24 DICEMBRE 1970

ore 7.19


Sprofondato nella poltrona, Fischer teneva lo sguardo fisso su Florence. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, lui. Quando la donna si era addormentata, finalmente, grazie alle pillole del dottor Barrett, lui aveva portato quella poltrona accanto al letto, ed era rimasto a vegliarla. Barrett ed Edith erano tornati in camera loro. Barrett aveva promesso che sarebbe venuto a dargli il cambio fra qualche ora. Ma non era tornato. Né Fischer se n’era meravigliato. Sapeva bene quanto fosse stanco, Barrett, nel corpo e nelle mente, e quanto l’avessero duramente provato quei due ultimi giorni, nella Casa d’Inferno.

Fu scosso da un brivido di freddo. Si sfregò gli occhi. Sbadigliò. Che ore saranno? si chiese. Aveva voglia di un po’ di caffè. Si tirò in piedi, andò nella stanza da bagno, apri il rubinetto dell’acqua fredda, mise una mano a coppa sotto il getto d’acqua. Si spruzzò la faccia con quell’acqua gelata, sbuffando per quanto pizzicava. Si raddrizzò e si guardò nello specchio. L’acqua gli gocciolava dal mento. Il suo respiro appannò la superficie dello specchio. Sfilò un asciugamano e se lo passò sulla faccia.

Tornò in camera e si soffermò accanto al letto, a guardare Florence. Sembrava tranquilla. Una bellissima donna che dormiva. Ma il suo sonno era stato agitato, tutta la notte. Nonostante il sonnifero, si era più volte rigirata, smaniando, emettendo lamenti ogni tanto, come di dolore e di pena, e di tanto in tanto si era messa a tremare, colta da un parossismo. Lui era stato tentato di svegliarla, per strapparla a quegli incubi, quali che fossero. Ma non ce n’era stato bisogno. Si svegliava da sé di soprassalto, ogni tanto, con gli occhi sbarrati, sfigurata da smorfie di terrore. Ogni volta, lui le aveva preso una mano nella sua, e lei gliel’aveva stretta fino a fargli male. Non aveva mai profferito parola. Dopo un po’ richiudeva gli occhi e ripiombava nel sonno.

Fischer batté le palpebre, per rimettere a fuoco lo sguardo. Florence era sveglia e lo guardava. La sua faccia era priva di espressione. Come se non l’avesse mai visto prima d’ora.

«Come sta?» lui le chiese.

Ella non rispose, seguitava a guardarlo fisso, con occhi che parevano quelli di vetro di una bambola.

«Florence.»

Ella inghiottì saliva, con sforzo. Fischer andò nel bagno e ne tornò con un bicchiere d’acqua. «Tenga.» Glielo porse.

Florence non si mosse. Fischer, dopo un po’, depose il bicchiere sul comodino. Lo sguardo di Florence seguì il suo gesto, poi tornò di scatto a fissarlo in volto.

«Può parlare?» egli chiese.

«È restato qui tutta la notte?»

Fischer annuì.

Lo sguardo di lei si spostò sulla poltrona, poi tornò di nuovo su Fischer, a fissarlo negli occhi. «Là?» domandò.

«Sì.»

Ella emise una specie di risatina cinica. «Stupido.» Lo squadrò da capo a piedi. «Avresti potuto dormire con me.»

Fischer attese, cauto, senza scomponi.

La donna tirò via le coperte dal petto. «Chi mi ha rimesso la camicia da notte?»

«Io.»

Florence sorrise con aria di scherno. «Divertito?» domandò.

«Prima l’abbiamo dovuta medicare.»

Una fiamma passò negli occhi della donna: parve rendersi conto di qualcosa. Il suo corpo fu scosso da un convulso di brividi. «Oh mio Dio, mio Dio» mormorò. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Egli è dentro di me.» Allungò una mano, che tremava, verso di lui.

Fischer le prese la mano fra le sue e si sedette sulla sponda del letto. «Lo manderemo via.»

Essa scosse la testa.

«Ma sì.» E le strinse forte la mano.

D’un tratto Florence liberò la mano. Cominciò a sbottonarsi la camicia da notte.

«Ma che fa?»

Florence non gli badò. Finì di sbottonarsi e, respirando con affanno, si aprì la camicia sul petto. Fischer fece una smorfia alla vista di quei seni. I segni dei denti intorno ai capezzoli erano infiammati e parevano infetti. La donna si agguantò le due mammelle e le spremette fra le dita, sicché le punte si adersero, indurite. «Guarda qua» disse.

Fischer la prese per i polsi e le strappò le mani di là. Allora Florence perse la sua rigidità e, con un flebile gemito, girò la testa sul cuscino. Fischer la ricoprì. «La porto via di qui stamattina stessa» disse.

«Mi ha mentito.» La voce della donna era snervata, «M’aveva detto ch’era l’unica maniera.»

Fischer si sentiva male. «Lei crede ancora che ci sia un Daniel…»

«Sì!» Ella si volse di scatto. «Lo so che c’è. Ho visto il suo atto di nascita, nella cappella.» Notò il suo stupore. «Lui mi ha guidata là per fornirmi la prova della sua esistenza. Era stato lui stesso a impedirmi di entrare, prima. Aveva saputo di mio fratello, l’aveva letto nei miei pensieri. Come diceva lei. Lui era certo che io gli avrei creduto, poiché il ricordo della morte di mio fratello mi avrebbe indotta a credergli.» Afferrò di nuovo la mano di Fischer. «Oh, Dio, lui è dentro di me, Ben. Io non posso cacciarlo via. E anche adesso, mentre le parlo, sento che lui è qui, dentro di me, in attesa di prendere possesso.»

Si mise a tremare così violentemente che Fischer la sollevò un poco e le passò un braccio intorno alle spalle. «Zitta. Andrà tutto bene. La porterò fuori di qui stamattina stessa.»

«Lui non mi lascerà andare.»

«Non può mica fermarla.»

«Sì che può. Sì che lo può!»

«Non potrà fermare me.»

Florence si strappò da lui con violenza e ricadde all’indietro battendo il capo contro la testiera del letto. «Ma che cavolo sei, tu? non sei nessuno!» esclamò. «Magari a dodici anni era un asso, ma adesso sei ’na merda! M’hai sentito? Una merda!»

Fischer la guardò, in silenzio.

Un lampo negli occhi di lei rivelò il cambiamento, come un raggio di sole che brilla da uno squarcio fra le nubi: e lei fu di nuovo se stessa; ma senza amnesie: tornando brutalmente alla superficie del suo io, ella portava con sé il ricordo di ogni sconcezza ch’era stata costretta a pronunciare.

«Oh, per amor di Dio, Ben, aiutami.»

Fischer la tenne stretta, e sentiva il tumulto che c’era nel suo animo, nel suo corpo. Se potessi estirpare da lei, come un chirurgo della psiche, il tumore maligno che cresce dentro la sua mente! Ma non posso, purtroppo. Non ho questo potere.

Anche lui era una vittima di quella casa, al pari di lei.

Si ritrasse. «Si vesta, adesso che ce n’andiamo.»

Florence lo guardò fisso.

«Subito.»

Ella annuì. Ma fu come il cenno d’assenso di una marionetta comandata da fili invisibili. Quindi Florence si alzò dal letto e andò presso il comò. Estrasse alcuni indumenti dai cassetti poi si diresse verso il bagno.

«Florence…»

Essa si volse. Fischer si fece coraggio. «Sarebbe meglio se si vestisse qui.»

La pelle le si tese sugli zigomi. «Devo pure pisciare. Ti dispiace?»

«Basta!» gridò Fischer.

Florence sussultò così violentemente che gli abiti che aveva in mano le caddero. Lo guardò allibita.

«Basta» lui ripeté, calmo.

Florence si mostrò penosamente imbarazzata. «Ma devo…» Non terminò la frase.

Fischer la guardò preoccupato. E se, di là, si fosse indemoniata d’un tratto e avesse fatto qualcosa contro se stessa?

Sospirò. «Non chiuda la porta a chiave.»

Ella annuì, si volse. Entrò nel bagno, chiuse la porta. Fischer tese le orecchie, e trasse un sospiro udendo che non chiudeva a chiave. Andò a raccogliere i vestiti che lei aveva lasciato cadere.

Florence uscì dalla stanza da bagno di lì a poco e Fischer, sollevato, le. consegnò i vestiti, poi andò a sedersi sul letto, volgendole le spalle. «Sèguiti a parlare mentre si sta vestendo.»

«Va bene.» Lui udì il fruscio della camicia da notte mentre lei se la toglieva. Chiuse gli occhi e sbadigliò. Essa gli chiese: «Non ha dormito niente?».

«Dormirò quando lei sarà fuori di qui.»

«E viene via anche lei, no?»

«Non so. Non credo di correre alcun pericolo, fintantoché rimango chiuso e non combatto contro la casa. Quindi potrei anche restare. Le confesso che non mi fa per niente schifo l’idea di incassare centomila dollari dal vecchio Deutsch. Per lui è una bazzecola.» Fece una pausa. «Senta, gliene darò una metà, a lei.»

Florence non disse nulla.

«Parli» egli disse.

«Perché dovrei parlare?»

Il tono della sua voce lo costrinse a girarsi. Ella stava in piedi accanto al comò, completamente nuda, e gli sorrideva. «Spogliati anche tu» gli disse.

Fischer si alzò in piedi. «Si ribelli!»

«Ribellarmi? a che cosa?» essa domandò. «Alla mia voglia d’uccello?»

«Florence…»

«Spogliati! Voglio godere! Come una scrofa.» Andò verso di lui, furiosa. «E spogliati, bastardo! Non hai fatto altro che desiderare di scoparmi, tutti ’sti giorni. Be’, scopami, ora.»

Lui si mosse. Lei dovette pensare che volesse abbracciarla. Invece Fischer l’afferrò per i polsi e la tenne ferma. «Si ribelli, Florence.»

«Ribellarmi a cosa? Alla mia?…»

«Torni in sé!»

«Lasciami, perdio, lasciami!»

«Si sforzi di resistere!» Fischer le torse i polsi, fino a farle male.

«Voglio scopare!» essa gridò.

«Torni in sé, Florence!»

«Ho voglia di scopare! Ho voglia di scopare!»

Fischer le diede uno schiaffo, più forte che poté, con la destra, sì da farle rigirare la testa. Sul volto della donna si dipinse un’espressione di stupore.

Lui capì ch’era tornata in sé. Per qualche istante ella stette là tremante, fissandolo a bocca aperta. Poi guardò la propria nudità, vergognosa. «Non mi guardi» implorò.

Fìscher le lasciò liberi i polsi e si girò. «Si vesta» le disse… «Lasci perdere i bagagli. Glieli porterò io, dopo. Andiamo via di qui.»

«Va bene.»

Dio mio, lui pensò, spero che davvero vada bene. Rabbrividì. E se non gli fosse consentito di portarla via dalla casa?


ore 7.48


«Dell’altro caffè?»

Lionel sobbalzò ed Edith si accorse ch’era mezzo addormentato, benché tenesse gli occhi aperti. «Mi dispiace. T’ho spaventato?»

«No, no.» Si assestò meglio sulla sedia, con una smorfia. Allungò la mano destra per prendere la tazza, poi invece la prese con la sinistra.

«Devi farti vedere quella ferita, come prima cosa.»

«Lo farò.»

Nel salone regnò di nuovo il silenzio. A Edith pareva tutto irreale. Irreali le parole che avevano pronunciato. Uova? No, grazie. Prosciutto? No. Fa freddo, eh? Sì. Non vedo l’ora di andar via di qua. Anch’io. Come i dialoghi d’una commedia borghese da quattro soldi.

Oppure erano i postumi della tensione di ieri fra loro?

Guardò suo marito. Lionel stava di nuovo partendo, lo sguardo gli si faceva vacuo. Aveva lavorato al Reversore per un’ora, prima di mettersi a far colazione. Aveva lavorato senza requie, mentre lei sonnecchiava su una poltrona lì accanto. Aveva detto che la macchina adesso era quasi pronta. Lei l’aveva osservata e, nonostante la sua mole imponente, le era parso impossibile che potesse essere in grado di vincere la Casa d’Inferno.

Guardò la tavola. Tutto, quella mattina, aveva congiurato per procurarle quel senso di irrealtà, per influire sottilmente su di lei e farla sentire come un personaggio in balia delle bizzarrie del suo autore. Scendendo le scale, avevano visto il gatto correre verso la cappella, veloce, silenzioso. Poi, mentre Lionel era occupato col Reversore, essa aveva udito un rumore e, destandosi di soprassalto, aveva visto un vecchio e una vecchia attraversare il salone, recando una caffettiera e dei vassoi. Mezzo addormentata, li aveva guardati in silenzio, pensando che fossero fantasmi. Neanche quando li aveva visti deporre i vassoi sulla tavola e sgombrarne i piatti sporchi della cena, s’era resa conto di chi fossero quei due. Poi d’un tratto se n’era rammentata e, sorridendo fra sé e sé, aveva detto: «Buongiorno».

Il vecchio aveva grugnito e la vecchia aveva annuito, borbottando qualcosa di indistinto. Di li a poco se n’erano andati. Edith allora, fra il sonno e la veglia, aveva cominciato a domandarsi se li avesse poi visti sul serio. Era quindi tornata ad appisolarsi, e si era svegliata di soprassalto quando Lionel l’aveva toccata su una spalla.

Si schiarì la gola. «A che ora pensi che potremo andarcene da qui?» domandò.

Barrett tirò fuori l’orologio dal taschino. Ne sollevò il coperchio, rifletté un momento. «Diciamo, nelle prime ore del pomeriggio.»

«Come ti senti?»

«Indurito.» Il suo sorriso era stanco. «Ma mi riprenderò.»

Si voltarono. Fischer e Florence erano entrati nel salone, vestiti per uscire. Barrett li guardò interrogativamente, mentre si avvicinavano alla tavola. Edith guardò Florence. Era pallida, il suo sguardo era sfuggente.

«Ha lei le chiavi della macchina?» domandò Fischer.

Barrett represse un gesto di stupore. «Sono di sopra.»

«Vuol andarle a prendere?»

Barrett fece una smorfia. «Perché non ci va lei? Non me la sento di fare ancora quelle scale.»

«Dove sono?»

«Nella tasca del mio soprabito.»

Fischer si rivolse a Florence: «Lei è meglio che mi segua».

«Non si preoccupi.»

«Perché non prende un caffè con noi, Miss Tanner?» invitò Barrett.

Essa stava per ribattere poi cambiò idea e, annuendo, si sedette. Edith versò una tazza di caffè e passò la caffettiera a Florence che la prese, mormorando: «Grazie».

Fischer era inquieto. «Non pensa che sia meglio che lei venga con me?»

«Noi la terremo d’occhio» disse Barrett.

Fischer esitava ancora.

«Quello che Ben non ha il coraggio di dirvi» disse Florence, «è che io sono stata posseduta da Daniel Belasco, stanotte, e potrei perdere il controllo di me stessa da un momento all’altro.»

Barrett ed Edith la guardarono. Fischer capì che Barrett non credeva alle parole di lei, e questo lo irritò. «Dice la verità!» esclamò. «Preferirei non lasciarla sola con voi.»

Barrett guardò Fischer in silenzio. Alla fine si rivolse a Florence: «Meglio che lei vada con lui, allora».

Florence assunse un’espressione implorante: «Ma non potrei bere prima una tazza di caffè?».

Gli occhi di Fischer esprimevano sospetto.

«Se mi succede qualcosa, mi porti fuori ecco tutto.»

«Prenderemo il caffè in città.»

«Ma è lontano, Ben.»

«Florence…»

«La prego.» Chiuse gli occhi. «Non mi succederà niente. Glielo assicuro.» Pareva sul punto di mettersi a piangere.

Fischer non sapeva che fare. Seguitava a guardarla.

Fu Barrett a rompere quel penoso silenzio. «Non c’è alcun bisogno di restare» disse rivolto a Florence. «Questa casa sarà ripulita nel pomeriggio.»

Ella alzò gli occhi. «Come?»

Barrett sorrise un po’ impacciato. «Volevo appunto spiegarvi tutto. Ma, date le circostanze…»

«La prego. Devo sapere, prima di andar via.»

«Non c’è tempo» disse Fischer.

«Ben, io devo sapere.» Aveva un’espressione disperata. «Non posso andar via, sennò.»

«Maledizione…»

«Se do segno di perdere il controllo di me stessa, voi portatemi fuori, ecco tutto» disse Florence. Si rivolse a Barrett con aria implorante.

«Be’…» Il suo tono era incerto. «È molto complicato…»

«Ma io devo sapere» ripeté Florence.

Fischer si sedette accanto a Florence, di malavoglia. Ma perché le do retta? si chiese. L’apparecchio di Barrett non gli dava la minima fiducia. Non avrebbe sortito alcun effetto sulla Casa d’Inferno. Ma perché non la trascino via da qui? È la sola speranza che ha!

«Cominciamo da una premessa fondamentale» prese a dire Barrett. «Tutti i fenomeni che si manifestano sono eventi naturali: manifestazioni, vale a dire, di una natura la cui sfera però è molto più vasta di quanto non ritenga la scienza attuale. Ma, pur sempre, natura. Questo vale anche per i cosiddetti fenomeni psichici. In effetti, la parapsicologia non è che un’estensione della biologia.»

Fischer non staccava gli occhi da Florence. Sapeva quanto i suoi mutamenti di stato fossero repentini: d’improvviso poteva indemoniarsi, da così a così.

«Diciamo allora che si tratta di biologia paranormale,» proseguì Barrett «e la premessa è che l’uomo trabocca da se stesso, voglio dire che l’uomo è assai più vasto dell’organismo che lo contiene, in cui lui abita, per usare le parole del dottor Carrel. In parole povere, il corpo umano emette una sorta di energia: un fluido psichico, se vogliamo chiamarlo così. Tale energia circonda il corpo umano come un alone invisibile, come una guaina: ciò che chiamiamo “aura”. Ma questa energia può valicare i confini dell’“aura” e diffondersi oltre, creando degli effetti meccanici, chimici, fisici: percussioni, odori, movimento di oggetti inanimati, e così via… come abbiamo ripetutatamente osservato negli ultimi giorni. Io ritengo che allorché Belasco parlava di “influenze”, egli si riferisse a questa forma di energia che ho detto.»

Fischer guardò Barrett. In lui c’era un conflitto di emozioni e il suo animo era diviso. Da una parte, la teoria dell’anziano uomo di scienza sembrava così ragionevole, ma dall’altro… poteva darsi che tutto ciò in cui lui aveva creduto in vita sua si riducesse a qualcosa dimostrabile mediante provette e manometri, in un laboratorio?

«Attraverso i secoli,» proseguì Barrett «sono state addotte prove a sostegno di questa premessa. Ogni epoca però ha fornito spiegazioni differenti, a seconda dello stadio di sviluppo della civiltà. Nel medioevo, la superstizione delle genti chiamava in causa demoni e streghe. Ma le opere attribuite a costoro non erano che manifestazioni dell’energia psichica che ho detto: di questo fluido invisibile, di queste “influenze”. Quanto ai medium, i fenomeni da essi prodotti sono sempre stati lo specchio — la traduzione — delle loro convinzioni.»

Fischer guardò Florence per cogliere l’effetto di quelle parole su di lei.

Barrett proseguì: «Ciò vale anche per lo spiritualismo. I medium aderenti a questa fede creano fenomeni particolari… di cosiddetta comunicazione con gli spiriti».

«Non cosiddetta, dottore.» La voce di Florence era tesa.

«Mi lasci finire, Miss Tanner» egli disse. «Quindi se vuole potrà confutare la mia tesi. È dimostrato che l’esorcismo religioso sorte il suo effetto su una casa infestata o su una persona indemoniata solo allorquando il medium chiamato in causa è persona profondamente religiosa, sicché l’esorcismo stesso commuove intensamente il suo animo. In moltissimi altri casi però — fra cui quello di questa casa — litri e litri di acqua santa e ore e ore di esorcismi non producono alcun effetto: o perché il medium operante non è persona abbastanza religiosa o perché più di un medium ha contribuito a creare quegli effetti.»

