23 DICEMBRE 1970

ore 6.47


Quell’urlo lontano fendette come una lama il sonno di Edith. E si svegliò di soprassalto, sgranando gli occhi, con la mente confusa. Udì un fruscio e volse il viso. Lionel si era sollevato su un gomito, e la guardava. «Che cos’è stato?» lei domandò.

Barrett scosse il capo.

«Voglio dire, era reale?»

Barrett non le rispose.

Un secondo urlo le fece trattenere il fiato. Barrett disse: «Miss Tanner». E buttò le gambe fuori del letto cercando coi piedi le pantofole. Edith si tirò su. Di nuovo trattenne il fiato, vedendo che a Lionel cedevano le gambe. Egli ricadde contro il letto, mugolando per il dolore al pollice.

«Ti senti bene?» ella domandò.

Egli annuì brevemente e di nuovo si tirò in piedi, afferrando il suo bastone. Edith si alzò, si infilò la vestaglia trapunta. Seguì Lionel sulla porta. Egli l’aprì, uscirono sul corridoio. Lionel zoppicava in malo modo. Edith, al suo fianco, si allacciò la vestaglia. Guardò verso la porta di Fischer. Avrà udito anche lui, di certo.

Barrett si fermò davanti alla porta di Florence Tanner e bussò tre volte, in rapida successione. Poiché nessuno rispose, egli spinse il battente ed entrò. La stanza era immersa nell’oscurità. Edith sentì i suoi muscoli irrigidirsi, mentre Lionel premeva il pulsante dell’interruttore.

Florence giaceva supina, con le braccia conserte sul petto. Barrett si avvicinò al letto, Edith lo segui. «Che cos’è?» lui domandò.

Florence lo fissò con due occhi in cui era dipinto il dolore. Lui si chinò, con una smorfia a causa dei muscoli ammaccati, e pronunciò: «Miss Tanner».

Ella rabbrividì, conficcò i denti nel labbro inferiore per non mettersi a piangere. Lentamente poi disciolse le braccia. Barrett cominciò a sbottonarle la camicia da notte. Edith guardò e vide due chiazze umide sull’indumento, in corrispondenza col seno della medium. Florence chiuse gli occhi. Barrett scostò i lembi della camicia da notte. Edith si sentì agghiacciare.

Sul seno di Florence c’era il segno di due profondi morsi, intorno ai due capezzoli.

Di scatto Florence tirò su le coperte, fino al mento. Per quanto cercasse di trattenersi, un singhiozzo convulso le uscì dalla gola. «Pianga pure» le disse Barrett. Florence di nuovo singhiozzò. Due lacrime le scesero lungo le gote.

Edith guardò Florence che piangeva. Per la prima volta da quando s’erano incontrate, ora la medium appariva vulnerabile, ed Edith sentì un moto di simpatia. «Posso fare qualcosa per lei?» domandò.

Florence scosse la testa. «È passata.»

In quella entrò Fischer e, venendo avanti, domandò: «Cosa è successo?».

Florence esitò, prima di scostare le coperte per un breve momento. Edith cercò di non guardare, ma non ci riuscì. Le tremò il fiato, quando vide di nuovo quei segni di denti sul seno della medium.

Questa disse: «Vuole punirmi».

Edith si volse verso Lionel, che fissava la medium senza alcuna espressione.

«L’ho trovato, ieri sera» disse Florence. «Daniel Belasco.»

Seguì un pesante silenzio. Barrett appariva imbarazzato. Florence riuscì a sorridere. «No, non è immaginazione.» Si pose una mano sul seno: «Sarebbero immaginari, questi?».

Barrett fece un gesto vago.

«Il suo corpo è nella cantina.»

Edith capiva fino a che punto Lionel si sentisse a disagio. Sì, lo sapeva, lui avrebbe voluto mostrarsi comprensivo: ma non riusciva a trovare parole che non la ferissero.

«Lei mi darà una mano a esumare la salma?» domandò Florence.

«Lo farei ma, dopo ieri sera, temo di non essere in grado di affrontare pesanti fatiche.»

Florence lo guardò incredula. «Ma, dottore, lui è là dentro. Non significa nulla, questo, per lei?»

«Miss Tanner…»

Florence si rivolse a Fischer: «Mi aiuterà lei, allora?».

Fischer la guardò in silenzio. Sì, aveva udito l’urlo, si rese conto Edith tutt’a un tratto: l’aveva udito ma aveva avuto paura di muoversi, prima che arrivasse Lionel. E adesso aveva paura di offrirle il suo aiuto. Non c’era da stupirsi. Quando accadeva qualcosa di violento, Miss Tanner era sempre là.

Non ottenendo risposta, Florence strinse i denti e ricacciò un singhiozzo in gola. «Va bene, me la sbrigherò da sola.» Il dolore dei morsi parve sopraffarla, e chiuse gli occhi.

«Io l’aiuterò» disse Fischer.

Florence riaprì gli occhi e tentò di sorridere. «Grazie.»

Barrett prese Edith sottobraccio e fece per andarsene.

«Ha paura ch’io possa aver ragione, dottore?» gli chiese Florence.

Barrett la guardò, riflettendo. Poi alla fine annuì. «Sta bene. Verremo di sotto con lei. Ma io non posso scavare, se è questo che lei intende fare.»

«A scavare penseremo Ben e io» disse Florence.

Edith gettò un’occhiata a Fischer. Stava in piedi a piè del letto, guardando Florence senza espressione. D’un tratto sentì un brivido correrle su per la schiena.

Ci sarà stato davvero qualcosa laggiù di sotto?


ore 7.29


Fischer inserì il piede di porco nella spaccatura e, con uno sforzo, tirò via un altro frantume di mattone e cemento. In venti minuti era riuscito a praticare un buco non più grande del suo pugno. I calzoni e le scarpe da tennis erano sporchi di calcinacci, una patina di polvere gli copriva le mani. Starnutì, perché un po’ di polvere gli era entrata nelle narici. Estrasse il fazzoletto e si soffiò il naso. Guardò Florence che lo stava fissando con occhi carichi d’ansietà. Ella si sforzò a sorridere. «Lo so che è duro.»

Fischer annuì. Stava per starnutire di nuovo, ma si trattenne. Quindi tornò a conficcare il piede di porco nella breccia. Diede uno strattone per staccare un altro pezzo di muro ma l’attrezzo gli scivolò e lui, perso l’equilibrio, batté contro la parete. «Maledizione» borbottò. Si raddrizzò, strinse i denti, e di nuovo conficcò il palanchino nello squarcio sul muro.

Ne staccò un altro pezzo di calcinaccio, che tonfò sul pavimento. Poi guardò Florence: «Ci vorrà una giornata intera» disse.

«Lo so ch’è duro» lei ripeté.

Fischer si raddrizzò sulla schiena.

«Dia a me, che l’aiuto un po’ anch’io» disse Florence. Ma lui scosse il capo e tornò a manovrare il piè di porco.

«Un momento…» disse Barrett.

Fischer si volse.

«Poiché è chiaro che qui ci vorrà un bel po’ di tempo,» disse Barrett a Florence «spero che lei non abbia nulla in contrario se io torno di sopra, a sdraiarmi un tantino. Questa gamba mi dà un po’ fastidio.»

«Sì, certo, vada pure» disse Florence. «La chiameremo quando l’avremo trovato.»

«Bene.» Barrett prese sua moglie sottobraccio e si mosse verso la porta. Florence scambiò un’occhiata con Fischer, mentre questi si rimetteva all’opera.

Stava per conficcare il palanchino nella breccia, quando vide qualcosa. «Aspettate!»

Barrett ed Edith si volsero. Fischer diresse il raggio della sua torcia entro il buco nel muro.

«Che c’è? che c’è?» Florence non riusciva a contenere la sua ansia.

Fischer batté gli occhi. Soffiò via un po’ di polvere, poi puntò di nuovo il raggio nell’apertura. «Sembra una corda» disse.

Florence si avvicinò. Fischer le consegnò la torcia. «Mi faccia luce.» Ella annuì brevemente. Fischer infilò le dita nel buco e afferrò la fune polverosa. Diede uno strattone verso il basso ma nulla cedette. Allora diede uno strattone verso l’alto e senti la fune cedergli, poi tendersi di nuovo quando lui smise di tirare. Allora disse: «Dev’esserci qualche peso all’estremità inferiore di questa corda».

Florence trattenne il fiato. «Un contrappeso

Fischer afferrò il palanchino e si diede ad allargare l’apertura più in fretta che poteva. Dopo un minuto di intenso lavoro, lasciò cadere l’attrezzo, il cui tonfo metallico echeggiò cupamente, e riuscì a infilare tutt’e due le mani nel buco. Afferrata la fune, cominciò a tirarla a sé. La resistenza era troppo forte. Tirò con tutte le sue forze, premendo la fronte contro il muro, gli occhi chiusi, i denti stretti. Dai, ripeteva fra sé, dai, mannaggia a te, dai.

D’un tratto la corda cedette e la sua mano cozzò contro la ruvida parete del foro. Lasciò la presa. Si esaminava il polso quando si udì un rumore cupo all’interno del muro. Egli alzò gli occhi, sorpreso.

Lentamente, una sezione della parete fece perno su se stessa e si mise a scorrere verso destra. Fischer si tese tutto nell’attesa di quel che sarebbe apparso. E sentiva Florence, al suo fianco, vibrare d’ansia dalla testa ai piedi, mentre quella sezione di parete si apriva cigolando sui suoi cardini.

Edith emise un suono strozzato e distolse lo sguardo. Le labbra di Fischer si dischiusero in un ghignetto. Florence trasse un sospiro di sollievo, che suonò strano alle sue orecchie.

Incatenato alla parete, all’interno dell’angusto passaggio, c’era il cadavere mummificato di un uomo.

Barrett mormorò: «Come in un racconto di Poe!».

«L’avevo detto, io, ch’era qui» disse Florence.

Fischer osservò le fattezze, grigiastre, incartapecorite, del cadavere. Gli occhi erano simili a due bacche nere, indurite, e le labbra erano contratte, congelate in un urlo silenzioso. Ovviamente, era stato incatenato là ancora vivo.

«E allora, dottore?» domandò Florence.

Barrett tossicchiò. «Allora, cosa?» disse. «Vedo la mummia di un uomo. Ma come fa a sapere, lei, che si tratta di Daniel Belasco?»

«Lo so» ella disse.

«Senza la minima ombra di dubbio?»

«Si.» Appariva sicura.

Barrett sorrise: «Credo che servano altre prove, però».

Florence lo fissava. «Ha ragione lei» d’un tratto disse.

E poi, allungando una mano verso la mummia incatenata, sfilò un anello dalla sua mano sinistra. «Ecco qua.» Lo porse a Barrett.

Barrett esitò prima di prenderlo. Fischer guardò Edith. Edith stava guardando suo marito, con apprensione. Fischer guardò Barrett. Barrett stava restituendo l’anello. C’era un sorriso sforzato sulle sue labbra. «Molto bene» disse.

«Adesso mi crede?»

«Ci penserò su.»

«Ci penserà su?» Florence lo guardò a bocca aperta. «Vuol dire che?…»

«Non voglio dire niente» l’interruppe Barrett. «Dico solo che mi occorre del tempo per digerire questa informazione ed elaborare la mia interpretazione di essa. Devo avvertirla, però, che non basta un cadavere con un anello perché uno si rimangi le proprie convinzioni scientifiche, maturate nel corso di una vita di studi e ricerche.»

«Dottore, non sto mica cercando di farla ricredere, io! Chiedo solo che noi si lavori insieme. Non si rende conto che tutt’e due potremmo essere nel giusto?»

Barrett scosse la testa. «Mi dispace, no, non me ne rendo conto. Mai me ne renderò conto.» Si volse di scatto e zoppicando si diresse verso il corridoio. «Vieni, cara» disse alla moglie.

Edith guardò Florence per un istante, poi seguì suo marito. Fischer prese l’anello da Florence. Era d’oro, con una montatura ovale. E c’erano incise, a caratteri gotici, le iniziali D.B.


ore 8.16


Stavano mangiando in silenzio da una ventina di minuti. Barrett allontanò da sé il piatto e si mise davanti la tazzina da caffè. Guardò l’indicatore REM all’altro capo della tavola. Era scomodo dover mangiare allo stesso tavolo dov’erano collocati gli strumenti scientifici. Ma non si poteva far altrimenti, la sala da pranzo era andata a catafascio.

Guardò Edith. Sedeva immobile, stringendo con entrambe le mani la tazza del caffè, come per riscaldarle. Aveva l’aria di una bimba spaventata.

Barrett distolse la sua mente dal problema che lo teneva occupato e chiamò sua moglie. Ella lo guardò. Lui le sorrìse. «Ti senti disturbata?»

«E tu no?»

Lui scosse la testa. «No, niente affatto. Credevi fosse per questo che stavo così zitto?»

Edith parve esitare, come se temesse di urtarlo con le sue parole. «Ma quella figura laggiù…» disse alla fine.

«Sì, sì, alquanto spaventosa.»

Edith lo guardò, a disagio.

«Non è detto però che si tratti di lui» disse Barrett.

«Ma l’anello!»

«Non è detto che D.B. debba stare per Daniel Belasco.»

Edith non pareva rassicurata.

«Potrebbe stare per David Bart» egli disse. «O per Donald Bascomb.» Sorrise. «O magari per Dottor Barrett.»

«Ma…»

«Ma potrebbe anche stare effettivamente per Daniel Belasco… ammesso che una tale persona sia mai esistita.»

«In tal caso lei avrebbe ragione, allora.»

«In apparenza, sì.»

«Non capisco…»

«Il punto non è la prova né che cosa questa prova dimostra: il punto è chi ha trovato quella prova.»

Edith appariva ancora sconcertata. Barrett sorrise. «Mia cara,» le disse «Miss Tanner ha notevoli doti medianiche, è una sensitiva abbastanza notevole. A ciò si aggiungano i residui di energia presenti in questa casa dei quali essa, in quanto medium, ha la facoltà di usufruire. Ne risulta una carica psichica tale che le permette di creare determinati effetti atti a convalidare le sue asserzioni. L’attacco poltergeist contro di me, l’altra sera, era opera sua. Ma lei dopo asserì che era stato Daniel Belasco. In seguito divenne “conscia” del suo corpo e stamattina lo ha “scoperto” in cantina, offrendo così un’ulteriore prova di veridicità della sua storia. Che quei resti appartengano o meno a Daniel Belasco è un fatto irrilevante. Il punto è che Miss Tanner va sfruttando il suo potere e il potere della casa ai propri fini.»

Edith lo guardò con ansia. Barrett capì che sua moglie avrebbe voluto credergli ma era sempre sconcertata da quel che era accaduto. «Ma allora quei segni di denti sul suo seno?» riprese a dire lui.

Ella sobbalzò.

«È questo che volevi chiedere, vero?»

Il sorriso di lei era pallido. «Tu leggi anche nel pensiero.»

Barrett ridacchiò. «Neanche un po’. Si tratta dell’unico punto che ti rende ancora perplessa.»

«E quella non è una prova?»

«Per lei lo è.»

«Erano ben segni di denti, quelli.»

«Ne avevano l’aspetto.»

«Lionel…» Edith appariva più perplessa che mai. «Vuoi dire che non erano segni di denti sul serio?»

«Può darsi che lo fossero» lui disse. «Quello che voglio dire è che, quasi con certezza, non è stato Daniel Belasco a procurarglieli, sulle mammelle.»

Edith fece una smorfia. «Si è morsa da sé?»

«Forse no, non in modo diretto, anche se non scarterei questa ipotesi» disse lui. «Ma più probabilmente, si tratta di qualcosa che appartiene alla categoria delle stigmate.»

Edith pareva sul punto di sentirsi male.

«Sono accadute molte cose strane.» Barrett esitò. Poi riprese: «Non ti ho mai raccontato ciò che accadde a Martin Wrather quella volta. Se ti ricordi, ti dissi solo che restò ferito durante una seduta spiritica. Quello che accadde, esattamente, è che i suoi organi genitali vennero quasi amputati di netto! E fu lui stesso, per un attacco di isteria, a farsi quel bello scherzo. Ma lui è convinto, a tutt’oggi, che “forze oscure del campo avversario” abbiano tentato di evirarlo». Sorrise mestamente. «Fra questo e un paio di morsi su un seno femminile ci corre proprio parecchio… anche se non nego che lei debba aver provato un acuto dolore.»

Dopo un po’ riprese: «Lo vedi come va montando la sua storia. Ieri sera lei scopre dov’è sepolto il suo cadavere, e stamattina Daniel Belasco la punisce, per la rabbia di essere stato scoperto, e cerca di spaventarla, indurla a desistere».

«Ma tu…» Ella fece un debole gesto. «Tu… non ci credi, vero?»

«Per niente.»

Ella sospirò, come arrendendosi. «Cosa accadrà adesso?»

«La mia macchina arriverà stamattina, ed entro domani io avrò risolto il mistero e posto fine alla cosiddetta maledizione della Casa d’Inferno con mezzi puramente scientifici.»

Si volsero. Era entrato Fischer e si stava avvicinando alla tavola, con gli abiti tutti sporchi di calcinacci, le mani screpolate, coperte di polvere. Senza dir nulla, si sedette, si versò una tazza di caffè, si accese una sigaretta.

«Compiute le esequie?» gli domandò Barrett, con una velata canzonatura nella voce.

Fischer gli lanciò appena un’occhiata. Poi sollevò il coperchio di un vassoio d’argento contenente uova alla pancetta, e lo richiuse subito.

«E Miss Tanner non viene a far colazione?» domandò Barrett.

Fischer scosse la testa. Bevve un po’ di caffè. Barrett lo scrutava. Quell’uomo era evidentemente in preda ad angosce. Lui non ci aveva pensato troppo su, finora, ma, accidenti, c’era voluto un gran bello sforzo di volontà, da parte di Fischer, per tornare in quel luogo.

«Mister Fischer» disse Barrett.

Fischer sollevò lo sguardo.

«Non ho risposto a Miss Tanner, ieri sera, perché non stavo bene e poi… sì, a esser franchi, ero un po’ arrabbiato con quella donna. Però credo che avesse ragione, a suggerire che lei se ne vada via di qua.»

Fischer gli lanciò un’occhiata gelida.

«Non la prenda come una critica. Semplicemente ritengo che, per il suo stesso bene, lei farebbe meglio ad andarsene.»

Fischer ebbe un sorriso amaro. «Grazie.»

Barrett depose il tovagliolo sulla tavola. «Bene, le ho detto come la penso io al riguardo. Lei ora decida come crede, naturalmente.» Estrasse l’orologio dal taschino, ne sollevò il coperchio. Mentre rimetteva a posto l’orologio notò che Edith distoglieva lo sguardo da Fischer, per evitare d’incontrare il suo. Barrett disse: «Meglio portare qualcosa da mangiare a Miss Tanner».

«Vuole essere lasciata sola per un po’» disse Fischer.

Barrett annuì, si alzò in piedi, e il suo volto si contrasse per l’indolenzimento delle gambe e la scottatura al polpaccio. «Vieni, cara» disse a sua moglie. Ella annuì, con un pallido sorriso, e si alzò.

«Mi sembra particolarmente teso, quest’oggi» lui le disse, mentre varcavano la soglia del vestibolo.

«Mmm.»

Egli la guardò. «E anche tu.»

«È per via di questa casa.»

«Certo.» Egli sorrise. «Aspetta fino a domani. Vedremo un bel cambiamento.»

Qualcuno bussò alla porta. E lui ebbe un sorriso di gioia, e disse: «La mia macchina».


ore 8.31


«E così questo corpo disfatto ha esalato il suo spirito che giammai tornerà a esso. Questo corpo ha assolto il suo compito, e ormai non serve più. La terra alla terra, le ceneri alle ceneri, la polvere alla polvere. Amen.»

Tre volte ella aveva pronunciato questa formula del rito funebre. La prima volta dopo che lei e Fischer avevano sepolto i miseri resti di Daniel Belasco. Quindi una seconda e una terza volta dopo essere tornata in camera sua. Ora la sua anima poteva riposare in pace.

Faceva molto freddo, fuori. La terra era dura come pietra. Fischer aveva dovuto rinunciare all’idea di scavare una fossa. Allora avevano cercato intorno e avevano trovato una cavità nel terreno. Lì avevano composto la salma e l’avevano ricoperta di foglie e di pietre. Poi lei aveva recitato le parole del servizio funebre, mentre entrambi stavano in piedi accanto a quella tomba rudimentale, a testa china, occhi chiusi.

Florence sorrise. Non appena possibile avrebbe fatto sì che Daniel ricevesse un’adeguata sepoltura. Quel che importava, per adesso, era che fosse stato liberato di lì, da quella casa.

Trasse di tasca l’anello di Daniel, lo contemplò nel palmo della mano, poi serrò il pugno intorno a esso.

Le apparvero alcune immagini. Lo vide distintamente: capelli bruni, molto bello, atteggiamento imperioso ma, sotto la sua arroganza superficiale, era inerme, indifeso come un bimbo. Lo vide ridere a tavola, nel salone, lo vide danzare il valzer nella sala da ballo, abbracciato a una giovane bellissima. Nel suo sorriso c’era solo tenerezza e gioventù.

Quelle visioni si oscurarono. Ecco Daniel a teatro, che assiste a uno spettacolo, e la sua faccia è tirata, gli occhi gli brillano. Florence si irrigidì. Non era questo, che lui desiderava. Ma era giovane, era impressionabile. Ogni sorta di degradazione era lì a portata di mano. Ella lo vide procedere traballando per un corridoio, dando il braccio a una donna ubriaca. Lo vide in camera sua, a letto, lo vide affannarsi per trovare, nonostante tutto, qualcosa di bello nell’atto sessuale.

La corruzione poi aumentava. Ubriachezza. Disperazione. Una breve fuga, poi, senza scampo, il ritorno alla Casa d’Inferno, per non fuggirne mai più. Florence fece una smorfia. Lo vide nel salone, nudo, seduto alla grande tavola rotonda, intento a guardare avidamente. Lo vide infilarsi l’ago di una siringa ipodermica entro il braccio. Lo vide in preda a smodate brame sessuali che lo facevano spasimare nel buio. Eppure, dietro la maschera — la faccia falsa che la Casa d’Inferno gli aveva imposto — c’era sempre il volto del fanciullo innocente e spaurito. Il fanciullo che voleva scappar via di là, ma non ci riusciva; che desiderava l’amore, ma trovava solo lussuria, licenziosità.

Trattenne il fiato: ecco che il giovane si sta avvicinando a suo padre. Lei non riesce a distinguere il viso di Emeric Belasco. La sua figura, gigantesca, minacciosa, resta in ombra. Florence bisbigliò una preghiera, stringendo forte nella mano l’anello d’oro. Ecco che le ombre si vanno dissipando. Fra un momento lei lo vedrà in faccia. Un qualcosa di freddo cominciò a riempirle il petto. La visione vacillò. Florence gemette. Non poteva perdere quel contatto. Chiamò a raccolta tutta la sua forza di volontà. Se solo avesse potuto vedere il padre! entrare in lui! capirlo! La sua fronte si copri di sudore. Sentiva come un serpente, freddo e viscido, srotolare le sue spire nel suo stomaco. «No» mormorò. Non poteva arrendersi. C’era un significato, in questo, c’era una risposta.

