, tornando indietro nella loro direzione, e Charley venne portato via, trascinato da quella marea di umanità come un ramoscello sulla superficie di un fiume rabbioso.

Tom si tolse dalla loro strada e li lasciò passare. Si muovevano col rombo di un tuono. Adesso vide che era impossibile raggiungere l’autobus. Ogni cosa era diventata troppo incontrollabile e impetuosa là sotto, nel mezzo del prato.

Gli parve di vedere la donna grassa, su un lato, e si mosse in quella direzione. Ma mentre si arrampicava sopra le assi di una piccola capanna distrutta, perse l’equilibrio sul legno scivoloso e slittò verso il basso, in mezzo all’intrico di tavole e di travi. Per un attimo rimase bloccato in quella posizione, con la gamba profondamente incastrata. Qualcosa si mosse davanti a lui e cominciò a strisciar fuori da quel mucchio di legni.

Era Stidge.

Gli occhi dell’uomo dai capelli rossi si spalancarono alla vista di Tom. — Che io sia fottuto. È il matto. Ehi, matto, fottuto piantagrane. Come mai Charley non è qui a tenerti per mano?

— Era qui. È stato trascinato via dalla folla.

— Va dannatamente male per te, non è vero? — fece Stidge.

Rise, infilò la mano nella giacca sbrindellata e tirò fuori la lancia. I suoi occhi luccicavano come palline di vetro alla luce della luna. Schiacciò la punta della lancia contro lo sterno di Tom, con forza, una, due, tre volte, tutte le volte una puntura dolorosa, penetrante. — Ehi — esclamò Stidge. — Ti ho dove ti volevo, svitato. Charley mi ha pestato una volta per colpa tua, ricordi? Quel primo giorno fuori nella Valle, quando sei arrivato tu. Mi ha fatto vomitare la merda a calci perché ti avevo messo le mani addosso. Non l’ho mai dimenticato. E poi ci sono state altre volte più tardi, quando mi sono trovato nei guai per causa tua, quando Charley mi ha parlato come se fossi soltanto un pezzo di merda. Lo sai?

— Metti via la lancia, Stidge. Aiutami a liberarmi, vuoi? — Spinse i pezzi di legno che gl’imprigionavano la gamba. — Il piede del povero Tom è incastrato. Povero Tom.

— Povero Tom, già. Il povero fottuto Tom.

— È il giorno della Traversata, Stidge. Ho del lavoro da fare. Devo trovare i miei aiutanti e mandare la gente dove è destinata ad andare.

— Sarò io a mandarti dov’eri destinato ad andare — dichiarò Stidge, e con uno scatto del dito mosse la levetta della lancia per attivare la corrente. — Proprio come ho fatto a quell’altro matto sull’autobus là in mezzo. Per una volta ho te a portata di mano, senza Charley a…

— No — disse Tom, mentre Stidge tirava indietro la lancia e la puntava sul suo petto.

Tom sollevò di scatto la mano e afferrò il polso di Stidge, tenendolo fermo per un momento, chiamando a raccolta tutte le proprie forze per impedire che quella micidiale striscia di metallo lo toccasse. Tutto il suo corpo tremava a ridosso di quello di Stidge, e per un lungo istante lottarono rimanendo in una situazione di stallo. Poi Stidge con tutte le sue forze riuscì a spostare il braccio in avanti, lentamente, molto lentamente, portando la punta della lancia sempre più vicina al petto di Tom. Ci vollero tutte le energie di cui Tom disponeva per tener lontana quella cosa da sé. Stidge la stava spingendo sempre più vicina. Tom tremava. Un dolore fiammeggiante gli serpeggiava su e giù per il braccio, fin dentro al petto. Fissò gli occhi duri e furiosi di Stidge, ormai a ridosso dei suoi.

E Tom colse l’anima di Stidge e la scagliò fino a Luiiliimeli.

Lo fece con facilità, scioltezza, come far rimbalzare di taglio un sasso sulla superficie d’uno stagno. Lo fece tutto da solo, perché doveva farlo e i suoi aiutanti non si vedevano da nessuna parte. Non c’era stato proprio nessuno sforzo. Aveva semplicemente messo a fuoco le sue energie, raccolto le forze e sollevato l’anima di Stidge, scagliandola verso il firmamento.

Stidge lo fissò con stupore. Poi la sorpresa scomparve dal suo viso per lasciare il posto al sorriso della Traversata, e la lancia gli cadde dalla mano morta… e Stidge infine si accasciò sul mucchio di assi e travi.

Tom si chinò su di lui, stupefatto, scosso, tremante, provando un senso di nausea.

L’ho fatto tutto da solo, pensò.

È stato come ucciderlo. L’ho preso su e l’ho scagliato via.

Non ho mai ucciso nessuno prima.

Poi pensò, no, no, Stidge non è morto. Stidge si trova adesso su Luiiliimeli, nella città di Meliluiilii, sotto la grande stella azzurra di Ellullimiilu. Ora sono loro ad averlo e lo guariranno di tutto il male che c’è nella sua anima. Questo non significa uccidere più di quanto non lo significassero le altre Traversate. La sola differenza è che l’ho fatto da solo, è tutto. E se non l’avessi fatto, mi avrebbe ucciso di sicuro con quella lancia, e poi non ci sarebbe più stata nessuna Traversata per nessuno.

Lo capisci, Stidge? Non ti ho ucciso, Stidge. Ti ho fatto il più grande favore della tua vita.

Tom sentì che cominciava a calmarsi. L’incertezza lo lasciò. Esaminò i pezzi di legno che l’intrappolavano, cercando di liberare il piede.

— Ecco. Ti aiuto io.