Fischer guardò Florence. Il suo volto era pallido, stringeva le labbra.

«Un altro esempio di questo meccanismo biologico» seguitò a dire Barrett «è costituito dal magnetismo animale, o mesmerismo: esso ha sempre prodotto fenomeni psichici tanto impressionanti quanto quelli prodotti dallo spiritualismo, ma del tutto privi di qualsiasi caratteristica religiosa.»

Dopo una breve pausa proseguì: «Ma com’è che funziona, dunque, questo meccanismo? Il chimico austriaco Reichenbach, negli anni fra il 1845 e il 1868, stabilì l’esistenza di codeste radiazioni fisiologiche. Come condusse i suoi esperimenti? Per prima cosa, fece osservare delle calamite ad alcuni “sensitivi”. Costoro scorgevano, ai poli del magnete, tanti sprazzi di luce, come fiamme di lunghezza disuguale, più brevi al polo positivo. L’osservazione di elettrocalamite diede gli stessi risultati dell’osservazione di cristalli. Infine, gli stessi fenomeni furono osservati sul corpo umano».

Si schiarì la gola. «Il colonnello De Rochas proseguì gli esperimenti di Reichenbach e scoprì che queste emanazioni sono azzurre al polo positivo, rosse a quello negativo. Nel 1912, il dottor Kilner, membro del Regio Collegio dei Fisici di Londra, pubblicò il risultato di quattro anni di esperimenti, durante i quali, mediante uno schermo “alla dicianina”, la cosiddetta aura umana venne resa visibile agli occhi di tutti. Allorché il polo di una calamita viene accostato a questa aura, ne sprizza un raggio che congiunge il polo del magnete al più vicino punto del corpo umano. Inoltre, se il soggetto viene esposto a una scarica elettrostatica, l’aura a poco a poco scompare, e ritorna quando la scarica si è dissipata.

E seguitò: «Naturalmente, io semplifico molto. Ma il risultato finale di queste scoperte è irrefutabile: l’energia psichica emanata da qualsiasi essere vivente costituisce un campo di radiazioni elettromagnetiche».

Volse lo sguardo intorno a sé. L’espressione piuttosto piatta dei suoi ascoltatori lo deluse molto. Ma non avevano dunque afferrato quel che lui era venuto dicendo?

Sorrise, allora. Non c’era altro modo, per convincerli, che dar loro una dimostrazione pratica.

«La risposta è: REM. Radiazione Elettro-Magnetica, cioè» disse. «Tutti gli organismi viventi emettono questa energia, la dinamo di essa è la mente. Il campo elettromagnetico che circonda il corpo umano si comporta come un qualsiasi altro campo del genere: dal suo centro di forza parte una spirale, gli impulsi elettrici e magnetici si propagano ad angolo retto gli uni rispetto agli altri, e così via. Questo campo deve venire in urto con ciò che lo circonda. Quando l’emozione di un soggetto aumenta, si accresce l’intensità di questo campo, il quale allora preme con maggior forza sull’ambiente che lo circonda: e tale forza, se non trova sfogo, perdura in quell’ambiente, senza scaricarsi, lo satura, disturba gli organismi a essa sensibili (medium psichici, cani, gatti) e crea, insomma, un’atmosfera “infestata”.»

Proseguì: «Che cosa c’è dunque da meravigliarsi, che la Casa d’Inferno sia quello che è? Considerate un po’ le radiazioni, violentemente emotive, distruttive — malvagie, se vogliamo — che hanno impregnato il suo interno. Considerate come questa dimora sia divenuta un vero e proprio “magazzino” di poteri nocivi. In sostanza, la Casa d’Inferno è una gigantesca batteria. E, inevitabilmente, l’energia accumulata qui dentro viene assorbita da chi entra fra queste mura, sia intenzionalmente che senza volerlo. Assorbita da lei, Miss Tanner. Da lei, Mister Fischer. Da mia moglie. Da me stesso. Noi tutti siamo rimasti vittime di questo accumulatore di veleno psichico: e lei più di tutti, Miss Tanner, perché lei ha cercato di sfruttare l’energia di questo luogo allo scopo, inconscio, di utilizzarla per offrire alcune prove della sua personale interpretazione della forza infestante.»

«Non è vero!»

«Invece sì, è vero» ribatté Barrett. «Ciò valeva per coloro che entrarono qui nel 1931 e nel 1940. E ciò vale per lei.»

«E lei, allora?» interloquì Fischer. «Come fa a sapere che la sua interpretazione è quella giusta?»

«La risposta è facile» disse Barrett. «Fra poco il mio Reversore permeerà la casa d’una massiccia carica di radiazioni magnetiche di segno contrario. Questa “controcarica” annullerà le radiazioni presenti nell’atmosfera e la ripulirà mediante un processo di inversione. Ogni fluido verrà dissolto. Come le radiazioni della luce dissipano, annullano, i fenomeni medianici, così le radiazioni del mio Reversore dissiperanno e annulleranno tutti i fenomeni della Casa d’Inferno.»

Barrett, che finora — senza accorgersene — stava proteso in avanti, si appoggiò contro lo schienale della sedia. Florence era accasciata. Edith provò compassione per lei. Come si poteva dubitare che quel che Lionel aveva detto non corrispondesse alla verità?

«Una domanda» disse Fischer.

Barrett lo guardò.

«Se un’aura si riforma una volta cessata la carica elettromagnetica, perché non potrebbe allora riformarsi l’energia psichica, qui dentro?»

«Perché l’aura irradia da una fonte vivente. Mentre le radiazioni qui dentro sono solo energia residua. Una volta dissipate, non possono tornare o riformarsi.»

«Dottore» disse Florence.

«Sì?»

Florence si fece coraggio. «Niente di ciò che ha detto lei è in contraddizione con ciò che sostengo io.»

Barrett si mostrò stupito. «Vorrà scherzare.»

«Nient’affatto. Certo che vi sono delle radiazioni e, certo, esse perdurano nell’ambiente. Poiché chi le emana sopravvive alla morte. E queste radiazioni sono, appunto, la veste corporea dei trapassati!»

«A questo punto le nostre vie si biforcano, Miss Tanner» disse Barrett. «Il residuo d’energia di cui io parlo non ha nulla a che vedere con la sopravvivenza di anime personali. Non è lo spirito di Emeric Belasco ad aggirarsi come un fantasma per questa casa. Né quello di suo figlio né quelli di altri personaggi con cui lei crede di essersi messa in contatto. C’è soltanto una cosa in questa casa: una potenza, un’energia priva di senno e di direzione.»

«Oh» ella disse. La sua voce era calma. «Allora non c’è nient’altro da fare.»

E in così dire, con uno scatto repentino, Florence balzò in piedi, cogliendo gli altri di sorpresa, e si scagliò contro il Reversore. I tre restarono per un attimo come paralizzati. Poi, mentre Barrett era colto da palpitazioni, Fischer si alzò, rovesciando la sedia nella fretta, e si avventò per fermare la donna.

Ma questa aveva già afferrato il piede di porco e cominciò con esso a vibrar colpi contro l’apparecchio, con tutte le sue forze. Barrett gettò un grido, si alzò in piedi barcollando, il suo volto era terreo. Al rumore metallico dei colpi si squassava come se essi fossero inferti al suo corpo, e gridava disperatamene te: «No! No!».

Florence era fuori di sé. Al secondo colpo il cristallo del quadrante principale andò in frantumi. Barrett fece per accorrere, con l’orrore dipinto sul volto, ma la gamba destra non lo sorresse ed egli ruzzolò, con un ansimo strozzato. Edith si levò di scatto: «Lionel!».

A questo punto Fischer era già saltato addosso a Florence. Afferratala per le spalle, la strappò via dall’apparecchio. Florence gli si rivoltò contro e gli vibrò un fendente con la sbarra di ferro. Fischer riuscì a schivarla per un pelo. Quindi, con un balzo felino, l’afferrò per il braccio e tentò di strapparle la sbarra di mano. Florence si divincolò, ringhiando come un animale inferocito. Poi riuscì a liberarsi dalla stretta di Fischer. E questi era allibito, per la gran forza fisica di lei.

Senza curarsi d’altro che del suo Reversore, Barrett neanche guardò Edith in faccia quando questa l’aiutò a rialzarsi in piedi. Liberatosi da lei, si avventò zoppicando, senza bastone, e gridava: «Fermatela! Fermatela!».

Fischer aveva di nuovo afferrato Florence per le braccia. Ella diede una stratta all’indietro ed entrambi andarono a sbattere contro il Reversore. Fischer sentì il fiato caldo di lei sulla guancia e una bava le colava dalle labbra. La donna liberò il braccio destro e vibrò un colpo contro di lui. Fischer lo schivò, la sbarra colpì l’apparecchio. Fece per afferrarle di nuovo il braccio, ma Florence fu più svelta di lui e vibrò un altro colpo. Fischer si protesse con le braccia e il piede di porco lo colpì al polso. Lui gettò un grido. Un atroce dolore gli si diffuse per tutto il braccio destro. Vide l’attrezzo sollevarsi ancora ma non riuscì a schivarlo. Il colpo si abbatté sul suo cranio, un dolore accecante gli esplose nella testa. Con gli occhi sbarrati, cadde di schianto sulle ginocchia. Florence sollevò il piè di porco per dar giù un altro colpo.

Ma Barrett le fu addosso e, con la forza della disperazione, riuscì a strapparle, con un unico strattone, la sbarra di mano. Florence gli si rivoltò contro. Barrett, con il viso completamente smorto, indietreggiò vacillando, comprimendosi la mano destra contro il filo della schiena. Edìth gettò un grido. Il piè di porco sfuggì di mano a suo marito e tonfò sul tappeto. E lui perse l’equilibrio, cadde.

Florence allora, rapidissima, raccattò l’attrezzo e, invece di rivolgersi contro il Reversore, avanzò verso Edith, che stava là impietrita dal terrore, dicendo: «Adesso tocca a te, brutta puttana lesbica».

Edith la guardava a bocca aperta, sbigottita tanto da quelle parole quanto dall’aspetto minaccioso di Florence che avanzava verso di lei con la sbarra di ferro levata. «Ti sfondo il cranio, io, te lo riduco una poltiglia!»

Edith si ritraeva, scuotendo la testa. Guardò, disperata, verso Lionel. Questi si torceva dal dolore sul pavimento. Si diresse verso di lui, poi fece un balzo all’indietro, poiché Florence, brandendo la sbarra di ferro, si stava avventando su di lei. Edith allora si girò su se stessa e fuggì verso il vestibolo. Dalla paura non capiva più nulla. Udì i passi dell’inseguitrice e si guardò, rapida, alle spalle. Florence era quasi su di lei! Con un grido strozzato, si diede maggior slancio e, attraversato il vestibolo, prese a salire le scale.

Quando giunse sul pianerottolo, capì che non ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino in camera sua. Florence era alle sue costole. D’impulso, corse verso la stanza di Florence, ch’era più vicina, e vi si precipitò dentro, e fece per chiudere la porta e barricarsi. Ma con un gemito di orrore s’accorse che la serratura era rotta. Troppo tardi. La porta venne spinta. Il battente la colpì. Edith, perse l’equilibrio, barcollò e cadde all’indietro.

Florence si inquadro nella soglia, ansante, e sorrideva. «Di che cosa hai paura?» le disse, gettando via il piede di porco, con noncuranza. «Non ti farò niente di male.»

Accucciata in terra, Edith la guardava.

«Non ti farò alcun male, baby.»

Edith avvertì uno spasimo ai muscoli dello stomaco. La voce della medium era dolce, melata, quasi coccolante.

Florence si tolse la giacca e la lasciò cadere in terra. Edith si tese. Florence prese a slacciarsi il maglione. Edith cominciò a scuotere la testa.

«E non scuotere la testa!» disse Florence. «Tu e io adesso ce la spassiamo un po’.»

«No.» Edith si mise a indietreggiare.

«Invece sì.» Florence si tolse il maglione, lo gettò in terra. Mosse qualche passo, e intanto si slacciava il reggiseno.

Oh Dio, no ti prego, no! Edith seguitava a scuotere la testa, mentre Florence si avvicinava a lei. Toltasi il reggiseno, cominciò a slacciare la lampo della gonna, con un sorriso fisso sulle labbra. Edith sbatté contro il letto e annaspò, convulsa. Non poteva indietreggiare oltre. Sentiva freddo, si sentiva debole. Florence, lasciata cadere la gonna, cominciò a levarsi le mutande. Edith smise di scuotere la testa. «Oh, no» implorò.

Florence si inginocchiò, a cavalcioni delle gambe di Edith. Portò entrambe le mani a coppa sotto i seni e li accostò al viso di Edith. Questa fece una smorfia, per via dei segni dei denti. «Non sono belle?» disse Florence «non sono deliziose le mie tette? Non ti mettono voglia?» Quelle parole conficcarono una spada di terrore nel cuore di Edith. Guardava muta, immobile, l’altra donna carezzarsi i seni davanti a lei. «Su, accarezzali» disse Florence. Le prese una mano e se la portò sul cuore.

Al contatto delle dita con quella soffice carne di donna, una diga cedette nel petto di Edith. Un singulto d’angoscia la scosse. NO! gridava la sua mente, io non sono così!

«Ma sì, che lo sei» disse Florence, come se l’altra avesse parlato ad alta voce. «Siamo tutt’e due così. Siamo sempre state così. Gli uomini sono brutti. Sono crudeli. Solo delle donne ti puoi fidare. Solo le donne si possono amare. Tuo padre ha tentato di violentarti, non è vero?»

Ma come può saperlo? pensò Edith, inorridita. E ritrasse le mani, se le compresse contro il petto, in croce, chiuse gli occhi.

Con un grido animalesco, Florence l’abbrancò e le fu sopra. Edith tentò di levarsela di dosso, ma l’altra era troppo pesante. Si sentì prendere per la nuca e poi le labbra della medium si incollarono alle sue, si dischiusero e la lingua palpitante cercava di forzare la chiostra dei denti e penetrarle nella bocca. Edith cercò di ribellarsi, ma Florence era più forte. La stanza cominciò a girarle attorno, il caldo divenne oppressivo. Una pesante cappa avvolse tutto il suo corpo. Si sentiva intontita, distaccata. Non riuscì più a tener serrati i denti e la lingua di Florence guizzò rapida e calda dentro la sua bocca, in profondità, leccandole il palato. Dei fremiti di piacere si diramarono per tutto il suo corpo. E di nuovo la mano di Florence le guidò la sua sul seno, e lei non riuscì a toglierla di là, e anzi le sue dita lo strizzarono, gentilmente. Si sentiva le tempie martellanti. E un calore l’invadeva tutta.

Attraverso quel rimbombo dei propri timpani udì la voce di suo marito. Volse la testa di scatto. La cappa di calore svanì. Si sentì invasa da un freddo improvviso. Sopra di lei, c’era la faccia contorta di Florence. Di nuovo udì Lionel chiamarla. «Sono qui!» lei gridò. Florence si staccò da lei. Si guardò addosso, rendendosi dolorosamente conto. Balzò in piedi e corse nella stanza da bagno. Edith si rialzò, a fatica, e attraversò la stanza, vacillando. Cadde fra le braccia di Lionel che entrava, si aggrappò a lui, a occhi chiusi, affondando la faccia contro il suo petto. E scoppiò a piangere disperatamente.


ore 9.01


«Si rimetterà in sesto.» Barrett batté una mano sulla spalla a Fischer. «Ma resti a letto per un po’, senza muoversi.»

«E Florence?» mormorò Fischer.

«Dorme. Le ho somministrato un sonnifero.»

Fischer tentò di tirarsi su, ma ricadde all’indietro con un lamento.

«Non si muova» gli disse Barrett. «Ha ricevuto una bella botta, lo sa?»

«Bisogna portarla fuori di qui.»

«La porto via io.»

Fischer lo guardò poco convinto.

«Glielo prometto» disse Barrett. «Adesso si riposi.»

Edith stava presso la porta. Barrett le diede il braccio e insieme uscirono dalla stanza. «Come sta?» chiese lei.

«Ammenoché non abbia una commozione cerebrale, ma non credo, se la caverà.»

«E tu?»

«Ancora poche ore» disse Lionel. Teneva il braccio destro contro il petto, come se fosse rotto. C’era una macchia di sangue fresco sulla fasciatura del pollice. Doveva essersi riaperta la ferita quando aveva strappato di mano a Florence il piede di porco. Edith fece per dire qualcosa in proposito ma poi tacque, oppressa da un senso di ineluttabilità.

Lionel aprì la porta della camera di Florence e vi entrarono. Si accostarono al letto. La medium giaceva immobile sotto le coperte.

Poco fa, mentre lei stava ancora fra le braccia di suo marito, Florence era uscita dal bagno, con un asciugamano avvolto intorno al corpo ignudo. Non aveva aperto bocca. Non li aveva guardati in volto. Stava a capo chino come una bimba pentita. Aveva preso le tre pillole di sonnifero, si era infilata sotto le lenzuola, e di lì a poco già dormiva.

Barrett le sollevò una palpebra, osservò l’occhio fisso di Florence. Edith volse il capo. Poi Lionel le diede di nuovo il braccio. Attraversarono la stanza e uscirono sul corriodio. Andarono in camera loro.

«Mi prendi un po’ d’acqua per favore?» egli chiese.

Edith andò nel bagno e riempì un bicchiere. Tornò di là. Lionel sedeva sulla sponda del suo letto, appoggiato alla testiera. «Grazie» mormorò, mentre lei gli porgeva il bicchiere. Aveva due pasticche di codeina in mano. Le inghiottì, bevendo. «Adesso telefono all’uomo di Deutsch perché mandi un’ambulanza» disse.

Edith si sentì sollevata.

«Perché portino Fischer e Miss Tanner all’ospedale.»

Allora il cuore le ricadde, e guardò suo marito senza alcuna espressione sul volto.

«E vorrei che anche tu andassi con loro.»

«Io resto finché resti tu.»

«Mi sentirei più tranquillo.»

Edith scosse la testa. «Non me ne vado senza di te.»

Egli sospirò. «E va bene. Sarà finito tutto per questo pomeriggio, in ogni modo.»

«Sul serio?»

«Ma, Edith…» Il suo tono era di stupore. «Hai dunque perso la tua fiducia in me?»

«Ma allora quello che…»

«Quello ch’è successo poco fa?» Egli scosse il capo, sospirando. «Ma non capisci? Dà ragione a me.»

«In che modo?»

«Miss Tanner s’è scatenata contro il Reversore proprio perché sa che io ho ragione. Non c’era altro da fare. Ricordi? sono proprio queste le parole che ha dette. E cioè: non poteva far altro che distruggere la mia teoria prima che io distruggessi la sua.»

Barrett allungò una mano e la trasse accanto a sé. «Quella donna non è posseduta da Daniel Belasco» disse. «Non è posseduta da nessuno… se non dal suo io interiore, dal suo vero io, dal suo io represso.»

Come me ieri, ella pensò. E guardò Lionel disperata. Avrebbe voluto credergli ma non ci riusciva più.

«La personalità dei medium è molto instabile» egli disse. «Ogni medium degno di questo nome è una persona isterica, oppure un sonnambulo, insomma uno la cui individualità è divisa. Esiste un preciso parallelo fra lo stato di “trance medianica” e lo stato sonnambolico. La coscienza viene e va, i metodi di espressione sono identici, come pure le strutture psicologiche, l’amnesia al risveglio, la qualità artificiale delle personalità alternate.»

Dopo una breve pausa: «Stamattina abbiamo visto manifestarsi una parte della personalità di Miss Tanner ch’essa ha sempre tenuto celata, anche a se stessa: la sua pazienza si è trasformata in furore, il suo abituale riserbo in sfoghi esasperati. La sua castità si è trasformata in sfrenata libidine.»

Edith chinò la testa. Non poteva sostenere il suo sguardo. E pensava: vale anche per me, anche per me.