Gettò un grido, allorché una violenta scossa passò attraverso il suo corpo. Allargò la mano e l’anello le sfuggì. Lo sentì tonfare sul tappeto, laggiù, lontanissimo da lei. Le pareva di giacere in una immensa caverna, ferita. Non riusciva a distinguerne le pareti, la volta. Solo tenebra, intorno a lei, da tutte le parti. Tentò di aprire gli occhi ma non ci riusciva. La tenebra penetrò nel suo cervello, lei perdette a poco a poco conoscenza. Oh, Dio mio, dammi la forza, pensò, dammi il potere.

Cominciò a scivolare giù lungo la parete di una fossa gigantesca, affondando in una tenebra più fitta che mai. Tentò di fermarsi ma non ci riuscì. La sensazione era fisicamente precisa: sentiva il suo corpo scivolare giù, più giù, e la parete della fossa aveva qualcosa di adesivo che impediva al suo corpo di precipitare nel vuoto, ma non tanto da trattenere quella inesorabile discesa verso la tenebra sottostante. La tenebra che l’attendeva laggiù aveva un carattere, una personalità. È lui, ella pensò. Lui aspetta me.

Oh, mio Dio, lui aspetta me!

Si ribellò; si difese; pregò i suoi spiriti protettori, i suoi spiriti maestri; tutti coloro che l’avevano aiutata in passato. Impedite che io cada fino in fondo, li implorava. Prendetemi per mano e ritiratemi su. Ve lo chiedo in nome di Dio padreterno. Aiutatemi, aiutatemi!

D’un tratto, si ritrovò di nuovo in camera sua, la fossa era scomparsa. Dormiva, eppure era sveglia. Sapeva di giacere a letto, priva di conoscenza; ma di questo aveva coscienza. Udì una porta aprirsi e richiudersi. Era la porta della sua camera, o una porta immaginaria nella sua mente? Sapeva solo che i suoi occhi erano chiusi, serrati; che dormiva, e pure era desta. Udì dei passi avvicinarsi.

Vide una figura. A occhi chiusi, la vedeva avvicinarsi come una sagoma nera. Se l’immaginava? Quella figura era nella stanza, o nel suo cervello soltanto?

Si fece accanto al letto e sedette sulla sponda: ella sentì il materasso cedere un po’ sotto il suo peso. D’un tratto capì che era Daniel, e un gemito l’avviluppò tutta. Era un gemito vero, emesso dalle proprie labbra, oppure era un gemito da lei pensato per esprimere lo sgomento che provava? Non poteva essere lui. Lui riposava in pace. Lei e Fischer avevano composto la sua salma in una tomba consacrata. Non poteva essere tornato. Era impossìbile. Addormentata, sveglia, lo vedeva seduto sulla sponda del suo letto, una figura in nero. La stava guardando? C’erano occhi in quella testa nera?

«Siete voi?» ella chiese. Udì la propria voce ma non sapeva se foste reale o immaginaria.

«Sono io.»

«Perché?» ella domandò, pensò. «Avreste dovuto procedere per la vostra strada.»

«Non posso.»

Ella tentò di risvegliarsi, uscire da quel limbo fra il sonno e la veglia. «Dovete andare» disse. «Siete stato dimesso da questo carcere.»

«Non è la libertà che cerco.»

«E allora che cosa cercate?» Ella intensificò i suoi sforzi per sciogliersi dal sonno. Prima che fosse troppo tardi.

«Lo sapete che cosa cerco» egli disse.

E d’un tratto ella lo seppe. Fu come un vento freddo, che le gelò il cuore. «Voi dovete andare per la vostra strada» ella disse.

Ma il suo interlocutore ribatté: «Voi lo sapete, cosa dovete fare».

«No. No.»

«Altrimenti non potrò andarmene via.»

«No!» ella gridò. Svegliati! pensò.

Daniel disse: «Allora dovrò uccidervi, Florence».

Due mani gelide si serrarono intorno alla sua gola. Florence gettò un grido nel sonno. Lottò, affondò le unghie in quelle mani. D’un tratto si trovò sveglia. Le mani l’avevano lasciata. Cominciò a tirarsi su. Poi restò immobile, come pietrificata di spavento. Il cuore le galoppava nel petto.

Udì un rumore accanto a lei sul letto: un suono misterioso, metà umano, metà animalesco, un suono liquido, strano, pazzesco. Che cos’era? Lentissimamente Florence volse gli occhi. La porta del bagno era socchiusa e una striscia di luce mitigava l’oscurità della camera.

Era il gatto.

I loro sguardi si incontrarono. Gli occhi del gatto mandavano scintille, erano pazzi. La bestiola seguitava a produrre quel suono tremulo, innaturale, in gola. Ella allungò una mano. «In nome di Dio» sussurrò.

Con uno gnaulìo selvaggio, il gatto le saltò alla faccia. Florence si gettò all’indietro, facendosi schermo con le braccia. Il gatto le fu sopra, affondò i suoi unghioni aguzzi nel braccio della donna e i dentini accumulati nella sua testa, inferocito. Ella gridò. Cercò di scrollarselo di dosso ma non ci riuscì. Il gatto le stava abbarbicato alla testa (il pelo caldo contro gli occhi e la bocca) e i suoi denti le scalfivano il cranio, e con gli artigli davanti le graffiava le braccia: quei suoni pazzi seguitavano a uscirgli dalla gola. Florence diede uno strappo e riuscì a liberare il braccio sinistro e affondò le dita nella pelliccia del gatto, cercando di tirargli indietro la testa. I dentini lasciarono la presa. Quindi il gatto cercò di azzannarle la gola. Florence si fece scudo con il braccio destro, e i denti del gatto di nuovo le si conficcarono nella carne. Ella emise un singhiozzo di dolore e di nuovo tentò di tirargli via la testa. Il gatto cominciò a raspare con le zampe posteriori. Florence lo prese per la gola e cominciò a stringere. Il gatto emise un gorgoglio, zampettando furioso, graffiandola sul petto e sullo stomaco. D’un tratto i denti mollarono la presa. Florence scagliò il gatto per terra.

Si drizzò a sedere, annaspando, per riprender fiato. Alla fioca luce che veniva dal bagno vide il gatto rimettersi ritto sulle zampe, dopo essersi ruzzolato. Ella balzò dal letto e si precipitò verso il bagno. Il gatto si avventò e le azzannò un polpaccio. La donna gettò un urlo, a momenti cadeva in terra. Cercando di riguadagnare il suo equilibrio, rovesciò il tavolinetto stile spagnolo. Afferrò il telefono, automaticamente, e vibrò un colpo con la cornetta. Si colpì al ginocchio. Singhiozzò. Vibrò ancora un colpo e stavolta raggiunse la testa del gatto. Lo colpì ancora, e ancora, stringendo i denti, sul cranio. Gli diede un calcio, si rigirò e corse verso la stanza da bagno. Il gatto, ripresosi dal calcio ricevuto, l’inseguì. Florence riuscì a varcare la soglia e richiudere la porta prima che il gatto l’azzannasse di nuovo. Il gatto andò a sbattere contro l’uscio. Cominciò a raspare furiosamente con gli unghioli.

Florence si trascinò fino al lavandino e si guardò allo specchio. Allibì, vedendo i graffi profondi sulla fronte, da cui uscivano rivoletti di sangue. Si tolse il maglione ed emise dei gemiti alla vista del suo petto e stomaco solcati da strie sanguinanti, e il reggipetto imbrattato di sangue.

Poi si guardò le braccia e il suo volto si contorse in una smorfia, osservando l’opera dei denti e degli artigli del gatto sulla sua carne. Gemendo, aprì il rubinetto dell’acqua calda. Prese un asciugatoio, lo tenne sotto l’acqua finché si fu inzuppato, poi cominciò a tamponarsi le ferite e i graffi. Si mise a piangere dal dolore, mordendosi il labbro inferiore. Le lacrime le offuscavano la vista.

Mentre si lavava le ferite, il gatto là fuori seguitava a raspare furioso contro il legno e a emettere quegli orribili suoni in gola.


ore 9.14


«È molto grossa» disse Edith.

Barrett grugnì. Infilò il piè di porco nell’interstizio fra due assi della cassa d’imballaggio. I suoi movimenti erano nervosi, eccitati. L’attrezzo gli sfuggì.

«Non strafare, adesso.»

Egli annuì. Provò all’altra estremità dell’asse. Edith non l’aveva mai visto così frenetico. «Posso aiutarti?»

Barrett scosse la testa.

Edith stette a osservarlo, inquieta, mentre lui, piegandosi in avanti sulla sedia, disfaceva l’imballaggio, schiantando alcune assi. Schiodava e accatastava i pezzi in terra. «L’hanno imballata bene, altroché» borbottò. Edith non capiva se la cosa gli facesse piacere o desse noia.

La cassa misurava tre metri per due e mezzo alla base ed era di due palmi più alta di Barrett. Che cosa conteneva? si domandò Edith. La sua macchina, sì: ma in che cosa consisteva la sua macchina? e in che modo sarebbe riuscita a esorcizzare la casa?

«Maledizione!»

Dando questa esclamazione, Barrett lasciò cadere il piede di porco e si afferrò il pollice fasciato.

Edith sussultò. «Non strafare, però.»

«Ma sì, ma sì» egli disse, impaziente. Raccolse l’attrezzo e si rimise all’opera.

«Perché non chiedi a Fischer di aiutarti?»

«Faccio da me» lui borbottò.

Edith si trasse indietro, mentre lui introduceva il palanchino fra due assi e faceva forza. «Lionel, vacci piano» gli raccomandò. «Hai un’aria come se volessi sfasciare questa cassa coi denti e le unghie!»

Barrett smise e la guardò. Il suo petto ansava e il sudore gli imperlava la fronte. Emise un suono che poteva anche sembrare divertito. «Quest’affare, vedi, è… rappresenta il frutto di anni e anni di studi in parapsicologia» disse. «Lo capisci adesso perché sono così… elettrizzato?»

«E anche tu devi capire perché sono preoccupata.»

Lui annuì. «Mi terrò a freno» promise. «Ho aspettato venti anni quindi posso aspettare due minuti di più.»

Edith si sentì sollevata. Forse, se lo faceva parlar un po’ mentre lavorava, sarebbe riuscita a non farlo affaticare troppo.

«Lionel…»

«Sì? che c’è?»

«Non dovremmo denunciare quel cadavere alla polizia?»

«Lo faremo,» lui disse «alla fine di questa settimana.»

Edith annuì e pensava intanto al prossimo argomento.

«Ma Fischer, era davvero questo grande medium?» domandò, e pensò: chissà perché proprio questa domanda m’è saltata in mente.

«Ai suoi tempi, era considerato un emulo di Home e Palladino.»

«Che cosa faceva?»

«Oh…» Barrett schiodò un’altra tavola, sul davanti della cassa, e apparve una fila di quadranti. «Le solite cose: levitazione, voci dirette, fenomeni biologici, impronte, colpi, materializzazioni… questa roba qua. Durante una seduta, fece sollevare fino al soffitto un tavolo che pesava più d’un quintale, e sei uomini non riuscivano a tirarlo giù da lassù in aria. E un’altra volta fece apparire sette facce perfettamente formate che si misero a fluttuare per la stanza. Accurati sistemi di controllo erano in funzione. E uno dei controllori, il professor Wells, il famoso chimico di Harvard, ricevette un soffio in pieno viso da una di quelle facce, e un’altra cercò addirittura di baciarlo in fronte. Mi risulta che, fino a quella sera, Wells era del tutto scettico in materia.»

«E che altro faceva?» chiese Edith, quando lui tacque.

«Oh… Un’altra volta apparve un’ombra nera in forma di uomo e si mise a camminare per la stanza a passi così pesanti da far tremare i muri. Luci verdi fosforescenti simili a grosse farfalle svolazzavano sul tavolo e si posavano sui capelli degli astanti. Un mandolino si librò a mezz’aria e suonava My Bonnie Lies Over the Ocean. Il professor Mulvaney dell’Associazione Parapsicologica di Pittsburg tenne stretta per oltre dieci minuti una mano perfettamente materializzata, completa di ossa, pelle, peli, unghie e calore animale, secondo la sua precisa descrizione. Alla fine si dissolse in meno di un secondo, mentre lui la teneva sempre stretta. Un’altra volta ancora, dalla bocca di Fischer si mise a fluire tanto di quel teleplasma con cui si formò la figura di un mandarino cinese, alto uno e ottanta, completo fino all’ultimo dettaglio. Costui parlò al gruppo di astanti per una ventina di minuti prima di ritirarsi dentro il corpo di Fischer.» Barrett aveva schiodato un’altra assicella. «E non aveva che tredici anni, Fischer, a quell’epoca.»

«Era un medium genuino, dunque.»

«Oh, sì, certo.» Barrett era adesso alle prese con l’ultima tavola. «Disgraziatamente, tutto questo appartiene al passato. Le facoltà sono come i muscoli. Se uno non le adopera, si atrofizzano anche loro.» Schiodata un’ultima assicella, si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. «Ci siamo» disse.

Edith si alzò e gli andò vicina. Lui stava aprendo una busta attaccata con lo scotch alla macchina. Ne tirò fuori lo schema in base al quale la macchina era stata costruita. Edith osservò il pannello dei comandi con i suoi vari manometri, pulsanti, manopole, interruttori. «Quant’è costata, a costruirla?» domandò.

«Direi, più di settanta mila dollari.»

«Mio Dio!» Edith osservò ancora i vari quadranti. «REM» mormorò, leggendo queste lettere su una targhetta sotto il quadrante più grande. I numeri su di esso andavano da 0 a 120.000.

«Cosa vuol dire REM, Lionel?»

«Te lo spiegherò poi, mia cara» egli disse, evasivo. Poi soggiunse: «Spiegherò a tutti voi quelli che sono gli scopi del Reversore.»

«Il Reversore» essa ripeté.

Egli annuì, seguitando a osservare lo schema. Poi estrasse di tasca la piccola torcia elettrica e ne diresse il sottile raggio attraverso una specie di griglia sul fianco della macchina. Si accigliò, zoppicò fino al tavolo e, deposto lo schema, prese un cacciavite. S’accostò alla macchina e si mise a svitare un pannello.

Edith andò al caminetto e tese le mani alla fiamma. Ero qui, pensò, proprio in questo punto. Non ricordava assolutamente nulla prima del momento in cui quello schiaffo l’aveva ridestata e si era trovata nuda di fronte a Fischer. Rabbrividì, cercando di non pensarci.

Stava tornando presso Lionel quando arrivò Fischer tutto affannato, ed esclamò: «Dottore!» facendo dare un balzo a Edith.

Barrett si rigirò.

«Si tratta di Miss Tanner.»

Edith si irrigidì. Mio Dio, che altro è successo? pensò.

«Si è di nuovo ferita.»

Barrett fece un cenno col capo e, zoppicando fino al tavolo, prese la sua valigetta nera. «Dov’è?» chiese.

«In camera sua.»

Tutti e tre attraversarono in fretta il salone, Barrett in testa, arrancando sulla sua gamba zoppa. «Si è fatta molto male?» domandò.

«Ha graffi dapperttutto… morsi… lacerazioni.»

«Come è successo?»

«Non so. Il gatto, credo.»

«Il gatto

«Ero andato a portarle qualcosa da mangiare. Siccome non rispondeva, ho aperto la porta. In quell’attimo il gatto è sfrecciato via ed è scomparso.»

«E Miss Tanner?»

«Era chiusa nel bagno» disse Fischer. «Dapprima non voleva uscirne. E quand’è venuta fuori…» S’interruppe, con una smorfia.

Quando arrivarono in camera di Florence, questa giaceva sul letto. Apri gli occhi, volse il capo al loro ingresso. Edith gettò un’esclamazione, colpita. La pelle della medium era pallida come la cera, c’erano profondi segni di morsicature sulla sua testa con sangue coagulato intorno, graffi sulle guance e sul collo.

Barrett depose la valigetta sul letto, si sedette sulla sponda. «Si è disinfettata?» domandò, esaminando le ferite.

Ella scosse il capo. Barrett aprì la valigetta e ne tolse una boccetta e un pacco di ovatta. Osservò gli squarci sul maglione della donna. «Anche sul corpo?»

Ella annui, con gli occhi pieni di lacrime.

«Si tolga il maglione, allora.»

«Mi sono lavata.»

«Non basta. Bisogna disinfettare.»

Florence gettò un’occhiata a Fischer. Senza dire una parola lui si volse e si diresse verso l’altro letto, vi si sedette, volgendo la schiena agli altri.

Florence cominciò a togliersi il maglione. «Aiutala, Edith» disse Barrett.

Edith si fece accosto al letto, e il suo viso si contrasse in una smorfia alla vista di quei graffi sul petto e sullo stomaco della medium, di quelle morsicature sulle sue braccia. Le sciolse il gancio del reggiseno, poi si ritrasse, mentre Florence se lo sfilava. Anche le mammelle erano coperte di graffi.

Barrett svitò il coperchio della boccetta. «Questo le farà male» disse. «Vuole della codeina?»

Florence scosse la testa. Barrett intinse un po’ di ovatta nel liquido della boccetta e cominciò a tamponare una ferita sulla fronte di Florence. Questa emise un mugolio e chiuse gli occhi. Le lacrime premevano sotto le palpebre. Edith non resistette a quello spettacolo. Si volse e guardò Fischer. Questi stava fissando la parete.

Trascorsero alcuni minuti, in cui si udirono solo i mugolii e i gemiti di Florence e ogni tanto qualche esortazione di Barrett. Quando ebbe finito, questi ricoprì il petto della medium con un lenzuolo. «Grazie» le disse. Edith si volse.

«Il gatto mi è saltato addosso» disse Florence. «Era indemoniato, posseduto da Daniel Belasco.»

Edith guardò suo marito. La sua espressione era imperscrutabile.

La medium tentò di sorridere. «Lo so, lei pensa che…»

«Non importa poi molto quel che io penso, Miss Tanner» l’interruppe Barrett. «Quel che importa è che lei ne è uscita malconcia.»

«Roba da poco.»

«Non direi. Senta, Miss Tanner, secondo me sarebbe consigliabile che lei se ne andasse, anziché Mister Fischer.»

Edith guardò Fischer che si era voltato di scatto.

«No, dottore.» E Florence scosse il capo. «Non credo che ciò sarebbe affatto consigliabile.»

Barrett guardò la medium per qualche minuto prima di parlare ancora. «Il signor Deutsch non lo verrà a sapere» disse.

Florence apparve confusa.

«Voglio dire…» Barrett esitò «… che lei ha già dato il suo contributo all’impresa.»

«E quindi mi sarei già guadagnata la mia parte?»

«Io sto solo cercando di aiutarla, miss Tanner. Non si offenda.»

Florence fece per rispondere, ma si trattenne. Distolse lo sguardo, poi tornò a guardare Barrett. «Va bene,» disse «ammetto che lei abbia ragione. Ma non intendo andarmene di qui.»

Barrett annui. «Sta bene. Spetta a lei decidere, naturalmente.» Fece una pausa, poi soggiunse: «Ritengo però mio dovere tornare ad avvertirla, che lei farebbe meglio a lasciare il campo finché è in grado di farlo. Donna avvisata, mezzo salvata». Fece un’altra pausa, poi: «L’avverto anche che, se riterrò che la sua vita sia in pericolo, provvedere io a farla andar via di qua».

Florence aveva un’aria di sgomento.

«Insomma, io non intendo star là a guardare passivamente e permettere che lei divenga un’altra vittima della Casa d’Inferno» disse Barrett. Richiuse la sua valigetta. «Vieni, cara» disse a sua moglie. E si diresse verso la porta.


ore 10.43


Edith si rigirò su un fianco e guardò verso l’altro letto. Lionel stava dormendo. Non avrei dovuto permettergli di affaticarsi intorno a quella cassa, pensò. Sarebbe stato meglio chiedere a Fischer di aprirla.

Prima di addormentarsi, Lionel le aveva detto: «Florence Tanner a questo punto è tanto ansiosa di dimostrare la veridicità della sua tesi ch’è pronta a sacrificare anche la sua integrità fisica, pur di arrivarci».

Poi aveva soggiunto: «Una dissociazione della psiche che determina modifiche nell’io: questa è la causa di fondo dei fenomeni medianici. Io non lo so se un Daniel Belasco sia mai esistito o meno: ma la persona con cui Miss Tanner afferma di essere in contatto altri non è che un suo alter ego, una parte scissa della sua stessa personalità».

Ripensando a quelle parole, Edith sospirò, si rigirò sulla schiena. Se solo fosse riuscita a capire quel che Lionel capiva. Lei, per lei, non riusciva a vedere al di là di quegli orribili graffi che Florence diceva che il gatto le aveva procurato. Come, come avrebbe potuto procurarseli da sé, anche inconsciamente?

Si levò a sedere sul letto, ne scivolò fuori con le gambe. Stette un momento a contemplare le scarpe, prima di infilarci dentro i piedi. Si alzò. Andò presso il tavolino ottagonale e guardò il manoscritto. Passò un dito sul frontespizio. E intanto pensava: Ma che male può farmi? Era ridicolo, il terrore che essa provava per le bevande alcoliche. Sì, è vero, suo padre era un ubriacone e questo aveva reso desolata la sua infanzia. Ma non era una buona ragione per condannare i liquori in blocco. Ora avrebbe avuto voglia di berne appena un goccio, per rilassarsi.

Andò all’armadio e ne aprì lo sportello. Prese la bottiglia di brandy e uno dei bicchierini d’argento e li andò a deporre sul tavolo. Prese un fazzolettino di carta e pulì l’orlo del bicchiere, prima di versarci del brandy fino all’orlo. Il liquido era molto scuro. Ma sarà avvelenato? si chiese. Sarebbe stata una fine atroce.

Immerse un dito nel brandy, e poi se lo leccò. Ma se ne sarebbe accorta, caso mai fosse stato avvelenato? La lingua le bruciò. Inghiottì nervosamente. Il calore si sparse delicatamente sui tessuti della gola. Edith avvicinò il bicchiere al naso. L’aroma è buono, si disse. Come poteva essere avvelenato? Certo qualcun altro ne aveva già bevuto.

Bevve un piccolo sorso. Chiuse gli occhi. Il liquore le scese piacevolmente in gola, dopo averle scaldato la bocca. Emise un mugolio di piacere quando il brandy raggiunse il suo stomaco e vi diffuse il suo calore. Bevve un altro sorsetto. È quel che ci voleva, pensò. Non diventerò mica una ubriacona solo per sorseggiare un po’ di brandy ogni tanto. Si avvicinò alla sedia a dondolo, esitò un momento, poi vi si sedette. Si mise comoda e, chiusi gli occhi, scolò tutto il bicchiere a piccoli sorsi.

Quando l’ebbe vuotato, riaprì gli occhi e guardò verso la tavola. No, no, pensò. Uno era abbastanza. Si sentiva rilassata, adesso. E non desiderava altro. Sollevò il bicchiere d’argento e ne osservò l’intricata lavorazione. Forse porterò con me un piccolo souvenir, quando ce n’andremo di qui, pensò. Sorrise compiaciuta: era un buon segno se faceva progetti per il futuro.