Era la donna grassa che si stava arrampicando goffa e impacciata verso di lui. Il suo volto era arrossato. Gli occhi erano strani. Gli indumenti erano strappati in uno o due punti. — In qualche modo mi sono incastrato il piede — spiegò Tom. — Dammi una mano… ecco… ecco…

— È l’uomo che ha ucciso l’altro fuori dell’autobus, non è vero? — chiese lei. — Lo stavano cercando tutti. È morto, non è vero?

— Ha fatto la Traversata. L’ho mandato su Luiiliimeli. Adesso posso attuare la Traversata senza nessun aiuto.

— Credo sia questo che t’impedisce di muoverti — disse la donna. — Ecco. — Con uno strappo sollevò un’enorme trave e la scaraventò di lato. Tom liberò la gamba e si sfregò il polpaccio. Lei gli sorrise. Tom sentì la tristezza irradiarsi da lei, dietro il sorriso.

La prese per mano e le domandò: — Dove vuoi che ti spedisca?

— Cosa?

— Adesso ho tempo per te. Posso darti la Traversata.

Lei staccò la mano dalla sua con uno scatto, come se il contatto bruciasse. — No… per… favore…

— No?

— Non voglio andare da nessuna parte.

— Ma questo mondo è perduto. Non rimane più niente, qui, soltanto dolore e sofferenza. Posso mandarti sul Mondo Verde, o i Nove Soli, o la Sfera di Luce…

— Mi spaventa anche soltanto pensarci. È come morire, vero? O forse peggio. — Il panico crebbe nella sua espressione. S’inginocchiò e raschiò il terreno sotto i propri piedi, stringendo fra le mani la lancia caduta dalla mano di Stidge. — L’idea di ricominciare tutto da capo mi spaventa, l’idea di affrontare un mondo completamente nuovo… no, no. Preferisco piuttosto morire e basta, sai? — Ogni stranezza era scomparsa dai suoi occhi. Pareva essere uscita da una lunga galleria, sbucando finalmente all’aria aperta. La sua voce, che era sempre parsa a Tom quella d’una ragazzina, adesso era una voce normale. Stava ancora parlando: — Sono stanca di essere me stessa. Di portare in giro questo grosso, orrendo corpo. Sempre con la paura addosso. Sempre piangendo. — Stava armeggiando con la levetta della lancia, cercando d’indovinare come si faceva a usarla. Ma pareva che non sapesse come funzionava. Poi la lancia cominciò ad ardere, e Tom si rese conto che in qualche modo era riuscita ad attivarla. Se la teneva puntata fra le grosse mammelle. La mano le tremava.

— No — disse Tom. Non poteva permetterle di farlo. Serrò la mano intorno al suo polso carnoso e la mandò sul mondo degli zygerone del Quinto.

Quando lei abbandonò il proprio corpo, questo crollò giù con uno schianto terribile, finendo accanto a quello di Stidge. Ma sorrideva: quella era la cosa importante. Tom prese su la lancia, la spense e la scagliò quanto più lontano poté, in mezzo agli arbusti.

Rimase rannicchiato là per un momento, per riprender fiato, recuperando l’equilibrio. Guardò i due corpi sorridenti davanti a sé e pensò: è stato come uccidere, ma li ho soltanto mandati via. Stidge mi avrebbe ucciso e lei si sarebbe suicidata, e non potevo permettere che nessuna di queste due cose accadesse. Così ho fatto quello che dovevo fare. È tutto. Ho fatto quello che dovevo fare. E questo è il giorno della Traversata, il più bel giorno della storia del mondo.

Adesso si sentiva meglio. Scese con cautela dall’edificio crollato. Il tumulto continuava. Sempre nuove costruzioni parevano incendiarsi. Tom guardò direttamente davanti a sé, attraverso un varco creatosi d’improvviso, e vide la donna alta, quella che era stata tanto gentile con lui, la dottoressa, la donna chiamata Elszabet, là, sul lato opposto. Lo stava fissando.

Tom le sorrise. Pareva che lo stesse chiamando a cenni. Lui annuì e andò da lei.

8

— Eccolo là — disse Elszabet. — Gli devo parlare. Mi aspettate?

Si voltò verso Dan Robinson, verso Dante. Ma in quel momento una torma berciante e ululante passò come un’onda tumultuosa là dove si trovavano, e quando Elszabet poté nuovamente guardare, nessuno dei due era più in vista. Le parve di udire la voce di Dan provenire da molto lontano, ma non ne fu sicura: il suono si perse nel frastuono del vento, tra le grida della marmaglia. Be’, era Tom quello che lei voleva adesso.

Era in piedi tutto solo davanti alle rovine della sala di ricreazione del personale. Quasi un miracolo, pensò, quando lo vide comparire tutt’a un tratto fuori del caos che si vedeva in quella direzione. E come sembra pacifico, per giunta! Probabilmente aveva vagato in mezzo a tutta quella follia per ore e ore senza neppure accorgersi di quello che succedeva.

— Tom? — lo chiamò.

Tom le venne incontro con passo tranquillo. Pareva non avere nessuna fretta. Guardando oltre le sue spalle, Elszabet vide un paio di figure distese su un mucchio di assi e travi divelte e sparpagliate intorno. Parevano addormentate. Una era April; l’altra pareva il grattatore dai capelli rossi che aveva ucciso il capo del culto sui gradini dell’autobus. Giacevano immobili.

Parve a Elszabet che in quel momento lei e Tom fossero le sole due persone sui terreni del Centro. Sembrava che una sfera di silenzio li circondasse.

— È la signorina Elszabet? — chiese Tom. Sorrideva in una maniera strana, esaltata. — Speravo proprio di trovarti, Elszabet. Sai cosa è successo? Questo è il tempo che ti avevo detto sarebbe arrivato, l’inizio della Traversata. Come i kusereen intendevano che accadesse a noi da sempre.