«Va tutto bene» disse Barrett.

Ella scosse la testa. «No.»

E lui: «Se ci sono delle cose di cui parlare… ne discuteremo a casa».

A casa, lei pensò. Ma una frase aveva implicato, per lei, altrettanta impossibilità.

«Va bene» ella disse. Ma non era la sua voce.

«Bene» disse Barrett. «Oltre a darmi una soddisfazione professionale, questi giorni ci hanno insegnato qualcosa di molto importante nella sfera dell’esperienza umana.» Le sorrise. «Fatti animo, mia cara. E tutto si metterà in sesto.»


ore 9.42


Barrett aprì gli occhi. Guardò Edith che dormiva. Si sentì contrariato. Non avrebbe voluto addormentarsi.

Afferrato il suo bastone, scivolò con le gambe giù dal letto e si tirò in piedi, con una smorfia non appena ebbe sollevato il proprio peso. Fece un’altra smorfia nell’infilarsi le scarpe. Sedendo sulla sponda del letto accanto, accavallò la gamba destra sulla sinistra e si allacciò la scarpa con la mancina.

Posò il piede a terra. Andava meglio. Ripeté l’operazione con la scarpa destra. Poi guardò l’orologio. Si avvicinavano le dieci. La sua espressione si fece allarmata. Non saranno mica state le dieci di notte? In quella dannata casa dalle finestre murate in cui non entrava la luce del giorno… non si poteva mai sapere.

Non avrebbe voluto svegliar Edith. Aveva tanto patito il sonno negli ultimi giorni. Ma non osava neanche lasciarla sola. Stava incerto, la guardava. Era successo qualcosa mentre dormivano? Ecco un aspetto del REM su cui non aveva ancora indagato. Ma sì: bisognava essere svegli, coscienti, per risentirne. No, ciò non era vero. Lei aveva pur camminato nel sonno.

Decise che sarebbe sceso al piano di sotto, lasciando la porta aperta, e che, appena fatta la telefonata, sarebbe tornato su più in fretta che poteva. Se succedeva qualcosa, lui se ne sarebbe accorto certamente.

Attraversò, claudicando, la stanza e uscì nel corridoio, stringendo i denti per il dolore al pollice. Nonostante la codeina che aveva ingerito, gli faceva un male atroce. Dio sa in che stato era la ferita! Ma non aveva voglia di controllare. Certo, bisognerà ricorrere a una piccola operazione chirurgica, non appena questa faccenda sarà finita. Forse perderò l’uso di questo dito, pensò. Ma non importa, disse a se stesso. Era un prezzo accettabile.

Andò a dare un’occhiata in camera di Fischer. Questi non si era mosso. Speriamo che rimanga addormentato, pensò, quando lo porteranno via in lettiga. Non avrebbe dovuto venir qui. Ma perlomeno ne esce vivo una seconda volta.

Quindi andò a controllare in camera di Florence. Anche lei giaceva immobile. Barrett provò una fitta di compassione. Avrà un sacco di cose con cui fare i conti, si disse, una volta via da qui. Quando dovrà ammettere che tutta la sua passata esistenza era basata su illusioni e menzogne. Ma ne avrà il coraggio, di una simile ammissione? Oppure preferirà fingere, tornare a illudere se stessa? Questo, già, è più facile.

Zoppicò fino allo scalone. Certo, che sono stati giorni duri, questi, si disse. E sorrise involontariamente. Era davvero dir poco! Comunque, era stato evitato il peggio. Grazie al cielo, Miss Tanner era stata accecata dalla rabbia. Se avesse assestato meglio i suoi colpi, sarebbero occorsi giorni, settimane magari, per riparare il Reversore. Tutto sarebbe andato in malora. Rabbrividì a quel pensiero.

Cominciò a scendere le scale, riposandosi ogni tanto, appoggiandosi con la sinistra alla balaustra. E pensava: cosa faremo una volta via da qui, tutti noialtri? Il quesito era molto appassionante. Miss Tanner sarebbe tornata alla sua chiesa? Avrebbe potuto tornarci, dopo le terribili rivelazioni su se stessa? E Fischer… cosa avrebbe fatto Fischer? Con centomila dollari si possono fare un mucchio di cose. Quanto a lui e Edith, il loro futuro era abbastanza chiaro. Ma evitava di pensare ai problemi personali che dovevano risolvere fra loro. Ci avrebbe pensato più in là.

Per lo meno sarebbero tutti usciti vivi dalla Casa d’Inferno. Come leader del piccolo drappello, egli provò un certo qual orgoglio, anche se era assurdo, forse, provarlo. Comunque, il gruppo del 1931 e quello del 1940 erano stati virtualmente decimati. Stavolta, in quattro erano entrati nella Casa d’Inferno, e in quattro ne sarebbero usciti sani e salvi. Stasera.

Si domandò cosa ne avrebbe fatto, poi, del Reversore. Consegnarlo al laboratorio dell’Università? Forse era la cosa migliore. Un prestigioso cimelio. Qualcosa di simile, si disse, alla capsula spaziale che aveva portato il primo astronauta nello spazio. Forse un giorno il suo Reversore avrebbe occupato un posto d’onore allo Smithsonian Institute. Sorrise con sarcasmo. O forse no. Forse lui si illudeva, pensando che il mondo della scienza si sarebbe inchinato reverente di fronte alla sua impresa. No, dovranno passare molti anni ancora, rifletté, prima che alla parapsicologia sia concesso di occupare il posto che le compete fra le altre scienze naturali.

Andò alla porta d’ingresso e l’aprì. Era giorno. Chiuse il battente e claudicò fino al telefono, sollevò il ricevitore. Attese.

Non udì alcuna risposta. Picchiò sulla forcella. Un bel momento aveva scelto per non funzionare. Attese. Di nuovo batté sulla forcella. Oh dai, pensò. Non poteva certo portar via di lì Miss Tanner e Fischer senza un aiuto.

Stava per riagganciare, quando il ricevitore fu sollevato all’altro capo e l’uomo di Deutsch disse : «Pronto?».

Barrett emise un sospiro di sollievo. «Stavo in pensiero. Sono Barrett. Abbiamo bisogno di un’autoambulanza.»

Silenzio.

«Mi sente?»

«Sì.»

«Allora può mandarcene una subito? Mister Fischer e Miss Tanner hanno bisogno di venir ricoverati d’urgenza in ospedale.»

Non ci fu risposta.

«Mi ha inteso?»

«Sì.»

La linea restò muta.

«C’è qualcosa che non va?» domandò Barrett.

L’uomo esitò, poi disse : «Oh, diavolo, questa proprio non vi ci voleva».

«Cosa non ci voleva?»

L’altro non rispose.

«Insomma, cosa

Un’altra esitazione. Poi l’uomo disse tutto d’un fiato: «Il vecchio Deutsch è morto stamattina».

«Morto?»

«Era ammalato di cancro. Ha preso troppe pillole per lenire i dolori. Accidentalmente, s’è ucciso.»

Barrett si sentì ottundere il cranio. Che differenza fa? chiese a se stesso. Ma lo sapeva. «Perché non ce l’ha comunicato subito?»

«Così mi è stato ordinato.»

Da suo figlio, pensò Barrett. «Be’…» La sua voce era fioca. «E per quel che riguarda…»

«Mi è stato ordinato di… abbandonarvi là.»

«E il denaro?» domandò Barrett, benché conoscesse già la risposta.

«Non ne so nulla, ma, date le circostanze…» L’uomo sospirò. «Avete niente per iscritto?»

Barrett chiuse gli occhi. «No.»

«Capisco.» La voce dell’uomo era opaca. «Certo adesso quel bastardo di suo figlio…» S’interruppe. «Senta, le chiedo scusa per non averla chiamata subito, ma, capirà, ho le mani legate. Ora devo tornare immediatamente a Nuova York. Avete con voi la macchina. Vi suggerisco di venir via subito. C’è un ospedale qui a Caribou Falls. Faccio quello che posso…» La sua voce svanì poi si udì un’esclamazione di disgusto. «Mi sa che lascerò il posto, io. Non lo posso soffrire, quell’uomo. Il padre era già un disastro, ma il figlio…»

Barrett riagganciò. Un’onda nera di disperazione lo sommerse. Niente denaro, addio speranze d’una vecchiaia senza problemi finanziari. Appoggiò la fronte al muro. «Oh no» mormorò.

Lo stagno.

Barrett si guardò intorno, dando un sobbalzo. Quella parola gli era venuta spontanea alla mente. No, pensò. Strinse i denti. No! disse alla casa. Scosse la testa, con decisione.

Si avviò verso il salone. «Non vincerai» disse. «Io non avrò quei soldi, ma tu non l’avrai vinta su di me. No, tu no. Io conosco il tuo segreto, e ti distruggerò.» Non aveva mai provato tanto odio in vita sua. Arrivò sotto l’arcata e indicò il Reversore con un’espressione di trionfo. «Eccolo!» gridò. «Eccolo là, quello che ti batterà!» Dovette appoggiarsi allo stipite. Si sentiva esausto e i dolori lo lancinavano. Non importa, si disse. Il dolore che provava era una cosa secondaria. Si sarebbe preoccupato più tardi di Fischer e Miss Tanner, più tardi si sarebbe dato pensiero di Edith e di se stesso. C’era solo una cosa che contava in quel momento: la sconfitta della Casa d’Inferno e la vittoria del suo lavoro.


ore 10.33


Sentì se stessa sollevarsi a poco a poco dalle tenebre. La voce di Daniel la sollecitava: Non occorre che tu dorma. Le pareva che le vene le si comprimessero, che i tessuti si tendessero, che tutto il suo corpo anelasse a uscire dall’oscurità. Sentiva una bruciante pressione alle reni. Tentò di trattenerla. Ma non ci riusciva. La pressione aumentava. Suvvia, le diceva Daniel, lasciati andare. Florence gemette. Non ne poteva più. Sentì il fiotto caldo inondarla, e gettò un grido di vergogna.

D’un tratto era sveglia. Gettò via le coperte e si alzò, contemplando intontita la chiazza di umido sul lenzuolo. Lui era ormai tanto padrone di lei, da governare anche le sue funzioni corporali.

«Florence.»

Ella girò la testa di scatto e vide il suo volto proiettato sul lampadario d’argento. «Ti prego» egli disse.

Ella lo fissò. Lui si mise a sorridere. «Ti prego.» Il suo tono era di scherno.

«Basta.»

«Ti prego» lui disse.

«Ora basta

«Ti prego.» Scoprì i denti, in un ghigno di scherno. «Ti prego.»

«Basta, Daniel.»

«Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego, ti prego.»

Florence fece per dirigersi verso il bagno. Una mano fredda si strinse intorno alla sua caviglia e la fece ruzzolare. La gelida presenza di Daniel la inondò e la sua voce, satanica, le ululava nelle orecchie: «Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego».

Lei non riusciva a fiatare. Lui sembrava toglierle il respiro, succhiarlo via da lei. «Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego.» Quindi sbottò a ridere con sadico piacere.

Aiutami Tu, mio Dio, ella si raccomandò, in agonia. «Aiutami Tu, mio Dio!» la canzonò la voce di lui. Salvami Tu! ella implorò. E lui ripeté sarcastico: «Salvami Tu! Salvami Tu!». Florence si tappò le orecchie. «Aiutami, Dio mio!» gridò.

Lui allora svanì. Florence ansimava convulsamente. Si alzò in piedi e andò verso il bagno. «Parti?» disse la sua voce. Ella era decisa a non dar più ascolto alle sue blandizie. Entrò nella stanza da bagno. Si inumidì il viso con acqua fredda.

Si raddrizzò e si guardò allo specchio. Il suo viso era pallido, segnato da graffi crostosi e da lividi. Anche il collo e il petto erano striati da lacerazioni. Si esaminò il seno e vide ch’era infiammato, e i segni dei denti erano quasi neri adesso.

S’irrigidì. La porta si era chiusa. Poi vide la propria immagine nello specchio ch’era applicato alla porta. Si preparò a resistere, ma qualcosa di freddo le salì su lungo la spina dorsale. Ansimò. Sbarrò gli occhi.

A un tratto si mise a sorridere. Si piegò un po’ all’indietro. Socchiuse gli occhi. Daniel era dietro di lei. Ella sentì il suo membro, duro, penetrarle nell’orifizio anale, salirle su nel retto, mentre le sue mani le carezzavano le tette, gliele strizzavano fra le dita. In quella Edith scivolò nella stanza da bagno. Cadde in ginocchio davanti a Florence, e cominciò a leccarle la vagina, avidamente. Con la lingua penzoloni fra le labbra dischiuse, ella fremeva sotto le stantuffate di Daniel. È quello che ho sempre desiderato, pensava, questa sono io.

Sobbalzò come se avesse ricevuto una scarica elettrica. D’un tratto si vide: semiaccucciata davanti allo specchio, il viso estatico e vacuo, la mano destra fra le cosce. Con un’esclamazione di disgusto si ricompose. Udì un’aspra risata alle sue spalle. Si rigirò. La stanza era vuota. Ti stavo guardando, risuonò la voce di lui nella sua mente.

Ella aprì la porta e si slanciò nella camera da letto. La risata di Daniel la seguì. Si chinò per raccogliere la vestaglia. Qualcosa gliela strappò di mano, gliela gettò in terra. Lei andò per raccattarla ma la vestaglia si mise a svolazzare. Desistette. Inutile, pensò, disperata. «Inutile» la canzonò la voce. La vestaglia volò in aria e le piovve sul capo. Lei se la scrollò di dosso. Poi l’infilò, l’allacciò in fretta. Si prende gioco di me, pensava, e mi fa fare tutte le cose che aborro.

«… tutte le cose che aborro» la scimmiottò quella voce, in falsetto. «Le cose che aborro. Le cose che aborro.»

Florence cadde in ginocchi accanto al letto e chinò il capo sulle mani giunte. «Mio Dio, ti prego, aiutami. Nuvola Rossa, aiutami. Spiriti docenti, aiutatemi. Sono posseduta. Che il fuoco dello Spirito Santo bruci questa malattia e ne mondi la mia mente e il mio corpo. Che Dio mi assista e che mi dia la forza di resistere. Che il suo divino uccello mi entri in bocca, e che io sia dissetata dal Suo ardente sperma divino. Che io…»

S’interruppe con un gemito straziante. Affondò i denti nelle nocche delle mani e morse, morse finché il dolore non occupò tutto il suo cervello. Daniel allora svanì. Dopo qualche istante si guardò la mano, col pugno ancora chiuso. I suoi denti avevano lacerato la pelle. Il sangue le scorreva sul dorso della mano.

Si guardò intorno, incerta. Ma era come se il dolore acuto alla mano le avesse schiarito la mente, cacciandolo via. Si alzò in piedi. La cappella, pensò, la cappella. È là che troverò la soluzione.

Attraversò la stanza di corsa e spalancò la porta. Si diresse verso lo scalone. Ci arriverò, pensava. Non può possedermi ogni minuto. Se tiro avanti a testa bassa, qualsiasi cosa accada, ci arrivo.

Si soffermò, col cuore che le balzava dal petto. Una figura le sbarrava la strada: un uomo magro dagli abiti a brandelli, con le ossa che gli spuntavano dalla pelle, dai capelli arruffati, il viso deformato da qualche malattia, la bocca ghignante coi grossi denti ingialliti. Florence capì che si trattava d’una delle vittime di Belasco, e che quello era il suo aspetto da moribondo.

La figura scomparve. Florence cominciò a scendere le scale. Quel freddo ritornò, le percorse la schiena. Ella sentì di nuovo la sozzura del proprio corpo e si morse la mano finché il dolore non ebbe cacciato via il suo nemico. Il dolore era dunque la cura! Quando Daniel avesse cercato di assoggettarla, lei l’avrebbe cacciato via mediante il dolore: questo riempiva il suo cervello e non vi lasciava alcuno spazio per lui!

Si arrestò, trasalendo. Due figure giacevano riverse in fondo alla rampa, un uomo e una donna. Poi l’uomo affondò la lama di un pugnale nella gola della donna. E cominciò a segarle il collo, mentre il sangue sprizzava e gli inondava la faccia contorta da un ghigno di piacere. Le tagliava via la testa. Florence si morse il pugno, vi affondò i denti, e, col dolore atroce, la visione scomparve. Ella seguitò a discendere. Chissà dove saranno gli altri, si chiese, Fischer e Barrett e Edith. Non importa. Loro tanto non mi possono aiutare.

Attraversando il vestibolo, vide Barrett nel salone, affaccendato intorno al suo apparecchio. Pazzo, pensò. Non avrebbe funzionato di sicuro. Era pieno di merda, quello stupido…

No! E di nuovo affondò i denti nella mano, con gli occhi sgranati. Piuttosto rosicarsi le mani fino all’osso che soccombere ancora a Daniel. Se avessi un coltello, pensò. Per ficcarmelo nella carne e procurarmi un dolore costante. Era quella la cura giusta: i tormenti fisici, per tener lontana l’anima contaminata di lui dalla sua.

Si inoltrò nel corridoio. Vide un uomo aggrappato per di dietro a una donna, e la donna era morta, aveva un cordone intorno al collo e gli occhi le schizzavano dalle orbite e la lingua bluastra le usciva dalla bocca, entrambi erano nudi. Florence affondò i denti nella mano. Il sangue scorreva copioso ormai e le scendeva dentro la gola. Le due figure svanirono. Ella raggiunse la porta della cappella. C’era un uomo accovacciato lì davanti. Aveva la faccia bianca, l’espressione drogata. Teneva in mano la mano mozza di un uomo e ne succhiava un dito. Ella si morse la mano. La figura svanì. Florence si gettò contro la porta, la spinse, ed entrò.

Ristette, vacillando, fatti appena due passi. L’aria lì dentro era satura di energia, che vi turbinava, come un maelstrom dell’occulto. Ecco, pensò, questo è il centro, il nucleo. Si inoltrò fra gli inginocchiatoi. D’un tratto diede un salto. Il gatto giaceva, sventrato, in un lago di sangue.

Scosse il capo. Non doveva fermarsi, adesso. Era prossima alla soluzione ormai. Aveva sconfitto Daniel. Ora avrebbe anche sconfitto la casa. Scavalcò il gatto morto, avanzò verso l’altare. Dio, Dio, l’atmosfera era qualcosa di incredibile. Carica di energia che pulsava, che passava attraverso di lei, che la spingeva. La mente a tratti le si ottenebrava. Allora portò di nuovo la mano sanguinante alla bocca e tornò a conficcarci i denti. Le tenebre si diradarono nel suo cervello. Ella seguitò ad avanzare. Era come una massa solida, quella barriera di energia occulta. Ma era quasi giunta all’altare, ormai. I suoi occhi guardavano fisso, sbarrati. Ma avrebbe vinto la battaglia. Con l’aiuto di Dio, lei avrebbe…

Si sentì d’un tratto mancare, le membra le si fecero inerti. Cadde pesantemente contro l’altare. L’energia nemica era troppo forte! Guardò inebetita il crocefisso. Le parve che si muovesse. Lo fissò inorridita. Veniva giù verso di lei. No, pensò. Tentò di indietreggiare, ma non riusciva a muoversi: era come inchiodata sul posto. No! Il crocefisso le stava cadendo addosso. L’avrebbe colpita.

Florence gettò un grido. Il crocefisso la percosse sulla testa e sul petto e la buttò violentemente indietro. Ella stramazzò in terra, e la croce si abbatté sopra di lei, togliendole il respiro. Un gelo le serpeggiò su per la spina dorsale. Tentò di gridare ma non ci riuscì. Le tenebre l’avvolsero, l’inghiottirono.

D’un tratto tornò in sé.

Gli occhi le schizzavano dalle orbite. Il suo volto era contorto da uno spasimo atroce. Non riusciva neppure a respirare, sotto il peso del crocefisso. Tentò di levarselo di dosso, ma non riuscì neanche a smuoverlo. Lo sforzo, anzi, accrebbe il dolore. Giacque immobile, gemendo, percorsa da incessanti onde di tormento. Fece un altro tentativo per togliersi da sotto al crocefisso. Riuscì a spostarlo appena. Ma quasi sveniva per lo sforzo. Il suo volto era terreo, imperlato di freddo sudore.