Pensò a Fischer. Devo chiedergli scusa, si disse, per averlo evitato così sgarbatamente stamattina. E devo ringraziarlo per avermi salvato la vita. Rabbrividì al pensiero dell’acqua morta dello stagno. Si alzò e, un pochino malferma sulle gambe, attraversò la stanza. Aprì la porta, uscì sul corridoio, richiudendo la porta alle sue spalle più piano che poteva.

Un’onda di terrore l’investì, per un attimo, allorché si rese conto di trovarsi sola per la prima volta da quando erano entrati in quella casa. Ma si burlò di se stessa: era sciocco aver paura. Lionel era a pochi passi da lei, oltre quella porta.

Si diresse verso la porta di Fischer. Stava forse commettendo un errore? si chiese. Ma no, ma no, rispose a se stessa. Devo chiedergli scusa e devo ringraziarlo. Chissà se è in camera, pensò.

Bussò alla porta di Fischer e attese. Non rispose nessuno, non udì alcun rumore dall’interno. Dopo un po’ bussò di nuovo, e di nuovo nessuna risposta. Edith girò la maniglia e spinse la porta. Cosa sto facendo? pensò. Non poteva fermarsi. Aprì la porta e guardò dentro.

La camera era più piccola di quella occupata da lei e suo marito. C’era solo un letto, sormontato da un massiccio baldacchino. Sulla destra c’era un tavolo con sopra un telefono e un portacenere. Edith osservò il portacenere: era colmo di cicche. Fuma troppo, pensò.

Si inoltrò nella stanza. Sul tavolo c’era la valigia di Fischer, aperta. Edith vi guardò dentro. Vide alcune magliette e una stecca di sigarette, aperta. Inghiottì saliva. Allungò una mano…

Si rigirò di scatto, con un piccolo grido.

Fischer stava sulla soglia e la guardava.

Per un tempo che le parve eterno i loro sguardi restarono fissi l’uno nell’altro. A Edith il cuore batteva forte forte. Ella avvertì una vampata di calore sul viso.

«Che c’è, signora Barrett?»

Ella tentò di riprendere il controllo di se stessa. Che cosa penserà di me? si chiedeva. Poi riuscì a dire: «Ero venuta a ringraziarla».

«Ringraziarmi?»

«Per avermi salvato la vita iersera.»

Istintivamente si trasse indietro, allorché Fischer mosse qualche passo verso di lei.

«Non avrebbe dovuto allontanarsi da suo marito» le disse.

Ella non sapeva cosa rispondere.

«Si sente bene?»

«Sì, certo.»

Fischer la guardò attentamente. «Adesso ritorni in camera sua, è meglio» disse.

Si scansò per lasciarla passare. «Provi a legarsi per un polso al letto, la sera» le consigliò.

Edith annuì. Lui la seguì pel corridoio, l’accompagnò fino in camera sua. Ella si volse e disse: «Grazie».

«Non si allontani da suo marito, un’altra volta» egli le disse. «Non dovrebbe mai…»

Si interruppe. Si chinò in avanti, come per darle un bacio. Edith sussultò; si trasse indietro.

«Ha bevuto?» lui le chiese.

Ella si irrigidì. «Perché?»

«Non è prudente bere, in questo posto. Non è prudente perdere l’autocontrollo.»

«Io non ho perso il controllo di me stessa» ella disse, con una certa asprezza nel tono della voce, urtata. Si volse ed entrò in camera sua.


ore 11.16


Florence diede un sobbalzo, quando udì bussare alla porta. «Avanti!»

Entrò Fischer.

«Ben…» E tentò di sollevarsi.

«Resti, resti giù» lui le disse. Si avvicinò al letto. «Vorrei parlarle.»

«Si accomodi» lei disse. «Si sieda qui accanto a me.»

Fischer sedette sulla sponda del letto. «Mi dispiace che lei soffra tanto.»

«Passerà.»

Egli annuì, poco convinto. Poi la guardò in silenzio. Florence gli sorrise. «E allora?» chiese.

Egli si fece animo e le disse: «Sono d’accordo con il dottor Barrett. Penso che lei dovrebbe andarsene via».

«Ben…»

«Sarà ridotta a pezzi, Florence. Non se ne rende conto?»

«Non penserà che sia io stessa a farmi male così?»

«No, non lo penso» lui rispose. «Ma non so neanche chi le combina questi scherzi. Lei dice che si tratta di Daniel Belasco. Ma se si sbagliasse? Se qualcuno la traesse in inganno?»

«In… inganno?»

«C’era anche una medium, qui, con noi, nel 1940. Si chiamava Grace Lauter. Costei si convinse che la casa era infestata da due sorelle. E addusse molte prove a dimostrazione di questa sua tesi. Ma il solo guaio era che si ingannava. E si sgozzò con le sue stesse mani il terzo giorno di permanenza qui.»

«Però Daniel Belasco esiste davvero. Abbiamo trovato la sua salma. Abbiamo trovato l’anello col suo monogramma.»

«E lo abbiamo anche sepolto. Allora perché non riposa in pace

Florence scosse la testa. «Non lo so.» La voce le tremò. «Non lo so proprio.»

«Mi dispiace.» Le toccò una mano. «Non sto cercando di coglierla in fallo. Mi preoccupo per lei, ecco tutto.»

«La ringrazio, Ben.» Dopo qualche minuto gli sorrise. «Benjamin Franklin Fischer» disse. «Chi le ha messo questo nome?»

«Mio padre. Era un grande ammiratore di Benjamin Franklin, l’inventore.»

«Mi parli di lui.»

«Non c’è niente da dire. Piantò mia madre quando io avevo due anni. Non lo biasimo mica. Lei deve averlo fatto diventare matto.»

Il sorriso di Florence svanì.

«Era una fanatica» continuò Fischer. «Quando io, a nove anni, diedi segni di possedere virtù medianiche, ella dedicò la sua vita a esse.» Il suo sorriso era mesto. «E anche la mia vita.»

«Lo rimpiange?»

«Lo rimpiango, sì.»

«Davvero, Ben?» Lo guardò, profondamente impensierita.

Fischer sorrise, d’un tratto. «Ha detto che mi avrebbe raccontato della sua carriera a Hollywood, una volta sistemati.» Il suo sorriso si fece agro. «Non è che ci siamo molto sistemati, però.»

«È una lunga storia, Ben.»

«Ma il tempo non ci manca.»

Lo guardò in silenzio. «Va bene» disse alfine. «Gliela racconterò in breve.»

Fischer attese, guardandola.

«Forse ne avrà anche letto sui giornali» disse Florence. «Le cronache mondane se ne occuparono molto, a quel tempo. E Confidential pubblicò perfino un lungo articolo sulle riunioni spiritiche che si tenevano in casa mia. Ma avevano l’aria di alludere a ben altro, però.»

Poi seguitò: «Ma non c’era niente sotto, Ben. Era tutto esattamente come io dichiaravo che fosse, in realtà. Eppoi sui giornali facevano tante insinuazioni sul mio conto. Scrìvevano che non mi ero mai sposata perché volevo “correre la cavallina”. Non era vero. Non mi sono mai sposata perché non ho mai incontrato l’uomo che avrei voluto sposare».

«Come divenne attrice?»

«Mi piaceva recitare. Quand’ero piccola, davo delle recite per i miei genitori e parenti. Più tardi, feci parte della filodrammatica della scuola. In seguito frequentai un corso di arte drammatica e mi diplomai. Tutto andò abbastanza liscio per me. Succede, qualche volta. Con l’aiuto di Dio e d’un po’ di fortuna, feci carriera.» Sorrise, con una punta di rimpianto. «Oh, non che abbia mai fatto furore. Avevo successo, ma niente di speciale. Non mi applicavo forse abbastanza. Tuttavia me la cavavo bene. Vede, avevo avuto un’infanzia felice, io. Non avevo un oscuro passato, né cicatrici di ferite riportate da piccola. I miei genitori mi amavano, io amavo loro. Erano spiritualisti. Così anch’io divenni spiritualista.»

«Era figlia unica?»

«Avevo un fratello. David. Morì quando io avevo diciassette anni. Di meningite.» Ripensò al suo passato. «Fu quello l’unico vero dolore della mia vita.»

Di nuovo sorrise. «I giornali scrissero che lasciai Hollywood perché ormai la mia carriera volgeva “al tramonto”, come suol dirsi, e che mi rifugiai nella religione, “per trovarvi conforto”. Ma non hanno mai menzionato il fatto che io ero sempre stata una spiritualista, tutta la mia vita. Anzi, fui felicissima quando la mia carriera di attrice “volse al tramonto”. Perché questo mi consentiva di dedicarmi interamente a quella che avevo sempre ritenuta la mia carriera più vera, più mia: fare la medium, soltanto la medium.»

Dopo una pausa riprese: «Ma non scappai mica da Hollywood. Né avevo paura di Hollywood. Non c’era niente di cui aver paura. È un posto come un altro, e far l’attrice è un lavoro come un altro, tutto qua. Ognuno poi è padrone di regolarsi come vuole, nella sua vita. Affar suo. Le cosiddette “influenze corruttrici” non sono più accentuate in quell’ambiente di quanto non lo siano in altri campi di attività. Non è l’ambiente che corrompe, in sé, ma tutto dipende dall’individuo, se è corruttibile».

Rifletté un istante. «Sì, sì, ero cosciente del vuoto morale che di solito mi circondava. Sul set, ai vari ricevimenti, in mezzo alla gente del cinema, avvertivo sempre un nonsoché di malsano nell’aria.» Sorrise, ricordando. «Una sera, appena andata a letto, dopo aver recitato il pater noster, come faccio sempre, mi accorsi, retrospettivamente, che avevo cambiato le parole della preghiera, senza badarci lì per lì: “Padre nostro che sei a Hollywood…”. E così via.» Scosse la testa, divertita. «Di lì a un mese piantai Hollywood e mi trasferii a Nuova York, per restarci.»

Fischer fece per dire qualcosa, ma s’interruppe perché, in lontananza, da qualche parte, sentì il gatto miagolare. Fine del piacevole intervallo, pensò. Florence sbigottì. «Quel disgraziato!» Fece per tirarsi su.

Fischer la risospinse sul cuscino. «Vado io a vedere.»

«Ma…»

«Lei si riposi» le disse, alzandosi.

«Prima di andare, mi passa quella borsetta?»

Fischer andò a prendergliela. Florence l’aprì e ne trasse un medaglione, e glielo porse. Fischer lo prese. C’erano incise queste parole: ABBI FEDE.

«Se uno ha fede, trova in se stesso tutto ciò che occorre» ella disse.

Egli fece per renderglielo. «No, lo tenga pure» lei disse. «È un mio regalo per lei, con amore.»

Fischer ebbe un sorriso forzato. «Grazie.» Lasciò scivolare il medaglione in tasca. «Ma per me va tutto bene. Si preoccupi piuttosto per se stessa.»

«Dopo essermi un po’ riposata vorrei tener seduta. Mi fa compagnia?» gli chiese. «Devo mettermi in contatto con Daniel Belasco e la via più breve è andare in trance. Ma non vorrei essere sola.»

«Sicché, non intende andar via di qua?»

«Non posso, Ben, lo sa che non posso.» Fece una pausa. «Terrà seduta con me?»

Fischer la guardò, a disagio. Infine annuì. «Sta bene.»

Uscì dalla stanza senza aggiungere altro.


ore 12.16


L’acqua gli dava refrigerio: scorreva fresca sul suo viso, lungo il corpo, mentre lui nuotava. Sì, la scottatura sul polpaccio, dove la pelle si era contratta, gli faceva alquanto male, quando batteva i piedi. E anche il dolore al pollice si intensificava a ogni bracciata. Ma non intendeva rinunciare alla sua nuotata. Ne ho bisogno, pensava. Sono stato quasi una settimana senza poter fare il bagno in piscina.

Giunse dove si toccava e si fermò, sorreggendosi al bordo con la mano sinistra. Edith sedeva su una panca presso la porta che comunicava col bagno turco. «Non affaticarti» gli disse.

«Sta’ tranquilla. Farò un paio di vasche, poi basta.»

Si rimise a nuotare. A occhi chiusi ascoltava lo sciacquio prodotto dai suoi ritmici movimenti.

Si chiedeva fino a che punto l’atmosfera di quella casa fosse nociva per Edith. Quando si era svegliato, dianzi, aveva cercato di far piano, alzandosi, per non svegliare anche lei. Edith però aveva immediatamente aperto gli occhi. E il suo alito sapeva di alcol, se n’era accorto subito. Eppoi sul tavolino aveva visto la bottiglia di brandy, col bicchiere accanto. Essa gli aveva detto di aver bevuto un bicchierino per rilassarsi. Aveva trovato il liquore nell’armadio. Lui aveva rimesso la bottiglia al suo posto. Le aveva fatto presente che aveva corso un brutto rischio, a bere quella roba. Lei gli aveva promesso di non toccarne più una goccia.

Barrett completò la vasca e compì una virata, si rimise a nuotare in senso opposto. E pensava: domani sera saremo fuori di qui. Sì, se il Reversore funzionava come previsto, ce l’avrebbero fatta, a sloggiare l’indomani prima di notte. Sorrise. Chissà, si chiese, se Edith se l’immagina in che modo il Reversore riuscirà a mutare, da così a così, l’atmosfera di questo luogo.

Giunto dove si toccava, si fermò, si mise in piedi, mugolando perché l’aria era più fredda dell’acqua. Edith lo aiutò a salire i gradini per uscire dalla vasca e gli avvolse le spalle in un asciugatoio. «Ti va di venire con me nel bagno turco, per un paio di minuti?» le domandò.

Essa annuì, porgendogli il bastone.

«Credo che mi farà bene» disse Barrett.

«Sì, certo. Vai.» Edith gli tenne aperto il battente.

«È meglio che tu ti tolga il vestito» egli le disse.

«Sta bene.»

Barrett gettò l’asciugatoio sulla panca di legno ed entrò nel bagno turco, claudicando, mentre Edith lasciava richiudersi il battente con un tonfo. Emise un mugolio di piacere al contatto del suo corpo con quell’umido vapore caldo. Tentoni nella foschia trovò un sedile. Era caldo da scottare. Allora si diede a battere intorno col bastone, finché non trovò l’idrante. Quindi ne seguì il percorso, tastando con una mano, fino alla parete e qui girò la manopola del rubinetto. Un getto d’acqua fredda sgorgò dalla bocca dell’idrante. Barrett diresse quel getto sul sedile, quindi vi si sedette, e posò il suo bastone. Si calò le mutandine da bagno, laboriosamente se le sfilò di dosso.

Guardò verso la porta. Edith impiega molto tempo, pensò, accigliandosi. Non gli andava di alzarsi in piedi di nuovo. E tuttavia non poteva lasciarla sola per più di qualche secondo.

Stava per rialzarsi in piedi quando distinse la sua sagoma nel vano della porta. Si era tolta tutti gli indumenti, e questo lo sorprese. La porta si richiuse. Egli disse: «Sono qui». Bisognava cambiare la lampadina, metterne una più luminosa, si disse. Quella che c’era era troppo fioca oppure troppo sporca. O forse le due cose insieme.

Edith si inoltrò cautamente nel locale offuscato dal vapore. Diede un’esclamazione quando passò sul getto d’acqua fredda. Barrett tirò a sé l’idrante e raffreddò il sedile accanto al suo. Alcuni schizzi freddi lo investirono, e fece una smorfia. Poi gettò in terra l’idrante. Edith sedette accanto a lui. Barrett l’udiva respirare irregolarmente. Cercava di non aspirare il vapore caldo, di filtrarlo attraverso i denti serrati. «Come va?» lui le chiese.

Edith tossì. «Non sono mai riuscita ad abituarmi a respirare in un bagno turco.»

«Prova a bagnarti la faccia con acqua fresca.»

«Va bene così.»

Barrett chiuse gli occhi, abbandonandosi alla piacevole sensazione del vapore che gli permeava la carne. Sobbalzò lievemente allorché la mano di Edith si posò sulla sua gamba. Lui ci mise sopra la sua. Dopo un paio di minuti, lei si sporse e lo baciò su una guancia. «Ti amo» gli disse.

Barrett le circondò le spalle con un braccio. «Anch’io ti amo» le disse. Lei lo baciò di nuovo sulla guancia, poi sull’angolo della bocca. Lui sentì un rimescolio per tutte le membra, quando le labbra di sua moglie si premettero sulle sue. Baciandolo, lei muoveva un po’ la testa. Egli riaprì gli occhi quando sentì una carezza sullo stomaco. Edith? pensò.

Dopo qualche minuto, la donna si pose a cavalcioni su di lui, senza staccare le labbra dalle sue. Lui sentiva il pancino di lei premere contro il suo ventre. Poi la mano di lei scese giù e gli impugnò l’organo sessuale, cominciando a strofinarselo sulla pelle. Il respiro di Barrett si fece affannoso. L’aria calda gli bruciava la gola e il petto. Emise un mugolio di stupore allorché i denti della donna gli mordicchiarono il labbro inferiore. Il suo fiato sapeva di brandy.

Poi gli passò le labbra sulla guancia, leccandogli la pelle. «Fallo venir duro» gli sussurrò all’orecchio. La sua voce aveva un timbro strano, quasi selvaggio. Barrett trattenne il fiato allorché lei gli afferrò una mano, quella ferita, e se la portò sul seno. Lui la ritrasse, non potendone più dal dolore che si era risvegliato nella ferita. «Oh no!» lei esclamò, imperiosa, e gli afferrò di nuovo la mano.

«Il mio pollice!» lui gridò. Il dolore era così atroce che la vista gli si appannò. Riusciva a malapena a respirare, l’aria surriscaldata gli avvampava i polmoni. Edith non parve neanche udirlo. Gli agguantò il membro virile, e gemeva così forte che a Barrett il cuore balzava dal petto. «Per amor di Dio, fallo venir duro!» ella gridò. E di nuovo gli prese le labbra, premendo con la lingua, avidamente.

Barrett non riusciva a respirare. Mezzo soffocato, trasse indietro la testa, che urtò contro il muro. Gettò un grido di dolore, la sua faccia si contorse. Edith ricadde su di lui, scoppiando in singhiozzi. Barrett cercò di riprender fiato. «Edith» ansimò.

Ella si riscosse, si alzò in piedi, gli volse le spalle. «No…» borbottò lui, allungando una mano verso di lei, frastornato. Sentì una corrente d’aria dalla porta che si apriva, intravide la sua sagoma nel vano. Poi la porta si richiuse con un tonfo.

Con una smorfia, lui si piegò cercò tentoni l’idrante. Si annaffiò il viso con dell’acqua fredda, respirando attraverso i denti stretti. Mio Dio, pensava, ma che le è successo? Sì, lo sapeva che la rinuncia ai rapporti sessuali doveva averle nuociuto, sì, però non aveva mai dato prova di tanto desiderio, prima d’ora. Questa casa, pensò, l’atmosfera di questa casa agisce su di lei. Si alzò e, appoggiandosi al bastone, mezzo intontito, si diresse verso l’uscita, a passi faticosi, arrancando, e sentiva il calore aumentare, il vapore avvampargli la faccia. La lampadina, lassù, era quasi del tutto sparita, se ne distingueva appena un fioco barlume nel vapore fattosi man mano più denso e soffocante. Barrett raggiunse la porta e cercò la maniglia. La trovò. Strinse le dita intorno al pomo, e spinse. La porta non si apriva. Spinse più forte. La porta resistette. I tratti del suo volto si irrigidirono. Stringendo la maniglia più forte che poteva, spinse di nuovo.

La porta non cedette.

Provò un senso di sbigottimento. Ma lo scacciò. Chiamò: «Edith!». E batté sulla porta col palmo della mano sinistra. «Edith! La porta si è incastrata!»

Non ottenne nessuna risposta. Mio Dio, non sarà mica andata di sopra? pensò, d’improvviso atterrito. Sforzò di nuovo la maniglia. La porta era come incassata nell’architrave. Il legno, egli pensò, dev’essere cresciuto a causa dell’umidità che c’è qui dentro. «Edith!» chiamò ancora a gran voce. E batteva dei pugni contro il legno.

Infine udì la sua voce, debolissima: «Che c’è?».

«La porta s’è incastrata. Prova un po’ ad aprirla dalla tua parte.»

Attese. Poi udì lei accostarsi alla porta. Allora afferrò di nuovo la maniglia e tirò a sé con tutte le sue forze, mentre lei spingeva dall’altra parte.

Ma la porta tenne duro.

«E adesso cosa farai?» chiese la donna, e la sua voce era piena di spavento.

Egli pensò di usare la panca a mo’ di ariete. No, era troppo pesante. Si aggrondò. Il caldo si faceva più pesante. Meglio spegnere.

«Lionel!»

«Niente paura!» Si piegò, cautamente, su un ginocchio, perché in basso faceva meno caldo. «Sarà bene…» S’interruppe, preoccupato. No, pensò, non c’è altra maniera. Non posso mica rimanere qui. «Sarà bene che tu vada a chiamare Fischer!»

«Come?»

Lui non capì se non avesse udito o se fosse atterrita all’idea di andar sola su di sopra.

«Vai a chiamare Fischer!»

Silenzio. Sì, doveva essere atterrita. Egli gridò: «Non c’è un’altra maniera!».

Per un bel pezzo Edith non rispose. Poi disse: «Va bene. Torno subito».

Barrett rimase immobile per un poco. Sperava ardentemente che non le succedesse nulla. Nello stato in cui si trovava, coi suoi nervi, sarebbe stato un vero disastro. Si aggrondò. Non ci resisto, a questo caldo. Bisogna che spenga il vapore, si disse.

Si volse di scatto a sinistra: gli pareva di aver udito un rumore. Non c’era nulla. C’erano solo le spirali del vapore. Socchiuse gli occhi, scrutando. Il vapore era denso, biancastro e si agitava lentamente disegnando vaghe forme. Una persona incapace di controllare la propria immaginazione ci avrebbe visto ogni sorta di bizzarre figure!

Barrett mugolò. «Ridicolo.» Si rialzò e si mosse cautamente nella stanza finché non urtò con uno stinco contro la panca di legno. Si inginocchiò di nuovo, cercando il manubrio del rubinetto, sotto la panca. Non riuscì a trovarlo e strisciò lungo la panca, cercando tentoni.

S’irrigidì. Era certo di aver udito qualcosa, stavolta. Una specie di… strofinio? Barrett rabbrividì, nonostante il calore. «Ridicolo» borbottò. Seguitò a strisciare. Non c’era da stupire se quella casa aveva fatto tante vittime. La sua atmosfera era favorevole a ogni sorta di illusioni. Il rumore che lui aveva udito probabilmente proveniva proprio dal rubinetto che stava cercando con tanto affanno: ed era prodotto da una fuga di vapore, forse dovuta a eccessiva pressione. Ma intanto si faceva sempre più caldo, lì dentro.

La sua mano alla fine toccò il piccolo manubrio del rubinetto, ed egli trasse un sospiro di sollievo. Cercò di avvitarlo, ma non ci riuscì. La rotella era inceppata, evidentemente. Scacciò via i cattivi presentimenti. E, serrando i denti, afferrò il manubrio con entrambe le mani, e fece forza. «Inceppato!» pronunciò ad alta voce, come se avesse desiderato convincere qualcuno in quella stanza che non c’era nulla di sovrannaturale. Tentò ancora, con tutte le sue forze, di avvitare quella dannata manopola.