— Cos’hai fatto a Ed Ferguson?

Sempre quello strano sorriso. — L’ho aiutato a fare la Traversata.

— Lo hai ucciso… stai dicendo questo?

— Ehi, ehi! Sembri arrabbiata!

— Hai ucciso Ed Ferguson? Rispondimi, Tom.

— Ucciso? No. L’ho guidato cosicché fosse in grado di abbandonare il proprio corpo. È tutto quello che ho fatto. E poi l’ho mandato su Sapiil.

Elszabet avvertì un brivido diffondersi su per le braccia e le gambe. — E April? — chiese ancora. — L’hai guidata allo stesso modo?

— La donna grassa, vuoi dire? Sì. È andata lassù anche lei soltanto un minuto o due fa. E il pellerossa. E Stidge, quando ha cercato di uccidermi. E ho mandato via un sacco di altri, per tutta la mattinata.

Lei lo fissò, incredula, non voleva credergli. — Hai ucciso tutta quella gente? Mio Dio… Nick, April, e chi altri? Dimmelo, Tom, quanti dei miei pazienti hai ucciso, finora?

— Ucciso? — Tom scosse la testa. — Continui a dire che ho ucciso. No, no, non ho ucciso nessuno. Li ho soltanto spediti, è tutto.

— Spediti — ripeté Elszabet, con voce priva d’espressione.

— Spediti, sì. Questo è il giorno della Traversata. All’inizio avevo bisogno di quattro aiutanti per farlo. Poi di due soltanto. Ma adesso il potere in me è molto forte.

Elszabet si sentiva la gola secca e serrata. C’era una terribile oppressione nel suo petto, una specie di grido silenzioso che cercava di emergere. Ferguson, pensò, April, Nick Doppio Arcobaleno. Tutti morti. E probabilmente la maggior parte degli altri. I suoi pazienti. Tutti quelli che lei aveva cercato di aiutare. Cos’era ciò che Tom aveva fatto? Dove si trovavano adesso? Non aveva mai provato una tale, schiacciante sensazione d’impotenza, di vuoto.

Con voce tranquilla, disse: — Devi smetterla, Tom.

Lui la guardò stupito: — Smetterla? Come posso smetterla? Di cosa stai parlando, Elszabet?

— Non puoi più fare nessuna Traversata, Tom. È tutto: non puoi e basta. Te lo proibisco. Non te lo permetterò. Capisci cosa sto dicendo? Sono responsabile di questa gente, di tutti i pazienti che si trovano qui…

Lui parve non capire: — Ma non vuoi che siano felici, Elszabet? Felici per la prima volta nella loro vita? — Ancora quello strano, estatico sorriso. — Come posso smettere? È per questo che sono stato posto sulla Terra.

— Per uccidere la gente?

— Per guarire la gente — disse Tom. — La stessa cosa che fai tu. Non ho mai ucciso nessuno, neppure Stidge. La donna grassa adesso è felice. E Ed. E il pellerossa. E Stidge, anche Stidge. E tu… posso farti felice, adesso, subito. — Si sporse verso di lei e il suo sorriso divenne ancora più intenso. — Ti spedirò adesso, Elszabet. D’accordo? D’accordo. È questo che vuoi, no? Lascerai che ti spedisca adesso?

— Stai lontano.

— Non dire questo. Ecco. Dammi la mano, Elszabet. Ti manderò sul Mondo Verde. So che è là che vuoi andare. So che è là che potrai essere felice. Non qui. Non c’è niente qui, per te. Il Mondo Verde, Elszabet.

Protese la mano verso di lei. Elszabet cacciò un rantolo e si tirò indietro.

— Perché hai paura? È il Tempo della Traversata. Voglio così tanto spedirti. Perché… perché… — esitò, cercando le parole, abbassando lo sguardo sui propri piedi. Il colore gl’imporporò le guance. Elszabet vide le lacrime che continuavano a luccicargli negli occhi. — Non ti farei mai del male. — La sua voce era esitante, impastata. — Non a te. Mai. Non farei male a nessuno, ma specialmente non a te. Io… — tartagliò. — Ti amo, Elszabet. Lascia che ti spedisca. Per favore.

— Ma non voglio… — lei cominciò a dire, e s’interruppe a metà frase quando una potente ondata di stordimento e di torpore la investì. Lottò per respirare. Era successo qualcosa… Le sue parole, le sue lacrime, il vento, la pioggia, tutto allo stesso tempo le precipitò addosso trascinandola via. Si sentì oscillare, così come aveva oscillato tante altre volte quando il terremoto aveva rombato attraverso il suolo sotto i suoi piedi, quella vecchia familiare sensazione di movimento improvviso e stupefacente, il mondo che si staccava dai propri ormeggi.

Un grande abisso si stava spalancando davanti a lei, e Tom l’invitava a saltare dentro. Trattenne il fiato e lo fissò stupita, sgomenta e tentata, e sgomenta nel rendersi conto di quant’era tentata.

— Per favore! — ripeté Tom.

C’era un ruggito nei suoi orecchi. Fare la Traversata. Abbandonare il corpo. Permettergli di fare a lei ciò che aveva fatto a Ed Ferguson, ad April, a Nick. Porgergli la mano, lasciargli fare il suo numero, crollare ai suoi piedi, giacere là lunga distesa, morta e sorridente nella melma.

No. No. No. No.

Era pazzesco. Tutti quei discorsi di altri mondi, di viaggi istantanei. Come potevano esser veri anche soltanto in parte? Quando Tom spediva la gente, questa moriva. Doveva esser questo che gli succedeva, giusto? Lei non voleva morire. Non era mai stato questo il suo desiderio. Lei voleva vivere, fiorire, aprirsi, sbocciare, germogliare. Voleva sentire un po’ di pace nella sua anima, giusto una volta nella sua vita. Ma non morire. Morire non era una risposta, di nessun genere.