Ci impiegò quindici minuti. Sette volte fu lì lì per svenire. Solo un supremo sforzo di volontà le impedì di perdere i sensi. Alla fine riuscì a sbarazzarsi del pesante crocefisso. Fece per rialzarsi. Dovette desistere. Ansimava per la fatica, per l’atroce tormento. Pian piano, stringendo i denti, si sollevò in ginocchio. Allora sentì il sangue scorrerle per le cosce.

Alla vista del fallo della statua le venne da vomitare. Si piegò, rigettò tutto quel che aveva nello stomaco sul pavimento. Il suo sguardo era vitreo. Sbigottita, pensò: mi ha ingannato. Non c’è nessuna soluzione, qui. Voleva solo compiere questa suprema profanazione della mia mente… e del mio corpo!

Florence si passò il dorso della mano sulle labbra screpolate, riarse. Basta, pensò, basta. Non ne posso più. Si guardò intorno. Vide che dalla schiena del crocefisso spuntava un grosso chiodo aguzzo (quello che lo teneva fissato alla parete). Allora si trascinò, ginocchioni, più vicina e tese le mani. Passò più volte i polsi sulla punta del chiodo, per segarsi le vene, mugolando per il gran dolore. Si mise a singhiozzare. «Basta,» ripeteva «non ne posso più.»

Ricadde, accasciata. Il sangue le sgorgava dai polsi recisi, a fiotti. Chiuse gli occhi. Adesso non potrà farmi più niente, pensava. Anche se la mia anima resterà prigioniera in questa casa per sempre, io non sarò più il suo zimbello, da viva.

Sentiva la vita abbandonarla. Stava fuggendo via da se stessa. Daniel non avrebbe più potuto farle del male. Il dolore scemava, via via, e ogni sensazione si faceva evanescente. Dio l’avrebbe perdonata. Distruggere se stessa era l’unica cosa che potesse fare, ormai. Le sue labbra si dischiusero in un sorriso.

Lui avrebbe capito.

Riaprì gli occhi, battendo le palpebre. Le era sembrato di udire dei passi. Voleva voltarsi ma non ne fu capace. Le parve che il pavimento tremasse. Tentò di guardare. C’era qualcuno chino sopra di lei? Ma non riusciva a mettere a fuoco la sua vista annebbiata.

A un tratto le balenò un pensiero. Angosciata, cercò di alzarsi in piedi, ma era troppo debole. Bisognava farglielo sapere! glielo doveva dire!

Con tutte le sue forze, Florence cercò di alzarsi. Una nuvola di tenebre l’avviluppava. Si sentiva inerte per tutte le membra. Guardò il suo sangue gocciolare sul pavimento. Aiutami, Dio! implorò. Devo farglielo sapere!

Lentamente, agonizzando, allungò una mano per tracciare dei segni col suo sangue sparso al suolo.


ore 11.08


Col cuore che gli dava martellate, Fischer si sollevò, si guardò intorno, pieno di terrore. La testa gli pulsava. Gli procurava fitte atroci. Avrebbe voluto lasciarsi ricadere all’indietro sui cuscini, ma qualcosa gliel’impedì.

Allungò le gambe fuori del letto, si alzò. Cominciò a barcollare. Si portò le mani alle tempie, a occhi chiusi, vacillando. Emise un lamento. Ricordò che Barrett gli aveva dato un sonnifero. Maledetto imbecille! imprecò. Chissà quanto tempo era rimasto privo di conoscenza.

Si diresse verso la porta, come un ubriaco, cercando di non perdere l’equilibrio. Percorse il corridoio, brancolando, e raggiunse la camera di Florence. Vi entrò. Lei non c’era, a letto. Guardò nel bagno, attraverso la porta spalancata. Non c’era, neanche là. Ritornò nel corridoio. Ma che cos’è che non funziona, in Barrett? si domandò. Tentò di affrettare il passo, ma la testa gli faceva troppo male. Si fermò, si appoggiò al muro, con lo stomaco sconvolto dalla nausea. Batté gli occhi, scosse il capo. Il dolore aumentò. Al diavolo! si disse. E si rimise a camminare, caparbiamente. La doveva trovare, doveva portarla fuori da quella casa.

Passando davanti alla porta dei Barrett, si soffermò per guardar dentro. Girò gli occhi incredulo. Barrett non c’era! aveva lasciato sola sua moglie! Fischer serrò le mascelle, furioso. Ma che diavolo stava succedendo? Attraversò la stanza, toccò Edith su una spalla.

Edith si svegliò di soprassalto, lo guardò a bocca aperta.

«Dov’è suo marito?» domandò Fischer.

Ella si guardò intorno smarrita. «Come! non è qui?»

E in così dire si alzò in piedi. Fischer la vedeva come attraverso una nebbiolina, e notò lo stupore dipinto sul suo volto. «Non importa» disse, riavviandosi. Ma Edith lo sorpassò e si precipitò fuori della stanza chiamando a gran voce: «Lionel! Lionel!».

Quando Fischer raggiunse le scale, Edith era già in fondo alla rampa. «Non vada sola!» le gridò. La donna non gli diede retta. Fischer cercò di affrettarsi, ma dovette sostare e appoggiarsi alla balaustra, per il male insopportabile che gli trafiggeva il cranio. Tremava per tutto il corpo. Udì Edith chiamare ancora «Lionel!» mentre attraversava il vestibolo. E udì l’uomo risponderle. Riaprì gli occhi. E dove volevi che fosse? pensò, amaramente. Non gli importa di niente, tranne che del suo apparecchio, a quel disgraziato, a quel bastardo! e ha lasciato sola sua moglie! ha trascurato Florence!

Fischer scese i gradini, attraversò il vestibolo, stringendo i denti per l’atroce dolore che lo torturava. Entrò nel salone. Vide Barrett ed Edith in piedi accanto al Reversore. «Dov’è Florence?» domandò.

Lo sguardo di Barrett era privo d’espressione.

«Ebbene?»

«Come! non è in camera sua?»

«Glielo chiederei, se ci fosse?»

Barrett claudicò verso Fischer, seguito da Edith. Questa aveva l’aria smarrita, si capiva che era in collera col marito.

«Ma io…» disse Barrett «io stavo a orecchie tese. E le ho dato un sonnifero…»

«All’inferno le sue pillole!» l’interruppe Fischer. «Lei crede che un sonnifero basti a tener a bada le forze occulte?»

«Io non credo…»

«Non me ne frega di quel che lei crede!» La testa gli martellava così forte che non riusciva quasi a veder niente. «È scomparsa! ed è questo soltanto che conta!»

«Ebbene, vada a cercarla» disse Barrett. Ma il suo tono non era di sicurezza. Si guardò intorno a disagio. «Guarderemo in cantina per prima cosa. Potrebbe…»

S’interruppe, vedendo Fischer afferrarsi la testa fra le mani, con il viso contratto da una smorfia d’agonia.

«Si metta seduto» gli disse.

«Stia zitto!» gridò Fischer, rauco. Si piegò su se stesso, per un conato di vomito.

«Fischer…» Barrett si mosse verso di lui.

Fischer si lasciò cadere pesantemente su una poltrona. Barrett si affrettò per portarsi accanto a lui, seguito da Edith. Entrambi si arrestarono. Fischer aveva fatto un gesto e li guardava con un’aria sconvolta.

«Che c’è?» domandò Barrett.

Fischer si mise a rabbrividire.

«Insomma cosa c’è?» Barrett alzò la voce, non volendo. Quel Fischer gli dava ai nervi.

«Nella cappella!»


Il grido d’orrore di Edith lacerò l’aria. Si rigirò e barcollando si appoggiò alla parete.

«Oh mio Dio, mio Dio!» mormorò Barrett.

Malfermo sulle gambe, Fischer si avvicinò a quel corpo inanimato e l’osservò. Gli occhi di Florence erano sbarrati, la sua faccia, riversa, era pallida come la cera. I suoi inguini erano imbrattati di sangue, gli organi genitali ridotti a una piaga, tutta la carne intorno lacerata.

Fischer fu scosso da un sussulto, quando Barrett gli si fece accosto e chiese in un sussurro: «Che cosa le è successo?».

«È stata uccisa, ecco cosa» Fischer rispose, con voce inviperita. «È stata assassinata da questa casa.» Si tese, aspettando che Barrett obiettasse qualcosa per contraddirlo, invece no, Barrett disse soltanto: «Non riesco a capire come abbia potuto svegliarsi con tutti i sedativi che aveva in corpo». E il suo tono era di colpa.

Fischer rivolse la sua attenzione al crocefisso che giaceva lì accanto. E anche Barrett si diede a esaminarlo. Notando che il fallo della statua era insanguinato, lo stomaco gli si rivoltò. «Dio mio» disse.

«Non qui» borbottò Fischer. E poi a gran voce esclamò: «Non c’è nessun Dio in questa fottuta casa!».

Edith che stava rincantucciata accanto al muro, si girò di scatto a quell’esclamazione. Barrett fece per dire qualcosa ma ci ripensò. Emise un sospiro. La cappella puzzava di sangue. «Sarà meglio portarla fuori di qui.»

«Ci penso io» disse Fischer.

«Da solo non ce la fa.»

«Ci penso io!»

Barrett rabbrividì nel vedere l’espressione di Fischer. «Va bene.»

Fischer si inginocchiò accanto al cadavere. Le tenebre pulsavano nel suo cranio. Dovette appoggiarsi con entrambe le mani. Sentì il sangue di lei sotto le dita. Dopo un po’ la vista gli si snebbiò. Allora la guardò in volto. Ce l’ha messa tutta, pensò. Allungò una mano e le chiuse gli occhi, con delicatezza.

«Che cos’è quello?» Barrett domandò.

Fischer sollevò il capo, e ciò gli procurò una smorfia di dolore. Barrett fissava il pavimento accanto a Florence. Fischer abbassò lo sguardo. Era troppo buio per vederci bene. Barrett si frugò nelle tasche. Strofinò un fiammifero. La fiammella costrinse Fischer lì per lì a chiudere gli occhi.

Florence aveva tracciato un segno sul pavimento, intingendo il dito nel proprio sangue. Un rozzo cerchio con un geroglifico in mezzo. Fischer cercò di decifrarlo. E d’un tratto ci riuscì. Barrett parlò nello stesso istante. «Si direbbe la lettera B.»


ore 11.47


Stettero sulla soglia a guardare Fischer finché la sua sagoma non svanì nella nebbia. Poi Barrett si volse.

«Bene» disse.

Edith lo segui nel salone. Barrett claudicò fino al Reversore, e lei restò in piedi a guardarlo, cercando di non pensare a Florence.

Barrett diede un’ultima controllata al Reversore, poi si volse verso sua moglie.

«È pronto» disse.

Ella avrebbe voluto, in quel momento, condividere l’emozione che lui, senz’altro, provava. «Lo so che questo è un momento importante per te» disse.

«Importante per la scienza.» Si chinò sul Reversore. Ne aggiustò il segnatempo, girò alcune manopole, poi, dopo una breve esitazione, abbassò la leva dell’interruttore.

Per alcuni istanti, Edith pensò che non accadesse nulla. Poi udì un ronzio, sordo ma distintamente percettibile, all’interno dell’enorme apparecchio, e sentì tremare il pavimento sotto i suoi piedi.

Guardava fisso il Reversore. Il ronzio salì d’intensità, le vibrazioni del pavimento si fecero più forti: e le salivano su, per le gambe, su su, per tutto il corpo. Corrente di energia, pensò: l’unica cosa che potesse contrastare l’energia della casa. Lei non capiva cosa fosse ma, avvertendone il pulsare attraverso il proprio corpo, sentendo quel ronzio percuoterle i timpani, cominciò a esser quasi convinta della sua validità.

Fissava il Reversore e vide, dietro la griglia frontale, accendersi alcune valvole e tubi fosforescenti brillare intensamente. Barrett si ritrasse. Le dita gli tremavano, tirò fuori l’orologio. Mezzogiorno spaccato. Precisione estrema, pensò. Rimise l’orologio nel taschino e si rivolse a Edith. «Dobbiamo andare.»

I loro soprabiti erano su un tavolino accanto alla porta, ce li aveva messi Barrett poco prima. Aiutò Edith a infilarsi il suo. Poi Edith aiutò lui. E si volse a guardare verso il salone. Il ronzio del Reversore si era fatto acuto, e anche da quella distanza dava fastidio alle orecchie. Il pavimento vibrava sotto i loro piedi. Un vaso traballava sulla sua mensola. «Svelta» disse Barrett.

Di lì a pochi istanti erano all’aperto, e procedevano spediti lungo il sentiero ghiaiato, aggirando lo stagno, ma anche di là si udiva il ronzio del Reversore, smorzato. Attraversarono il ponticello. Nella nebbia apparve la Cadillac. Edith provò una stretta, al pensiero che c’era Florence, lì dentro.

Barrett aprì lo sportello posteriore. Diede un balzo, vedendo Fischer seduto accanto al cadavere avvolto da una coperta. E gli cingeva le spalle con un braccio, come se lo cullasse. «Le dispiace…» cominciò Barrett, ma si interruppe quando l’altro lo guardò con occhi ardenti. Esitò, poi richiuse lo sportello. Inutile cercare di spostarlo di là. Era troppo sconvolto.

«Ma la tiene lì dentro con lui?» bisbigliò Edith.

«Sì.»

Edith era sgomenta. «Non mi posso mica sedere accanto…» Non poté terminare la frase.

«Sediamoci davanti.»

«Non potremmo tornare in casa, piuttosto?» domandò lei, pur rendendosi conto ch’era grottesco, proporre di tornare dentro la Casa d’Inferno.

«No, assolutamente. Le radiazioni ci ucciderebbero.»

Ella lo guardò. «Va bene» disse alla fine.

Salirono in macchina, davanti, e chiusero gli sportelli. Barrett guardò nello specchietto retrovisore. Fischer stava chino sulla salma di Florence, col mento posato su quella che doveva essere la testa della morta. Barrett si chiese fino a che punto era rimasto sconvolto, il pover’uomo.

Poi, ricordando, si rivolse a Edith e le disse: «Deutsch è morto».

Edith non rispose lì per lì. Poi disse: «Non importa».

Barrett allora si sentì, inaspettatamente, avvampare di rabbia. Come, non importava? Distolse lo sguardo. Perché darsi pensiero, allora, per lei? Lui aveva fatto del suo meglio per provvedere al suo futuro. Ma, dal momento che a lei non importava…

Ma col ragionamento scacciò via la propria rabbia. Sì: che cos’altro poteva dirgli?

Si raddrizzò, con una smorfia pel dolore al pollice, e si voltò. «Ah, lo sa, Fischer?»

Fischer non alzò nemmeno gli occhi.

«Deutsch è morto. E suo figlio non ci paga.»

«Che differenza fa?» borbottò Fischer. Le sue dita si serrarono intorno alla spalla di Florence Tanner.

Barrett si rigirò ed estrasse di tasca un mazzetto di chiavi. Scelse quella d’accensione e l’infilò nella sua fessura. Girò la chiave quanto basta per attivare le lancette dei quadranti senza avviare il motore. Non c’era abbastanza benzina per far andare il motore per quaranta minuti, in modo da tener caldo l’interno della vettura. Mannaggia, pensò. Avrebbe dovuto provvedere a portare un maggior numero di coperte dalla casa. Un po’ di brandy.

Reclinò la testa all’indietro, chiuse gli occhi. Bisognava sopportare il freddo, ecco tutto. Personalmente, a lui non importava: era un momento troppo importante per lui, quello, perché qualsiasi altra cosa contasse.

Dietro quelle mura senza finestre, a qualche centinaio di metri di lì, la Casa d’Inferno stava morendo.


ore 12.45


Barrett richiuse il coperchio del suo orologio, di scatto, e disse: «È fatta».

Il volto di Edith restò privo di espressione. Barrett si sentì deluso, per l’indifferenza di sua moglie; ma poi si rese conto che Edith non era in grado di capire quel che era accaduto all’interno della casa. Le carezzò una mano, poi si volse. «Dica, Fischer.»

Fischer stava ancora accasciato sopra Florence, tenendo il suo corpo inanimato stretto a lui. Alzò gli occhi lentamente.

«Lei torna dentro con noi?»

Fischer non rispose.

«La casa adesso è ripulita.»

«Dice?»

Barrett aveva voglia di sorridere. Non poteva biasimarlo, naturalmente. La sua asserzione poteva suonare presuntuosa, d’accordo, dopo quel che era accaduto nei giorni scorsi. «Vorrei che lei venisse con me» disse.

«Per che fare?»

«Per constatare che la casa è ripulita.»

«E se non lo fosse?»

«Le garantisco io che lo è.» Barrett attese che Fischer prendesse una decisione. Non successe nulla. E allora disse: «Ci sbrighiamo in pochi minuti».

Fischer lo guardò fisso, in silenzio, ancora per qualche istante, poi si staccò da Florence. Inginocchiatosi, adagiò con cura il cadavere sul sedile. Stette ancora a contemplarla per qualche momento, poi scese a terra.

I due uomini si portarono davanti all’automobile. Déjà vu, pensò Edith. Era come se il tempo fosse tornato indietro ed essi stessero ora per entrare nella Casa d’Inferno per la prima volta. Solo l’assenza di Florence impediva all’illusione di essere completa. Edith rabbrividì, si alzò il bavero del cappotto. Era intirizzita. Lionel aveva acceso il motore e azionato il riscaldamento per brevi perìodi, di tanto in tanto, durante l’attesa, ma, una volta spento il motore, il freddo non tardava a tornare.

La camminata fino alla casa le fece ripensare al loro arrivo lì. Come allora i loro passi risuonarono sul ponticello. Come allora ella si volse a osservare l’automobile inghiottita dalla nebbia; e, girando intorno allo stagno, il suo fetore tornò a ferirle le narici; riudì la ghiaia strìdere sotto le scarpe; provò la stessa sensazione di freddo, all’apparire del massiccio edifìcio.

Inutile. Non riusciva proprio a credere che Lionel avesse ragione. Il che stava a significare che adesso sarebbero andati a rinchiudersi in una trappola. Ne erano usciti in qualche modo… tre su quattro perlomeno. Ed ecco che adesso ci tornavano, incredibile. Era una follia suicida, la loro. Come potevano illudersi che il Reversore avesse funzionato?

Eccoli percorrere gli ultimi metri. Eccoli salire i gradini del portico. Ecco la porta d’ingresso di fronte a loro. Edith rabbrividì. No, pensò, io non ci torno, lì dentro.

Ma, quando Barrett ebbe aperto la porta, ella entrò di nuovo, senza una parola, nella Casa d’Inferno.

Barrett richiuse la porta. Edith notò che il vaso era caduto in terra, andando in frantumi.

Barrett guardò Fischer interrogativamente.

«Non so» disse Fischer.

Barrett si tese. «Lei deve aprirsi» disse. Possibile che a Fischer non restasse neppure un’ombra di percezione extrasensoriale? L’idea che occorresse far venire un altro medium psichico per i necessari controlli lo sgomentava.

Fischer si allontanò di gualche passo. Si guardò intorno, impacciato. Qualcosa di diverso c’era, sì, lo sentiva. Ma avrebbe potuto essere un trucco, però. C’era cascato già un’altra volta. E adesso non osava esporsi di nuovo in quel modo.

Barrett lo guardava, nervoso. Era impaziente e, d’un tratto, esclamò: «Ci provi, Mister Fischer. Le garantisco che andrà tutto liscio».

Fischer attraversò il vestibolo, con lo sguardo fisso innanzi a sé. L’atmosfera era davvero mutata. Sorprendente! Anche senza aprirsi, lui questo lo sentiva. Ma fino a che punto era mutata? Fino a che punto poteva, lui, aver fede in Barrett? La sua teoria era allettante, certo. Ma Barrett non gli chiedeva solo di credere in una teoria. Gli chiedeva di mettere in gioco la sua vita.