Non si spostò di un millimetro.

«Oh no.» Inghiottì saliva. L’aria calda gli strinava la gola e i polmoni. Questo non va, proprio non va, pensò. Eppure era pur sempre un fenomeno fisico. Prima s’era inceppata la porta, poi s’era inceppata la valvola d’immissione del vapore. Niente di sensazionale, dato che la casa era vecchia e gli impianti erano decrepiti. Edith sarà di ritorno con Fischer fra pochi minuti. Nella peggiore delle ipotesi, poteva coricarsi sul pavimento e annaffiarsi d’acqua fredda, finché…

Si girò di scatto. Quel rumore, di nuovo! Troppo distinto per essere immaginario. Era proprio un rumore come d’un rettile che striscia. Un serpente intorpidito che si srotola sul pavimento. I suoi muscoli si irrigidirono. Su, dai, disse a se stesso, non fare il ragazzino, adesso. Si rigirò lentamente, appoggiando la schiena alla panca e cercando di vedere attraverso la nube di vapore. Si trattava certo di qualche fenomeno, l’importante era che lui tenesse la testa a posto. Niente poteva fargli del male, in quella casa, purché non si lasciasse prendere dal panico.

Tese l’orecchio, contraendo il viso per il dolore alla mano ferita. Dopo un minuto, o anche di più, udì di nuovo quel rumore: liquido, lieve, strisciante. Immaginò della lava che cola lentamente e si spande… Rabbrividì. «Oh smettila!» ordinò a se stesso. Stava reagendo con la credulità di una Florence Tanner qualsiasi!

L’idrante! pensò d’un tratto. Se il caldo umido eccessivo ha provocato l’ispessimento del legno della porta, l’acqua fredda potrebbe sortire l’effetto contrario. Cominciò a cercare l’idrante tastoni.

Udì di nuovo quel rumore, ma stavolta non ci fece caso. I fenomeni psichici abbondano nel regno della credulità. Questa frase gli balenò nella mente. Proprio così, pensò. Inghiottì aria calda soprappensiero, e gemette per il bruciore alla gola e al petto. Ma dove diavolo era andato a finire quel dannato idrante? Le gambe gli facevano male a furia di star così a carponi.

Sentì il getto d’acqua fredda ed emise un mugolio di soddisfazione. Strisciò sul pavimento con la mano, per arrivare all’idrante.

Gettò un grido, ritirando di scatto la mano. Aveva toccato qualcosa come della calce viva. Avvicinò la mano alla faccia per cercar di vedere cosa fosse. La luce era molto fioca. Aguzzò gli occhi Il cuore gli salì in gola. C’era una sostanza gelatinosa e scura appiccicata al palmo e alle dita. Con un fiotto strozzato, si diede a strofinare la mano sulle piastrelle del pavimento. Ma che cos’era, in nome di Dio? Qualcosa ch’era filtrato dagli interstizi fra le mattonelle? O una specie di?…

Si girò di scatto, da slogarsi quasi il collo. Scrutò la nube inquieta di vapore, col cuore che gli galoppava. Di nuovo quel rumore, ma più forte: e si avvicinava a lui. Cercò di scrutare nell’oscurità. Automaticamente, si stropicciò gli occhi e così si imbrattò il viso con quella specie di calce. Emise un’esclamazione di rabbia e, con l’altra mano, si pulì. Aveva un odore vagamente familiare, quella sostanza. Ma dov’è Edith? pensò d’un tratto. Per un istante un assurdo terrore l’assalì: e se non fosse andata a chiamare aiuto bensì intendesse lasciarlo chiuso lì, per via di quel che era accaduto poco prima?

«No» mormorò. Era assurdo pensarlo. Sarà qui da un momento all’altro. Meglio avvicinarsi alla porta e aspettare. Si alzò in piedi, traballando, e si allontanò da quel rumore misterioso, che adesso gli pareva di tradurre visivamente in una gigantesca medusa, dal corpo gelatinoso, trasparente, che strisciasse applicando le ventose sul pavimento, verso di lui. «Adesso basta» mormorò, furioso con se stesso. Doveva avvicinarsi alla porta. Scrutò entro la nube di vapore, ma non capiva più da che parte fosse la porta. Il rumore riprese: un rumore flaccido…

Barrett sentì un brivido salirgli su per la schiena. No, non bisognava lasciarsi prendere dal panico. Doveva farsi forza.

Gettò un urlo: i suoi piedi affondarono in una specie di pegola calda, densa. Diede un balzo, scivolò, cadde battendo il gomito sinistro. Di nuovo gridò, al dolore lancinante che gli salì su su pel braccio. Si contorse per lo spasimo sul pavimento.

D’un tratto sentì quella sostanza lambirgli il fianco, come una gelatina riscaldata. Si scostò, dibattendosi, e una puzza l’avviluppò. Era un puzzo di marcio… era l’odore dello stagno! È arrivato fin qui! pensò, terrorizzato. Si tirò su in ginocchio. La porta… dov’era la porta? Tirò a indovinare e, alzatosi in piedi, si mosse affannosamente in quella direzione, annaspando.

Qualcosa gli sbarrò il passo: qualcosa che occupava spazio ed era vivo e che giaceva sul pavimento. Con un grido di orrore, Barrett vi incespicò. La cosa si sollevò e gli diede uno spintone che lo fece rovesciare sulla schiena: era calda e gelatinosa, fetida di putrefazione. Barrett urlò. La cosa gli passò fra le gambe, flaccida. Egli vibrò un calcio e sentì il suo piede sinistro affondare in un ammasso di muco, di fango. Colpì ancora e toccò qualcosa che pareva la polpa cotta di un enorme fungo.

D’un tratto intravide una figura informe, nerastra, scintillante, piena di protuberanze. «No!» urlò. Calciò di nuovo, dibattendosi sul pavimento, finché urtò violentemente con la schiena contro la porta. Sentì la forma viscida aderirgli alle gambe, salire su. Pazze grida di terrore gli uscivano inarticolate dalla strozza. La stanza cominciò a girare e farsi sempre più oscura. Non riusciva a togliersi di dosso quel peso, quell’ammasso glutinoso. Ne sentiva il calore insopportabile permeargli la carne.

D’un tratto la porta lo sospinse da dietro, lo spingeva proprio dentro la massa gelatinosa. Se la sentì sul viso. La bocca aperta in un urlo di orrore gli si riempì di schifosa gelatina. Sentì una corrente fredda sul fianco. Sentì due mani sollevarlo sotto le ascelle. Gli parve di udire Edith che gridava. Qualcuno prese a trascinarlo sul pavimento. Guardò su e intravide la faccia di Fischer sopra di sé, pallida, indistinta. Poco prima di perdere i sensi, Barrett vide il proprio corpo. Non c’era nulla, attaccato, nulla.


ore 12.47


Fischer bevve d’un sorso il suo caffè, stringendo la tazza fra entrambe le mani. Ancora una volta i due coniugi di Caribou Falls erano venuti e se n’erano andati senza farsi vedere.

Si trovava nel teatro, alla ricerca del gatto, quando aveva udito le grida della signora Barrett. Era corso verso il vestibolo, lì l’aveva incontrata e lei gli aveva detto, tutta spaurita, che suo marito era rimasto chiuso nel bagno turco.

Laggiù! e d’un tratto lui aveva ricordato le parole di Florence. Senza far motto, si era precipitato negli scantinati, aveva percorso il locale della piscina, dove l’eco dei suoi passi aveva rimbombato contro le pareti e il soffitto.

Aveva udito le grida di Barrett prima di arrivare alla porta del bagno turco. Si era fermato e aveva quasi fatto dietrofront. Ma in quella sopraggiungeva di corsa la signora Barrett. Non era stato capace di battere in ritirata, alla vista di lei così affranta. Allora si era scagliato con tutto il suo peso contro la porta del bagno turco, ma invano. La signora Barrett, accanto a lui, l’implorava di salvare suo marito. La sua voce era innaturalmente stridula.

Afferrata una delle panche di legno che stavano addossate alla parete, lui l’aveva manovrata a mo’ di ariete contro la porta del bagno turco. Finalmente questa aveva ceduto. Deposta la panca, lui aveva spinto il battente. Là dentro, le grida di Barrett erano cessate d’un tratto. Fischer aveva sollevato il suo corpo inerte e, con un notevole sforzo muscolare data la mole dell’uomo, lo aveva trascinato fuori dalla massa rovente di vapore. A questo punto la signora Barrett era scossa da un tremito convulso, e la sua faccia era terrea. Poi, fra tutt’e due erano riusciti a trascinare Barrett di sopra e lo avevano messo a letto. Fischer si era offerto di aiutarla a mettergli il pigiama ma la signora Barrett gli aveva risposto, con una voce appena udibile, che avrebbe fatto da sola. Lui allora era tornato al piano di sotto.

Depose la tazza e si coprì gli occhi con la mano. La sua mente era un caos, un rovello. Quante cose inspiegabili erano accadute! A cominciare dalla porta d’ingresso che, lasciata aperta, era stata trovata chiusa a chiave al loro arrivo. E poi: l’impianto elettrico che, dopo riparato, aveva fatto capricci; Florence che non era riuscita a entrare nella cappella; il grammofono che si era messo a funzionare da solo; lo spiffero d’aria fredda per le scale; il lampadario che aveva tintinnato; quei colpi battuti durante la prima seduta spiritica; Florence che d’un tratto, inspiegabilmente, era divenuta una medium fisica; quell’isterico ammonimento loro rivolto durante la seduta, affinché se ne andassero via; l’assalto degli oggetti inanimati; la signora Barrett che nel sonno si dirige verso lo stagno, che si denuda, e poi l’indomani si comporta così stranamente; i morsi sul seno di Florence; il cadavere murato; l’anello; Florence che è assalita dal gatto; e da ultimo Barrett aggredito nel bagno turco.

Fischer scosse il capo fra sé. Non quadra niente, pensò. Qui i conti non tornano affatto. Siamo a zero. Ma, intanto, Florence è ridotta a brandelli, nel fisico e nel morale. La signora Barrett non si controlla più. Barrett ha subito due violentissimi attacchi. E quanto a me…

La sua mente fece un balzo indietro nel tempo. Gli apparvero delle facce: Grace Lauter, il dottor Graham, il professor Rand. E la faccia di Fenley. Grace Lauter lavorava da sola, convinta com’era che, da sola, avrebbe risolto il mistero della Casa d’Inferno: neppure rivolgeva la parola, agli altri. Quanto a lui, Fischer lavorava insieme a Graham e Rand che però, a loro volta, si rifiutavano di lavorare insieme al professor Fenley, perché questi era uno spiritualista e non un «uomo di scienza».

Tre giorni demoralizzanti, e poi la fine. Grace Lauter si era sgozzata da sé; il dottor Graham, ubriaco fradicio, si era messo a vagare nei boschi dove era morto assiderato; il professor Rand era morto di emorragia cerebrale dopo un esperimento eseguito nella sala da ballo, su cui non era stato in grado di fornire ragguagli prima di spirare; il professor Fenley era a tutt’oggi rinchiuso in manicomio, pazzo inguaribile; e lui era stato trovato nudo sul portico, in preda all’orrore, precocemente invecchiato.

«E adesso rieccomi qua» mormorò fra sé con voce tremante. «Sono tornato.» Chiuse gli occhi, non riusciva a controllare il suo tremore. Che fare? pensava. Non ho paura di tentare, ma da che parte comincio? Un impeto di rabbia gli fece veder rosso. Afferrò la tazza e la scagliò contro il muro. È troppo complicato, accidenti! esclamò dentro di sé.


ore 13.37


Edith batté gli occhi. Ecco che Lionel si stava svegliando. Gli mise una mano sulla sua. «Ti senti meglio?»

Lui annuì, senza sorridere. Edith cercò di controllare la propria voce. «Faccio le valigie» disse. Attese. Lionel la guardava senza espressione.

«Oggi stesso ce ne andiamo» ella disse.

«Voglio che tu vada, sì.»

Edith lo fissò. «No, ce n’andiamo entrambi, Lionel.»

«Non prima che avrò finito.»

Anche se era la risposta che s’aspettava, Edith non riusciva a crederci. Le labbra le tremarono, formulò nella mente parole che non riusciva a pronunciare.

«Tu vai a Caribou Falls» egli le disse. «E domani io ti raggiungo là.»

«Lionel, voglio che ce n’andiamo tutt’e due.»

«Edith, senti…»

«No. Non voglio sentir ragioni. Non riuscirai a convincermi. Lo vedi cosa sta succedendo. Saresti morto, laggiù, se Fischer non fosse arrivato in tempo. Saresti stato ucciso da… ma da che cosa? Da cosa? Dobbiamo andar via, prima che questa casa ci distrugga tutti. E subito, Lionel. Adesso.»

«Stammi a sentire» egli le disse. «Lo so che sei arrivata al limite della tua sopportazione, tu. Ma io no, non ancora. Non mi lascerò spaventare da quel che è accaduto al punto di abbandonare il campo. Sono venti anni che attendo qualcosa di simile. Venti lunghissimi anni di lavoro e di ricerca, e non sono affatto disposto a lasciar perdere tutto per via di… di qualcosa in un bagno turco.»

Edith lo guardò fisso, e le tempie le pulsavano.

«È stato un brutto colpo, lo ammetto» egli disse. «Un colpo terribile. Non avevo mai provato niente di simile, in vita mia. Ma non è stata opera di fantasmi. M’hai inteso, Edith? Quella non era opera di morti.»

E chiuse gli occhi. Poi soggiunse: «Ti prego. Va’ a Caribou Falls. Ti ci accompagna Fischer con la macchina. Domani ti raggiungerò».

Dopo un po’ riapri gli occhi e la guardò. «Domani, Edith. Ho aspettato venti anni, e manca appena un giorno alla dimostrazione della mia teoria. Un solo giorno ancora. Non posso tirarmi indietro ora che sono così prossimo alla mèta. Quel che è accaduto è terribile, sì, ma lo stesso non posso ritirarmi dalla partita. Non permetterò che mi si cacci via così!» Le strinse forte le mani. «Piuttosto muoio, che abbandonare la partita.»

Seguì un profondo silenzio. Edith sentiva il proprio batticuore come un lento, irregolare rullo di tamburi, nel suo petto.

«Domani» ella disse.

«Ti giuro che per domani sarà finito il regno del terrore, in questa casa.»

Ella lo guardò fisso, si sentiva perduta e inerme. In se stessa non aveva alcuna fede. Ma si aggrappava disperatamente alla sua. Che Dio ci aiuti, se ti sbagli tu, pensò.


ore 14.21


«Oh Spirito dell’Immortale Verità,» cominciò Florence «aiutaci, quest’oggi, a elevarci al di sopra dei dubbi e dei timori della vita. Apri le nostre menti alla rivelazione. Dacci occhi per vedere, orecchi per ascoltare. Benedici noi che ci adopriamo per diradare le tenebre che avvolgono il mondo.»

La luce proveniente dalla stanza da bagno stemperava appena il buio della camera. Florence sedeva sulla sedia accanto al tavolo, a occhi chiusi, con le mani in grembo, piedi e ginocchi uniti. Fischer sedeva di rimpetto a lei, su una sedia, a distanza di circa un metro e mezzo.

«La più dolce manifestazione della vita spirituale si ha» stava dicendo Florence «quando offriamo noi stessi al servizio degli spiriti. Possano essi trovarci pronti e possano, senza che alcunché turbi la nostra libertà di espressione, comunicare con noi, quest’oggi, e rivelare a noi la loro luce. E soprattutto possano impartirci la facoltà di entrare in comunicazione con quell’anima tormentata che si aggira senza requie in questo luogo depravato e vi è ancora prigioniera: Daniel Belasco.» Sollevò la faccia. «Aiutateci, assisteteci, oh spiriti angelici. Fate sì che con il vostro aiuto noi riusciamo ad alleviare le pene di quest’anima. Questo noi vi chiediamo nel nome dello Spirito Supremo e Sempiterno. Amen.»

Seguì un silenzio profondo. Fischer deglutì, e sentì la sua saliva crepitare in gola. Poi Florence cominciò a cantare: «Anime buone a noi d’intorno, proteggeteci notte e giorno. Venite al nostro soccorso, ispirate le nostre menti, guidate i nostri discorsi e i nostri movimenti».

Quando il canto finì, Florence cominciò a respirare profondamente, aspirando l’aria attraverso i denti serrati, a convulse boccate, mentre con entrambe le mani si strofinava per tutto il corpo. Ben presto la sua bocca si allentò e la sua testa cominciò a ciondolare. Il respiro era sempre affannato. Poi la medium si afflosciò sulla sedia e la sua testa oscillava qua e là. Alfine restò immobile.

Trascorsero dei minuti. Fischer cominciò a rabbrividire. Il freddo aumentava, come un’acqua gelida che sale lentamente, finché gli parve di esservi sommerso fino alla vita.

Sobbalzò: tenui chiazze di luce cominciarono ad apparire intorno a Florence. Lui ricordò una frase: fuochi di condensazione. Fissò quelle chiazze che si moltiplicavano e si facevano più grandi, sospese a mezz’aria di fronte alla medium come una galassia di pallidi soli in miniatura. Le gambe gli si erano quasi intorpidite. Presto, pensò.

Strinse le dita intorno ai braccioli della poltrona: del teleplasma cominciava a colar fuori dalle narici della medium. Quei filamenti viscosi sembravano tanti serpentelli grigiastri che s’allungavano, via via. Poi si unirono a formare un tessuto. Fischer osservava in silenzio, con la bocca secca. Il teleplasma cominciò a coprire come un velo il volto della medium. Fischer abbassò gli occhi poi li chiuse addirittura.

Un forte odore di ozono gli penetrò nelle narici, pareva di essere in un gabinetto eccessivamente disinfettato col cloro. Fu costretto a riaprire gli occhi e guardò. Una smorfia gli contrasse il viso. Il teleplasma aveva coperto tutta la testa di Florence, come se essa l’avesse infilata in un sacco umido e nebuloso. Ma a poco a poco questa massa informe, come se fosse modellata da un invisibile scultore, veniva assumendo l’aspetto di una maschera: ecco le orbite degli occhi, ecco il rilievo del naso, i buchi delle narici, le orecchie, la linea della bocca. In meno di un minuto fu completa: era la faccia di un giovane, dai capelli neri, molto bello, dall’espressione mesta.

Fischer si schiarì la gola. Il suo batticuore pareva irreale. «Hai il dono della favella?» domandò.

Gli rispose un suono gorgogliante, simile a un rantolo di agonia. Fischer sentì aggricciarglisi la pelle. Dopo mezzo minuto quei rantoli cessarono e fu di nuovo silenzio.

«Puoi parlare adesso?» domandò Fischer.

«Posso, sì.» La voce era indubbiamente maschile.

Fischer esitò. Poi chiese: «Chi sei?».

«Sono Daniel Belasco.» Le labbra non si muovevano, tuttavia la voce proveniva da quel pallido viso di uomo.

«Era il tuo corpo, quello che abbiamo trovato stamattina in cantina, nel muro?»

«Sì, il mio.»

«Ti abbiamo dato sepoltura, fuori di qui. Perché ti aggiri ancora in questa casa?»

«Non posso allontanarmene.»

«Perché?»

Non ci fu alcuna risposta.

«Perché?»

Nessuna risposta.

Fischer si torse le mani. «Hai avuto a che fare con l’assalto subito da Mister Barrett nel bagno turco, poc’anzi?»

«No.»

«E allora chi è stato?»

Non ci fu risposta.

«Sei stato tu ad attaccare il dottor Barrett nella sala da pranzo, ieri sera?»

«Non sono stato io.»

«E chi è stato?»

Silenzio.

«Sei stato tu a mordere Miss Tanner stamattina?»

«Non sono stato io.»

«Chi è stato?»

Silenzio.

«Sei stato tu a indemoniare il gatto che l’ha aggredita?»

«Non sono stato io.»

«E allora chi è stato?»

Silenzio.

«Chi è stato, dunque?» insistette Fischer. «Chi ha assalito il dottor Barrett? Chi ha morsicato Miss Tanner? Chi ha fatto indemoniare il gatto?»

Silenzio.

«Chi?» domandò Fischer.

«Non posso dirlo.»

«Perché no?»

«Perché non posso.»

«Ma perché?»

Silenzio.

«Devi dirmelo. Chi ha assalito il dottor Barrett prima a tavola e poi nel bagno turco? Chi ha morso Miss Tanner? Chi ha indemoniato il gatto?»

Udì quel respiro farsi affannoso.

«Chi?» insisté.

«Non posso…»

«Devi dirmelo.»

La voce si fece implorante. «Non posso…»

«Chi?»

«Non posso dirlo.»

«Chi?»

«Per favore…»

«Chi?»

Si udì come un singhiozzo.

«Lui» disse alfine la voce.

«Lui chi?»

«Lui.»

«Chi?»

«Lui. Lui!»

«Chi?»

«Lui!» gridò la voce. «Il gigante. Lui! Mio padre! Mio padre!»

Fischer si irrìgidi. Tutto fu silenzio. La faccia cominciò a perdere forma, il teleplasma si andava sciogliendo. Poi prese a rifluire entro le narici di Florence. Man mano che svaniva, Florence emetteva gemiti di sofferenza. In sette secondi, era sparito tutto.

Fischer sedette immobile per quasi un minuto, poi si alzò in piedi. Si sentiva intorpidito. Si diresse nella stanza da bagno. Riempì un bicchier d’acqua. Tornò di là in camera col bicchiere in mano. Stette immobile presso la sedia della medium, finché questa tornò in sé e aprì gli occhi.

Le porse il bicchiere, ch’essa vuotò in un solo sorso. Fischer andò ad accendere la luce.

Si sedette pesantemente sulla sedia di faccia a lei.

«È venuto?» ella chiese.

Lui le raccontò tutto. L’espressione della donna si fece intensa. Era molto eccitata.

«Belasco» pronunciò. «Naturalmente. Avremmo dovuto capirlo da noi.»

Fischer non rispose niente.

«Daniel non mi avrebbe torto un capello. Non avrebbe mai fatto del male al dottor Barrett, lui. Lo sapevo che non poteva essere Daniel, nonostante l’evidenza in contrario. Lo sentivo che non era possibile. Daniel è una vittima, anche lui, una vittima di questa casa.» Vide che Fischer aveva un’aria poco convinta. «Lei non è di questo avviso?» domandò. «Per me, lui è tenuto qui prigioniero da suo padre.»

Fischer la guardò in silenzio. Desiderava credere alle sue parole ma aveva paura di impegnarsi.

«Ma non capisce?» lei gli domandò, ansiosa. «Padre e figlio si fanno la guerra. Daniel cerca di fuggir via dalla Casa d’Inferno, e suo padre fa di tutto per impedirglielo: e cerca di metter me contro Daniel, cerca di farmi credere che Daniel intenda farmi del male, il che non è vero. Perché Daniel non vuole altro che…»

Poiché lei esitava, Fischer chiese: «Cos’è che vuole?».

«Il mio aiuto.»

«No, lei stava per dire qualcosa di diverso.»

«Invece sì: il mio aiuto. Sono l’unica in grado di aiutarlo. L’unica di cui lui si fidi. Non capisce?»