Eppure… eppure… se ciò che Tom offriva non fosse stato affatto la morte, ma la vita, una nuova vita, una seconda possibilità…

Avvertì un’attrazione sopraffacente, una tentazione irresistibile… il Mondo Verde, quel luogo meraviglioso di gioia e bellezza, così vivo, così reale. Come poteva non essere reale? Le fotografie del Progetto Sonda Stellare, il sorriso sul volto di Ed Ferguson, quella sensazione di assoluta convinzione e fede che Tom irradiava…

… Allora perché no, perché no, perché no?

— D’accordo, non ho paura — si sentì dire.

— Allora dammi la mano. Questo è il momento. Ti aiuterò a fare la tua Traversata adesso, Elszabet.

Lei annuì. Era come qualcosa che le stesse accadendo in un sogno. Basterà che tu gli dia la mano, e lasci che ti spedisca sul Mondo Verde. Basterà che tu ceda e galleggi verso l’alto, e poi via. Via. Sì, perché no? Perché no? Pensò al sorriso beatifico di Ed Ferguson, al sorriso di April. Poteva esserci qualche dubbio? Tom aveva il potere. Il cielo si stava spalancando e tutte le barriere erano cadute. D’un tratto Elszabet sentì la vicinanza di quella immensità buia e silenziosa che era lo spazio interstellare, subito al di là delle nubi basse e dense, e non la terrorizzava affatto. Dagli la mano, Elszabet. Lascia che ti spedisca. Vai. Vattene da questo povero mondo stanco, questo povero luogo rovinato… perché rimanere? Ogni cosa è finita. Di’ addio al mondo e vai. Guarda cos’è successo al Centro. Questo era l’ultimo rifugio, e adesso anch’esso è scomparso. Qui non è rimasto più nessuno di cui tu possa prenderti cura.

— Sei stata così buona con me, sai — stava dicendo Tom. — Non c’è mai stato nessuno che sia stato tanto buono con me, prima. Tu mi hai accolto, mi hai dato un luogo dove rimanere, mi hai parlato, mi hai ascoltato. Mi hai ascoltato. Tutti pensano che io sia pazzo, e questo va bene, poiché alla maggior parte della gente piace lasciare tranquillo un matto. Era più sicuro così. Ma tu sapevi che io non ero pazzo, vero? Lo sai adesso. E adesso ti darò ciò che vuoi maggiormente. Metti la mano nella mia. Lo farai, Elszabet?

— Sì. Sì.

Elszabet allungò la mano verso di lui in attesa.

Sentì qualcuno che gridava il suo nome, in un tono peculiare e disperato, scandendo le sillabe con voce rotta. El Sza Bet. El Sza Bet. Quel bizzarro momento ipnotico s’infranse, Elszabet tirò indietro la mano e si guardò intorno. Dan Robinson stava arrivando di corsa. Pareva esausto, quasi sul punto di crollare.

Dan fissò Tom con indifferenza, senza interesse, come se non l’avesse riconosciuto. Rivolto a Elszabet le disse, con un tono di voce smorto e privo d’inflessione: — Avremmo dovuto battercela un’ora fa. Stanno sparando. Hanno armi, laser, Dio sa cosa. Sono tutti impazziti da quando il loro capo è stato assassinato.

— Dan…

— Ogni via d’uscita da qui è bloccata. Moriremo tutti.

— No — lei ribatté. — C’è ancora una via d’uscita.

— Non capisco.

Elszabet indicò Tom. — La Traversata — spiegò. — Tom ci manderà via da qui. Sul Mondo Verde. Robinson la fissò con occhi sgranati.

— Questo posto è finito — proseguì Elszabet. — Il Centro, la California, gli Stati Uniti, il mondo intero. Noi l’abbiamo distrutto, Dan. Ci siamo intrappolati da soli, inciampando e finendo lunghi distesi; abbiamo insudiciato il nostro stesso nido. Ogni cosa è impazzita. Quanto tempo credi che ci vorrà prima che incomincino a sganciare di nuovo la polvere rovente? O, questa volta, le bombe? Ma questo accadrà soltanto qui, sulla Terra. Là fuori, tutto sarà diverso.

Dan Robinson la guardava a bocca spalancata. — Parli seriamente, vero?

— Sono assolutamente seria, Dan.

— Incredibile. Pensi di poter andare su qualche altro mondo, così?

— Ferguson l’ha fatto. E April. E Nick.

— È completamente insensato.

— Puoi vedere il sorriso sui loro volti. È pura beatitudine. Tu sai che sono andati sui mondi delle stelle, Dan.

Robinson si voltò verso Tom e lo studiò con vivo stupore. Tom sorrideva, annuiva, era raggiante.

— Ci credi davvero, Elszabet? Lui fa schioccare le dita, e tu parti… così?

— Sì.

— E se anche fosse vero? Riusciresti ad abbandonare tutto, tutte le tue responsabilità, per battertela sul Mondo Verde? Riusciresti a farlo?

— Quali responsabilità? Il Centro… lo stanno facendo a pezzi, Dan. E se resteremo qui, verremo comunque uccisi dai tumulti. L’hai detto tu stesso, due minuti fa, non te ne ricordi?

Lui la guardò. Pareva sconcertato.

— Ci ho pensato — proseguì Elszabet. — Anche se riuscissimo a fuggire da questa folla, io non voglio più rimanere qui. È tutto finito per me, qui. Ho fatto del mio meglio, Dan. Ho tentato, onestamente ho tentato. Ma è tutto distrutto. Adesso voglio andarmene, e iniziare una seconda volta da qualche altra parte. Non ha forse senso tutto questo? Tom ci manderà sul Mondo Verde.