Oltrepassò l’arcata ed entrò nel salone, I Barrett lo seguivano. Si fermò, si guardò intorno. Il pavimento era cosparso di oggetti rotti. Un arazzo pendeva sbilenco dalla parete. Che cosa aveva combinato il Reversore? Era molto curioso di saperlo, ma aveva anche paura di accertarsene.

«E allora?» chiese Barrett.

Fischer gli rispose con un gesto, che aspettasse. E, con rabbia, disse fra sé: lo farò quando mi pare.

Restò immobile, tendendo l’orecchio, in attesa.

Poi, ubbidendo a un impulso repentino, chiuse gli occhi, allargò le braccia, dilatò le dita, respirò a fondo per inalare tutto ciò che aleggiasse d’intorno. Si aprì insomma, abbattendo le barriere dell’io.

Riaprì gli occhi. Si guardò intorno sbigottito.

Non c’era niente.

La sfiducia lo riassalì. Si volse e s’allontanò rapidamente. Edith si mostrò allarmata ma Barrett la prese per un braccio per infonderle coraggio. «È sorpreso perché non capta niente» le disse.

Fischer, attraversato il vestibolo, si diresse verso la cappella e, spinta con violenza la porta, vi entrò. Niente, neanche qui. Allora si recò negli scantinati, scendendo le scale a quattro a quattro, impetuoso, senza badare al proprio malditesta. Penetrò nel locale della piscina, lo percorse a passi rapidi, entrò nel bagno turco. Si concentrò.

Niente. Niente.

Fu preso da timore reverenziale. «Non ci credo!»

Ritornò sui suoi passi. Andò nella cantina. Neanche lì, niente. Ansimando, si recò allora nel teatro. Niente. Andò nella sala da ballo. E niente. Nella sala da biliardo. Niente. Corse in cucina. Niente. In sala da pranzo. Niente. Riattraversò il salone e tornò nel vestibolo. Edith e Barrett erano ancora lì. Fischer si fermò, col fiato grosso, davanti a loro. Fece per parlare, poi invece corse verso lo scalone. Barrett fu preso da un impeto di esultanza. «È fatta» disse. «È fatta, Edith, ce l’ho fatta!» La prese fra le braccia, la strinse a sé. Il cuore le batteva forte, anche a lei. Ma ancora non riusciva a crederci. Eppure Fischer era fuori di sé. Lo guardò mentre saliva gli scalini a due a due.

Fischer si precipitò verso la camera dei Barrett, vi entrò. Niente! niente! Compì una giravolta e si avventò, con un grido, verso la camera di Florence. Niente! Corse in camera sua. E niente! Entrò nell’appartamento di Belasco. Anche qui niente. Dio onnipotente, proprio nulla! nulla! La testa gli dava martellate, ma non gliene importava. Percorse il corridoio, spalancando le porte di tutte le altre camere da letto. Niente. Dovunque andasse, niente, assolutamente nulla! Si sentiva scoppiare di gioia. Barrett allora ce l’aveva fatta!

La Casa d’Inferno era stata mondata!

Dovette sedersi. Si lasciò cadere sulla prima sedia che vide. La Casa d’Inferno era stata resa innocua. Incredibile! Ora avrebbe dovuto ricredersi, rinunciare a tutte le opinioni precedenti. Ma che importava? La Casa d’Inferno era stata resa innocua, esorcizzata da quel fantastico… che cosa?… giù a pianterreno. Rise fra sé, rauco. E l’aveva chiamato un catorcio, un ammasso di ferrivecchi! Gesù, Gesù, altro che ferrivecchi! Perché Barrett non gli aveva dato un calcio in bocca? gli sarebbe stato bene.

Si rilassò, chiuse gli occhi, riprese fiato.

D’un tratto, una brusca reazione. Se Florence avesse resistito ancora un’ora! Un’ora soltanto. E si sentì invadere dalla rabbia, contro Barrett che l’aveva lasciata sola.

Ma quel sentimento ostile non durò a lungo. Fu vinto dal rispetto per l’uomo di scienza. Con pazienza, con accanimento, Barrett aveva portato a termine il suo lavoro, nonostante la loro incredulità. E aveva dimostrato d’aver ragione lui. Fischer scosse la testa, strabiliato. Era un vero miracolo. Respirò profondamente. Gli venne da sorridere. L’aria puzzava ancora.

Ma non era una puzza di morti.


ore 14.01


Fischer rallentò l’andatura, poiché la nebbia si era fatta più fitta. Quella Cadillac (così aveva deciso) l’avrebbe venduta e avrebbe spartito il ricavato con Barrett. Se non trovava un compratore, l’avrebbe buttata in un lago. Ma a Deutsch non gliel’avrebbe mai restituita. Sperava, inoltre, che Barrett riuscisse a portar via il Reversore dalla Casa d’Inferno prima che Deutsch ci mettesse sopra le mani. Doveva valere una fortuna, quel coso.

Mise in azione i tergicristalli. Teneva gli occhi fissi sulla strada, che attraversava un bosco. E intanto cercava di metter ordine nel suo cervello.

In primo luogo, Barrett aveva avuto ragione. L’energia della casa era costituita da ingenti residui di radiazioni elettromagnetiche. Mediante una carica di segno opposto, Barrett l’aveva fatta svanire. E allora, che ne restava delle teorie di Florence Tanner? Risultavano, adesso, del tutto invalidate? Ella aveva davvero, come asseriva Barrett, creato da sé gli spiriti infestanti, manovrando inconsciamente l’energia presente nella casa, onde fornir delle prove a sostegno delle proprie convinzioni? Ciò pareva ragionevole. Il conto tornava. Ne uscivano malconce anche le sue teorie, però il conto tornava.

E tuttavia… perché mai la sua inconscia volontà avrebbe scelto di effettuare determinati fenomeni, d’un tipo da lei mai effettuato in precedenza? Ma sì: per convincere Barrett, il quale era disposto ad ammettere eventualmente soltanto fenomeni del tipo fisico, e non già fenomeni spiritualistici.

E va bene, un Daniel Belasco era davvero esistito ed era stato murato vivo in cantina, da qualcuno, forse da suo padre. Questo Florence l’aveva captato psichicamente, sfruttando l’energia della casa come si sfrutta la memoria elettronica di un computer. Che Daniel Belasco costituisse la forza infestante della casa, pertanto, lei l’aveva erroneamente dedotto da questi fatti, interpretandoli a modo suo.

Ma perché si era poi spinta a tali estremi, fino a togliersi la vita? Questo era il busillis. Dopo un’intera vita intelligentemente dedicata all’attività medianica, aveva dovuto addirittura uccidersi, per dimostrare di aver ragione? Che genere di persona era, in realtà, Florence? Il suo comportamento esteriore era da cima a fondo un’ingannevole facciata? Gli sembrava impossibile. Aveva funzionato da medium psichica per anni, senza mai nuocere né a se stessa né ad altri (finché non era entrato in scena Barrett). Forse il potere della Casa d’Inferno l’aveva sopraffatta, e lei non era riuscita a venirne a capo. Certo, era così che la metteva Barrctt. E anche lui, Fischer, ne sapeva qualcosa, di quanto fosse enorme il potere della casa. Eppure…

Fischer si accese una sigaretta. Aspirò il fumo con avidità. Comunque, era un fatto incontrovertibile che la casa era, adesso, sgombra. Barrctt aveva vinto, non lo si poteva negare. La sua teoria era sensata: nella casa si trovava sólo dell’energia informe che aveva bisogno, per funzionare, di qualche intruso che la dirigesse. Che cosa avrà regnato, fra quelle mura, fra il 1940 e giovedì scorso? si domandò. Il silenzio? L’attesa di qualche ospite, di qualche volontà estranea? Certo… poiché Barrett aveva ragione.

Ragione.

Fischer cercò di debellare gli ultimi dubbi che tornavano alla carica. Mannaggia, l’aveva pur constatato da sé. In ognuna delle stanze della casa. Non c’era più niente. La Casa d’Inferno era stata mondata. Perché allora tornavano ad assalirlo quegli stupidi dubbi, ancora?

Ma sì! perché era tutto troppo semplice! Ecco perché.

Come la mettiamo con il disastro del 1931 e con quello del 1940? Lui si era trovato presente, a quest’ultimo, e lo sapeva bene di quale complessità fossero stati i fenomeni. E Barrett ne aveva una lista lunghissima. Una lista con almeno un centinaio di voci. Gli episodi dei giorni scorsi erano stati di svariata natura. Non poteva, assolutamente, trattarsi solo di radiazioni, di qualcosa che si potesse spegnere come una lampadina! È vero che i suoi dubbi non avevano alcun fondamento logico, e tuttavia non riusciva a scacciarli.

C’erano state fin troppe “soluzioni definitive” in passato. C’era stata tanta gente che aveva giurato di aver risolto il mistero della Casa d’Inferno. Florence era stata una di costoro, e proprio la sua convinzione l’aveva condotta alla morte. E adesso Barrett era convinto di aver trovato la risposta definitiva, lui pure. È vero che ne aveva offerta una dimostrazione, ma… se si fosse ingannato? Sempre, in passato, la Casa d’Inferno aveva sferrato il suo attacco finale proprio allorché qualcuno s’era detto convinto di aver trovato la soluzione definitiva.

Fischer scosse la testa. Non voleva crederci. Al lume della logica, non poteva crederci. Barrett aveva ragione. La casa adesso era monda.

D’un tratto si rammentò del cerchio di sangue sul pavimento della cappella, con una “B” al centro. Belasco, ovviamente. Ma perché Florence aveva tracciato quei segni? La sua mente si era oscurata nell’imminenza della morte? o si era illuminata, invece?

No. No, non poteva trattarsi di Belasco. La casa era stata ripulita, era monda. Lui stesso se n’era accertato, perdio, di persona! Barrett aveva dimostrato di essere senza dubbio nel giusto. La risposta esatta era nelle radiazioni elettromagnetiche.

Ma perché allora il suo piede premeva adesso l’acceleratore, fino in fondo? Perché mai il suo cuore batteva così forte? Perché sentiva la pelle raggricciarglisi alla nuca? Perché aveva quel tenibile presentimento, che doveva tornare alla Casa d’Inferno prima che fosse troppo tardi?


ore 14.17


Barrett uscì dalla stanza da bagno, in vestaglia e pantofole. Zoppicò fino al letto di Edith e si sedette sulla sponda. Edith giaceva sotto l’imbottita. «Ti senti meglio?» gli domandò.

E lui : «Mai stato così bene».

«E il tuo pollice?»

«Me lo farò vedere non appena torniamo a casa.» Non le disse però che, dinanzi, sotto la doccia, aveva fatto per sfasciarselo ma aveva dovuto desistere per il dolore che a momenti lo faceva svenire.

«A casa.» Edith sorrìse, mesta: «Ancora non mi pare vero che ci torniamo, sani e salvi.»

«Saremo a casa per domani» disse Barrctt, con una smorfia. «Ci saremmo già oggi se il figlio di Deutsch non fosse un…»

«… un figlio di puttana» completò lei.

Barrett sorrise. «A essere indulgenti» disse. Il sorriso svanì. «Ho paura che la nostra sicurezza per l’avvenire sia andata a farsi friggere, mia cara.»

«La mia sicurezza sei tu» disse lei. «Uscire da questa casa al tuo fianco, per me vale un milione di dollari.» Gli prese una mano. «Davvero è finita, Lionel?»

Egli annuì. «Sì, tutto è fatto.»

«Non riesco quasi a crederci.»

«Lo so.» Le strinse una mano. «Ti secca se ti ricordo che io, però, te l’avevo detto?»

«Non mi secca niente, se è vero ch’è finita.»

«È finita.»

«Peccato che sia morta Florence, quando la soluzione era così vicina.»

«Un peccato, sì. Avrei dovuto farla andar via di qui.»

Edith gli accarezzò una mano, rassicurante. «Tu hai fatto tutto quel che potevi.»

«Non avrei dovuto lasciarla sola.»

«Non potevi mica immaginare che si sarebbe svegliata.»

«Infatti, era una cosa inammissibile. Ma il suo subconscio era tanto bramoso di convalidare la sua illusione da annullare l’effetto dei sedativi sul suo fisico.»

«Povera donna» disse Edith.

«Povera vittima delle sue stesse idee sballate. Fedele fino all’ultimo alle sue illusioni: al punto di tracciare una B col suo sangue dentro un cerchio. Doveva persuadersi di essere nel vero anche in punto di morte. E affermare ancora una volta ch’era Belasco a ucciderla… padre o figlio, chissà. Non voleva ammettere ch’era la sua stessa mente, la causa di tutto.» Fece una smorfia. «Che brutta fine deve aver fatto, poverina. Orrenda, dolorosa…»

Ma notando il viso di Edith s’interruppe. «Scusami.»

«Non fa niente.»

Lui sorrise con sforzo. «Be’, Fischer dovrebbe essere di ritorno fra un’oretta e allora ce ne andremo. Ammenoché non l’abbiano trattenuto, quando è andato a consegnare il cadavere.»

«Non proverò proprio nessuna nostalgia, di questo luogo» disse Edith, dopo qualche momento.

Barrett rise sommessamente. «E neppure io. Anche se…» ci pensò su un momento «… questa casa è stata teatro del mio… come dire?… trionfo?»

«Sì.» Essa annuì. «Un vero trionfo. Io non sono in grado di capire tutto ciò che hai compiuto, ma mi rendo benissimo conto di quanto sia importante.»

«Lascia che te lo dica io, d’ora in avanti la parapsicologia riceverà un’accoglienza migliore… nella buona società.»

Edith sorrise.

«Poiché è una scienza, e non roba da fattucchiere» egli continuò. «Ora i critici non avranno più nulla a cui attaccarsi anche se, me l’immagino, andranno a cercare il pelo nell’uovo. Intendiamoci, non posso dare tutti i torti ai nostri awersari quando si risentono per il modo in cui, molto spesso, purtroppo, i fenomeni psichici vengono affrontati da certi adepti della nostra disciplina. Per causa loro, la parapsicologia non gode di molta rispettabilità. Pertanto gli awersari se ne fanno beffe piuttosto che rischiare il ridicolo a occuparsene seriamente. Purtroppo si tratta di un giudizio aprioristico… antiscientifico quindi al cento per cento. E loro seguiteranno a trascurare l’importanza della parapsicologia, temo, fino a tanto che — come dice Huxley — non riusciranno a porsi di fronte ai dati di fatto con l’animo sgombro di pregiudizi e, con umiltà, esplorare tutti gli abissi della natura.»

Tossicchiò. «Fine della lezione» disse. E si chinò a baciarla su una guancia. «Il conferenziere ti ama» disse.

«Oh, Lionel.» Lo circondò con le braccia. «Anch’io ti amo. E sono così orgogliosa di te.»


Ella dormiva, adesso. Senza svegliarla, Barrett sciolse le dita da quelle di lei e si alzò in piedi. Le sorrise. Se l’è meritato questo sonnellino, pensò, è da quando siamo qui che non fa una buona dormita. Non si dorme alla Casa d’Inferno.

Il suo sorriso si allargò. Non merita più questo nome, adesso, pensò, allontanandosi dal letto: d’ora in poi sarà soltanto Casa Belasco.

Cominciò a vestirsi, lentamente. Che ne sarà, adesso, di questa casa? si domandò. Ne dovrebbero fare un santuario della scienza. Invece, Deutsch la metterà all’asta, la venderà al miglior offerente. Emise un grugnito, divertito. Ma non credo ci sia qualcuno ansioso di acquistarla!

Si pettinò, davanti allo specchio. L’occhio gli cadde sulla poltrona a dondolo. Sorrise di nuovo. Tutto era finito, adesso. Non più manifestazioni di energia cinetica. Non più spifferi, né odori, né colpi, né niente.

Uscì dalla stanza, si diresse verso lo scalone. Era lieto che Fischer avesse insistito per portare la salma di Florence Tanner in città senza indugio. Sì, perché non era il tipo, Fischer, da mettere quel cadavere nel portabagagli, e, allora, il viaggio sarebbe stato estremamente penoso per Edith: fino a Caribou Falls con la morta seduta sul sedile posteriore. Purché Fischer non tardasse troppo a tornare. Cominciava ad aver appetito sul serio. Per la prima volta quella settimana. Ci voleva un bel pranzetto, per festeggiare. Poi pensò al vecchio Deutsch buonanima. Poveretto, adesso non saprà mai la verità. Ma forse è meglio così, a voler essere gentili con lui. Non che Deutsch abbia mai preteso — né meritato — gentilezza…

Discese adagio lo scalone. E pensava: un museo ne dovrebbero fare. Sul serio, a quella casa bisognava pur dare una funzione, ora ch’era stata esorcizzata.

Attraversò il vestibolo, claudicando. Si era guardato poco fa allo specchio, nel bagno, dopo fatta la doccia: il suo corpo gli era sembrato quello di un lottatore dopo un incontro particolarmente duro, con lividi e ammaccature dappertutto. E la scottatura al polpaccio gli faceva ancora male, la pelle gli tirava tutt’intorno. E così pure gli doleva l’abrasione allo stinco. E quanto alla gamba e al pollice poi… Barrett sorrise. Non sono in condizioni di andare alle Olimpiadi, pensò.

Entrò nel salone e si diresse verso il suo Reversore. Di nuovo osservò il quadrante principale, con reverenza: segnava 14.780. Non avrebbe mai supposto che l’indice sarebbe salito così in alto. Ma del resto, non per nulla quella era considerata l’Everest di tutte le dimore infestate da spiriti. Scosse la testa, ammirato. Quella casa se l’era meritato, il suo nome.

Si volse e zoppicò fino al tavolo; si accigliò, al pensiero di tutte le cose da imballare. Osservò gli strumenti. Forse si poteva evitare di imballarli. Forse bastava avvolgerli in qualche asciugamano e metterli nel portabagagli con delle coperte che ammortizzassero gli urti. E, magari, avrebbero potuto portar via qualche oggetto d’arte, pensò, sorridendo. Deutsch non ne avrebbe mai sentito la mancanza.

Passò un dito sopra il registratore REM.

La lancetta si mosse.

Barrett sussultò. Osservò la lancetta. Era tornata immobile. Strano, pensò. Toccando il registratore doveva averla attivata mediante elettricità statica. Non sarebbe accaduto di nuovo.

Ma la lancetta diede un balzo, percorse tutto il quadrante, poi tornò sullo zero.

Barrett avvertì una contrazione nervosa sotto l’occhio. Cosa stava succedendo? Quel registratore non poteva funzionare da solo. Il REM poteva convertirsi in energia commensurabile solo in presenza di un medium psichico. Barrett diede una breve risata, sforzata. Sarebbe davvero buffo, se scoprissi di essere un medium io, dopo tanti anni, pensò. Ma era assurdo. Eppoi, non c’erano più radiazioni nella casa. Le aveva eliminate.

La lancetta cominciò a salire. Non oscillava né dava scatti. Saliva con lentezza e regolarità, come se indicasse un accumulo di radiazioni. «No» disse Barrett a mezza voce, irritato. Era solo ridicolo.

La lancetta seguitava a salire. Barrett la vide oltrepassare il 100, poi il 150. Scosse la testa. Era assurdo. Non poteva mica registrare da sé, quell’apparecchio. Eppoi non era rimasto niente, lì dentro, da registrare. «No» disse di nuovo. C’era più rabbia che sgomento nella sua voce. Questo era semplicemente inammissibile!

Sollevò la testa di scatto, da slogarsi quasi il collo. Anche la lancetta del dinamometro aveva cominciato a muoversi. Ma era impossibile! Spostò lo sguardo sul quadrante del termometro. Stava segnando un abbassamento di temperatura. «No» disse. Il suo volto era impallidito. Era un nonsenso! era una cosa del tutto illogica!