Fischer la guardò sospettoso. «Vorrei tanto capire» disse.


ore 15.47


Edith scivolò fuori del letto. Prese l’orologio di Lionel sul comodino, ne sollevò il coperchio. Quasi le quattro. Come poteva esser pronta per l’indomani, la sua macchina?

Lo guardò dormire. Chissà se é ancora convinto di quel che ha detto, pensò. Lei aveva ricevuto l’impressione sgradevole che lui non nutrisse più tanta fiducia in se stesso. Non l’avrebbe mai dato a vedere, peto, neppure a sua moglie. Quando si trattava di lavoro, era un uomo dall’orgoglio illimitato: lo era sempre stato.

Si alzò di scatto, andò all’armadio e ne aprì lo sportello. E va bene, l’avevano messa in guardia. Ma non era accaduto nulla, no? Il brandy l’aveva anzi rilassata, nient’altro. Dato che doveva restar in quella casa fino all’indomani, era decisa a rendere il suo soggiorno un po’ più sopportabile con l’aiuto di un goccio di liquore.

Allora prese la bottiglia e un bicchiere d’argento e li portò sul tavolino. Svitò il tappo della bottiglia e riempì il bicchiere fino all’orlo. Lo bevve d’un solo fiato. Reclinò la testa all’indietro, con gli occhi chiusi, la bocca spalancata, respirando a pieni polmoni, poiché il liquore le bruciava la gola. Le fece effetto di piombo fuso, nello stomaco e nel ventre. E di qui il calore si irraggiò per tutto il corpo, nelle vene pulsanti.

Se ne versò un altro bicchiere, colmo. Ne bevve un sorso. Si appoggiò al tavolo, scansando la scatola che conteneva il manoscritto di Lionel. Bevve ancora un sorso di brandy. Poi ingollò il resto, di nuovo piegando la testa all’indietro, con gli occhi chiusi, con un’espressione di godimento sessuale sul viso.

Ripensò alla scena di lei e Lionel nel bagno turco, evitando però di riflettere sul fatto che, a un certo punto, l’impotenza di lui l’aveva resa furiosa, quasi fosse colpa sua e non della polio. Quindi le venne fatto di pensare, e i suoi muscoli si tesero, che la vera ragione per cui Lionel voleva mandarla a Caribou Falls fosse che non voleva essere annoiato da lei e dai suoi desideri di donna perché voleva dedicarsi completamente alla sua macchina.

Batté le palpebre. Era terribile pensare una cosa simile, di Lionel, Se ne fosse stato capace, lui avrebbe fatto l’amore con lei. Ma davvero l’avrebbe fatto? si domandò. Oppure non gliene importava proprio nulla, a lui, dell’atto sessuale?

Fece un movimento brusco, per afferrare di nuovo la bottiglia, e la scatola col manoscritto cadde in terra e le pagine si sparpagliarono sul tappeto. Fece per raccoglierle, ma poi lasciò perdere. Restino lì, pensò. Le raccoglierò più tardi. Chiuse gli occhi, ingollando un altro bicchiere di brandy.

Si sentì traballare sulle gambe, a momenti cadeva. Sono sbronza, pensò. Per un momento un senso di colpa l’assalì. La mamma aveva ragione, pensò, io gli assomiglio, sono come lui. Ma si ribellò a quell’idea. No che non lo sono! disse alla madre, che le pareva di vedere. Sono una brava ragazza. Macché diavolo! Non sono una ragazza. Sono una donna. Che ha i suoi appetiti. E lui dovrebbe saperlo. Non è mica vecchio a quel punto. Né è impotente sul serio. È per via di sua madre e dei suoi scrupoli religiosi, non per via della polio. È che…

Cacciò via quel pensiero, e si diresse verso l’armadio, sbandando un poco. Si sentiva le membra piacevolmente sciolte, leggere, e la testa gradevolmente vuota. Loro si sbagliavano: ubriacarsi è l’unica soluzione. Pensò alla scansia di liquori in quella credenza in cucina. Sarebbe andata a prendere una bottiglia di bourbon, perché no, magari due bottiglie. Avrebbe bevuto tanto da perdere conoscenza, fino a domani.

Dalla scansia dei libri sfilò il volume cavo. Ma così in fretta che il finto libro cadde e le foto si sparpagliarono sul tappeto. Si mise in ginocchio e cominciò a guardarle a una a una. Si leccava le labbra, fremendo. A lungo osservò la foto di due donne che, sopra il tavolo del salone, si eseguivano a vicenda un cunnilingus. Le pareva che la stanza si facesse via via più calda.

D’un tratto gettò via quella foto come se le avesse scottato le dita. «No» mormorò, spaventata. Trasalì, poiché Lionel si era rigirato nel sonno. Poi si alzò in piedi e guardò intorno a sé come un animale in trappola.

Attraversò la stanza. Aprì la porta, uscì, la richiuse, trasalendo al cigolio dei cardini. Avrebbe voluto far più piano. Scuotendo il capo, come per schiarirsi le idee, si diresse verso la camera di Fischer.

Lui non c’era. Edith volse lo sguardo intorno, indecisa. Poi richiuse la porta e si diresse verso le scale. Si aggrappò alla balaustra, per non perdere l’equilibrio scendendo i gradini. Chissà perché, ora quella casa non le faceva più paura. Un’altra prova, pensò, che l’alcol è la cura migliore per tutto.

Aveva la sensazione di galleggiare nell’aria, scendendo quelle scale. Si ricordò di un vecchio film che aveva visto tempo addietro. C’era una donna che scendeva uno scalone come se scivolasse lungo un piano inclinato. E si paragonò a lei. E intanto si chiedeva come mai si sentisse così sicura di sé.

Ci fu un lieve riverbero, troppo veloce per essere distintamente captato. Edith batté le palpebre, esitando. Niente. Seguitò a scendere lo scalone. Lui sarà nel salone, si disse, starà prendendo dell’altro caffè. Non lo aveva mai visto mangiare. Non c’è da stupirsi che sia così magro.

Attraversò il vestibolo. Udì un rumore, di legno che si schianta. Di nuovo si soffermò. Esitò. Poi proseguì. Ma sì, ma sì, pensò. Sorrise fra sé. Non si era mai sentita così evanescente in vita sua. Chiuse gli occhi. Galleggio nell’aria, si disse fra sé. Padre e figlia, ubriachi per tutta la vita.

Si fermò sotto l’arcata e s’appoggiò allo stipite, con la testa che le girava. Batté le palpebre, mise a fuoco, a fatica, Fischer che le voltava le spalle. Stava usando il piede di porco per finire di aprire la cassa d’imballaggio. Molto gentile, ella pensò.

E trasalì, allorché Fischer si girò di scatto, brandendo il piè di porco, come pronto a usarlo contro un aggressore. Tanto rapido fu il suo movimento che la sigaretta gli schizzò via di tra le labbra.

«Kamarad» disse la donna, alzando le braccia come chi si arrende.

Fischer la guardava senza far motto, e il suo respiro era agitato.

«È arrabbiato?» ella gli chiese.

Lui non la lasciò continuare. «Che diavolo fa qui?»

«Nulla.» Si staccò dallo stipite e avanzò di qualche passo, sbandando un poco.

«È ubriaca?» Era stupito.

«Ho bevuto un po’, ammesso che questo sia affar suo.»

Fischer depose il piede di porco sulla tavola, avanzò verso di lei.

Ella fece un gesto in direzione della macchina. «Lionel sarà felicissimo che lei…»

Fischer la prese per un braccio. «Venga con me.»

Ella si scansò. «Mi lasci.» Vacillò lievemente, poi riprese l’equilibrio. Si volse verso la macchina.

«Signora Barrett…»

«Edith.»

Fischer di nuovo le prese il braccio. «Venga, su. Non avrebbe dovuto allontanarsi da suo marito.»

«Sta benissimo, lui. Dorme.»

Fischer cercò di condurla via ma ella resistette. E di nuovo si strappò da lui.

«Per amor del cielo!» egli esclamò.

Edith ebbe un sorrisetto canzonatorio. «No, non per amore suo.»

Fischer la guardò imbarazzato.

La donna si mosse verso la tavola, e aveva la vista un po’ appannata: le pareva che la stanza fosse piena di gente. È la mia immaginazione e niente più, si disse. Qui non c’è altro che dell’energia priva di volontà.

Raggiunse la tavola e passò un dito sul piano di essa.

Fischer le si accostò. «Deve tornare di sopra.»

«No, non mi va.» Gli afferrò una mano. Fischer la tirò via. Edith sorrise e di nuovo passò un dito sul piano della tavola. «È qui che si riunivano» disse.

«Chi?»

«I membri del club Les Aphrodites. Qui, intorno a questa tavola.»

Fischer tornò a prenderle il braccio. Edith gli afferrò una mano e se la portò sul seno. «Qui, intorno a questa tavola» ripeté.

«Lei non sa quello che dice.» Fischer ritrasse di nuovo la mano.

«So perfettamente quel che dico, Mister Fischer.» Edith ridacchiò. «Mister B. F. Fischer.»

«Edith…»

Ella gli si fece accosto e lo circondò con le braccia. «Non ti piaccio neanche un poco?» domandò. «Lo so che non sono bella come Florence ma…»

«Edith, è questa casa che le fa fare…»

«La casa non mi fa fare niente. Sono io che voglio farlo.»

Egli cercò di sciogliersi dal suo abbraccio. Ma la donna lo strinse a sé più forte. «Sei impotente anche tu?» lo canzonò.

Fischer le strappò via le braccia, la spinse lontano. «Si svegli!» gridò.

Essa divenne una furia. «Non dire a me di svegliarmi. Svegliati tu piuttosto, cretino. O non sei uomo?» Arretrò verso il tavolo, si issò su di esso. Si sbottonò la gonna. «Che ti succede, verginello?» lo minchionò. «Non hai mai avuto una donna?» Si slacciò furiosamente il maglione, lo apri, staccò il gancetto del reggiseno e, con dita tremanti, si accarezzò le tette. Sul suo viso c’era un’espressione di feroce dileggio. «Che ti succede, cocco? Non hai mai succhiato una tetta? Prova! È delizioso.»

Si calò giù dal tavolo e avanzò verso di lui, porgendogli il seno che stringeva fra le dita. «Succhiale!» disse, e la sua voce vibrava d’odio. La sua faccia era in un convulso di rabbia. «Succhiami il seno, finocchio, o sennò me lo faccio succhiare da una che ci sta.»

Fischer volse di scatto la testa. Edith seguì il suo sguardo e si sentì d’un tratto schiacciare da un enorme peso.

C’era Lionel sulla soglia.

Una spirale di tenebra l’avvolse, sentì che le gambe le si scioglievano, stava per cadere. Fischer fece per sorreggerla. «No!» ella gridò. Si piegò sulla destra e cadde addosso a una statua di marmo su piedistallo. Si aggrappò a essa. Il suo seno nudo premeva contro il marmo. Le pareva che la statua la guardasse con scherno. Edith gettò un grido. La statua capitombolò all’indietro e andò in pezzi sul pavimento. La donna cadde sulle ginocchia, poi venne meno.

E le tenebre l’avvilupparono.


ore 16.27


Una musica dolce suonava, da qualche parte, languidamente. Un valzer. E lei stava danzando, lieve, avvolta da una specie di nebbia. Si trovava nella sala da ballo? Non ne era sicura. La faccia del suo cavaliere era indistinta, eppure era certa che si trattasse di Daniel. Il suo braccio le circondava la vita, la sua sinistra le stringeva la mano destra. L’aria era tiepida e pervasa dal profumo di fiori. Rose, sì, rose. Era d’estate dunque. E una piccola orchestra d’archi suonava. Florence danzava al braccio del suo cavaliere, lieve, volteggiando con lui.

«Sei felice?» egli le chiese.

«Sì» ella sussurrò. «Tanto.»

Stavano girando una scena? Si trovava sul set di un film? Cercò di ricordare, ma non ci riuscì. Eppoi come poteva essere un film? Era tutto così reale. Non c’erano le luci, i riflettori, la cinepresa, i macchinisti, il fonico. No, quella era una sala da ballo reale. Florence cercò di nuovo di distinguere il viso del suo cavaliere, ma non riusciva a metterlo a fuoco. «Daniel?» mormorò, interrogativamente.

«Dimmi?»

«Sei tu, sei tu» disse Florence.

Allora lo vide: la sua faccia bellissima era mesta, gentile. Egli serrò il braccio intorno alla sua vita. «Ti amo» disse.

«E anch’io ti amo tanto.»

«Non mi lascerai mai? Starai sempre accanto a me?»

«Sì, amor mio, per sempre. Per sempre.»

Florence chiuse gli occhi. La musica si fece più veloce, ed ella si sentì trascinata in rapide evoluzioni intorno alla sala. Udiva il fruscio di altre vesti, la sala era piena di ballerini, di coppie di amanti. Florence sorrise. E anch’essa era innamorata. Amava Daniel. Daniel la sollevava, nella danza. Ella quasi non toccava i piedi per terra, le pareva di volare.

Sentì sul viso una brezza profumata e sorrise di nuovo. Erano usciti sempre ballando sulla veranda. Il cielo era trapunto di stelle, come tanti diamanti su un velluto nero. Non aveva bisogno di guardare per saperlo. La luna era piena, d’argento pallido. Diffondeva il suo tenue chiarore sul giardino oltre la balaustra. Non aveva bisogno di guardare. Lo sapeva. Aveva bevuto del vino? Si sentiva inebriata. No: era ebbrezza dello spirito. Era gioia e amore, una dolce musica suonava in lontananza e lei danzava col suo adorato Daniel, e lui, danzando, lentamente, la conduceva verso…

Egli gridò: «No!».

Florence trattenne il fiato, atterrita. Daniel le apparve nella foschia, bianco in volto, sgomento, e le faceva segno di fermarsi. Un’acqua gelida le intirizzì i piedi e le caviglie, un vento freddo le tagliò la faccia, un puzzo di marcio le salì alle narici. Gridando, vacillò all’indietro e cadde. Qualcosa parve sgusciar via sotto di lei. Florence annaspò e vide, per un attimo, un’alta figura vestita di nero svanire nella nebbia.

Ella rabbrividì per il freddo che le penetrava nella carne, in profondità. Giaceva sulla sponda dello stagno.

Era entrata nell’acqua fino ai polpacci.

Emettendo mugolii di terrore, si rialzò in piedi, si mise a correre verso la casa. Aveva le scarpe e le calze fradice. Era percorsa da brividi. Corse lungo il sentiero ghiaiato. La cieca facciata della casa si stagliava foscamente nella nebbia. Salì su pei gradini. Il portone era aperto. Corse dentro e lo chiuse sbattendolo, ci si appoggiò contro con tutto il peso.

Era scossa da brividi di freddo e di paura. Non poteva darsi requie. Si era quasi buttata nello stagno. L’idea l’inorridiva.

Trasalì vedendo una figura arrivare dalla cucina. Era Fischer, con un bicchiere in mano. Al vederla, si soffermò un momento, poi venne avanti. «Cos’è successo?» domandò.

«È whisky?»

Fischer annuì.

«Me ne faccia bere un po’.»

Le diede il bicchiere e Florence lo vuotò, poi fece una smorfia. Il liquido le bruciò la gola. Gli restituì il bicchiere.

«Insomma, cos’è successo?»

«Ha tentato di uccidermi!»

«Chi?»

«Belasco» essa rispose. Si aggrappò al suo braccio. «L’ho visto, Ben. L’ho intravisto mentre si allontanava dallo stagno.»

Gli raccontò quello che era accaduto. Belasco le aveva fatto credere di star danzando con Daniel, e invece l’aveva fatta dirigere verso lo stagno per annegarla. Daniel l’aveva avvertita all’ultimo momento, l’aveva salvata.

«Come ha potuto Belasco impossessarsi di lei?» lui le chiese.

«Dovevo essermi appisolata. Mi sentivo stanca dopo la seduta, dopo tutto quello ch’è accaduto quest’oggi.»

Fischer si mostrò impensierito. «Se adesso è addirittura in grado di impossessarsi di lei nel sonno…»

«No!» Essa scosse la testa. «Non ci riuscirà più. Ora sto sull’avviso. Non mi lascerò cogliere di nuovo alla sprovvista.» Rabbrividì. «Vogliamo andare accanto al fuoco?»

Si sedettero davanti al caminetto. Florence si tolse le scarpe e le calze, allungò i piedi su un panchetto. Un ceppo scoppiettava sul fuoco ravvivato. Ella disse: «Credo di aver scoperto il segreto della Casa d’Inferno, Ben».

Fischer non rispose nulla per quasi mezzo minuto. Poi disse: «Davvero?».

«È Belasco.»

«Come sarebbe a dire?»

«Lui aiuta di nascosto gli altri spiriti che infestano la casa. Insomma agisce da catalizzatore per tutte le forze infestanti. In tal modo rende sempre più infesta la sua casa e la protegge da ogni intruso.»

Fischer non rispose. Però Florence capì, da una scintilla nel suo sguardo, che le sue parole l’avevano toccato. Si alzò in piedi, lentamente, senza smettere di guardarla.

«Ci rifletta, Ben» ella disse. «Infestazione multipla controllata. Una cosa che non ha l’uguale, fra tutte le case infestate da spiriti. La volontà di un trapassato è così forte da dominare quella di tutti gli altri trapassati.»

«E lei pensa che gli altri spiriti se ne rendano conto?» lui chiese.

«Non lo so. Suo figlio sì, però. Se non fosse così, non avrebbe potuto salvarmi la vita.»

Quindi Florence soggiunse: «I conti tornano, Ben. Tutto fa capo a Belasco. È stato lui a impedirmi di entrare nella cappella. È stato lui a tentare d’impedirmi di scoprire il corpo di Daniel ieri sera. È stato lui a far in modo che sembrasse che Daniel mi avesse morso. Lui a indemoniare il gatto. Lui a condurre l’attacco poltergeist contro Barrett. Lui a cercare di metterci l’uno contro l’altro. È lui che tiene l’anima di Daniel imprigionata fra queste mura».

Fece una breve pausa. «Pensi un po’, Ben, quant’è grande il suo potere: al punto di impedire che un altro spirito prosegua per la sua via anche dopo aver ricevuto sepoltura consacrata… Sì. Forse questo avviene perché Daniel è suo figlio. Ma, anche considerando questo, ha dell’incredibile.»

Reclinò sulla poltrona, guardando le fiamme. «È come un generale alla testa di un esercito. Non entra mai nei corpo a corpo, ma dirige tutte le battaglie.»

«Come si può arrivare fino a lui, allora? I generali non si espongono.»

«Arriveremo fino a lui decimando man mano il suo esercito. Finché non avrà più nessuno. E dovrà scendere in campo da solo.» Lo guardò, c’era una luce di sfida nei suoi occhi. «Un generale senza l’esercito non conta niente.»

«Ma abbiamo poco tempo. Fino a domenica.»

Florence scosse il capo. «Io resterò qui finché non avrò completato l’opera» disse.


Chiuse la porta e andò presso il suo letto. Si inginocchiò. Recitò una preghiera di ringraziamento, perché la sua mente era stata illuminata. Poi recitò un’altra preghiera per chiedere la forza necessaria per agire di conseguenza a quel che aveva scoperto.

Terminate le preghiere, passò nella stanza da bagno per sciacquarsi i piedi: c’era ancora un residuo della puzza dello stagno. Mentre se li lavava e asciugava, pensò al duro compito che l’attendeva: liberare gli spiriti prigionieri della casa contro la volontà di Emeric Belasco. Sembrava un’impresa impossibile a compiersi.

«Ma io ci riuscirò» ella disse ad alta voce, come se Belasco stesse ad ascoltarla. Bisognava stare all’erta, però. Quel che Ben aveva detto era vero: «L’hanno ingannata una volta. Veda di non lasciarsi ingannare di nuovo».

E lei gli aveva risposto: «Ci starò attenta».

Proprio così. Doveva star bene in guardia, infatti. Era stata tratta abilmente in inganno, la sera avanti, allorché aveva sospettato che, dopotutto, l’attacco poltergeist contro il dottor Barrett potesse essere opera sua; ed era stata tratta in inganno quella mattina quando aveva supposto che Daniel potesse essere responsabile per i morsi e per l’aggressione del gatto. Non doveva lasciarsi ingannare di nuovo. Daniel non era responsabile per alcuna di quelle cose: egli era un tormentato, non già un tormentatore.

A mani giunte, Florence chiuse gli occhi. Ascoltami, Daniel, bisbigliò mentalmente. Ti ringrazio con tutto il mio cuore per avermi salvato la vita. Ma non capisci cosa ciò significa? Se tu puoi metterti contro la volontà di tuo padre, in questo, puoi anche disobbedirlo per quel che riguarda la tua permanenza qui. Non c’è bisogno che tu resti in questa casa. Sei libero di andartene, solo che tu abbia fede. Tuo padre non ha alcun reale potere per tenerti prigioniero. Chiedi l’aiuto di quelli dell’aldilà, e ti verrà concesso. Tu puoi lasciare questa casa.

Florence riaprì gli occhi, si levò di scatto. Andò a prendere la sua borsetta sul tavolo. Ne tolse una matita e un taccuino. Depose il taccuino sul tavolo e tenne la matita con la punta accostata alla carta. Subito la matita si mosse e cominciò a guidare la sua mano. Ella chiuse gli occhi e la matita seguitò a scrivere da sé, nella sua mano. Dopo un po’ smise, e la sua mano restò allora inerte. Guardò il taccuino.

«No!» Strappò via il foglio, lo appallottolò, lo gettò in terra. «No, Daniel. No!»

Restò lì tremante, accanto al tavolo, a fissare il pavimento. Quelle parole si erano incise nella sua mente.

Strada a senso unico.


ore 18.11


In piedi sul bordo dello stagno, Fischer ne esplorava la torbida superficie con la sua torcia elettrica. E due, pensava. Prima Edith, poi Florence. Spostava il cono di luce sull’acqua, facendo smorfie per il puzzo che ammorbava l’aria. Una volta, quando lavorava in un ospedale, aveva visto un uomo morire di cancrena. Ebbene, l’odore dello stagno aveva un tanfo simile.

Si guardò intorno. Udì dei passi avvicinarsi nella nebbia. Spense la torcia e, di scatto, si volse. Chi era? Florence? Non poteva esser lei che tornava lì, dopo quel che era accaduto. Barrett? sua moglie? Era poco probabile che l’uno o l’altra fossero usciti di casa. E allora chi era? Fischer si tese, mentre i passi si avvicinavano. Non riusciva a capire da che parte venissero, nella nebbia. Attese, rigido, col cuore che gli martellava.

Vide una lanterna. Riaccese la sua torcia. Si udì un’esclamazione strozzata. Fischer scorse due facce sparute nel raggio della sua torcia.

«Chi è là?» chiese il vecchio. La voce gli tremava.

Fischer riprese fiato e abbassò la torcia. «Niente paura. Sono uno dei quattro.»

La vecchia emise una specie di gemito. «Mio Dio» borbottò.

«Mi dispiace. Anch’io avevo preso paura» disse Fischer, per scusarsi. «Non m’ero reso conto ch’era ora di cena.»

«A momenti ci faceva pigliare un colpo» disse il vecchio, risentito.

«Mi dispiace.» Fischer volse loro le spalle.