— Noi?

— Noi, sì. Tu ed io. Ci andremo insieme. Ecco, metti le tue mani nelle sue. Fallo, Dan. Su, metti le tue mani nelle sue.

Dan Robinson arretrò di un passo e portò di scatto le mani dietro la schiena, come se lei avesse tentato di versarci sopra olio bollente. I suoi occhi erano luminosi. — Per l’amor di Dio, Elszabet!

— No. Per amor nostro.

— Dimentica tutte queste sciocchezze. Senti, forse possiamo ancora riuscire a scappare attraverso la foresta. Vieni con me…

— No, vieni tu con me.

Ancora una volta lei protese la mano verso di lui. Dan si ritrasse ancora più in là. Tremava, e la sua pelle aveva assunto una colorazione quasi gialla.

— Non abbiamo più tempo, Elszabet. Vieni. Noi tre, giù per la strada della foresta, lungo la pista dei rododendri…

— Se è questo che vuoi fare, Dan, sarà meglio che tu vada.

— Non senza di te.

— Non essere assurdo. Vai!

— Non posso lasciarti qui a morire.

— Non morirò. Ma potrebbe succedere a te, se non te ne andrai adesso. Ti auguro ogni bene, Dan. Forse ti rivedrò un giorno. Sul Mondo Verde.

— Elszabet!

— Pensi che io sia totalmente pazza, vero?

Lui scosse la testa e corrugò la fronte, e allungò una mano verso di lei come per trascinarla via a forza attraverso la foresta. Ma non riuscì a indursi a toccarla. Le sue mani si librarono a mezz’aria e là si arrestarono, come se temesse che ogni contatto diretto con lei potesse in qualche modo scagliarli tutti e due a precipizio verso le stelle. Per un momento rimase pietrificato, silenzioso. Aprì la bocca ma non ne uscì nessuna parola, soltanto un singhiozzo soffocato. Si sporse più vicino a lei e le dette un’ultima occhiata, poi si girò e schizzò via di corsa fra due edifici distrutti, scomparendo alla sua vista.

— Va bene — disse Tom. — Adesso sei pronta ad andare, Elszabet?

— Sì — rispose lei. Ma poi aggiunse: — No. No…

— Ma eri pronta un momento fa!

Lei gli fece segno di arretrare. Gli orecchi le rombavano di nuovo, questa volta ancora più forte. Scrutò la penombra spazzata dalla pioggia, cercando di scorgere ancora Dan Robinson. Ma se n’era andato. — Lasciami pensare — disse. Tom cominciò a dire qualcosa, ma lei fece un gesto ancora più urgente del primo. — Lasciami pensare, Tom.

Ci credi davvero? aveva detto Dan. Lui fa schioccare le dita, e tu parti, così?

Non lo so, pensò Elszabet. Ci credo davvero?

E poi Dan aveva detto: Riusciresti ad abbandonare tutto, a tralasciare le tue responsabilità, a battertela sul Mondo Verde?

Non ne sono sicura, pensò. Posso farlo? Posso?

Tom la stava osservando senza dire niente. La lasciava pensare. Lei se ne stava lì immobile, tentennante, smarrita nei dubbi.

Ci credo? Sì, pensò. Sì, perché non c’è nessuna vera alternativa. Ci credo perché devo crederci.

E posso scrollarmi di dosso le responsabilità e andarmene? Sì, le mie responsabilità qui sono finite. Il Centro è stato distrutto. I miei pazienti se ne sono andati. Qui non mi è rimasto più nessun lavoro da fare.

Scrutò di nuovo in distanza davanti a sé cercando Dan Robinson. Sarebbe stato così bello, pensò, se lui fosse andato insieme a lei. Loro due che ricominciavano la propria vita sul Mondo Verde. Imparando di nuovo a vivere, imparando ad amare. Avrebbe funzionato, pensò. No. No. Ma invece lui era fuggito nella foresta. D’accordo. Se era questo che aveva bisogno di fare, che lo facesse pure. Lui non capisce. Il suo Tempo non è arrivato, non ancora.

— Credo che adesso tu sia pronta — disse Tom.

Elszabet annuì. — Andiamo via tutti e due, Tom. Io e te insieme, sul Mondo Verde. Non sarebbe una bella cosa? Saremmo entrambi cristallini, insieme, e faremmo una passeggiata fino al Palazzo d’Estate e potremmo ridere e parlare di questo giorno, di tutta questa pioggia, del fango dappertutto, della follia che ci circondava. Sì. Sì. Cosa ne dici? Quando spedisci me, spedisci anche te stesso. Lo farai?

Tom rimase silenzioso a lungo.

— Vorrei poterlo fare — dichiarò alla fine, con voce sommessa, tenera. — Tu sai che adesso è la cosa che vorrei di più. Venire sul Mondo Verde insieme a te, Elszabet. Vorrei poterlo fare. Vorrei tanto poterlo fare.

— Allora fallo, Tom.

— Non posso venire — rispose. — Devo rimanere qui. Ma per lo meno posso aiutarti. Ecco, dammi le mani.

Tese una volta ancora le mani verso di lei. Elszabet tremava tutta. Ma questa volta non si tirò indietro. Era pronta, sapeva che era giusto.

— Arrivederci, Elszabet. E, sì, grazie per avermi ascoltato, sai. — La sua voce era dolcissima, e c’era una nota che pareva quasi addolorata, ma non sul serio. — Questo ha significato molto per me — proseguì. — Quando venivo nel tuo ufficio e tu mi ascoltavi. Nessuno l’aveva mai fatto, prima, salvo Charley, qualche volta, ma era diverso, con Charley. Charley non è come te.