Trattenne il fiato. L’obiettivo della macchina fotografica era scattato. Restò a bocca aperta. Udì il fruscio della pellicola che veniva arrotolata, poi di nuovo lo scatto. Ansava. I suoi muscoli erano contratti da uno spasmo. Le luci multicolori si accesero. Si spensero. Si accesero di nuovo. «No!» Scosse la testa, non voleva arrendersi. Non poteva accettare la testimonianza dei propri sensi. Era un trucco. Era qualcosa di fraudolento!

Diede un violento sobbalzo, allorché una delle provette si spezzò a metà e cadde dalla sua mensola sul tavolo. Non può essere! udì la propria voce esclamare nel suo cranio. D’un tratto ricordò la domanda che gli aveva posto Fischer. «No!» rispose ad alta voce. Indietreggiò dal tavolo. Era proprio impossibile che, una volta dispersa, l’energia si potesse in alcun modo riformare.

Le luci cominciarono di nuovo a lampeggiare rapidamente. Egli gridò: «No!» con rabbia furibonda. Non poteva crederci! Le lancette dei suoi strumenti non erano tutte quante in movimento sui vari quadranti. Il termometro non registrava un costante abbassamento di calore. La stufa elettrica non si era accesa. I galvanometri non erano in azione. La macchina fotografica non stava scattando fotografie. Le provette e le fiale non si spezzavano l’una dietro l’altra. Il registratore REM non aveva superato i 700 gradi. Era tutto un’illusione. Egli era vittima di qualche aberrazione dei sensi. Una cosa così non poteva accadere! «Ho sbagliato!» gridò, con la faccia distorta dalla rabbia. «Sbagliato! sbagliato! sbagliato!»

Restò a bocca aperta. Il registratore REM aveva cominciato ad allargarsi. Inorridendo, lo vide gonfiarsi come se i suoi lati fossero stati di gomma. No. Scosse la testa, incredulo. Certo stava impazzendo. Tutto questo era impossibile. Lui non poteva accettarlo. Non poteva…

Gettò un urlo. Il registratore era esploso. Di nuovo gridò, quando delle schegge di metallo lo colpirono al viso, gli si conficcarono nella carne. Lasciò cadere il bastone e si coprì la faccia con le mani. Qualcosa volò radente al tavolo. Barrett si trasse indietro. La macchina fotografica lo colpì alle gambe. Perdette l’equilibrio, cadde. Udì gli apparecchi ruzzolare a terra, come scagliati da qualcuno. Non riusciva a veder niente. Si rialzò in piedi barcollando, accecato.

Allora fu investito da una forza impetuosa che lo sollevò da terra, quasi fosse stato un pupazzo. Gettò un grido di angoscia e sgomento. Quella forza, simile a un gelido tifone, lo scaraventò con estrema violenza contro il Reversore. Senti che un braccio gli si spezzava. Urlò di dolore, cadde sul pavimento.

Di nuovo l’invisibile forza lo afferrò, cominciò a trascinarlo per la stanza. Non riusciva a liberarsene. Invano tentò di gridare aiuto. Sbattendo da tutte le parti seguitava a venir trascinato attraverso il salone. Si accorse che stava per urtare contro un tavolo. Istintivamente sollevò il braccio destro. Cozzò con violenza il pollice ferito contro una gamba del tavolo. Spalancò la bocca emettendo un grido strozzato d’agonia. Dalla mano cominciò a uscirgli sangue. La forza che lo trascinava lo sbalestrò sul tavolo e poi di nuovo lo fece capitombolare in terra. Il pollice, quasi staccato di netto dalla mano gli penzolava come un brandello.

Barrett tentò di combattere contro la forza che lo trascinava brutalmente attraverso il vestibolo, ma era impotente in sua balia, come un balocco nelle mani di qualche invisibile creatura. Non riusciva a distinguere niente. La sua faccia era una maschera di sangue e di orrore. Ora veniva trascinato lungo il corridoio per i piedi. Sentì un dolore lancinante al petto, come se una mano gli avesse agguantato il cuore e lo strizzasse. Non riusciva a respirare. Braccia e gambe gli si erano fatte inerti. Il suo volto cominciò a farsi paonazzo, poi cianotico. Le vene del collo erano rigonfie. Gli occhi gli schizzavano dalle orbite. Aveva la bocca contorta. La forza selvaggia lo sballottò per i piedi giù per le scale, poi oltre la porta a vento, nel locale della piscina. Sentì il pavimento di piastrelle sotto il suo corpo fracassato. Poi si sentì sollevare a mezz’aria.

Tonfò nell’acqua gelida. La forza lo sospinse verso il fondo della vasca. Bevve. Soffocava. Si dibatté. Ma la forza non lo lasciò libero. L’acqua gli penetrava nei polmoni. Si piegò su se stesso, con la faccia rivolta verso il fondo. Stava per annegare. Dal pollice seguitava a uscirgli sangue. La forza misteriosa lo rigirò. Ora guardava verso la superficie della vasca. L’acqua era lievemente arrossata dal sangue. C’era qualcuno sul bordo della piscina, e guardava giù verso di lui.

Smise di dibattersi. La sagoma divenne sfocata, poi svanì. Barrett si adagiò sul fondo. I suoi occhi non distinguevano più nulla. Nella profondità della caverna ch’era la sua mente un barlume di coscienza tremolava ancora e una voce angosciata chiamò: «Edith!».

Poi tutto fu inghiottito dalle tenebre, come se un nero sudario lo avesse avvolto.


ore 14.16


La mano sinistra di Edith si sollevò di scatto. La fede nuziale le si era sfilata dal dito. Spalancò gli occhi. La camera era immersa nel buio. «Lionel…»

La porta era aperta. Il corridoio era buio, anch’esso. Qualcuno entrò. «Sei tu, Lionel?»

«Sì.»

Si sollevò a sedere, annebbiata. «Cos’è successo?»

«Niente di preoccupante. S’è guastato il generatore.»

«Oh no.» Non riusciva a distinguere nulla nell’oscurità.

«Non importa» disse Lionel.

Edith udì i suoi passi avvicinarsi e il letto imbarcarsi sotto il suo peso. Allungò una mano verso di lui. «Sei sicuro che tutto vada bene?»

«Ma sì, sicuro.» L’uomo le accarezzò i capelli. «Non aver paura. Anzi, perché non ne approfittiamo?»

«Di che cosa?» Cercò nel buio, tentoni.

«È tanto tempo che non stiamo insieme.» La mano di Lionel le accarezzò una guancia. «E tu ne hai bisogno.»

Ella emise un mugolio interrogativo. La mano di lui le scese sul seno e cominciò a strizzarglielo. «No, Lionel, no» lei disse.

«Perché no?» chiese lui. «Non vado bene, io per te?»

«Ma che cosa…»

«Fischer ti va bene» lui l’interruppe. «Anche Florence ti andava bene.» Le sue dita le strizzavano un seno fino a farle male. «Su, fa’ godere il tuo vecchio marito, adesso, un po’.»

Edith tentò di allontanare da sé quella mano. Il suo cuore aveva accelerato i battiti. «No» mormorò.

«Sì» disse lui. La mano discese rapida e risalì su, sotto la gonna, fra le sue cosce. «Sì, invece, puttanella, lesbica, sì.»

Le luci si accesero.

Edith gettò un grido. La mano abbandonò la presa, si ritrasse. Era esangue, amputata all’altezza del polso, e fluttuava adesso sopra il suo petto, tracciando gesti nell’aria davanti ai suoi occhi esterrefatti, con pezzetti di vene e tendini che penzolavano. Edith si rattrappì contro la testiera del letto. La mano si posò di nuovo sul suo seno, strizzandole un capezzolo fra il pollice e l’indice. Ella gettò un urlo stridulo, cercò di staccarsela di dosso. La mano balzò su come un ragno e le serrò il viso fra le dita, fredda, col suo odore di tomba. Un urlo pazzo le uscì dalla gola. La mano grigiastra si ritrasse. Edith sollevò le gambe, si mise a tirar calci forsennati contro la mano. Questa si sollevò in alto e si mise a tracciar gesti agitando le dita nell’aria, rapidamente, selvaggiamente.

Poi si buttò in picchiata e scomparve fra le coperte. L’imbottita cominciò a rigonfiarsi, come un pallone. Ansimando, Edith saltò giù dal letto. Corse verso la porta, incespicando. L’imbottita volò in alto. A un tratto Edith si trovò circondata da una nuvola di tarme. Annaspando con le braccia per scacciare quegli insetti, procedeva alla cieca. Le tarme l’avvolsero completamente, le loro elitre le battevano sul viso, le si impigliavano fra i capelli. Fece per urlare, ma la bocca le si riempì di tarme. Le sputò fuori, con schifo e raccapriccio, serrò le labbra. Le tarme le entravano negli orecchi. Le loro alucce polverose battevano frenetiche contro i suoi occhi. Ricoprendosi il viso con le mani, andò a sbattere contro il tavolino ottagonale e cadde.

Le tarme scomparvero. Edith picchiò le ginocchia sul pavimento, si aggrappò all’orlo del tavolo per rialzarsi, il tavolo cadde con un tonfo, alcune pagine del manoscritto di Lionel si sparpagliarono sul tappeto. I fogli presero a svolazzare davanti a lei. Edith faceva per afferrarli ma i fogli si laceravano da sé, riducendosi in piccoli brandelli. E questi mulinavano nell’aria come una tormenta di neve a grosse falde. Edith si trasse indietro, a quattro zampe sul pavimento. Un uomo scoppiò a ridere. Ella si guardò intorno, atterrita. «Lionel» chiamò. «Lionel.» Udì la propria voce ritornarle come un’eco. «No» implorò. E l’eco: «No». Edith emise un lamento. E il suo lamento le tornò alle orecchie, ripetuto. Allora scoppiò a piangere, e l’eco pianse come lei. Con la forza della disperazione, si alzò in piedi e corse alla porta, l’aprì, ma qui arretrò con un urlo strozzato.

C’era Florence sulla soglia. Era nuda e la guardava fisso. Il sangue le colava giù per le cosce. Edith gridò. Si sentì avviluppare dalle tenebre e venir meno.

Una scossa elettrica percorse il suo corpo, ed essa si risollevò di scatto. La tenebra si dissipò. Si rese conto che non le era stato consentito di svenire. Si avventò oltre la soglia, che adesso era sgombra. Corse pel corridoio, verso lo scalone. L’aria era caliginosa. Si sentiva la puzza dello stagno. Una figura le sbarrò la strada. Edith si arrestò. Era una donna con una tunica bianca indosso. Era bagnata zuppa e i capelli le scendevano grondanti, appiccicati al viso terreo. Teneva qualcosa in braccio. Edith guardò… un mostruoso neonato. E udì una voce dentro di sé gridare: la Palude dei Bastardi! Indietreggiò, emettendo suoni inarticolati, come un animale pazzo.

Qualcosa la colpì alla schiena, le fece fare una giravolta. Per non cadere dovette gettarsi in avanti e correre a perdifiato. Ma non in direzione dello scalone! Tentò di fermarsi ma non riusciva a controllare i propri muscoli. Urlò. Florence la stava inseguendo. Sentì le braccia gelide cingerla per le spalle, e le labbra morte baciarla sulla bocca. Ella si divincolò, pazza di terrore, tentando di sciogliersi da quell’orrendo abbraccio.

Florence d’incanto scomparve. Edith allora, perduto l’equilibrio, cadde in ginocchio. «Lionel!» chiamò. E una voce beffarda le rispose: «Lionel!». Un vento gelido passò su di lei, agitandole le vesti, arruffandole i capelli. Cercò di tirarsi in piedi. Qualcosa di freddo e umido le si posò sul collo. Gettò un grido. Denti aguzzi le mordevano, affondando nella carne. Portò le mani dietro la nuca, ma senza incontrare niente di concreto. Una fetida bava le colava sulla pelle, sotto il segno profondo lasciato dai denti. «Lionel!» invocò, angosciata.

«Eccomi!» lui rispose. Edith volse la testa di scatto. Lo vide correre verso di lei pel corridoio! Si alzò e corse verso di lui. Si gettò fra le sue braccia. Ma poi diede un balzo indietro e guardò l’uomo a cui stava avvinta. Era suo padre. Questi aveva un’espressione ebete sul volto. Le labbra dischiuse, la lingua penzoloni, cerchi rossi intorno agli occhi, la fissava con gioia imbecille. E l’attirava a sé. E dalla gola gli usciva un verso animalesco. Edith si divincolò da lui. Fece per scappare ma qualcosa la urtò. Perdette l’equilibrio, andò a sbattere contro la balaustra prospiciente il vestibolo. Si aggrappò a essa, piangendo di dolore. Suo padre avanzò verso di lei, stringendo fra le mani il suo membro virile, ch’era enorme. Ella allora scavalcò la balaustra, pronta a gettarsi di sotto, sfracellarsi, ma sfuggire a quell’orrore.

Due mani robuste l’afferrarono, la trattennero. Edith si volse, inorridita. Era Lionel che la sorreggeva. Ella lo fissò, rifiutandosi di credere. «Edith! sono io!» Il timbro familiare della voce la rassicurò. Si appoggiò a lui, singhiozzando. «Portami fuori di qui» l’implorò.

«Subito» lui rispose. Cingendole le spalle con un braccio la condusse verso la cima delle scale. Ella si accorse allora che non zoppicava più. «No» gemette. «Va tutto bene» le disse lui. E cominciò a discendere le scale, insieme a lei. Edith cercò di liberarsi. «Ma sono io» lui disse. Ella si mise a singhiozzare. Ma lui non la lasciava. Una risata cavernosa risuonò. Altre risate fecero eco. Edith vide della gente raccolta ai piedi dello scalone. Si volse verso Lionel, ma non era più lui. Era bensì una mostruosa caricatura di Lionel: ogni tratto del suo volto esageratamente accentuato. E anche la sua voce era caricaturale, e le ripeteva: «Ma sono io! Ma sono io!».

Ella gridò: «No!». Si divincolò, disperatamente. Ma lui non mollò la presa. Non guardava neppure innanzi a sé, teneva gli occhi fissi su di lei, con un ghigno, seguitando a trascinarla giù per le scale e poi per il vestibolo. Edith chiuse gli occhi.

Attraversato il vestibolo, si sentì trascinare pel corridoio. Era incapace di emettere un suono. Udì aprirsi le porte del teatro. Vi fu scaraventata dentro. Riaprì gli occhi. Vide che la platea era gremita di spettatori, tutti quanti nudi, che si divertivano alle sue tribolazioni. Edith venne sospinta verso il palcoscenico. L’oscena caricatura di Lionel la legò a un palo. Ella guardò la platea. Fremevano, eccitati, impazienti di godersi lo spettacolo. Edith venne denudata. Il pubblico applaudì. Ma i battimani e le grida giungevano attutiti, come da un altro mondo. Edith udì un ruggito e volse il capo. Vide un leopardo avanzare da dietro le quinte. Fece per gridare ma non le uscì alcun suono dalla gola. Il pubblico schiamazzava. Edith chiuse gli occhi. Il leopardo compì un balzo. Sentì i suoi denti aguzzi penetrarle nella testa, sentì il suo fiato ferino sul volto. Sentì gli artigli lacerarle il ventre. Il dolore l’ottenebrò e, con un grido, ricadde.

Si ritrovò raggomitolata sul palcoscenico. Il cuore le batteva con violenza. Si sollevò. Il teatro era vuoto. No. C’era qualcuno. Qualcuno seduto nell’ombra, all’ultima fila, vestito di nero. Le parve di udire una voce profonda che diceva: Benvenuta in casa mia.

Cercò di tirarsi in piedi. Le gambe non la sorressero e vacillò, si appoggiò alla parete. Si mosse, scese i gradini, barcollando, e si trovò davanti Lionel. «Sono io» le disse lui. Ella gridò, atterrita. Echeggiarono risate fragorose nel teatro. Edith arrancò fino alla porta, l’aprì. Vide Lionel nel corridoio. «Sono io» lui le disse.

Ella tentò di raggiungere il vestibolo, ma non ci riuscì. Fu costretta a piegare da un lato. Lionel attendeva sul pianerottolo delle scale che portavano negli scantinati. «Sono io!» le gridò. La tromba delle scale si spalancava sotto di lei. Lionel, adesso era in fondo, laggiù, e la guardava, ghignando. «Sono io!» ripeté. Edith gemette, si aggrappò alla balaustra, prese a scendere i gradini, un po’ di sua volontà, un po’ sospinta da una forza estranea. Lionel era accanto alla porta di metallo.

«Sono io!» le gridò. La porta a vento si aprì, sbattendo contro la parete interna. Ora Lionel era in piedi accanto alla piscina. «Sono io!» ripeteva. La forza estranea la spinse verso di lui. Edith vacillò. Si protese sull’orlo della vasca. Guardò l’acqua arrossata di sangue.

Lionel galleggiava appena sotto il pelo dell’acqua e la guardava fisso.

A questo punto si sentì impazzire. Indietreggiò, urlando, incespicando, scappò pel corridoio. Una figura stava scendendo le scale, a gran balzi. L’afferrò per le braccia. Ella si dibatté, furiosamente, gettando grida disperate, acute. La figura le urlava qualcosa ma essa udiva solo la propria voce. Qualcosa allora la colpì al viso ed ella cadde, si sentì cadere, gridando senza requie, cadde come un macigno in un abisso.


ore 15.31


Edith si riscosse. Apri gli occhi, battendo le palpebre. Vide che si trovava all’interno dell’auto. Si volse, tutta confusa, e sussultò vedendolo. Lo guardò con aria interrogativa.

«Ho dovuto colpirla, mi dispiace» egli disse.

«Era lei?»

Lui annuì.

Edith si guardò intorno d’un tratto. «Lionel!»

«Il suo corpo è nel portabagagli.»

Ella fece per discendere, ma Fischer la trattenne. «Non c’è bisogno che lei lo veda» disse.

Ella seguitò a divincolarsi.

«La smetta» egli disse.

Edith si arrese, distolse la faccia, si mise a piangere. Fischer, in silenzio, l’ascoltava singhiozzare.

Poi lei esclamò d’un tratto: «Andiamo via di qua».

Lui non si mosse.

«Ma che c’è?»

«Io non me ne vado.»

Edith non comprendeva.

«Io torno dentro.»

«Là dentro?» Ella era allibita. «Lei non lo sa quello che c’è là dentro!»

«Devo…»

«Lei non lo sa cosa vuol dire!» l’interruppe la donna. «Ha ucciso mio marito! Ha ucciso Florence Tanner! Avrebbe ucciso anche me se lei non fosse arrivato in tempo! Nessuno può farcela, là dentro!»

Fischer non stette a discutere.

«Non le bastano due morti? Deve crepare anche lei?»

«Io non intendo farmi accoppare.»

Essa gli prese una mano: «Non mi lasci, la prego».

«Devo.»

«No

«È necessario.»

«La prego, no.»

«Edith, io devo. Devo.»

«No! Non è vero! Non è così. Non c’è nessun motivo per tornare là dentro!»

«Edith.» Fischer le prese una mano fra le sue ed attese che i singhiozzi si calmassero. «Mi stia a sentire.»

Ella scosse il capo, con gli occhi chiusi.

«Io devo, capisce? Per Florence Tanner. Per suo marito.»

«Ma loro non vorrebbero che lei…»

«Io lo voglio, però» l’interruppe Fischer. «Ne ho bisogno. Se abbandonassi adesso la Casa d’Inferno, tanto varrebbe che mi rinchiudessi dentro una tomba, per seppellirmi vivo. Io non ho fatto nulla, nei giorni scorsi, da giovedì in poi. E invece suo marito e Florence si sono prodigati. Hanno fatto da soli, loro due, tutto il possibile per risolvere il mistero…»

«Ma non l’hanno risolto, però! Non c’è modo di risolverlo, ecco quanto!»

«Forse no.» Fece una pausa. «Ma io voglio tentare.»

Edith lo guardò. Non disse nulla. La sua espressione non ammetteva repliche.

Lui ripeté : «Intendo provarci».

Restarono zitti per un po’. Alla fine Fischer domandò: «Lei sa guidare, no?».

Negli occhi di lei brillò un barlume di speranza. «No» gli rispose.

Egli sorrise, gentilmente. «Sì, che sa guidare.»