I due borbottarono qualcosa d’indistinto e lo seguirono verso casa. Fischer aprì la porta, li lasciò passare, chiuse la porta, li seguì attraverso il vestibolo. I due si guardavano intorno a disagio. Indossavano pesanti cappotti. La donna aveva la testa avvolta in uno scialle. L’uomo portava un cappellaccio grigio.

«Come vanno le cose nel mondo?» domandò Fischer.

«Mmm» rispose l’uomo. La donna emise un mugolio di disapprovazione.

«Non importa» disse Fischer. «Noi abbiamo qui il nostro mondo.»

Seguì i due nel salone. Li osservò mentre disponevano i piatti sulla tavola. Li vide guardare la macchina di Barrett e poi scambiarsi un’occhiata. In fretta, raccolsero gli avanzi e i piatti sporchi del pranzo, e si diressero verso il vestibolo. Fischer si trattenne a stento dal fargli «Bu!» per vedere un po’ come avrebbero reagito. Se si erano spaventati per un raggio di luce, figuriamoci che effetto gli avrebbe fatto quel che era accaduto lì dentro da lunedì.

«Grazie!» gridò loro dietro mentre attraversavano l’arcata. Il vecchio grugnì qualcosa e lui e sua moglie si scambiarono un’altra occhiata.

Quando la porta d’ingresso fu richiusa, Fischer si appressò alla tavola e sollevò i coperchi dei vassoi. Fettine di agnello, piselli e carote, patate, biscotti, torta e caffè. Un pranzetto da re, pensò. Il suo sorriso era acre. O, piuttosto, l’ultima cena?

Si tolse la giacca, la gettò su una sedia, ci posò sopra la torcia. Si servì una cotoletta, vi aggiunse contorno di carote e piselli, e si versò una tazza di caffè. I pasti in comune non sembrano andar più di moda, pensò, dopo iersera. Si sedette a tavola e bevve del caffè. Poi cominciò a mangiare. Avrebbe portato la cena a Florence in camera.

Rifletteva su quel che la medium aveva detto. Non aveva fatto altro che pensarci. Per vedere se la sua tesi facesse acqua da qualche parte. Ma finora non aveva trovato nessuna falla. Era una tesi ragionevole, non c’era niente da dire.

Stavolta Florence era sulla pista giusta.

Sentiva in sé una strana certezza, non del tutto soddisfacente però. L’avevano sempre saputo, che Belasco era lì (lui e Florence perlomeno non ne avevano mai dubitato) ma, quanto a lui, si era trattato sempre — come dire? — di una cognizione teorica. Non aveva mai realmente pensato all’eventualità pratica di venire a un confronto diretto con Belasco. Sì, è vero, nel 1940 si era già messo in contatto con lui, ma era stato qualcosa di evanescente: una specie di tessuto non connettivo nell’organismo della Casa d’Inferno.

Adesso era diverso. Adesso era qualcosa di definitivo. Non si trattava più di scaramucce ma di uno scontro campale. Usando mezzi anomali, servendosi cioè di potenze subalterne, l’elusivo Belasco era in grado di agire in vari campi senza dovervisi manifestare personalmente. In tal modo egli creava un quadro incomprensibile, di cui non si riusciva a cogliere il disegno, una musica il cui motivo conduttore sfuggiva di continuo. Infatti, egli creava effetti mediante altre entità, ora l’una ora l’altra, senza esporsi, restando sempre dietro le quinte. Appunto, come aveva detto Florence: un generale che guida il suo esercito.

Ripensò al disco sul grammofono. Non si era trattato di una coincidenza. Era stato il “benvenuto” di Belasco al loro arrivo nella sua dimora, nel suo regno, nel suo campo di battaglia. Riudì ancora quella voce strana, quel tono di scherno. Benvenuti in casa mìa. Sono lieto che siate potuti venire.

Fischer si volse. Era entrato Barrett e stava venendo avanti, col suo passo claudicante, pallido in volto, dall’aria solenne. Chissà se vorrà parlare dell’incidente, adesso, si domandò Fischer. Prima, non aveva detto nulla. All’umiliazione di aver trovato sua moglie in quello stato, si era aggiunta poi quella di esser dovuto ricorrere all’aiuto di Fischer per portarla di sopra.

Fischer attese. Barrett guardò la sua macchina, perplesso. Poi guardò Fischer. «È stato lei?» domandò, a voce bassa.

Fischer annuì.

Un lievissimo tremito increspò le labbra di Barrett. «Grazie» mormorò.

«Non c’è di che.»

Barrett claudicò fino alla tavola e cominciò a riempire due piatti, usando la sinistra. Aveva la destra impedita per la ferita al pollice.

«Non l’ho ancora ringraziata per quel che ha fatto per me» disse Barrett. E soggiunse in fretta: «Nel bagno turco».

«Senta, dottore…»

Barrett alzò lo sguardo.

«Quel che è accaduto qui poco fa…»

«Preferirei non parlarne, se non le dispiace.»

Ma Fischer insistette. «Sto soltanto cercando di aiutare.»

«Lo apprezzo molto, ma…»

«Senta, dottore,» Fischer lo interruppe «c’è qualcosa in questa casa che agisce su sua moglie. Quel che è accaduto poco fa qui…»

«Mister Fischer…»

«… non dipendeva da lei.»

«Se non le spiace, Mister Fischer…»

«Dottor Barrett, è questione di vita o di morte. Lo sa che iersera sua moglie stava per buttarsi nello stagno?»

Barrett trasalì, colpito. «Quando?» domandò.

«Verso mezzanotte. Lei dormiva, dottore.» Fischer fece una pausa a effetto. «E anche sua moglie dormiva.»

«Camminava nel sonno?» Barrett si mostrò atterrito.

«Se non l’avessi vista io mentre usciva di casa…»

«Me l’avrebbe dovuto riferire subito.»

«Sua moglie avrebbe dovuto dirglielo. Il fatto che non glielo abbia detto…» S’interruppe, notando la faccia offesa di Barrett. «Dottore, io non so come li spiega lei, gli strani avvenimenti di questa casa, ma…»

«Come io spieghi determinati fenomeni è irrilevante agli effetti del presente colloquio, Mister Fischer.» Il suo tono era gelido.

«Irrilevante?» Fischer si mostrò stupito. «Cosa diavolo vuol dire, irrilevante? Gli avvenimenti in questione agiscono su sua moglie. Agiscono su di lei. Agiscono su Miss Tanner. O non se n’è reso conto, magari?»

Barrett lo guardò in silenzio, con un’espressione dura. «Mi sono reso conto di un certo numero di cose, Mister Fischer» disse alfine. «E una di queste è che Mister Deutsch spreca una terza parte del suo denaro.»

Prese il vassoio con i piatti e le due forchette e se ne andò.

A lungo Fischer restò immobile, a fissare il vuoto, dopo che l’altro fu uscito dal salone.

«Al diavolo» borbottò. Che cosa s’aspettava dunque da lui, Barrett, in nome di Dio? Che si suicidasse a poco a poco come Florence? Forse il suo era il modo di procedere più giusto, tant’è vero che finora era l’unico a non aver subito danni.

La verità si abbatté su di lui così violentemente che gli fece trattenere il respiro. «No» mormorò con rabbia. No, non era vero. Lui sapeva quel che faceva. Fra tutti e tre, lui era l’unico che…

Questo suo pensiero di autodifesa s’infranse in mille pezzi. Fischer sentì una nausea atroce. Barrett aveva ragione. Florence aveva ragione.

Quei trenta anni di attesa non erano stati altro che una vana illusione.

Si alzò in piedi, soffocando un’imprecazione, e si diresse verso il caminetto. No, non era possibile. Non poteva ingannarsi in modo così completo. Cercò di ricapitolare quel che lui aveva fatto da lunedì in poi. Era stato lui a prevedere che avrebbero trovato la porta chiusa a chiave, non è vero? La sua mente respinse quel titolo di merito. E va bene, però sei stato tu a salvare Edith, no? Sì, ma solo perché non riuscivo a dormire e, per caso, mi trovavo a pianterreno, rispose a se stesso. E che hai da dire riguardo al salvataggio di Barrett, allora? Niente, rispose dentro di sé. Era andato in suo soccorso, ecco tutto, dato che si trovava a portata di mano. Anzi, a un certo punto avrebbe desistito, se non avesse visto la faccia disperata della signora Barrett. Che altro? Ah, sì, aveva dato una mano a sballare la macchina. Magnifico, pensò. Mister Deutsch aveva assunto un manovale da centomila dollari!

«Cristo» borbottò. Poi gridò forte: «Cristo!». Nel 1940 lui era il più potente medium fisico degli Stati Uniti, quando aveva quindici anni appena. Quindici! E adesso, a quarantacinque, era un illuso, un parassita, uno scansafatiche che sperava di intascare centomila dollari senza far niente. Lui! Quello che avrebbe dovuto fare di più di tutti!

Si mise a camminare su e giù davanti al caminetto. Quel senso di colpa, misto a rabbia e vergogna, era insopportabile. Non si era sentito mai così insignificante. Si aggirava per la Casa d’Inferno come una tartaruga, tirando dentro la testa al menomo allarme. Lui non vedeva nulla, lui non sapeva, non faceva nulla, aspettava che gli altri svolgessero il lavoro che spettava a lui svolgere. Aveva accettato di venire, no? ebbene, eccolo là, era tornato. Qualcosa, Dio sa come, l’aveva spinto a cercare una rivincita.

E adesso rinunciava dunque a prendersela?

Fischer si arrestò, volse in giro lo sguardo, rabbioso. Chi diavolo è Belasco? pensò. E chi sono gli altri spiriti che brulicano in questa casa come vermi in una carogna? Avrai dunque paura, si chiese, fino alla fine dei tuoi giorni? Non sono riusciti ad ammazzarti nel 1940, e allora eri un ragazzo, un giovincello sprovveduto e troppo sicuro di sé, eppure non sono riusciti a distruggerti lo stesso. Come hanno distrutto Grace Lauter, una delle più stimate medium mentali dell’epoca. Come hanno distrutto il dottor Graham, un medico, un osso duro, un uomo intrepido. Come hanno distrutto il professor Rand, una delle maggiori autorità del Paese in campo chimico, preside della sua facoltà alla Hale University. Come hanno distrutto il professor Fenley, un sagace, astuto, esperto spiritualista, che era uscito indenne da mille trabocchetti.

Solo lui era sopravvissuto, solo lui aveva conservato intatte le sue facoltà mentali: lui soltanto, un credulo ragazzo quindicenne. Nonostante che lui avesse virtualmente chiesto di venir annichilito, la casa non era riuscita che a vomitarlo, lasciandolo sul portico, sperando che morisse assiderato. Non era stata capace di ucciderlo. Perché non aveva mai ragionato in questo modo, finora? Nonostante l’opportunità che aveva di farlo, non era stata capace di ucciderlo.

Fischer andò a sedersi su una delle poltrone. Chiuse gli occhi, si mise a respirare profondamente: cominciò a dischiudere le porte della sua coscienza prima che cambiasse idea. Un senso di fiducia pervadeva il suo corpo e il suo spirito. Non era più un ragazzo, era un uomo ragionevole; e non tanto ciecamente fiducioso da rendersi troppo vulnerabile. Si sarebbe dischiuso con cautela, a poco a poco, senza lasciarsi sopraffare dalle proprie impressioni, come Florence. Lui avrebbe proceduto guardingo, adagio adagio, controllando ogni passo con la sua intelligenza di adulto, riponendo fiducia soltanto in se stesso, senza permettere ad altri di controllare le sue percezioni in alcun modo.

Smise di respirare profondamente. Attese, coi nervi tesi, all’erta. Ancora niente. C’era un vuoto ih lui. Aspettò ancora, aguzzando le sue facoltà, cercando di captare qualcosa nell’aria. Invece niente. Riprese a respirare profondamente, dischiudendo le porte della coscienza un po’ di più, poi si arrestò di nuovo, e attese.

Niente. Fischer sentì una punta di sgomento. Aveva dunque atteso troppo a lungo? E il suo potere si era atrofizzato? Strinse le labbra, si sentì impallidire. No. No. Lo possedeva ancora. Respirò profondamente. Poi sentì un prurito ai polpastrelli. Gli parve come se una ragnatela si formasse intorno al suo viso, come se il suo plesso solare si fiaccasse verso l’interno. Non andava in trance da anni. Da troppi anni. Aveva dimenticato quel che si prova: quell’espandersi della coscienza, quel dilatarsi dei sensi lungo una vasta gamma. Ogni rumore giungeva ingigantito alle sue orecchie: il crepitare del fuoco, gli infinitesimi scricchiolii della sua poltrona, il pulsare del suo cuore, il suo respiro. E l’odore della casa si faceva più intenso. Il tessuto dei suoi indumenti si faceva ruvido sulla sua pelle. Si sentiva lambire dal calore del fuoco.

Si aggrondò. Non succedeva nient’altro. Come mai? Non ci si raccapezzava. Quella casa avrebbe dovuto essere zeppa di spiriti, altro che. Se n’era ben accorto, della loro presenza, non appena messo piede lì dentro, lunedì, come d’una nube di influenze psichiche, come di un ammasso di energia pronta all’attacco, pronta ad approfittare della minima svista, del minimo passo falso, del primo errore di valutazione.

Passo falso. Si allarmò. Errore di valutazione.

Subito tentò di tirarsi indietro. Ma, già, qualcosa di vasto e di nero lo stava assalendo, qualcosa ch’era dotato di discernimento, qualcosa di violento, intenzionato a schiacciarlo. Fischer ansimò e si spinse con la schiena contro la sedia, cercando disperatamente di riprendere il controllo di sé.

Ma non fece in tempo. Prima che riuscisse a proteggersi, quella forza arcana lo sopraffece, penetrò nel suo essere attraverso la smagliatura nella sua corazza. Gettò un grido. La forza arcana era dentro di lui, gli torceva le viscere, gli lancinava gli organi interni, minacciava di sventrarlo, di fargli il cervello a pezzi. Gli occhi gli sgusciarono dalle orbite, carichi di terrore. Piegandosi in due, si premette le mani sulla pancia. Qualcosa lo colpì sulla schiena, lo fece ruzzolare dalla sedia. Cozzò contro uno spigolo del tavolo, ricadde, si sentiva strangolare. La stanza cominciò a girare in tondo. La sua atmosfera divenne un mulinello di forze barbariche. Fischer stava ginocchioni, con le braccia incrociate sul petto, cercando di cacciar fuori quella potenza selvaggia. Essa cercava di aprirgli le braccia. E lui opponeva resistenza, a denti stretti. La sua faccia era una maschera di pietra. Era teso nello spasimo. Un suono gorgogliante gli usciva dalla strozza. Non ci riuscirai! pensava. Non ci riuscirai!

Quel potere d’un tratto svanì, risucchiato nell’aria. Fischer vacillò sulle ginocchia. Sul suo viso era l’espressione di uno che ha appena ricevuto un colpo di baionetta nello stomaco. Cercò di tirarsi dritto ma non vi riuscì. Con un gemito strozzato cadde su un fianco, rattrappì le gambe, piegò in giù la testa finché non ebbe raggiunto la posizione di un feto. Con gli occhi chiusi, era scosso da un tremito convulso. Sentiva il tappeto sotto il collo, sentiva crepitare il fuoco nel caminetto. E gli pareva che qualcuno lo sovrastasse, in piedi accanto a lui, e lo guardasse con un freddo, sadico piacere, godendosi lo spettacolo di lui ridotto così a mal partito, disfatto nel fisico e nella volontà.

E certo meditava di finirlo. Prima o poi. In qualche modo.


ore 18.27


In piedi accanto al letto, Barrett guardava Edith e si chiedeva se svegliarla oppure no. La cena si raffreddava. Ma di cosa aveva più bisogno, di cibo o di riposo?

Sedette sul proprio letto con un gemito. Accavallando la gamba sinistra sopra la destra, si tastò la scottatura. Il pollice ferito era fuori uso. Sarebbe stato necessario suturare il taglio. Forse si stava infettando. Aveva paura di sfasciarlo e vedere.

Non sarebbe riuscito a lavorare alla sua macchina, quella sera. Il minimo sforzo gli procurava dolori lancinanti alla schiena e alla gamba. Solo scendere al piano di sotto era un’impresa, nelle sue condizioni. Con una smorfia, si sfilò una scarpa. Anche i piedi gli si stavano gonfiando. E per domani doveva portare tutto a termine. Non sarebbe resistito più a lungo.

Rendendosi conto di questo, la sua fiducia si fece anche più tenue.

L’avevano svegliato dei rumori: qualcosa che tonfava sul tappeto. Lentamente era emerso da un sonno di piombo, e gli era parso di sentir sbattere una porta da qualche parte. Quando alla fine aveva aperto gli occhi, Edith era scomparsa.

Lì per lì aveva pensato che fosse al bagno. Poi con la coda dell’occhio aveva visto qualcosa sul tappeto. Si era sollevato e aveva visto le pagine del manoscritto sparse in terra. Poi aveva visto le foto sparse ai piedi dell’armadio.

Allora si era messo in allarme. Afferrato il bastone, si era alzato. Aveva notato la bottiglia di brandy sul tavolo, con accanto il bicchiere. Era andato all’armadio e, chinatosi, aveva visto che razza di fotografie fossero quelle.

«Edith!» chiamò, verso il bagno. «Edith, sei là?» Aveva claudicato fino alla porta del bagno e aveva bussato. «Edith!»

Nessuna risposta. Aveva atteso qualche istante, poi aveva girato la maniglia. La porta era aperta.

Lei non c’era.

Sbigottito, era uscito dalla camera, cercando di non farsi prendere dal panico. Ma dovunque vedeva segni infausti. Il manoscritto sparso in terra, quelle foto, la bottiglia di brandy sul tavolo, e soprattutto l’assenza di Edith.

Si era diretto verso la stanza di Miss Tanner. Aveva bussato, aveva atteso qualche secondo, poi aveva bussato di nuovo. Non ottenendo risposta, aveva aperto la porta, e aveva visto Miss Tanner addormentata nel suo letto. Si era ritirato, aveva chiuso la porta, si era diretto verso la stanza di Fischer.

Là non c’era nessuno, e allora si era sentito prendere dal panico. Si era affacciato dalla balaustra prospiciente il vestibolo, essendogli parso di udire delle voci dal pianterreno. Aggrondandosi, aveva cominciato a scendere le scale più in fretta che poteva, stringendo i denti per il dolore alla gamba. Gliel’aveva allarmato anche di più e aveva affrettato il passo.

Aveva udito la sua voce, mentre attraversava il vestibolo, la voce alterata di Edith che diceva: «È delizioso!». Allora si era allarmato anche di più e aveva affrettato il passo.

Raggiunta l’arcata, era rimasto là paralizzato, a guardare con aria sbigottita Edith, sua moglie, che, a petto nudo, porgeva il seno a Fischer e gli ordinava di…

Barrett aveva chiuso gli occhi, passandosi una mano sulla fronte. Non l’aveva mai udita usare un simile linguaggio in tanti anni di vita matrimoniale, mai l’aveva vista comportarsi così, né con lui né tanto meno con un altro uomo. Che fosse repressa, l’aveva sempre saputo. I loro rapporti sessuali erano, per necessità, quello che erano. Ma questo…

Barrett guardò sua moglie che dormiva. Con il riacutizzarsi del dolore, provò un intenso desiderio di vendetta, e di nuovo la rabbia montava nel suo petto. Cercò di dominare quegli istinti. Desiderava credere che tutto fosse dovuto alla nefanda influenza della casa. Ma non riusciva a vincere un dubbio che lo rodeva: che la causa di quel che era avvenuto risiedesse invece da qualche parte nel profondo di lei. E questo spiegava l’improvvisa animosità delle parole che lui aveva rivolto a Fischer, lo riconobbe.

Si fece accanto al letto di sua moglie. Dovevano parlare. Non poteva sopportare quel dubbio più a lungo. La toccò su una spalla, la scosse lievemente.

Ella si destò con un sussulto, spalancando gli occhi, ritraendo le gambe. Barrett cercò di sorridere ma non ci riuscì. «Ti ho portato la cena» le disse.

«La cena.» Ripeté quella parola come se non l’avesse mai udita prima, in vita sua.

Egli annuì. «Perché non vai a lavarti?»

Edith si guardò intorno. Si domanda dove avrò messo le foto, chissà, lui pensò. La donna si levò a sedere, si guardò addosso. Lui le aveva riallacciato il reggiseno e i bottoni rimasti del maglione. Ella se lo attillò, poi si alzò in piedi e si diresse verso il bagno.

Barrett claudicò fino al tavolo ottagonale, prese la scatola del manoscritto e la trasferì sull’altro tavolino, accanto alla libreria. Quindi tornò al tavolo ottagonale e, spostata una sedia con un certo sforzo, si sedette. Guardò la cotoletta d’agnello e il contorno sul suo piatto, e sospirò. Non avrebbe mai dovuto condurre sua moglie in quella casa. Era stato un gravissimo errore.

Si volse all’aprirsi della porta del bagno. Edith, che s’era lavata la faccia e pettinata, venne avanti e si sedette. Non prese le posate. Stava là ingobbita, con le pupille basse, come una bimba in castigo. Barrett si schiarì la gola. «La carne si è raffreddata,» disse «ma… hai bisogno di mangiare.»

La vide mordersi il labbro inferiore, che le tremava. Dopo un po’ la donna disse: «Non c’è bisogno che tu sia gentile con me».

Barrett sentì l’impulso di gridare, ma si contenne. «Non avresti dovuto bere ancora quel liquore» le disse. «L’ho esaminato e, se non mi sbaglio, contiene più del cinquanta per cento di assenzio.»

Lei lo guardò interrogativamente.

«Un afrodisiaco.»

Edith seguitò a fissarlo in silenzio.

«Quanto al resto,» egli soggiunse «in questa casa c’è una potente influenza. Credo che essa abbia cominciato ad agire su di te.» Perché le parlo così? si chiese. Perché l’assolvo?

Barrett sentiva un vuoto nello stomaco, un tremore.

«Questo è tutto?» ella disse, alla fine.

«Tutto?»

«Hai… risolto il problema?» C’era un tono di scherno, di risentimento, nella sua voce.

Barrett si sentì mortificato. «Sto cercando di ragionare.»

«Capisco» ella sussurrò.

«Preferiresti che dessi in escandescenze? Che ti insultassi?» Si alzò in piedi. «Sto cercando, per il momento, di dar la colpa a forze estranee.»

Edith non disse nulla.

«Lo so che non ti ho dato abbastanza… amore fisico» disse lui, con uno sforzo. «È per via della poliomielite ma… forse questo non basta a spiegare tutto. Forse è anche per via dell’influenza di mia madre. Forse è anche per via del mio lavoro che mi assorbe troppo, e mi rende incapace di…»

«Ti prego!»

«Do la colpa a tutto ciò» egli disse, con tono deciso. «A me stesso e a questa casa.» La sua fronte era madida di sudore. Ci passò un fazzoletto. «Per ora diciamo che sono queste le cause. Se ci sono anche altri fattori… ne tratteremo più tardi. Quando saremo tornati a casa.»

Attese. Edith annui, dopo un poco.

«Avresti dovuto riferirmi quello ch’era accaduto ieri sera.»

Ella alzò gli occhi di scatto.