Com’è triste, pensò Elszabet. Io posso andare, e Tom, che ha fatto tutto questo per me, deve rimanere.

— Vieni con me — gli disse.

— Non posso — rispose Tom. — Devi andare senza di me. Va bene?

— Sì. Va bene.

— Adesso — disse Tom.

Le serrò entrambe le mani con forza. Elszabet tirò un respiro lungo e profondo, e aspettò. Una sensazione di felicità e di grazia crebbe dentro di lei. Era meravigliosamente calma e sicura. Aveva fatto del suo meglio, qui. Ma adesso era veramente giunto il momento di andarsene. Una nuova vita sarebbe cominciata per lei su un nuovo mondo. Le parve di non aver mai conosciuto una simile certezza prima di allora. Avvertì all’improvviso una nuova tensione, una tensione che non aveva mai provato prima, una sorta di sospensione dell’anima; e poi venne la liberazione. L’ultima cosa che vide fu il volto addolorato di Tom, pieno d’un disperato amore per lei. Poi il colore verde si levò intorno a lei come una fontana di luce gioiosa e si sentì volar via, iniziando il meraviglioso viaggio verso l’esterno.

9

Adesso pareva un campo di battaglia. La pioggia cadeva con forza più rabbiosa che mai, e i prati, i giardini e le aiuole erano ridotti a un gran mare di melma, e tutti gli edifici erano frantumati o incendiati o entrambe le cose. C’era gente che andava in giro come accecata, barcollando in mezzo alla tempesta, e altri erano rannicchiati dietro alle automobili e agli autobus e si sparavano addosso. Tom rivolse un’ultima occhiata alla donna sorridente distesa ai suoi piedi e si allontanò, udendo ancora la voce di Elszabet che diceva: — Vieni con me — e la sua che replicava: — Non posso, non posso, non posso.

Come avrebbe potuto andare adesso, quando la Traversata era appena cominciata?

Si chiese se sarebbe mai riuscito ad andare. C’era così tanta gente da spedire, ed era lui il solo ad avere il potere, no? Forse avrebbe potuto insegnarlo ad altri, in qualche modo. Ma anche così, erano tanti quelli che dovevano andare! E pensò di nuovo, come aveva fatto spesso altre volte, a Mosé, il quale aveva guidato il suo popolo fino alla terra promessa per poi vederla soltanto da fuori, e il Signore che gli diceva: Ho fatto in modo che tu la vedessi con i tuoi occhi, ma tu non andrai laggiù. Era quello che sarebbe successo a lui.

Tom sollevò lo sguardo verso il cielo, cercando di penetrare le nubi con lo sguardo e vedere le stelle. Quegli imperi dorati in attesa. Quegli esseri simili a dèi. Quelle città risplendenti, vecchie di milioni di anni.

Voi là fuori, voi kusereen che avete progettato tutto questo… è questo il vostro piano, usarmi soltanto come uno strumento, il veicolo, e poi lasciarmi qui, una volta che il mondo sarà finito?

Non poteva credere che fosse così. Non voleva crederlo. Nel momento stesso della fine sarebbero venuti a prendere anche lui. Avrebbero dovuto farlo una volta che tutti gli altri avessero compiuto la Traversata. Ma forse no. Forse lo avrebbero lasciato lì, tutto solo. Come poteva pretendere, lui, di capire i kusereen? Be’, pensò, se dovrà essere così, sarà così. Lo scoprirò soltanto quando verrà il momento.

Nel frattempo c’è del lavoro da fare.

Charley si avvicinò a lui, avvolto nel fango.

— Eccoti qua — gli disse. — Credevo che non sarei riuscito a trovarti mai più.

Tom sorrise. — Sei pronto per la Traversata, adesso, Charley?

— Lo stai facendo davvero? Stai spedendo via la gente, sul Mondo Verde e tutto il resto?

— Proprio così — confermò Tom. — È tutta la mattina che li spedisco via. Su mondi diversi, il Mondo Verde, i Nove Soli, e tutti gli altri. Ho spedito perfino Stidge. Stava per colpirmi con la sua lancia, e io l’ho spedito.

Charley lo fissava con gli occhi sgranati: — L’hai spedito, non è vero? Dov’è andato?

— Luiiliimeli.

— Loollymooly. Buon vecchio Loollymooly. Spero che sia felice lassù, quel dannato Stidge. Andare a vivere su Loollymooly! — Charley scoppiò a ridere. Guardò qualcosa oltre le spalle di Tom. Per un attimo parve smarrito nei propri sogni di altri mondi. Poi rimise a fuoco la sua attenzione su Tom e disse con voce diversa, rapida ed efficiente: — Va bene, battiamocela da questo posto, Tom.

— Non posso, ancora. Prima ho ancora alcune cose da fare…

— Cristo, oh, Cristo, Tom, cosa c’è che non va? Andiamo a cercare il furgone e mettiamoci in viaggio, prima che uno di questi matti ci faccia fuori. Non riesci a capire? Si stanno sparando addosso dappertutto qui intorno.

— Non vuoi fare la Traversata, Charley?

— Grazie lo stesso — disse Charley. — Non è quello che ho in mente in questo momento.

— Ti darò il Mondo Verde, di sicuro.

— Grazie lo stesso — ripeté Charley. E poi disse qualcos’altro, ma Tom non riuscì a capire. Tutto quel rumore, le grida, il tambureggiare della pioggia. La folla passò di nuovo accanto a loro come una marea montante e Charley venne trascinato via. Tom scrollò le spalle. Be’, forse non era ancora giunto il momento di Charley. Continuò ad avanzare. Intorno a lui la gente scivolava e slittava e cadeva un po’ dappertutto. Di tanto in tanto qualcuno si girava verso di lui con quello che pareva un appello nello sguardo, e Tom lo toccava e lo spediva su uno di quei mondi accoglienti. Qualche attimo dopo vide un altro volto familiare emergere dalla confusione, un uomo dalla pelle ruvida, butterata, gli occhi d’un gelido azzurro. — Ehi, Buffalo — gli disse Tom. — Come va?