Edith abbassò il capo. «Lei morirà» gli disse. «Come Lionel. Come Florence.»

Fischer emise un sospiro.

«Sarà quel che sarà» disse.

Fischer attraversò il ponticello, si inoltrò per il sentiero ghiaiato che costeggiava lo stagno. Era solo adesso. A questo pensiero, si sentì mancare il coraggio, al punto che fu lì lì per scappar via nell’opposta direzione.

Edith piangeva, al momento della partenza. Aveva tentato di trattenere le lacrime, ma invano. Con il viso inondato, aveva messo in moto la Cadillac, aveva fatto manovra e si era allontanata nella nebbia.

Fischer ormai non aveva scelta, comunque. Mica poteva andare a piedi fino a Caribou Falls, con quel freddo.

La ghiaia scricchiolava sotto le sue scarpe di gomma. E adesso cosa farò? si chiese. Non ne aveva idea. Era approdata a qualcosa, Florence? E Barrett, cosa aveva ottenuto? Lui non poteva saperlo. Gli sarebbe toccato ricominciare tutto dal principio.

Sentì un po’ di tremarella. Si raddrizzò sulla schiena, si fece forza. Era in ballo, e, in qualche modo, avrebbe ballato. E ce l’avrebbe fatta.

Edith gli avrebbe portato da mangiare, gliel’avrebbe lasciato davanti alla porta. Non importa, quanto tempo ci vorrà, si disse. C’era solo una cosa che importava.

Seguitò a camminare. E toccò il medaglione che Florence gli aveva appeso al collo. A Edith aveva detto che era anche per Barrett che si accingeva a riprendere la lotta. Invece, era solo per Florence che lo faceva. Avrebbe potuto aiutarla, finché era in tempo, avrebbe dovuto aiutarla.

La casa apparve fra la nebbia, innanzi a lui, di nuovo, Fischer si fermò, la guardò. Ma c’era, poi, una qualche soluzione del suo mistero? Chissà! Ma se non ci riusciva lui a trovarla, non ci sarebbe riuscito nessuno. Di questo era sicuro.

Salì i gradini del portico. La porta era socchiusa, come l’aveva lasciata quando aveva portato il cadavere di Barrett nell’auto. Esitò a lungo… Sapeva bene che, varcando quella soglia, andava incontro, irrevocabilmente, al suo destino.

«Al diavolo.» Cos’altro s’aspettava dal destino, in fin dei conti? Entrò, richiuse la porta.

Andò al telefono. Sollevò il ricevitore. L’apparecchio era isolato. Ma che cosa ti credevi? si chiese. Lasciò cadere il ricevitore sul tavolo. Era del tutto tagliato fuori dal mondo, adesso. Si guardò intorno.

Attraversando il vestibolo ebbe, netta, l’impressione che la casa lo stesse inghiottendo vivo.


ore 18.29


Fischer sedeva al tavolo rotondo, nel salone, e stava mangiando un panino, bevendo un caffè. Edith gli aveva portato delle provviste e se n’era tornata via, senza scambiare una sola parola con lui. È pazzesco, si disse Fischer. Se lo veniva ripetendo da più di un’ora, come un ritornello.

L’atmosfera, nella Casa d’Inferno, era assolutamente calma, inerte.

Non c’era stato neanche bisogno d’aprirsi, per accorgersene. Se ne era reso conto subito, facendo un giro per le varie stanze. Al piano di sopra, era entrato in tutte le camere, anche quelle in disuso. Se ci fosse stato alcunché nell’aria, lui l’avrebbe captato: una qualsiasi presenza. Invece, niente. Non c’era proprio nulla. Era incredibile, assurdo. E allora, che cos’è che aveva accoppato Barrett? Che cos’è che aveva quasi ucciso Edith? Lui aveva distintamente sentito una presenza misteriosa, quando era corso al salvataggio della signora Barrett giù negli scantinati. Ma adesso non c’era più niente. La casa era pulita, sgombra, come subito dopo l’azione del Reversore. E non si trattava d’un trucco: di questo ne era certo. Quando si era aperto per la prima volta, il giorno avanti, si era accorto che c’era qualcosa in agguato nella casa. Ne aveva sottovalutato il potere e l’astuzia, ma che ci fosse, se n’era accorto subito.

Adesso invece non c’era.

Fischer guardò in terra. Uno dei galvanometri di Barrett giaceva presso il suo piede: si era spaccato, ne erano usciti fili e molle e rocchetti, come le interiora di un animale sventrato. Guardò gli altri strumenti che giacevano fracassati sul tappeto, poi il suo sguardo si posò sul Reversore, indugiò sulle sue ammaccature. Una forza immane aveva devastato la stanza, devastato gli strumenti, distrutto Barrett.

Ma, poi, dov’era andata a finire?

Sospirò. Mise i piedi sul tavolo e inclinò la sedia all’indietro. E adesso? Pensò. Era tornato per muover guerra… e il nemico non c’era. Non solo non sapeva da che parte cominciare, ma non c’era neanche niente da dover cominciare.

Aveva perlustrato tutte le stanze a pianterreno. Nella sala da pranzo si era soffermato, per una ventina di minuti, a osservare lo sfacelo (il tavolo incastrato nella cappa del camino, il lampadario a terra, le sedie rovesciate, cocci dappertutto, la caffettiera e i vassoi e l’argenteria disseminati ovunque, i resti del cibo, le chiazze, le imbrattature…). E aveva riflettuto. Chi dei due avrà avuto ragione? Barrett a dire che l’attacco era stato scatenato da Florence Tanner? o quest’ultima a darne la colpa a Daniel Belasco?

Non c’era modo di saperlo. Poi Fischer era passato in cucina e di qui nella sala da ballo. Che cosa aveva messo in moto il lampadario? Radiazioni elettromagnetiche o ombre di trapassati?

Nella cappella. Florence era stata posseduta da Daniel Belasco? o da una follia suicida?

Quindi era andato nel garage, nel teatro, in cantina, nel locale della doccia, nel bagno turco. Che cosa aveva assalito Barrett, lì dentro? Un’energia cieca oppure Belasco in persona?

Nella cantina. Lì era rimasto per qualche minuto, fissando la nicchia nel muro. Niente: il vuoto.

Ma dov’era occultata, allora, l’energia occulta?

Fischer raccolse il registratore a nastro e lo rimise sul tavolo. Ne inserì la spina nella presa di corrente e trovò, con sua sorpresa, che funzionava ancora. Allora fece girare la bobina all’inverso poi schiacciò il pulsante dell’ascolto.

Si udì la voce di Barrett. «Attenzione!» Poi si udirono dei fruscii. Si udì un respiro affannoso: il suo? Poi Barrett che diceva: «Miss Tanner sta prematuramente uscendo di trance. Un intoppo imprevisto ha determinato un trauma nervoso in lei». Qui la registrazione terminava.

Fischer fece tornare il nastro ancora più indietro e lo ripassò. Si udì la voce di Barrett: «Materia teleplastica va formandosi intorno alla parte inferiore del viso della medium». Fischer ricordò quella specie di nebbia che aveva avvolto la testa e le spalle della medium. Ma perché Florence si era d’un tratto tramutata in una medium fisica? Questo interrogativo non gli dava requie. Intanto si udiva la voce di Barrett: «Respirazione della medium adesso 210. Dinamometro 1460. Temperatura…». Qui c’era un’interruzione. Fischer ricordò che Edith s’era impaurita. Dopo un silenzio, Barrett: «Ozono presente nell’aria».

Fischer fermò la bobina, la fece tornare ancora indietro. Cosa poteva sperare mai di apprendere? Quell’esperimento non era approdato a nulla. Era servito solo a confermare Florence nelle sue idee e Barrett nelle sue. Fermò là marcia indietro della bobina. Schiacciò il pulsante dell’ascolto. Udì: «Presenti: dottor Barrett e signora…». Spense e fece scorrere la bobina in retromarcia anche più oltre.

Rimise il registratore in azione e si udì la voce isterica di Florence (ma una voce diversa dalla sua abituale) gridare: «… non riesco a trattenermi. Non vorrei farvi del male, ma devo. Devo!» Un breve silenzio. Poi, la stessa voce piena di veleno: «Vi avverto. Uscite da questa casa prima che vi ammazzi tutti!».

Seguivano dei colpi battuti sul tavolo. E la voce di Edith, spaventata: «Che cos’è questo?».

Fischer tornò indietro e riascoltò la voce minacciosa. Era quella di Daniel Belasco? La riascoltò cinque volte, ma senza ricavarne nulla. Forse Barrett aveva ragione nel ritenere che fosse stato il subconscio di Florence a creare quella voce.

Fischer, borbottando fra sé un’imprecazione, fece scorrere ancora più indietro la bobina. Schiacciò il pulsante. La voce imperiosa di Nuvola Rossa risuonò: «Via. Fuori da questa casa». Ma era realmente esistita un’entità come Nuvola Rossa oppure si trattava di una finzione di Florence? Fischer scosse la testa. Si udì una specie di grugnito. E la voce registrata riprese: «Non ubbidisce. Qui da troppo tempo. Non ascolta. Non capisce. Troppo malato qui dentro». Fischer sorrise fra sé, suo malgrado. Non poteva mica passare per la vera voce di un vero pellerossa, quella. E diceva: «Limiti. Nazioni. Confini. Non capisco cosa questo vuol dire. Estremi e confini. Termini ed estremità». Una pausa. «Non so.»

«Merda» disse Fischer, a mezza voce, fermando l’apparecchio. Invertì la marcia della bobina, ancora più indietro. E riascoltò: «Nuvola Rossa donna Tanner guida». Era la voce contraffatta di Florence. «Guida altro medium questa parte qua.»

Riascoltò tutta quanta la registrazione: la voce cavernosa dell’indiano; la descrizione del troglodita; l’arrivo del “giovane uomo”; la voce isterica che li minacciava; i colpi furiosi.

Quindi riascoltò tutta quanta la registrazione della seconda seduta spiritica, avvenuta il giorno successivo: l’inno intonato da Florence; i gemiti sommessi, il respiro affannoso; la voce impersonale di Barrett che dava lettura dei vari manometri, che descrìveva le manifestazioni ectoplastiche; le risate; il grido di Edith.

Alla fine spense l’apparecchio. Siamo a zero, pensò. E si chiese perché mai fosse tornato, come Don Chisciotte contro i mulini a vento… Roba da matti.

Si alzò. Ma non sarebbe andato via. Voleva venirne a capo. Doveva succedere qualcosa. Doveva esserci una soluzione. Decise di fare un altro giro per la casa. Avrebbe perlustrato ogni angolino, finché non avesse trovato qualche indizio, qualche barlume. La casa era inerte, spenta, eppure da qualche parte doveva esserci qualcosa di vivo, di acceso, di abbastanza potente da uccidere.

L’avrebbe trovato, a costo d’impiegarci un anno.

Attraversò il salone. Aveva cominciato ad aprirsi. Non pareva ci fosse alcun rischio, pel momento. Ma non pareva neanche esserci alcuno scopo, ad aprirsi. Ma doveva pure agire.

Aveva appena finito di abbattere le barriere protettive dell’io, quando qualcosa lo spinse. Si trovava nel vestibolo e quell’improvviso spintone lo fece quasi cadere a terra. Barcollò. Istintivamente portò le braccia conserte. Si preparò a resistere.

Non accadde altro. Fischer si aggrondò. Doveva tornare ad aprirsi. Alla fine, qualcosa di tangibile. Ma ne era stato colto alla sprovvista. Non osava ora esporsi come si era esposto il giorno avanti.

Esitava. Sentiva la presenza misteriosa aleggiare intorno a lui. Desiderava affrontarla ma aveva paura.

Finalmente, maledicendo la propria debolezza, si aprì.

Subito qualcosa l’afferrò per un braccio e lo sospinse in direzione del corridoio. Fischer riuscì a fermarsi. Abbassò le braccia che aveva portato istintivamente in posizione di “guardia” per proteggersi il plesso solare. Ma bisognava smetterla, pensò, di aprirsi e chiudersi di continuo come una maledetta conchiglia spaurita!

Apri uno spiraglio della sua porta interiore, quanto bastava perché la presenza si infilasse dentro. Di nuovo si sentì sospinto verso il corridoio. Era come se mani invisibili lo tirassero da quella parte per la manica. Egli allora seguì la sua guida, stupito dalla delicatezza dell’invito. Non si trattava certo di una forza oscura e distruttiva, stavolta. Era come una vecchia zia che lo conducesse per mano a far merenda. A Fischer venne quasi da sorridere: c’era dell’insistenza, sì, ma non c’era una minaccia. E gli venne fatto di pensare a Florence. Ella era sempre stata certa che la soluzione dell’enigma si trovasse nella cappella. Fischer provò un moto di intensa gioia. Florence era venuta in suo aiuto! Spinse la porta, entrò.

La cappella era immersa in una quiete oppressiva. Fischer si guardò intorno come se si aspettasse di vedere Florence. Non c’era niente.

L’altare.

Questa parola gli balenò nella mente, con estrema chiarezza come se qualcuno l’avesse pronunciata ad alta voce. Attraversò la navata, scavalcando il gatto morto, il crocefisso abbattuto. Giunse all’altare. Osservò la Bibbia aperta. Lesse, sotto la dicitura NASCITE : «Daniel Myron Belasco, nato alle ore 2 del mattino il 4 ottobre 1903». Si sentì deluso. Non era questa la risposta. Non poteva essere questa.

D’un tratto le pagine della Bibbia cominciarono a scorrere, come per effetto di un vento che le voltasse, in fretta. Si arrestarono d’un tratto. Fischer guardò. Ma quale versetto avrebbe dovuto leggervi? Allora la sua mano fu guidata e il suo indice si posò su una riga. Egli si chinò e lesse:

«Se il tuo occhio destro ti offende, tu cavatelo».

Rilesse quelle parole. Gli pareva che Florence stesse lì accanto a lui, ansiosa, impaziente. Ma non riusciva a capire il senso riposto di quelle parole.

«Florence…» incominciò.

Sollevò la testa di scatto, udendo un rumore dietro l’altare.

Si era strappato un pezzo di carta della tappezzeria, rivelando l’intonaco sottostante.

Fischer sentì il medaglione scottargli il petto e non poté trattenere un’esclamazione. Infilò una mano sotto la camicia, se lo strappò dal collo, lo gettò via, con un mugolio di dolore. Il medaglione andò in frantumi sul pavimento. Fischer lo fissò perplesso. Uno dei frammenti pareva la punta di una freccia e sembrava indicare verso…

Si abbatté su di lui come un’onda improvvisa di marea, accompagnata da un muggito terribile.

La potenza nemica lo percosse con estrema violenza, egli lanciò un grido di terrore, cadendo all’indietro sul pavimento, e la nube di tenebra lo ricoprì. Non poté opporre alcuna resistenza. Giacque inerte e sentiva l’oscura e nera forza penetrargli in ogni fibra, scorrere nelle sue vene. Adesso! ululò una voce nella sua mente, trionfante.

E a un tratto capì qual era la soluzione, come già l’avevano capito Florence e Barrett prima di lui, ma si rese anche conto che essa gli veniva rivelata solo perché si trovava in punto di morte.

Non si mosse, non batté gli occhi, giacque immobile come un corpo morto per chissà quanto tempo.

Poi, pian piano, si alzò e scivolò verso la porta. L’aprì, sgusciò nel corridoio. Si diresse verso il vestibolo. Andò alla porta d’ingresso, l’aprì, usci all’aperto. Discese i gradini. S’incamminò per il viale ghiaiato. Guardava fisso innanzi a sé. Giunse sull’orlo dello stagno. Seguitò ad avanzare. Entrò nell’acqua puzzolente, densa. L’acqua gli arrivava al ginocchio.

Gli parve di udire un grido in lontananza. Batté gli occhi. Seguitò a camminare. Qualcosa entrò nell’acqua con un tonfo, qualcosa lo afferrò per il maglione, cercò di trattenerlo. Egli sentì le budella torcerglisi, si sentì un amaro in bocca. Ansava. Tentò di buttarsi a capofitto nell’acqua dello stagno. Qualcosa tentò di trascinarlo invece verso la riva. Fischer, gemendo, si divincolò. Due mani fredde allora lo afferrarono pel collo. Egli cercò di liberarsi dalla stretta, ringhiando. Le budella gli si torsero, si piegò su se stesso, cadde in ginocchio nell’acqua. Schizzi gelati gli inondarono la faccia. Fischer scosse la testa e cercò di alzarsi in piedi, per procedere oltre. Ma quelle mani seguitavano a tirarlo indietro. Guardò su e vide, come attraverso un velo di gelatina, una faccia pallida, dai lineamenti distorti. Le sue labbra si muovevano, ma lui non riusciva ad afferrare niente. Guardava fisso, abbacinato. Doveva morire. Questo lo sapeva con estrema chiarezza.

Belasco glielo aveva detto.


ore 19.58


Da mezz’ora Fischer stava raggomitolato in un canto del sedile, con la faccia pallida come di gesso, i denti che gli battevano, le braccia incrociate sullo stomaco, gli occhi sbarrati nel vuoto. Tremava per tutto il corpo, sicché la coperta seguitava a scivolargli giù dalle spalle. Edith doveva tornare ad avvolgergliela intorno di continuo. Fischer non dava alcun segno di accorgersi delle sue premure. Era come se lei fosse invisibile.

Edith aveva durato fatica a ritirarlo fuori da quello stagno, aveva lottato contro la sua cieca volontà suicida per chissà quanto tempo. Per fortuna, lui era venuto progressivamente perdendo le forze. Tuttavia aveva seguitato a resistere, cocciuto, deciso ad annegarsi, a non farsi trarre in salvo. Le sue suppliche erano state vane. Lui, senza profferire una parola, si era battuto accanitamente. Tirandolo per i vestiti, per i capelli, Edith era riuscita a impedirgli di andar sotto. Alla fine le forze di lui erano venute meno. A questo punto, Edith era fradicia al pari di lui, con brividi per tutto il corpo.

Adesso si trovavano dentro la Cadillac. Lei aveva acceso il riscaldamento. C’era un po’ di tepore. Controllò l’indicatore della benzina: il serbatoio era pieno per metà. Ma il caldo non aveva rianimato Fischer, né aveva ancora fatto cessare i suoi brividi convulsi. Non era solo per il freddo, ragionò lei. Lo guardò, i suoi lineamenti erano sconvolti. E allora pensò: il cerchio si chiude.


Anche questo tentativo di risolvere l’enigma della Casa d’Inferno si era risolto in un fallimento.

Fischer fu preso da un nuovo convulso. Chiuse gli occhi. Poi smise di battere i denti. Giacque immobile. Edith lo guardava piena d’ansietà. E vide a poco a poco il colorito riaffiorare sulle sue guance.

Di lì a qualche minuto, lui aprì gli occhi e la guardò. Inghiottì, e ciò produsse un lieve crepitio nella sua gola secca. Allungò una mano, esitante. Edith gliela prese fra le sue. Era fredda come un pezzo di ghiaccio.

«Grazie» mormorò.

Ella non riuscì a dir niente.

«Che ore sono?»

Edith guardò l’orologio al polso. Era fermo. Guardò quello sul cruscotto. «Le otto e qualche minuto.»

Fischer ricadde all’indietro con un debole lamento. «Come mi ha portato qui?»

Lei gli raccontò tutto l’accaduto.

Poi lui le domandò: «Perché è tornata?».

«Non mi era parso giusto lasciarlo solo.»

«Nonostante tutto quello ch’è accaduto?»

«Avrei tentato…»

Egli serrò le dita intorno alla mano della donna.

«Cos’è successo?» domandò Edith.

«Sono stato preso in trappola.»

«Da che cosa?»

«Da chi, vorrà dire.»

Ella attese.

«Florence ce l’aveva detto» disse Fischer. «Lei ce l’aveva detto, ma io non avevo capito.»

«Che cosa?»

«La B in mezzo al cerchio» disse Fischer. «Belasco. Soltanto lui.»