«Che a momenti andavi a buttarti nello stagno.»

Edith parve sul punto di dire qualcosa. Ma poi dovette cambiare idea e ripiegò su un’altra frase: «Non volevo farti stare in pensiero».

«Capisco.» Si mosse, con un gemito. «Mi riposerò un tantino la gamba prima di scendere di sotto.»

«Vuoi lavorare stasera?»

«Devo finire per domani.»

Ella gli andò vicino. Lui si coricò, sollevando con un certo sforzo la gamba destra. Aveva le caviglie gonfie. Edith lo notò ma cercò di non mostrarsi impressionata. «Non è niente» lui disse.

La donna stava in piedi accanto al letto e aveva un’aria preoccupata. Alla fine disse: «Vuoi che me ne vada, Lionel?».

Lui non rispose subito. «No, se prometti che d’ora in avanti non ti allontanerai mai da me.»

«Va bene.» Ella tacque poi, d’impulso, sedette accanto a lui. «Lo so che non puoi perdonarmi adesso» disse. «E neanche me l’aspetto… No, per favore, non dir nulla. Lo so quello che ho fatto. Darei vent’anni di vita per tornare indietro.»

Chinò la testa. «Non lo so perché ho bevuto quella roba. Tranne che mi sentivo nervosa… avevo paura. Non lo so perché sono scesa a pianterreno. Ero cosciente di quel che facevo, ma, al tempo stesso…»

Alzò gli occhi, ch’erano gonfi di lacrime. «Non chiedo perdono. Solo cerca di non odiarmi troppo. Ho bisogno di te, Lionel. Ti amo. E non lo so cosa mi sta succedendo.» Riusciva a malapena a parlare. «Non lo so proprio, cosa mi succede.»

«Mia cara.» Nonostante il dolore, Barrett si tirò su e la circondò con le braccia, guancia a guancia. «Non fa niente. Passerà tutto, quando saremo andati via da qui.» La baciò sui capelli. «Anch’io ti amo. Ma questo l’hai sempre saputo, no?»

Edith si strinse a lui, singhiozzando. Andrà tutto bene, egli pensò. È stato per via della casa. Tutto si sarebbe risolto, una volta andati via da lì.


ore 19.31


Florence si raddrizzò, con un gemito. Appoggiandosi sulla sponda del letto si alzò in piedi. Che ore saranno? si domandò. Guardò l’orologio. Mamma mia, così tardi! pensò, sgomenta.

E lui era ancora lì.

Con un pesante sospiro andò nella stanza da bagno e si sciacquò la faccia con acqua fredda. Mentre si asciugava, si guardò allo specchio. Era molto sciupata.

Per più di due ore era stata in ginocchio a pregare per la liberazione di Daniel. A mani giunte, si era rivolta a tutti gli spiriti che in passato l’avevano aiutata, chiedendo loro di far sì che Daniel riuscisse a spezzare le catene che lo tenevano prigioniero della Casa d’Inferno.

Non aveva funzionato. Terminato di pregare, ella aveva sentito la presenza di Daniel accanto a sé.

Che aspettava.

Florence appese l’asciugamano e uscì dalla stanza da bagno. Attraversò la camera, uscì pel corridoio e si diresse verso lo scalone. Si sentiva sempre più legata a Daniel e questo la disturbava. Dovrei fare di più, si diceva, ci sono tante altre anime da salvare. Potrò restare qui, nella Casa d’Inferno, tutto il tempo necessario per compiere l’opera che mi sono prefissa? Senza cibo, né luce, né riscaldamento, come sopravvivere? Era chiaro che, trascorsa la domenica, Deutsch avrebbe fatto richiudere la casa.

E le altre entità con cui s’era messa in contatto da lunedì in poi? Le quali, poi, rappresentavano solo una piccola parte del numero effettivo, ne era certa. Dei ricordi si affollarono nella sua mente mentre scendeva le scale. Quel “qualcosa” nella sua stanza (non poteva trattarsi di Daniel). Quel senso di pena e dolore che aveva provato uscendo dal garage lunedì pomeriggio. L’entità furiosa che aveva chiamato la casa «una maledetta fogna», per le scale degli scantinati. Lo spirito perverso nel bagno turco. Si sentiva ancora terribilmente in colpa per non aver messo in guardia il dottor Barrett. Lo spirito che Nuvola Rossa aveva descritto come un uomo delle caverne coperto di piaghe. Le presenze nella cappella che le avevano impedito di entrarci (poteva non trattarsi di Belasco). La figura che durante la prima seduta spiritica aveva allungato la mano verso la signora Barrett. Florence scosse la testa. Ce n’erano moltissimi. La casa era piena di spiriti infelici. Anche adesso lo sentiva che, se si fosse aperta, ne avrebbe incontrati parecchi altri. Erano dappertutto. Nel teatro, nella sala da ballo, nella sala da pranzo, nel salone: dappertutto. Sarebbe bastato un anno a mettersi in contatto con tutti quanti?

Ripensò, con angoscia, alla lunga lista che Barrett aveva. Apparizioni… Fenomeni chimici… Chiaroveggenza… Voci dirette… Ideoplasmi… Impronte… C’erano un centinaio di voci su quella lista. Essi avevano appena graffiato la superficie della Casa d’Inferno. Fu assalita da un cupo senso di disperazione. Cercò di ribellarsi a esso, ma non ci riusciva. Si poteva anche arrivare a risolvere l’enigma, a poco a poco, se uno aveva un tempo illimitato a disposizione. Ma una settimana appena! E ormai ne restavano quattro giorni e poco più.

Con uno sforzo di volontà, raddrizzò le spalle. Farò quel che posso, si disse. Di più non posso fare. Se anche, in capo a una settimana, sarò riuscita solo a donare la pace a Daniel, questo sarà abbastanza. Entrò decisa nel salone. Aveva fame. Non avrebbe tenuto sedute, non più. Doveva nutrirsi bene per il resto di quella settimana. Si appressò alla tavola e si servì qualcosa dal vassoio.

Stava per mettersi a mangiare quando lo vide. Stava seduto davanti al caminetto fissando le fiamme languenti. Non si era neanche voltato a guardarla.

«Non l’avevo mica visto» ella disse. Prese il piatto e andò accanto a lui. «Le dispiace se mi siedo vicino a lei?»

Lui la guardò come se fosse un’estranea.

Florence sedette su una poltrona e cominciò a mangiare.

«Cosa c’è che non va, Ben?» gli domandò, poiché lui non dava segno di gradire la sua compagnia.

«Niente, niente.»

Ella esitò, poi soggiunse: «È successo qualcosa?».

Fischer non rispose.

«Mi era parso così ottimista, prima.»

Lui non disse niente.

«Cos’è successo, Ben?»

«Niente.»

Florence trasalì al suo tono rabbioso di voce. «Le ho fatto io qualcosa? senza volere?»

Lui sospirò, non disse nulla.

«Pensavo che avessimo fiducia l’uno nell’altra, Ben.»

«Io non ho fiducia in niente e in nessuno» lui disse. «E chiunque ha fiducia in qualcosa, in questa casa, è un pazzo.»

«Qualcosa è successo, dunque.»

«Un mucchio di cose sono successe» disse lui, brusco.

«Tutte cose di cui possiamo venir a capo.»

«Si sbaglia!» La guardò, con occhi carichi di veleno… e di paura. «Non c’è niente in questa casa di cui possiamo venire a capo. Niente di cui nessuno possa venire a capo.»

«Non è vero, Ben. Abbiamo fatto enormi progressi.»

«Verso che cosa? Verso le nostre tombe?»

«No.» Ella scosse il capo. «Abbiamo scoperto molte cose. Daniel per esempio. E il modo in cui Belasco lavora.»

«Daniel, sì!» esclamò lui, sprezzante. «Come lo sa che c’è un Daniel? Barrett pensa che se lo sia inventato lei. E magari ha ragione!»

«Ma, Ben, la salma… l’anello…»

«Una salma. Un anello» lui l’interruppe. «Sono queste le sue prove? La sua logica serve per mettere la testa sotto la mannaia.»

Florence ci restò male, alla malevolenza che c’era nel suo tono di voce. Ma che cosa gli era successo?

«Come lo sa che non si sono burlati di lei dal primo istante che ha messo piede qui dentro?» lui le chiese. «Come lo sa che Daniel Belasco non è un parto della sua fantasia? e che la sua personalità e i suoi problemi non se li è inventati lei? Come lo sa?»

Balzò in piedi, fissandola con occhi di fuoco. «Ha ragione lei» disse. «Sì, ha ragione, io sono bloccato, sono chiuso. E va bene, resterò chiuso e bloccato fino alla fine di questa settimana. Poi intascherò i miei centomila maledetti dollari e starò cento miglia alla larga da questa maledetta casa, per il resto dei miei giorni. Le suggerisco di fare lo stesso.»

Girò sui tacchi e attraversò la stanza a gran passi rabbiosi.

«Ben…» lo chiamò lei. Ma lui non le diede retta. Florence cercò di alzarsi e seguirlo, ma non ne ebbe la forza. Ricadde sulla poltrona, fissando lo sguardo in direzione del vestibolo. Dopo un poco posò il piatto. Le parole di Fischer avevano avuto un terribile impatto su di lei. Cercò di non pensare a esse, ma invano. Era di nuovo in preda a mille incertezze. Lei, ch’era sempre stata una medium mentale, perché avrebbe dovuto diventare, così, tutt’a un tratto, una medium fisica? Non aveva senso, era una cosa senza precedenti.

La sua fede ne era minacciata.

«No.» Scosse la testa. Non era vero. Daniel esisteva sul serio. Lei doveva credere in questo. Lui le aveva salvato la vita. Le aveva parlato, l’aveva implorata.

Implorato. Parlato. Salvato la vita.

Come lo sai che Daniel Belasco non è un parto della tua fantasia?

Cercò di respingere da sé l’atroce dubbio, ma questo non la lasciava in pace. Ammesso che Daniel fosse frutto della sua immaginazione, ella avrebbe potuto benissimo immaginare che lui le aveva salvato la vita. In trance, lei avrebbe potuto dirigersi verso lo stagno per dimostrare l’intento omicida di Emeric Belasco, poi avrebbe potuto destarsi da sé sull’orlo dello stagno per dimostrare che Daniel esisteva e che voleva salvarle la vita; e avrebbe potuto procurare a se stessa la visione di Belasco padre che si allontanava nella nebbia.

«No, no.» Di nuovo scosse la testa. Non era così. Daniel esisteva, sul serio.

Sei felice? Il ricordo di queste parole riaffiorò alla superficie della sua coscienza. Sì. Tanto. Le parole che aveva scambiato con Daniel ballando… o immaginato di scambiare con lui mentre immaginava di ballare. Sei felice? Sì. Tanto. Sei felice? Sì. Tanto.

«Oh mio Dio» mormorò.

Quelle stesse parole, una volta, lei le aveva pronunciate recitando in una commedia alla televisione.

Cercò di ribellarsi contro il dubbio che assaliva impetuosamente la sua mente: ma ormai la diga aveva ceduto e le acque invadevano ogni cosa. Non poteva più opporre resistenza. Ti amo. Anch’io ti amo tanto. «No, no…» bisbigliò, con gli occhi che le si riempivano di lacrime. Non mi lascerai mai? Starai sempre accanto a me? Sì, amor mio, per sempre. Per sempre.

Un singhiozzo di terrore le proruppe dal petto. No, non era vero. Cominciò a piangere. Invece sì, era vero! Aveva inventato lei stessa Daniel Belasco. Non c’era nessun Daniel Belasco. C’era solo il ricordo di suo fratello, la sua morte immatura, il rimpianto per lui, il rimpianto che lui aveva portato con sé nella tomba.

«No, no, no, no.» Si aggrappava ai braccioli della poltrona, la testa le ciondolava, lacrime roventi le sgorgavano dagli occhi. Le pareva di non poter respirare, ingozzava l’aria, come se i polmoni le scoppiassero. No, non era vero! Non poteva aver fatto una cosa simile, una cosa così terribile, non poteva aver illuso se stessa a tal punto, così cecamente. Doveva pur esserci qualche maniera per dimostrarlo. Doveva esserci!

Sollevò la testa, dando un’esclamazione. Attraverso la nebbia delle lacrime vedeva il fuoco ardere allegramente. Era come se qualcuno le avesse sussurrato all’orecchio due parole.

Nella cappella.

Un tremulo sorriso le increspò le labbra. Vacillando, si alzò in piedi e si diresse verso il vestibolo, sfregandosi gli occhi. Che nella cappella ci fosse una risposta lo aveva sempre saputo. Ora capì che si trattava proprio della risposta che cercava. C’era la prova, la dimostrazione, là dentro.

Questa volta ci sarebbe entrata.

Cercò di non correre, ma non poté trattenersi. Si precipitò attraverso il vestibolo, passando davanti allo scalone. La gonna le frusciava, i suoi passi rimbombavano sul pavimento. Girato l’angolo, si inoltrò pel corridoio laterale, correndo più svelta che poteva.

Raggiunse la porta della cappella e ci appoggiò le mani. Immediatamente un freddo invase i suoi organi vitali, la nausea le rovesciava lo stomaco, il sangue tumultuava nelle vene. Premendo entrambe le palme sul legno della porta, si mise a pregare. Nessuna cosa di questo né dell’altro mondo l’avrebbe potuta fermare, adesso.

La forza all’interno della cappella parve vacillare. Florence spinse la porta con tutto il suo peso. «Nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo!» esclamò a voce alta, chiara. La forza cominciò a ritirarsi, come se si rattrappisse verso l’interno. Ella seguitò a pregare sottovoce. Poi disse: «Non potete impedirmi l’accesso in questo luogo, perché Dio è con me! E ora entreremo insieme, io e Lui. Aprite! Non potete più respingermi. Aprite!».

D’incanto la forza era sparita. Florence spinse la porta ed entrò. Accese le luci. Appoggiandosi con la schiena alla porta, chiuse gli occhi e parlò : «Ti ringrazio, o Signore, di avermi dato la forza».

Dopo qualche momento aprì gli occhi e si guardò intorno. La fioca luce bastava appena a fugare le tenebre. Essa stava nell’ombra, solo il suo volto era illuminato tenuamente. Girò lo sguardo intorno. Il silenzio era intenso. Le pareva di avvertirne la pressione contro i timpani.

Di scatto si mosse, avanzò lungo il passaggio centrale distogliendo lo sguardo dallo sconcio crocefisso sopra l’altare. Era quella la direzione giusta: lo sentiva, non si sbagliava. Fili invisibili la tiravano.

Raggiunse i piedi dell’altare e lo guardò. Su di esso c’era una massiccia Bibbia con fermagli di ottone. Una Bibbia in questo sconcio luogo, pensò, rabbrividendo. Il suo sguardo scivolò sulla parete. Il potere che governava ogni suo movimento era così forte che pareva che dei fili invisibili fossero assicurati a ogni parte del suo corpo e tali fili la guidassero verso… che cosa? Il muro? L’altare? Certo non verso il crocefisso. Florence si sentì trascinare avanti…

Trasalì, sbiancò, ristette immobile: la copertina della Bibbia si era spalancata di colpo. Ella vi fissò gli occhi. Le pagine cominciarono a girare, a sfogliarsi rapidamente. Le tempie di Florence pulsavano. Poi d’un tratto le pagine si fermarono. Ella si chinò. Guardò la pagina a cui il librone era rimasto aperto.

«Sì!» esclamò, gioiosamente. «Oh, sì.»

In cima a quella pagina c’era scritto NASCITE. E sotto, con inchiostro sbiadito, c’era scritto: «Daniel Myron Belasco nato alle ore 2 del mattino, il 4 novembre 1903».


ore 21.07


«Ma non posso far niente per aiutarti?» domandò Edith.

Barrett la guardò. Stava lavorando intorno alla sua macchina, controllandone uno dei circuiti, che aveva messo allo scoperto, col suo dedalo di fili. Da venti minuti sua moglie lo stava osservando in silenzio. Era preoccupata perché lui aveva un’aria stanchissima, e alla fine non si era più trattenuta.

«No, temo di no» lui le rispose. «È troppo complicato questo schema. Mi ci vorrebbe dieci volte più tempo a spiegarti cosa fare, che farlo da me.»

«Lo so, ma…» Si interruppe, impensierita. Poi: «Quanto ti ci vuole ancora?».

«Non saprei. Devo controllare che tutto sia stato eseguito esattamente, secondo i disegni. Altrimenti, se qualcosa non funziona, tutto il mio lavoro sarà stato inutile. E questo non posso permettermelo.» Tentò di sorridere ma fu solo una smorfia di dolore. «Cercherò di sbrigarmi il più possibile.»

Edith annuì, ma senza convinzione. Diede un’occhiata all’orologio di Lionel sul tavolo. Era più d’un’ora che lui stava lavorando e aveva controllato solo uno dei circuiti. Il Reversore era un apparecchio gigantesco. Di quel passo, poteva impiegare tutta la notte. E non gli sarebbe bastata l’energia, ecco quanto.

Quel peso sullo stomaco, quel senso di freddo, si faceva più acuto. L’osservava lavorare. Non aveva più quell’aria fiduciosa di un tempo. Cercava di non darglielo a vedere, ma lei sapeva che le sue convinzioni avevano ricevuto un grave colpo, dopo quel ch’era accaduto al bagno turco. E sapeva quanto fosse vulnerabile adesso, dopo quel che lei aveva combinato.

Dietro quella sua maschera di sicurezza, Lionel deve sentirsi molto incerto, pensò, molto depresso.

Gli chiese: «Ma a cosa serve questo tuo apparecchio?».

Lui alzò gli occhi. «Preferirei non spiegartelo adesso, mia cara. È piuttosto complicato.»

«Ma non puoi accennarmi a cosa serve?»

«In sostanza, be’, si tratta di “sturare” questa casa e farne uscire le potenze occupanti.» Inghiottì a fatica, aveva la gola secca, bevve un sorso d’acqua. «Ti spiegherò nei particolari domani.» Bevve ancora. «Basti dire che ogni forma di energia può venir dissolta… Ed è questo che intendo fare.»

Prese una pillola di codeina e l’inghiottì; bevve un altro sorso. Sorrise. «Lo so che per adesso non ti sentirai soddisfatta della mia spiegazione ma vedrai… vedrai.» Depose il bicchiere. «Domani, a quest’ora, la Casa d’Inferno sarà sturata, prosciugata, disinfestata.»

Si voltarono di scatto, udendo un misurato battimano. C’era Fischer, sotto l’arcata, e li guardava, con una bottiglia sottobraccio. «Bravo» disse.

Edith si sentì avvampare, distolse la faccia.

«Ha bevuto, Mister Fischer?» domandò Barrett.

«E berrò ancora» disse Fischer. «Non tanto da perdere il controllo. Ma abbastanza da ottundere i sensi. Non ho nessuna voglia di ricevere un’altra botta. Ne ho avuto abbastanza. Abbastanza.»

«Mi spiace» disse Barrett, dopo un po’. In certo senso, si sentiva responsabile del malumore di Fischer.

«Non le deve dispiacere per me, ma per se stesso.» Fischer indicò il Reversore. «Quel catorcio là non sortirà nessun effetto, altro che fare un bel po’ di rumore… ammesso poi che funzioni. Ma lei crede davvero che ’sta casa torni a posto non appena lei si mette a suonare quella specie di carillon là? Col cavolo! Belasco le farà una risata in faccia. Tutti quanti le rideranno in faccia, come hanno riso di ogni povero illuso che è venuto qui e ha cercato di… disinfestare questo covo di spiriti.» Emise un mugolio. «Col cavolo che ci riesce.» Guardò Barrett con occhi di fuoco, fece un gesto verso Edith. «La porti via da qui» disse. «E se ne vada anche lei. Non ce la farà mai.»

«E lei?» domandò Barrett.

«Io? Io sono a posto. Io conosco il trucco. Se non fai niente contro questa casa, la casa non fa niente contro di te. Insomma, se non ti agiti troppo te la cavi. Alla Casa d’Inferno non dispiace che ci siano degli ospiti. No, chiunque può soggiornare qui, se lo fa per passatempo, per divertirsi. Quello che non gli va, è la gente che l’attacca. Belasco non gradisce questo genere di ospiti. E neanche i suoi amici e compari li gradiscono, i visitatori malintenzionati, quindi si difendono da loro, e alla fine li ammazzano. Belasco è un generale, non lo sapeva? Un generale a capo di un esercito. Lui li guida, li comanda!» Fischer fece un ampio gesto. «li guida come fossero tanti soldati. Nessuno fa una mossa senza di lui, neppure suo figlio, maledizione, nessuno.»

Fischer puntò il dito su Barrett. La sua espressione era d’un tratto rabbiosa.

«Mi stia bene a sentire» gli disse. «Dia retta a me! La smetta con queste fregnacce! Lasci stare quella macchina, la lasci proprio perdere. E non pensi ad altro che a mangiare, riposarsi e spassarsela in dolce far niente, in questi giorni che restiamo ancora qui. Poi, trascorsa la settimana pattuita, racconti al vecchio Deutsch delle frottole che lo facciano contento e minchionato. E intaschi i soldi, e basta. Mi dia retta, Barrett. Sennò lei è un uomo morto. M’ha inteso bene? Un uomo morto.» Guardò Edith. «Con una donna morta come moglie.»

Si mosse per la stanza. «Oh, ma perché m’impiccio, io? Tanto nessuno mi dà retta. Florence non mi dà retta. Lei non mi dà retta. Nessuno mi dà retta. E allora, crepate. Crcpate!» Inciampò. «Io sono l’unico che ne sia uscito vivo, nel 1940, e di nuovo sarò l’unico a uscirne vivo nel 1970.» Andò verso il vestibolo, vacillando. «Stammi bene a sentire, Belasco, brutto figlio di vacca. Io ho chiuso! E adesso cerca di beccarmi, se ci riesci. Non ci riuscirai. M’hai sentito?»

Edith sedeva guardando fisso suo marito. Questi stava guardando Fischer uscire dalla stanza, con espressione turbata.

Poi guardò sua moglie. «Poveruomo. Questa casa sul serio lo ha distrutto.»

Ma ha ragione lui! Edith formulò quelle parole nella mente ma non ebbe il coraggio di pronunciarle.

Claudicando, Barrett le si avvicinò, sedette accanto a lei, su una seggiola, con un gemito. Restò zitto per un po’, poi trasse un pesante sospiro e disse : «Ha torto».

«Dici?» La voce le tremava.

Egli annuì. «Quello che lui chiama il mio catorcio…» e sorrise alle proprie parole «non è altro, più o meno, che la chiave per la Casa d’Inferno.» Sollevò una mano. «Va bene, lo ammetto, sono successe alcune cose che sfuggono alla mia comprensione… sebbene io sia certo che arriverei a comprenderle, se avessi tempo abbastanza.» Si sfregò gli occhi. «Non è questo il punto, però. L’uomo controlla l’elettricità, pur non conoscendo la sua vera natura. Quale che sia l’energia che regna in questa casa dannata, lasciamo stare i dettagli, il fatto essenziale è che io…» indicò «… quell’apparecchio là… ha potere di vita o di morte su di essa.»

Si alzò in piedi. «E questo è quanto. Te l’ho detto, fin dal principio, che Miss Tanner si sbaglia. Le sue convinzioni sono erronee. E adesso ti dico che anche Fischer si sbaglia. È in errore anche lui. E domani io lo dimostrerò al di là di ogni ragionevole dubbio.»