— Ehi, Tom. È Charley quello laggiù, non è vero?

Tom si voltò. Per un istante intravide ancora una volta Charley, il quale cercava di aprirsi la strada fra sette od otto individui frenetici. — Sì — annuì Tom. — È Charley. Ero con lui, prima, ma siamo stati separati. Guarda, eccolo che arriva.

Charley eruppe tra la folla e corse fino a loro. Aveva il respiro affannoso, il volto reso lucido dalla pioggia e dallo sforzo. — Ehi, Buffalo — esclamò. — Cristo, sono contento di vederti.

— Charley, ehi. C’è nessun altro in giro?

— Nessuno. Non è rimasto nessuno, tranne noi due. Forse Mujer, ma non ne sono sicuro. Andiamo a cercare il furgone, d’accordo? Dobbiamo battercela da questo posto.

— Ci puoi scommettere — dichiarò Buffalo.

— E tu, Tom? — chiese Charley. — Tu vieni con noi. Andremo a sud, proprio come abbiamo detto.

Tom annuì. — Forse fra poco, qualche ora.

— Ci andiamo adesso — disse Charley. — Restare ancora qui è da matti.

— Allora andate senza di me.

— Per l’amor di Cristo…

— Devo restare qualche ora ancora — spiegò Tom. — Qui la gente ha bisogno di me. Non posso andarmene, non ancora. Fra non molto, certo, forse al tramonto. — Sì, pensò dentro di sé, forse al tramonto. Per allora avrebbe fatto tutto quello che era indispensabile lì, in quel posto, e avrebbe potuto proseguire. Si era fatto degli amici, lì in quel posto, e li aveva spediti alle stelle. Adesso avrebbe spedito qualcuno di quegli altri, quelli che avevano seguito l’ometto di San Diego dalla pelle scura, il tassista. E poi sarebbe andato a cercare Charley e Buffalo e se ne sarebbe andato con loro. Sarebbe andato da qualche altra parte. Si sarebbe fatto altri amici. Avrebbe spedito anche loro. — Voi andate a cercare il furgone — disse Tom. — Vi ci vorrà un po’ di tempo. Più tardi, forse, verrò a raggiungervi là nel bosco, d’accordo?

Tom fissò il bosco al di là dei due, e gli parve di vedere Elszabet laggiù.

Che gli sorrideva. Vieni con me, gli aveva detto. Non posso, lui le aveva risposto. D’accordo, come vuoi tu. Povero Tom. Faceva fatica a pensare a lei. Dovunque si trovasse adesso. Sul Mondo Verde, ecco dov’era. Per lo meno, lui le aveva detto di amarla. Per lo meno era riuscito a dirle questo. Vieni con me, era quello che lei gli aveva detto. Quando pensava a questo, a ciò che lei gli aveva detto, gli veniva voglia di piangere. Ma non poteva permetterselo. Oggi non aveva il tempo di piangere. Forse più tardi, adesso c’era troppo lavoro da fare. Scendi là in basso dove c’è tutta quella gente, toccala, aiutala ad andarsene. Elszabet brillava nella sua mente con lo splendore d’un nuovo sole. Vieni con me, vieni con me, non posso, non posso, aveva detto lui. Scosse la testa.

Charley e Buffalo erano ancora là, immobili, che lo fissavano.

— Hai davvero intenzione di restare? — gli chiese ancora una volta Charley.

— Soltanto qualche ora ancora — rispose di nuovo Tom, con voce sommessa. — Poi, forse, vi raggiungerò. Tu vai a cercare il furgone, d’accordo, Charley? Vai a cercare il furgone.

10

A Dan Robinson pareva di aver corso per ore, sempre avanti, a grandi falcate, senza fare nessuno sforzo, il suo cuore pompava come una specie di macchina che non si stancava mai, le gambe lo conducevano senza soste sopra il terreno inzuppato. Sapeva che era la rabbia a permettergli di continuare a correre a quel modo. Ribolliva d’una rabbia così intensa che riusciva a contenerla soltanto grazie alla sua fuga cieca e furiosa in mezzo alla foresta. Una bizzarra follia si era scatenata per il mondo, il Centro in rovina, Elszabet andata… Elszabet andata…

Ecco, metti le mani nelle sue, lei gli aveva detto. Fidati di me e fallo, Dan. Fallo. Metti le mani nelle sue.

Non aveva nessuna idea di dove si trovava. Ormai poteva esser finito sul lato opposto della foresta, o forse aveva soltanto girato in tondo, attraversando e riattraversando il suo sentiero. Qui non c’erano cartelli che indicassero la strada. Una gigantesca sequoia era uguale alla successiva. Il cielo, quel poco che riusciva a distinguere in mezzo alle cime di quegli alberi immensi, adesso era buio. Ma che questo fosse dovuto al fatto che la sera stava arrivando, oppure semplicemente fosse un effetto del peggiorare della tempesta, non avrebbe saputo dirlo.

Sapeva che non sarebbe riuscito a correre ancora per molto. Ma aveva paura di fermarsi. Se si fosse fermato, avrebbe dovuto pensare. E c’erano troppe cose a cui non voleva pensare in quel momento.

