20 DICEMBRE 1970

ore 22.39


Florence Tanner attraversò il giardinetto che separava la sua piccola casa dalla chiesa e poi percorse la stradina che sbucava nella via principale. Qui si soffermò sul marciapiede e si volse a guardare la sua chiesa. Era solo un vecchio negozio trasformato in tempio, ma per lei aveva rappresentato tutto, negli ultimi sei anni. Guardò l’insegna che spiccava sul vetro dipinto : TEMPIO DELL’ARMONIA SPIRITUALE. Sorrise fra sé. Era proprio cosi. Quei sei anni erano stati i più armoniosi, spiritualmente, della sua vita.

Tornò indietro, aprì la porta chiusa a chiave, ed entrò. Il tepore era gradevole. Con un lieve brivido, accese la lampada del vestibolo. L’occhio le cadde sul tabellone degli avvisi:


Funzioni domenicali: ore 11 e ore 20

Guarigioni e profezie: ogni martedì alle 19.45

Conferenze e messaggi spirituali: ogni mercoledì alle 19.45

Rivelazioni: ogni giovedì alle 19.45

Santa comunione: il 1° sabato di ogni mese.


Posò gli occhi, poi, su un suo ritratto affisso alla parete, con sopra la scritta: The Reverend Florence Tanner. Per qualche istante si compiacque della propria bellezza. A quarantatré anni la conservava intatta: i suoi lunghi capelli rossi non avevano un filo grigio, l’alta figura giunonica non aveva perduto quasi affatto le giuste proporzioni di vent’anni addietro. Scosse il capo e, con un sorriso di autocommiserazione, pensò: vanità delle vanità.

Entrò in chiesa, l’attraversò, salì sulla pedana e si mise dietro il leggio, nella sua posa abituale. Osservò la scena: i due ranghi di sedie allineate (un innario era posato su ogni terza sedia) e immaginò di aver di fronte a sé la sua congregazione. «Miei cari» mormorò.

Li aveva avvertiti, nel corso delle precedenti funzioni, che sarebbe stata via per una settimana, che le loro preghiere sarebbero state esaudite e avrebbero avuto, finalmente, una vera chiesa di loro proprietà. E aveva chiesto loro di pregare per lei durante la sua assenza.

Florence strinse le dita sull’orlo del leggio e chiuse gli occhi. Le sue labbra si mossero mute: pregò che le venisse data tanta forza da ripulire la casa di Belasco. Era una dimora che tante cose orribili avevano insozzato. La sua era un’atroce storia di delitti e suicidi e pazzia. Pregò affinché la maledizione cessasse.

Terminato di pregare, riaprì gli occhi e guardò la sua chiesa. L’amava profondamente. E tuttavia, la possibilità di costruire una vera e propria chiesa per la sua congregazione le pareva una manna dal cielo. E poi sotto Natale… Sorrise, gli occhi le luccicavano di lacrime.

Dio era buono.


ore 23.17


Edith finì di lavarsi i denti e si guardò allo specchio: i suoi capelli castani, tagliati corti, avevano riflessi ramati, i tratti della sua fisionomia erano marcati, quasi mascolini. La sua espressione era preoccupata. Scosse il capo, spense la luce del bagno e tornò in camera da letto.

Lionel dormiva. Ella sedette sulla sponda del suo letto e lo guardò, ascoltò il suo pesante respiro. Povero caro, pensò. C’era stato tanto da fare. Alle dieci, lui era esausto e lei l’aveva persuaso ad andare a letto.

Si coricò su un fianco e seguitò a guardarlo. Non l’aveva mai visto tanto in pensiero. Le aveva fatto promettere di non allontanarsi mai da lui, una volta entrati nella casa di Belasco. Era brutta a tal punto? Lei era stata già in case infestate, tante volte, con Lionel, e non aveva mai avuto paura. E lui si era sempre mostrato calmo, perfettamente padrone di sé: era impossibile provar paura, accanto a lui.

Tuttavia, quella lì, casa Belasco, l’impensieriva al punto di raccomandarle che non s’allontanasse mai da lui. Edith rabbrividì. E se la sua presenza fosse nociva per lui? Magari lui avrebbe dovuto sciupare una parte preziosa della sua energia per badare a sua moglie, e il lavoro ne avrebbe sofferto. Questo lei non lo voleva. Sapeva quanto significasse per lui, il suo lavoro.