Ciò detto, tornò zoppicando verso il suo Reversore. Edith lo stette a guardare. Avrebbe voluto credere alle sue parole. Ma quel che aveva detto, dianzi, Fischer, era penetrato ormai troppo profondamente nel suo sangue: e la sua profezia, come un acido, corrodeva la sua mente.


ore 22.19


Daniel, ti prego. Cerca di capirmi. Quello che tu mi chiedi è inammissibile. E lo sai. Non è che io non provi simpatia per te. Ne provo e come, lo ti ho aperto il mio cuore. Credo in te, ho fiducia in te. Tu mi hai salvato la vita. Adesso lascia che ti salvi l’anima, io.

Non c’è bisogno che tu resti ancora in questa casa. L’aiuto ti si offre, e tu accettalo. Credimi, Daniel. C’è chi ti può aiutare, solo che tu chieda questo aiuto. Tuo padre non ha il potere di fermarti. Non ce l’ha se tu accetti la mano che ti viene tesa dall’aldilà. Lascia che ti aiutino loro. Fatti prendere per mano e lasciati guidare da loro. Se tu solo sapessi quant’è bello ciò che ti attende! Se tu solo sapessi quant’è meraviglioso, il regno che si trova al di là di questa casa. Ma perché restare chiuso in un’angusta nuda cella, quando là fuori ti attendono tutte te bellezze dell’universo? Pensaci! Accetta! Non negarti a coloro che sono felici di aiutarti. Prova. Fai una prova, almeno. Loro ti aspettano a braccia aperte. Ti aiuteranno, ti daranno conforto. Non restare entro queste tetre mura. Tu puoi essere libero. Abbi fede, Daniel, credici e sarà così. Abbi fede. Ti do la mia parola. Fidati di me. Lascia andare. Lascia andare.


Riusciva a malapena a sostenersi in piedi. Si trascinò fino alla stanza da bagno. Si lavò. Si mise la camicia da notte. Si sentiva addosso una stanchezza da malata. Le sue membra erano come piombo. Non si era mai sentita così esausta e snervata in vita sua.

Daniel non le avrebbe dato retta. Non si sarebbe dato per inteso.

Tornò in camera e si infilò nel letto. Domani, allora, disse a se stessa. Prima o poi lui doveva darle retta. Domattina lei sarebbe tornata alla carica. Si adagiò sul cuscino, con una smorfia per il bruciore dei graffi sul seno. Giacque supina, fissando il soffitto. Si sentiva le palpebre pesanti. Domani, pensò.

Girò la testa.

C’era una figura presso la porta, in piedi. La guardò senza allarmarsi. Non c’era alcuna minaccia in essa.

«Daniel…»

La figura si avanzò. Alla tenue luce che veniva dal bagno ne distinse i tratti: giovane, molto bello, il volto mesto, gli occhi pieni di disperazione.

«Puoi parlare?» ella chiese.

«Sì.» La sua voce era gentile, dolorosa.

«Perché non vai via?»

«Perché non posso.»

«Ma devi.»

«No, se prima…»

«Daniel, no» ella disse.

Lui distolse il viso.

«Daniel…»

«Io ti amo» egli disse. «Tu sei l’unica donna cui io abbia mai detto queste parole. Non ho incontrato mai una come te. Sei così buona… così buona… la persona più gentile che io abbia mai conosciuto.»

Tornò a guardarla, i suoi occhi le scrutarono il viso. «Ho bisogno…» Si interruppe, rigirandosi verso la porta. «Allora le parlerò io stesso!» disse, ma la sua voce era spaurita. «Tu non mi puoi fermare!» Si voltò a guardarla. «Non potrò restare qui molto a lungo. Non me lo permetterà, lui» disse. «Ti prego. Ti scongiuro, fammi ottenere quel che ti chiedo. Se venissi sloggiato di qui prima d’aver soddisfatto…»

«Sloggiato?» Florence si tese.

«Il tuo dottor Barrett ne ha il mezzo.»

Ella lo guardò, stupita.

«Lui conosce il meccanismo che regola la mia presenza in questa casa quindi è in grado di sloggiarmene» egli disse. «Ma questo è tutto quel che sa, lui. Di me non sa altro, né si cura di saperlo: quel che ho nel cuore, nella mente, nell’anima a lui non importa. Lui mi obbligherà a trasferirmi da un inferno a un altro inferno, non capisci? Solo tu puoi aiutarmi. Io potrei lasciare questa casa stasera stessa, se tu mi aiutassi. Ti prego.» La sua voce cominciò a dissolversi. «Se io ti sto un po’ a cuore abbi pietà di me. Ti prego abbi pietà…»

«Daniel…»

Per alcuni istanti udì ancora i suoi singhiozzi disperati. Poi la stanza piombò nel silenzio. Ella fissava il punto in cui lui era apparso e poi scomparso. «Lo sai che non posso» ella disse. «Daniel, ti prego. Lo sai che non posso.»


ore 22.23


Con gli occhi mezzi chiusi dalla stanchezza, Barrett saliva lentamente lo scalone, circondando con un braccio le spalle di sua moglie, appoggiandosi a lei. Cercava però di non pesarle troppo, e cercava di trattenere i suoi gemiti di dolore. Edith aveva patito abbastanza, per quel giorno. E, quanto a lui, sarebbe passata presto: una pillola, una buona dormita, e l’indomani eccolo di nuovo in sesto. Quei dolori poteva sopportarli, per un giorno ancora. Il Reversore era quasi pronto all’uso. Un’oretta ancora di lavoro, domani, e poi sarebbe stato pronto a dare la dimostrazione pratica della sua teoria. Dopo tanti anni di attesa finalmente la prova finale. Che importava, al confronto, qualche doloruccio qua e là?

Arrivarono in cima alle scale. Barrett cercò di camminare da solo, nonostante i crampi alla gamba e alla schiena. Zoppicando malamente, emise un’esclamazione che avrebbe dovuto essere, nelle sue intenzioni, di buonumore e che, invece, gli uscì dalle labbra con accento doloroso. «Quando torniamo a casa,» disse «mi prendo un mese intero di vacanza. Finisco il libro, mancano poche pagine, e poi mi riposo. Mi godo la tua compagnia.»

«Benissimo.» Ma non pareva convinta.

Barrett le batté una mano sulla spalla. «Andrà tutto bene, vedrai.»

Edith aprì la porta e lo aiutò a raggiungere il letto. Lo guardò preoccupata. Egli si lasciò cadere pesantemente seduto sulla sponda. «Ora sdraiati» gli disse lei. Aggiustò una collinetta di guanciali contro la testiera del letto. Barrett vi si adagiò, tirando su le gambe sul letto. Emise un lamento. Tentò poi di sorridere. «Be’, nessuno può accusarci di non starceli guadagnando, questi soldi.»

«Tu sì, te li guadagni.» Edith lo aiutò a togliersi le scarpe. Poi gli sfilò i calzini e si diede a massaggiargli i piedi e le caviglie. Barrett vide che sua moglie cercava di non far capire quanto la turbasse il loro gonfiore.

«Sarà meglio che prenda dell’altra codeina» egli disse.

Edith si alzò e andò a prendergli la medicina. Barrett cercò di assestarsi meglio sul materasso e lo sforzo lo fece mugolare. Si sentiva pesante come un marmo. Non lo avrebbe detto per ora a Edith, ma appena tornati a casa aveva intenzione di farsi ricoverare per un breve periodo in ospedale.

Stava caricando l’orologio, quando Edith tornò con la pillola e un bicchier d’acqua. Barrett depose l’orologio sul comodino, prese il bicchiere, inghiottì la pillola. Edith cominciò a sbottonargli il maglione.

«Lascia stare» lui disse. «Dormo vestito, stanotte. È più semplice.»

Ella annuì. «Va bene.» Gli slacciò la fibbia della cintura e gli allentò i pantaloni intorno alla vita. «Anch’io dormo vestita.»

«Va bene.»

Edith si sedette sulla sponda del letto, si chinò verso di lui, gli si strinse al petto. Quel peso gli rendeva difficile la respirazione, ma Barrett non disse nulla.

«Se solo non fosse accaduto, quel che è accaduto oggi» ella mormorò.

«Non angustiarti, adesso.» Barrett le carezzò la schiena, e cercava una scusa per farla alzare di lì senza urtare la sua suscettibilità.

Alla fine le disse: «Mi prendi la cravatta?».

Edith si tirò su, lo guardò interrogativamente.

«È appesa nell’armadio.»

Essa si alzò, andò a prendere la cravatta e gliela porse.

«Vorrai lavarti i denti, prima di coricarti, no?» lui chiese.

«Va bene.»

Mezzo seduto, mezzo sdraiato sul letto, Barrett porse orecchio ai piccoli rumori provenienti dal bagno: l’acqua che scorreva, lei che si spazzolava i denti, che si sciacquava la bocca. Symphonie Domestique, egli pensò.

All’inferno!

Volse lo sguardo in giro per la stanza. Pareva incredibile, che fossero lì solo da tre giorni. Guardò la sedia a dondolo. Due sere fa, si era mossa da sola. Avrebbe potuto essere due settimane fa, o due mesi fa, tanto si era distorta ormai la sua cognizione del tempo.

Volse ancora lo sguardo distrattamente intorno. Che posto grottesco, pensò. Potrebbe essere una sala di museo, questa. E tutta la casa è una lussuosa rigatteria di opere d’arte. Centinaia, migliaia di capolavori eseguiti in nome della bellezza son venuti a finire in questa casa, ch’è il simbolo di quanto c’è di più brutto.

Batté gli occhi. Mise a fuoco sua moglie che stava uscendo dalla stanza da bagno. «Ti dispiace coricarti accanto a me, anche se il letto è stretto, per stanotte?»

«Anzi, con piacere.»

Quando si fu sdraiata, coprendo entrambi con delle coperte, Barrett cominciò ad annodarle un capo della cravatta intorno al polso. «Per impedirti di camminare nel sonno» le spiegò, annodando l’altro capo intorno alla colonnina del letto. «Però hai abbastanza libertà di movimento, non è vero?»

Edith annuì. Barrett le circondò le spalle con un braccio. Lei gli si fece tutta accosto, appoggiando la testa nell’incavo fra la spalla e il torace. Sospirò. «Adesso mi sento sicura.»


ore 23.02


Se soltanto riuscissi a prender sonno, pensò. Sorrise fra sé e sé, mestamente. La mente umana, pensò. Stamattina avrebbe voluto restar sveglia finché durava il loro soggiorno nella Casa d’Inferno. Ora invece non desiderava altro che sprofondare nell’oblio del sonno, eliminare otto o nove ore di permanenza lì.

Di nuovo chiuse gli occhi. Quante volte li aveva già chiusi e riaperti? Quaranta? cinquanta? cento? Aspirò profondamente. Quella puzza. Sempre quel fetore.

La Casa d’Inferno avrebbe dovuto esser data alle fiamme.

Aprì gli occhi e guardò Lionel. Era profondamente addormentato. Mosse la mano destra, e sentì la pastoia che l’assicurava al letto. L’aveva legata così per via del suo sonnambulismo? oppure era geloso di Fischer? Edith non riusciva a scandagliare, dentro di se stessa, cosa fosse che l’aveva attratta verso Fischer. Era davvero colpa della casa? O c’era in lei qualcosa? Non aveva mai provato, prima, una simile brama sessuale: né per Lionel né, tanto meno, per altri uomini. O donne… A questo pensiero però fu percorsa da un brivido. Era spaventata e sbigottita, per ciò che aveva fatto, per ciò che aveva detto.

Strinse le labbra. No, non era solo qualcosa in lei: c’entrava qualcosa d’altro, di sicuro. Qualcosa l’aveva invasa, come un virus che l’avesse infettata, il virus della corruzione. E il morbo da esso provocato poteva diffondersi nella sua mente, per tutto il suo corpo. No, non voleva credere che si trattasse di qualche insospettato male latente in lei, che tutt’a un tratto si fosse manifestato. Era colpa della casa, senza dubbio. Quella casa aveva infettato altra gente. E quindi lei non era stata immune alla sua turpe influenza.

Sollevò di scatto la testa. Sbarrò gli occhi.

La sedia a dondolo si era mossa.

«Lionel» mormorò. No no, lui aveva bisogno di riposo. È una forza cieca, si disse, una forza cinetica non guidata, non intelligente, una forza cinetica che segue la linea di minor resistenza, ecco tutto: porte che sbattono, spifferi, rumore di passi, poltrone che dondolano.

Voleva chiuder gli occhi ma sapeva che, se li avesse chiusi, avrebbe lo stesso udito lo scricchiolio della sedia. La fissò. Residuo di forza dinamica. Ripeté mentalmente più volte queste parole, come un esorcismo.

Eppure lo sapeva benissimo che c’era qualcuno seduto su quella sedia: qualcuno che lei non riusciva a vedere. Qualcuno crudele, implacabile, che attendeva solo l’opportunità di distruggerla, di distruggerli tutti quanti. Era forse Belasco? si chiese, inorridita. E se fosse comparso, lì, d’un tratto, gigantesco, terribile, sorridendole mentre si dondolava? No, non c’è nessuno là! disse a se stessa. Non c’è assolutamente nessuno.

La poltrona seguitava a dondolare, piano, avanti e indietro. Avanti e indietro.


ore 23.28


Nella camera faceva molto caldo. Con un sospiro lamentoso, Florence si sbarazzò della coperta di sopra e la lasciò cadere in terra. Si rigirò su un fianco e tornò a chiudere gli occhi. Dormi, si disse. Domani ci penseremo.

Dopo qualche minuto si rigirò supina e si mise a scrutare il soffitto. Inutile, pensò, non riesco a dormire stanotte.

Le parole di Daniel l’avevano stupefatta. Non aveva mai scartato a priori l’idea di lavorare col dottor Barrett, ma non aveva mai pensato che la sua collaborazione potesse presentarsi come un’assoluta necessità, per lei.

Era stata sul punto di recarsi in camera sua, per dirgli che bisognava che tentassero insieme di risolvere il problema di Daniel Belasco. Ma poi si era resa conto che sarebbe stata una perdita di tempo. Per quel che riguardava il dottor Barrett, non c’era nessun Daniel Belasco. Questi era solo un prodotto della sua immaginazione, secondo lui. Del suo subconscio. A che sarebbe servito dunque parlare con lui? Non aveva ammesso il corpo ritrovato, come prova, né l’anello. Non l’avrebbe quindi convinto neppure la registrazione dell’atto di nascita.

Allontanò da sé le coperte e si mise a sedere. Cosa doveva fare? Non poteva mica star lì a guardare passivamente e lasciar che il dottor Barrett scacciasse Daniel da quella casa, senza dargli la pace tuttavia. Quell’idea la sgomentava. Gettare la sua anima desolata nel limbo sarebbe stato un delitto al cospetto di Dio.

Ma come impedirlo? Non poteva neanche prendere in considerazione ciò che Daniel le aveva suggerito. Non doveva.

Si alzò, con un sospiro doloroso, e attraversò la stanza. Andò al bagno, si riempì un bicchier d’acqua. Ma non c’era altra maniera. Non c’è altro mezzo, disse a se stessa. Aveva pregato tutto il giorno, implorato, insistito. Invano.

E domani il dottor Barrett sarebbe stato pronto con la sua macchina.

Per un attimo, provò il selvaggio impulso di precipitarsi a pianterreno e metter fuori uso quella macchina. Ma scartò quell’idea, adirata con se stessa per averla avuta. Non aveva alcun diritto di mettere bastoni fra le ruote al dottor Barrett. Era un uomo onesto e coscienzioso che aveva dedicato tutta la vita al suo lavoro. Non era mica colpa sua se la soluzione da lui trovata era solo una soluzione parziale. Lui non credeva neppure all’esistenza di Daniel Belasco. È chiaro che non poteva ritenersi colpevole di perseguitarlo.

Florence depose il bicchiere e si volse. Deve esserci una risposta, pensò, deve esserci. Rientrò in camera.

Si arrestò, trasalendo, poiché il telefono si era messo a squillare.

Non è possibile, pensò, non funziona da trent’anni.

Non avrebbe risposto. Lo sapeva che cos’era.

L’apparecchio seguitava a squillare, e gli squilli le trafiggevano i timpani come pugnali.

Non doveva rispondere.

Il telefono seguitava a squillare.

«No» ella disse.

E squillava. E squillava. E squillava.

Con un singhiozzo, andò là e sollevò la cornetta e la lasciò subito cadere sul tavolino. Si appoggiò contro il bordo di esso, sentendosi d’un tratto debolissima. Riusciva a malapena a respirare. Forse stava per svenire, si sentiva venir meno…

Udì una voce sottile provenire dal ricevitore. Non capì cosa dicesse… le parve che ripetesse la stessa parola… e sapeva che era la voce di Daniel.

«No» mormorò.

La voce seguitava a ripetere quella stessa parola, di continuo. Ella allora sollevò il ricevitore e ci gridò dentro: «No!».

«Ti prego» disse Daniel.

Florence chiuse gli occhi. «No…» disse in un sussurro.

«Ti prego.» La sua voce era lamentosa.

«No, Daniel.»

«Ti prego.»

«No. No.»

«Ti prego.» Non aveva mai udito un tono di voce cosi angosciato. «Ti prego.»

«No.» Fece fatica a ripetere quel monosillabo. Le scendevano lacrime copiose lungo le guance. Aveva un nodo alla gola.

«Ti prego» lui implorò.

«No» lei sussurrò. «No. No.»

«Ti prego.» Era la voce di uno che implora una grazia. «Ti prego.» Era lei, la sua unica speranza. «Ti prego.» Domani lui sarebbe stato gettato nella più cupa disperazione dal dottor Barrett. «Ti prego.» C’era solo una maniera, solo una. «Ti prego.» Cominciò a piangere. «Ti prego. Ti prego.» Lei doveva aiutarlo. «Ti prego.» Si mise a singhiozzare. «Ti prego.» Dio, Dio, le si spezzava il cuore. «Ti prego. Ti prego! Ti prego!»

Di scatto, riattaccò. Un brivido violento la percorse da capo a piedi. E va bene! pensò. Era l’unica maniera. I suoi spiriti guida l’avrebbero aiutata e protetta. Dio l’avrebbe aiutata e protetta. Era l’unica maniera. L’unico mezzo. Ella credeva in Daniel. E aveva fede in se stessa. C’era solo una maniera, solo un modo. Adesso lo vedeva con chiarezza assoluta.

Sulle gambe che le tremavano si portò accanto al letto e si inginocchiò, chinò il capo, a mani giunte. Chiuse gli occhi e si mise a pregare: «Buon Dio, allunga la Tua mano verso di me e donami la Tua protezione. Aiutami, stanotte, affinché io possa condurre fino a Te l’anima sofferente di Daniel Belasco».

Per cinque minuti pregò senza requie. Poi, lentamente, si alzò in piedi e si slacciò la vestaglia. Se la tolse, la distese sull’altro letto. Rabbrividì, si sfilò dal capo la camicia da notte di flanella. Contemplò il proprio corpo. E che questo sia il tempio, allora, pensò.

Scostate le coperte, si sdraiò supina. La stanza era quasi all’oscuro. Poca luce veniva dal bagno, con la porta socchiusa. Ella chiuse gli occhi e cominciò a respirare profondamente. Daniel, invocò. Io ti darò, adesso, l’amore che tu non hai mai conosciuto, affinché tu possa acquistare la forza di andar via da questa casa. Con l’aiuto di Dio e con il mio, tu stanotte riposerai in Paradiso.

Apri gli occhi. «Daniel» disse. «La tua sposa ti attende.»

Ci fu un movimento presso la porta. Una figura scivolò verso di lei.

«Daniel…»

«Sì, amor mio.»

Ella tese le braccia.

Egli attraversò la stanza. Florence sentì tutta l’attrazione esercitata sul suo corpo dalla vicinanza di lui. Riusciva a distinguere il suo viso: gentile, spaurito, pieno di desiderio per lei. Si distese sul letto accanto a lei. Ella si girò a guardarlo. Sentiva il suo fiato, e facendosi più accanto gli porse le labbra.

Lui la baciò teneramente a lungo. «Ti amo» le sussurrò.

«E anch’io ti amo.»

Ella chiuse gli occhi e si mise supina. Sentì il peso di lui ricoprirla. «Con amore» mormorò. «Con amore, ti prego.»

«Florence» lui disse.

Ella aprì gli occhi.

E restò pietrificata. Il cuore le cessò quasi di battere, alla vista di ciò che giaceva sopra di lei.

Era un cadavere in stato di avanzata decomposizione. Una livida carne scagliosa cadeva a brandelli dalle sue ossa, le sue labbra marce tremolavano in un ghigno che scopriva una chiostra di denti giallicci. Solo gli occhi erano vivi, obliqui, torbidi, e la guardavano con gioia satanica. Una luce bluastra avviluppava il suo corpo, come un fuoco fatuo, poiché da quella carne si levavano i gas mefitici della putrefazione.

Un grido di orrore le uscì violento dalla gola, allorché quella figura in sfacelo penetrò dentro di lei.


ore 23.43


Fischer balzò su di soprassalto, udendo quell’urlo di terrore dalla stanza accanto.

Per qualche istante restò immobile, ansando, mentre quegli urli si ripetevano, inchiodato dalla paura.

Poi qualcosa lo spinse e. balzò fuori del letto e attraversò la stanza. Spalancò la porta, si precipitò pel corridoio, verso la camera di Florence, donde gli urli seguitavano a venire, agghiaccianti. Afferrò la maniglia. Spinse.

La porta era chiusa a chiave.

«Oh mio Dio.» Si guardò attorno, angosciato. Quelle grida lo facevano impazzire. Udì aprirsi la porta della camera di Barrett. Si volse. Vide Edith affacciarsi, pallidissima, tirata, gli occhi pieni di sgomento.

Allora Fischer andò a prendere una pesante seggiola di legno ch’era poco lontano e cominciò a picchiarla contro l’uscio. Le urla si interruppero. Lui seguitò a percuotere la porta con la sedia. Una zampa saltò via. «Maledizione!» E seguitava a dar colpi come un forsennato. Con la coda dell’occhio vide Barrett e Edith che si avvicinavano.

Alla fine la porta cedette. Gettata via la sedia rotta, Fischer allungò una mano per accendere la luce ed entrò nella stanza.

La vista di Florence gli mozzò il fiato.

Alle sue spalle, Edith dava di stomaco. E Barrett mormorava: «Dio mio!»

Ella giaceva nuda sulla schiena, con le gambe aperte, gli occhi sbarrati, fissi nel vuoto, inebetiti dal terrore.

Il suo corpo era pieno di lividi e graffi, pesto e morsicato, sanguinante.

Fischer guardò meglio la sua faccia: era quella di una donna ch’è a un tratto impazzita.

Le sue labbra si agitarono lievemente. Lui si chinò su di lei. Dalla gola le uscivano solo suoni indistinti. Poi essa sussurrò: «Mi ha riempita». Lo guardava senza batter ciglio, con le pupille vitree. «Mi ha riempita.»

Lui non poté trattenersi dal chiedere: «Ma di che?».

Le labbra della donna si contrassero allora in un osceno sorriso.

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