Tom ci manderà sul Mondo Verde, aveva detto Elszabet. Tu ed io. Ci andremo insieme. Lei era parsa così calma, così sicura di sé. Questa era la parte peggiore della cosa, la sua calma. Riusciva ancora a sentirla mentre diceva: Adesso voglio andarmene, e iniziare una seconda volta da qualche altra parte. Non ha forse senso tutto questo? Tom ci manderà sul Mondo Verde. In quel momento Elszabet era stata al di là della sua portata. Vedendola così, era stato prossimo a cedere. Tutto quello che aveva potuto fare era stato voltarle le spalle e fuggire di corsa; e non aveva ancora smesso di correre.

D’un tratto vi fu un suono improvviso nella sua mente, simile al lontano rombo del mare. Raggi guizzanti di luce verde danzavano nelle profondità della sua mente. Dunque non c’era modo di sfuggire alle visioni, neppure là fuori. Era ancora contagiato da quella follia collettiva.

No, pensò. Esci dalla mia testa!

Tom ci spedirà sul Mondo Verde, gli aveva detto Elszabet. Tu ed io. Robinson si chiese se sarebbe stato in grado d’impedirle di farlo, se fosse rimasto al suo fianco. Se avesse cercato di ragionare con lei. Se l’avesse trascinata lontano da Tom con la forza, se fosse stato necessario. No, dannazione, non avrebbe potuto fare niente del genere. Lei aveva deciso. Aveva ceduto completamente. Forse, pensò, era stato vedere la folla che distruggeva il Centro a farle perdere la ragione. Avrebbe voluto prenderla per le spalle e scuoterla. Dirle che era una follia suicida, consegnarsi a qualunque potere Tom avesse… mettere le sue mani in quelle di lui, e crollare al suolo morta con quel dannato sorriso di beatitudine sul volto.

Il rumore del mare divenne più intenso: una risacca che si schiantava sulle rocce. L’aria stava diventando pesante intorno a lui, una spessa coltre verde: udì una musica lontana, un debole suono tintinnante, come di tanti aghi d’argento.

Sentì la punta di una scarpa urtare contro la serpeggiante radice affiorante d’una colossale sequoia. Barcollò, roteò su se stesso e si trovò scagliato contro il suolo. Lottando per recuperare l’equilibrio, sventolando le braccia mentre scivolava e incespicava, la cosa migliore che poté fare fu di abbassare la testa contro il petto cercando di rotolare accompagnando la caduta… quando gli mancarono i piedi di sotto e atterrò duramente sulla spalla e il fianco sinistro.

Per qualche istante giacque là, stordito, bocconi, le braccia allargate lontano dal corpo, la guancia in una pozzanghera gelida. Non fece nessun tentativo per rialzarsi. Adesso per la prima volta avvertiva la fatica dovuta alla lunga corsa in mezzo alla pioggia: brividi, spasmi muscolari, ondate di nausea. La luce verde divenne più brillante nella sua mente. Non era in grado di far niente per tener lontana quella visione che si stava precipitando su di lui come una cascata. Il cielo verde, la nebbia lanosa, quella musica complicata, quegli splendenti padiglioni…

Esci dalla mia testa… - Era un suono aspro, disperato, mentre picchiava i pugni contro il suolo inzuppato di pioggia.

Vide le figure cristalline muoversi delicate in mezzo a quel verde, impeccabile panorama. I lunghi corpi sottili, gli smaglianti occhi sfaccettati, gli esili arti luminosi come specchi. Quei prìncipi e duchi, quei signori e quelle signore. Dan ricordò quant’era stato smanioso di fare il suo primo sogno spaziale, quanto aveva agognato che quelle visioni gli invadessero la mente… e quanta eccitazione aveva provato quando finalmente una di queste gli si era manifestata. Era corso nella capanna di Elszabet, nel colmo della notte, come uno scolaretto, per dirle tutto del sogno. E adesso voleva soltanto sbarazzarsene. Per favore, pensò: vattene via. Per favore, vattene via.

Gli stavano parlando, gli stavano dicendo i loro nomi… siamo la Triade Misyline, stavano dicendo. E noi siamo i Suminoor, e noi siamo i Gaarinar, e noi…

No - disse Dan Robinson. — Non voglio sapere niente di voi. Chiunque voi siate… Voi siete fantasmi, allucinazioni.

Noi ti amiamo, gli stavano dicendo. Quel bisbiglio arcano che gli echeggiava nella mente.

Lui non voleva il loro amore. Soffocava di rabbia e di disperazione.

Qualcuno che tu conosci si trova fra noi, dicevano.

— Non me ne importa — lui ribatté, quasi irritato.

Lei vuole parlarti, gli dicevano.

Giacque là, in silenzio, freddo, umido, intorpidito… smarrito. Ma poi cominciò a udire un tipo diverso di musica, più ricca, più profonda, più permeata di calore, e una nuova voce, delicata e tintinnante e argentina come la loro, eppure in qualche modo meno aliena delle altre, che chiamava il suo nome attraverso l’immenso golfo dello spazio. Sollevò lo sguardo stupito. Lui conosceva quella voce. Al di là di ogni dubbio, lui conosceva quella voce. Così, lei era arrivata fin là, dopotutto, si disse. Poté sentire la meraviglia sbocciare e crescere in lui. Lei era arrivata davvero lassù. E questo cambia ogni cosa, no? Non osò muoversi. L’aveva sentita sul serio. Di nuovo, pensò. Per favore, di nuovo. E poi la sua voce gli giunse ancora una volta nella mente. Lo chiamava di nuovo. Sì, lui sapeva che era vero. E al suono di quella voce sentì che ogni resistenza cominciava ad abbandonarlo, e la sua rabbia e il suo dolore e la sua paura gli caddero di dosso come un mantello buttato da parte. E si alzò in piedi, chiedendosi se non ci fosse ancora il tempo di trovare Tom da qualche parte là dietro, in mezzo a quella follia, e si incamminò lentamente sotto la pioggia, verso la vivida luce che avvampava davanti a lui nel firmamento.

FINE
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