Eppure lei doveva seguirlo. Avrebbe affrontato qualunque cosa pur di non restare sola. Non gliel’aveva mai detto, a Lionel: ma durante quelle tre settimane di lontananza, quando lui era andato a Londra, lei era stata a un pelo dall’esaurimento nervoso, nel 1962. Non gliel’aveva detto per non turbare il suo lavoro: lui aveva bisogno di concentrarsi senza dispersioni di sorta. Quindi aveva mentito e si era sforzata di apparire allegra, quando lui le aveva telefonato dall’Inghilterra: tre volte. Solo lei lo sapeva quanto aveva pianto e patito: nonostante i tranquillanti, non riusciva a dormire, né a mangiare: aveva perso cinque buoni chili di peso, e più volte era stata tentata di farla finita per sempre. Alla fine lui era tornato, lei era andata all’aeroporto, pallida ma sorridente, gli aveva dato a intendere di aver avuto una forte influenza.

Edith chiuse gli occhi, si rannicchiò. Non era disposta a ripetere quell’esperienza. La peggiore delle case infestate era una prospettiva meno minacciosa della solitudine.


ore 23.41


Fischer non riusciva a dormire. Apri gli occhi e si guardò intorno. Si trovava a bordo dell’aereo privato di Deutsch. Buffo, sedere in poltrona su un aeroplano, pensò. Buffo, trovarsi in aeroplano. Non aveva mai volato prima d’ora, in vita sua.

Fischer si versò un’altra tazzina di caffè. Si stropicciò gli occhi e poi prese su una delle riviste che giacevano sul tavolinetto davanti a lui. Era un periodico edito da Deutsch. Che altro? egli pensò.

Ben presto la vista gli si appannò, e le parole a stampa andarono fuori fuoco. Sto tornando là, egli pensava. L’unico scampato di nove persone, ed ecco che ci tornava, come se non gli fosse bastato.

L’avevano trovato in terra, sulla veranda della casa maledetta, quel mattino di settembre del 1940, nudo, raggomitolato come un feto, percorso da brividi e con gli occhi sbarrati nel vuoto. Quando l’avevano deposto su una barella, aveva cominciato a urlare e vomitar sangue, con i muscoli induriti come pietre. Era rimasto in coma per tre mesi, all’ospedale di Caribou Falls. Quando aveva riaperto gli occhi, pareva un uomo macilento di trent’anni: e gli mancava un mese per compierne sedici. Adesso aveva quarantacinque anni: era un uomo magro, dai capelli grigi e gli occhi scuri, dall’espressione sospettosa, all’erta, dura.

Fischer si raddrizzò sulla schiena. Non importa, stavolta è diverso, pensò. Non era più il quindicenne ingenuo e sprovveduto di allora, non era più il pollastro credulone del 1940. Le cose sarebbero andate diversamente stavolta.

Non se l’era mai neanche sognato, però, che un giorno sarebbe tornato in quella casa infernale, per una rivincita. Dopo la morte di sua madre era andato in California. Forse, ragionò in seguito, forse per mettere la maggior distanza possibile fra sé e il Maine. Là, a San Francisco e Los Angeles, aveva commesso alcune maldestre frodi, deliberatamente, per alienarsi tanto gli spiritualisti quanto gli scienziati, e non aver più nulla a che fare con loro. Per trent’anni aveva solo vegetato, guadagnandosi da vivere come lavapiatti, bracciante, venditore ambulante, guardiano… qualunque mestiere gli consentisse di non usare il cervello.

Eppure, in qualche modo aveva preservato la sua antica capacità. Quel fuoco ch’era in lui non s’era spento. Se anche non era più spettacolare come allora, quella sua facoltà era ancora intatta, ed era sostenuta, adesso, dall’accortezza e cautela di un uomo, non più affidata alla mercé di un avventato arrogante ragazzetto. Egli era pronto a dar briglia alle sue assopite forze psichiche, pronto a esercitarle nuovamente, metterle ancora a dura prova. Contro l’orrido, contro il mistero.

Contro la Casa d’Inferno.

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