«Lui solo?» Ella non riusciva a comprendere.

«È stato lui a creare ogni cosa.»

«Ma lei come lo sa?»

«Me l’ha detto lui stesso» disse Fischer. «Me l’ha fatto sapere, perché tanto ero in punto di morte.»

Dopo una pausa riprese a dire: «Non c’è affatto da stupirsi, che l’enigma non sia mai stato risolto. Non si era mai sentito nulla di simile, nella storia delle dimore infestate: una singola personalità, potente al punto di creare, da sé sola, dei fenomeni che lasciassero pensare a una multipla e complessa infestazione: una sola entità, ma che pareva fossero dozzine, capace di suscitare ogni sorta di effetti psichici e fisici e di influire su chiunque entrasse in quella casa… come un solista, come un virtuoso, che trae effetti infernali da un organo gigantesco».


Il motore era spento, adesso. Nell’auto cominciava a far freddo. Avrebbero dovuto rimettersi in viaggio per la città, ormai. Ma Edith era incapace di muoversi, e, nell’oscurità che li avvolgeva, ascoltava il racconto di Fischer.

«Credo che Belasco si sia reso conto, fin dal primo istante, che gli conveniva puntare su Florence, per prima. Era l’elemento più debole. Non perché fosse priva di forza, ma perché la sua stessa predisposizione la rendeva vulnerabile, a lui.

«Durante la prima seduta spiritica, Belasco somministrò a Florence svariate impressioni, per vedere quale fosse la più idonea. E fu la trovata del “giovane uomo” a far presa sulla mente di lei: il giovane cioè che Florence poi identificherà come Daniel Belasco.

«Al tempo stesso, onde servirsi di lei contro Barrett, Belasco fece si che Florence desse prova di virtù medianiche a lei insolite, cioè da medium fisica. Ciò aveva scopi molteplici. In primo luogo, era un cuneo nella sicurezza di Florence: lei sapeva di essere una medium mentale e quantunque ci vedesse la volontà di Dio, il mutamento intervenuto non poteva non disorientarla. Lei intuiva ch’era una cosa poco chiara.

«In secondo luogo, questa astuzia permise a Belasco di impedire che suo marito facesse venir qui un altro assistente dopo il mio rifiuto di fargli io da medium.»

Strizzò gli occhi: «Insomma, Belasco non desiderava che fossimo più di quattro qui». Fece una pausa e riprese: «Quindi Belasco si diede a fomentare l’ostilità fra suo marito e Florence. Sapeva che fra i due c’erano divergenze di opinioni e sapeva che Florence, si sarebbe risentita per il fatto di venir sottoposta a un controllo, contro l’eventualità — per quanto cortesemente espressa — di qualche frode, sia pure involontaria, da parte sua. Belasco sfruttò questo risentimento, sfruttò le loro disparità di vedute, le rinfocolò, quindi lanciò l’attacco poltergeist nella sala da pranzo, utilizzando “anche” la forza di Florence, ma soprattutto la propria. Anche qui, lo scopo era molteplice. In primo luogo, indeboliva Florence, le instillava dei dubbi circa i suoi motivi interiori. In secondo luogo, accresceva l’animosità fra i due. In terzo luogo, rinsaldava Barrett nelle sue convinzioni. In quarto luogo, gli metteva anche un po’ di paura».

«No, Lionel non si spaventò» disse Edith, ma non c’era troppa convinzione nella sua voce.

«Poi Belasco seguitò a lavorare su Florence» continuò Fischer, come se lei non avesse interloquito affatto. «La mise a dura prova sia fisicamente sia mentalmente: i morsi, l’attacco del gatto… Da un lato ciò serviva a sfibrarla, dall’altro a perfezionare la faccenda di Daniel. Quando la sua fiducia stava per venir meno, a causa delle obiezioni di Barrett, Belasco le fece trovare il cadavere murato… arrivando anzi al punto, per rendere il tutto più convincente, di inscenare una apparente resistenza a quel ritrovamento, costringendo cioè Florence a superare simulate avversità.

«Sicché ella si persuase che Daniel Belasco era uno degli spiriti che si aggiravano nella casa. Per rafforzare questa sua convinzione, Belasco la guidò nel sonno verso lo stagno e le fece credere che Daniel la salvasse, e si lasciò addirittura intravedere da lei. A questo punto Florence non aveva alcun dubbio, più. E mi espose la sua teoria: che Belasco controllava l’infestazione manipolando a suo piacere le varie entità della casa. E non era mica lontana dalla verità! Mio Dio, malgrado tutti gli inganni, aveva quasi intuito l’essenziale. Ecco perché ne era cosi sicura: perché c’era una parete sottilissima fra le sue intuizioni e la realtà effettiva. Se io l’avessi aiutata, forse lei sarebbe riuscita a sfondare quel muro, sarebbe…»

Fischer s’interruppe. E a lungo resto a fissare il vuoto fuori del finestrino. Poi riprese a parlare.

«Era solo questione di tempo. E Belasco, certo, si rendeva conto che Florence, prima o poi, sarebbe pervenuta alla soluzione giusta. Allora concentrò tutti i suoi poteri su di lei: si servì dei suoi ricordi relativi alla morte del fratello e li collegò alla sua ossessione relativa a Daniel. Il dolore di suo fratello divenne il dolore di Daniel Belasco. E il suo affetto pel fratello perduto…» Fischer strinse i denti «si trasferì su Daniel.»

Adesso aveva un’espressione carica di odio. «Alla fine, per compir l’opera, la condusse nella cappella. Nel luogo cioè dove lei era convinta che si celasse il segreto della Casa d’Inferno. Fu quello il suo più astuto stratagemma: mostrarle l’atto di nascita di suo figlio, cioè la trascrizione di esso sull’apposita pagina nella Bibbia. Belasco sapeva che lei ci avrebbe creduto, perché era proprio quello in cui voleva credere. A questo punto non sussisteva più alcun dubbio nella mente di Florence. Daniel Belasco era esistito veramente e il suo spirito aveva bisogno di aiuto da lei. Combinando insieme i dati di fatto relativi all’esistenza di suo figlio e l’imperituro rimpianto di lei per la morte del fratello, ecco che Belasco l’aveva convinta appieno.»

Fischer si picchiò un pugno sul palmo della mano, facendo dare a Edith un sobbalzo. «E io lo sentivo, in che modo avrei potuto aiutarla, lo sentivo, dentro di me!» Distolse il viso. «Ma non l’ho aiutata. Ho lasciato che lei facesse quel che mai avrebbe dovuto fare, ho lasciato che si distruggesse da sé.»

Dopo una pausa riprese: «Da quel momento, Florence era perduta. Non ci sarebbe stato modo di portarla via dalla casa. Ero sciocco a illudermi che ci sarei riuscito. Lei era ormai un fantoccio nelle mani di Belasco… un giocattolo che lui si sarebbe divertito a torturare». La sua amarezza era piena di sarcasmo, contro se stesso e la sua ingenuità. «Stavo là, seduto al tavolo, ad ascoltare suo marito che ci illustrava la propria teoria, e lo sapevo bene che Florence era posseduta, ma, ciononostante, non mi chiedevo neppure come mai — tutt’a un tratto, illogicamente — essa fosse così tranquilla e attenta, così calma. Perché non era lei ad ascoltare: era Belasco.»

«Sì: lui voleva conoscere tutti i dettagli.»

«E fu lui, allora, a cercare di sfasciare il Reversore?»

«Perché avrebbe dovuto sfasciarlo? Sapeva benissimo che non rappresentava alcun pericolo per lui.»

«Ma lei ha detto che la casa risultava disinfestata dopo l’uso del Reversore!»

«Un altro trucco di Belasco.»

«Non posso credere…»

«Lui è ancora là dentro, Edith, nella casa» l’interruppe Fischer, indicando. «Ha ucciso suo marito. Ha ucciso Florence. Ha quasi ucciso lei e me…»

E rise, una fredda sarcastica risata. «La sua beffa finale. Benché adesso conosciamo il suo segreto, non possiamo farci niente.»


ore 20.36


Fischer arrestò il passo, presso il limitare della casa. Edith lo guardò. Lui fissava la porta.

«Cosa c’è?» chiese la donna.

«Non so se ce la faccio, a tornar dentro.»

Ella esitò poi disse: «Ma io devo recuperare le sue cose, Ben».

Fischer non rispose nulla.

«Lei ha detto che, se rimane chiuso, Belasco non può farle nulla.»

«Ho detto un sacco di cose, in questi giorni. Per lo più sbagliate.»

«Allora, vado io?»

Lui non rispose.

«Vado io?»

Fischer spinse il battente. Guardò dentro per qualche istante, poi si volse verso di lei. «Farò più presto che posso» disse.

Entrò. Per un po’ rimase immobile, aspettando. Nulla accadde. Attraversò il vestibolo. Cominciò a salire le scale. L’atmosfera era inerte. Ma ciò non valse a rassicurarlo, stavolta. Chissà, si chiese, se Belasco è ancora nella cappella, o se si aggira nelle altre stanze. Saliva in fretta gli scalini. Sperava che, a restar chiuso, fosse abbastanza protetto. Ma non ne era mica tanto sicuro. Entrò nella camera dei Barrett. Mise le valigie sul letto e le aprì.

Cominciò a riempirle. Un’altra cosa che l’aveva buttato a terra (oltre tutto) era stato il rendersi conto che Barrett aveva sbagliato tutto. Eppure era così sicuro di sé e delle sue teorie. E queste erano molto ragionevoli. Ma, alla prova dei fatti, egli aveva fallito.

Fischer si sbrigava, prendeva la roba dai cassetti e dall’armadio e la gettava alla rinfusa nelle due valigie. E rifletteva: Belasco deve aver deciso fin dall’inizio di non mostrarsi mai, direttamente. Non vedendolo, nessuno avrebbe mai supposto che il suo ruolo era tanto importante. Di fronte a una così vasta gamma di fenomeni, senza connessioni apparenti fra loro, nessuno si sarebbe reso conto ch’erano tutti opera sua. Che bastardo, pensò. Il suo volto si indurì. Prese a pigiare gli indumenti per chiudere le valigie.

Una cosa non riusciva a spiegarsi: come mai Belasco — così diabolicamente astuto nel macchinare la disfatta di Florence e di Barrett — era stato invece così maldestro con lui. Indurlo a uscire dalla casa era stata una mossa sbagliata, da parte di Belasco. Se il potere di Belasco era illimitato, perché mai sarebbe ricorso a un mezzo così precario?

Fischer soprastette. Ammenoché…

Ammenoché il suo potere non fosse più illimitato!

Era possibile ciò? Certo, nella cappella Belasco aveva preso il sopravvento su di lui. Sarebbe stato quello il momento più adatto per schiacciarlo, per finirlo. E invece non aveva potuto far altro che indirizzarlo verso lo stagno perché vi si annegasse. Perché? Florence aveva davvero visto giusto anche sul suo conto? Il suo potere di resistenza era davvero così grande?

Fischer scosse la testa. Sciocchezze. Sì, certo, ciò era molto lusinghiero, ma assai poco convincente. Forse un tempo, da ragazzo, lui era stato grande, ma non adesso, non più. Più accettabile era l’ipotesi che Belasco non fosse riuscito a ucciderlo perché si era indebolito dopo aver ucciso Florence e Barrett.

Ma allora come mai? Dopo aver dato prova di così vasti poteri nei giorni scorsi perché avrebbe dovuto d’un tratto indebolirsi? Non poteva essere che il Reversore aveva funzionato. Se avesse funzionato, Belasco sarebbe scomparso.

E allora?


Edith, nel portico, aspettando che Fischer tornasse, batteva i piedi per riscaldarseli. Si era avvolta una coperta intorno alle spalle, ma non bastava a tenerla calda. I suoi abiti erano umidi. Guardò dentro, nel vestibolo. E se fosse entrata in casa, appena oltre la soglia, tanto per ripararsi dal freddo dell’esterno, un pochino?

Alla fine si decise. Entrò, richiuse la porta, e restò ferma lì. Guardava verso lo scalone.

Era come se gli avvenimenti dei giorni scorsi fossero successi in un’altra vita. Giovedì le pareva tanto lontano quanto l’alba dell’era volgare. Era anche per questo che era tornata. Ora che Lionel non c’era più, nulla più le importava.

Chissà quanto tempo sarebbe occorso prima che riuscisse a persuadersi che davvero lui non era più di questo mondo. Forse, quando avesse rivisto il suo cadavere…

Scacciò quel pensiero. Era solo ieri che aveva disceso quelle scale dietro a Fischer? Rabbrividì. Certo lei, per Belasco, era stata una facile preda!

Mentre lei esaminava Florence, era stato Belasco a spiarla, godendo del suo imbarazzo. Ed era stato Belasco a mostrarle le foto, a farle bere quel liquore, a tramutare il suo timore di aver tendenze lesbiche in una sfrenata bramosia del maschio come antidoto. A quel ricordo, fece una smorfia. Come era debole, lei! Con quanta facilità Belasco l’aveva raggirata, manipolata!

Scacciò anche questo pensiero. Ogni pensiero intorno a Belasco era un affronto alla memoria di Lionel. Quasi le dispiaceva di esser tornata, solo per scoprire che lui si era sbagliato in tutto!

Ma a questo punto si sentì in colpa. Come poteva pensare che tutta l’attività di Lionel era stata invano? Provò un moto di rabbia nei confronti di Fischer, per aver egli distrutto la sua fede in Lionel. Che diritto ne aveva?

Un improvviso senso d’angoscia l’indusse a muovere qualche passo nel vestibolo. Poi procedette su per le scale, salì al piano di sopra. Vide le due valigie pel corridoio. Udì dei rumori provenire dalla camera di Fischer. Si diresse là.

Fischer trasalì, a vederla. «Non le avevo detto?…»

«Lo so quel che m’ha detto» l’interruppe lei. E poi tutto d’un fiato: «Vorrei sapere perché è tanto sicuro che mio marito aveva torto».

«Non lo sono affatto, invece, sicuro.»

Quell’impeto di rabbia che l’aveva condotta lassù seguitò a trascinarla e cominciò a dire qualcosa. Ma si interruppe e fece marcia indietro. «Come dice?»

«Dico che penso che lui poteva aver, in parte, ragione.»

«Non…»

«Ricorda quel che disse Florence?»

«Cosa?»

«Ma non capisce — disse a suo marito — che tutti e due potremmo aver ragione? Così gli disse.»

«Non capisco.»

«Voglio dire, se l’energia di Belasco consiste in radiazioni elettromagnetiche, allora, egli potrebbe essere stato indebolito dal Reversore.»

Edith non desiderava altro che restituire validità alle teorie di suo marito. Attese.

Ma Fischer, accigliandosi, soggiunse: «Ma perché mai avrebbe consentito di venir indebolito? Non si spiega, dal momento che aveva la maniera di distruggere il Reversore!».

«Forse però è stato indebolito. Lei ha detto che lui poca fa l’ha preso in trappola nella cappella. Ebbene, se non fosse stato indebolito, perché avrebbe dovuto attirarla là, anziché sbarazzarsi di lei in un altro posto qualsiasi?»

Fischer, poco convinto, si mise a camminare su e giù. «Sì, questo potrebbe spiegare perché mi abbia attirato nella cappella. Cioè, ammettendo che il Reversore l’abbia indebolito e che, poi, lui abbia dovuto consumare la maggior parte delle restanti energie per distruggere Barrett e…» S’interruppe, stizzito. «No, il conto non torna. Se il Reversore avesse funzionato, avrebbe dovuto dissipare tutta la sua energia, non soltanto una parte di essa.»

«Ma forse la carica non era forte abbastanza. Oppure, il potere di Belasco era troppo forte perché un Reversore potesse distruggerlo interamente.»

«Ne dubito» disse Fischer. «Eppoi questo lo stesso non spiega come mai egli avrebbe permesso che il Reversore venisse usato, pur avendo avuto il modo di distruggerlo prima.»

«Ma Lionel credeva nel Reversore» ella insistette. «Se Belasco l’avesse distrutto prima che fosse usato, non sarebbe equivalso, questo atto, ad ammettere che Lionel aveva ragione?»

Fischer la scrutò in volto. Qualcosa stava prendendo forma dentro di lui, qualcosa che possedeva lo stesso sconvolgente senso di verità da lui sperimentato quando Florence gli aveva rivelato la propria teoria intorno a Belasco.

Notando quella sua espressione, Edith si affrettò a soggiungere, disperatamente, per cercare di convincerlo che Lionel era nel vero, sia pure in parte. «Non sarebbe stata una ben maggiore soddisfazione per Belasco lasciare che Lionel usasse il Reversore contro di lui e poi dopo distruggerlo? Perché Lionel dev’esser morto convinto di aver sbagliato tutto. Non è quel che Belasco avrebbe dovuto desiderare?»

Quella sensazione prendeva sempre più corpo, in Fischer. E la sua mente lavorava in modo febbrile per mettere insieme tutti i pezzetti. Belasco sarebbe stato, dunque, tanto determinato a distruggere Barrett proprio in quella maniera, al punto di consentire, deliberatamente, di venir indebolito? Solo un egotismo spinto alle estreme conseguenze…

Un brivido lo percorse, e fu tale l’intensità che gli sfuggì un gemito.

«Che c’è?» ella chiese, allarmata.

«Egotista» egli disse.

Puntò il dito e ripeté: «Il suo ego».

«Cosa intende dire?»

«Ecco perché ha agito così. Lei ha ragione: non sarebbe rimasto del tutto soddisfatto in alcun’altra maniera! Bisognava che suo marito usasse effettivamente il Reversore, bisognava che credesse di aver davvero dissipato l’energia occulta… bisognava insomma dargli la mazzata quando lui era all’apice della gioia per il presunto successo.» Annuì. «Sì! solo questo avrebbe soddisfatto il suo ego, la sua megalomania.»

Fischer proseguì dopo una pausa: «Forse che non fece sapere a Florence, prima di finirla, che era lui, e lui solo, la causa di tutto? E così si sarà comportato anche con Barrett. Egotismo. Senso sfrenato dell’io. E la stessa cosa fece sapere a lei, là, nel teatro. Egotismo. E anche a me volle farlo sapere. Egotismo. Non gli bastava portarci alla distruzione di noi stessi. Aveva anche bisogno di farci sapere, nel momento in cui ci aveva in sua balia, ch’era lui solo la causa di tutto. Tranne che, vede, quando arrivò a me, la maggior parte della sua energia era stata già consumata, e non era in grado di distruggermi. Poteva solo indirizzarmi e far sì che io mi distruggessi da solo».

Fischer aveva l’aria d’un tratto eccitata. «E se adesso non fosse capace di uscire dalla cappella?»

«Ma lei mi ha detto ch’è stato Belasco stesso a condurlo là, nella cappella.»

«E se non fosse stato lui? Se fosse stata invece Florence? Mettiamo che Florence sapeva che Belasco era in trappola nella cappella…»

«Ma, allora, perché Florence l’avrebbe condotto là, dove la morte l’attendeva?»

Fischer restò perplesso. «No, non poteva volere la mia morte. E allora perché mi avrebbe guidato nella cappella? Doveva esserci un motivo!»

Trattenne il fiato. «La Bibbia.» Avvertì qualcosa che non provava più da quando era un ragazzo, pulsare per tutto il suo essere, un senso di forza, una forza che voleva esser sprigionata. «Se il tuo occhio destro ti offende, tu cavatelo.» Si mise a camminare senza posa, e gli pareva di trovarsi sull’orlo di un precipizio, che la nebbia innanzi a lui stesse per fendersi, che la verità stesse per apparire. «Se il tuo occhio…»

Non riusciva a capire. Ma che altro era accaduto nella cappella? La carta da parati lacerata. Che significato aveva? Il medaglione… Rotto! E un frammento a forma di freccia che pareva indicare verso l’altare. E, sull’altare, la Bibbia aperta. «Dio mio.» La voce gli tremava. Era così vicino… così vicino. «Se il tuo occhio destro t’offende, tu cavatelo.» Egotismo, culto dell’io, pensò. «Se il tuo occhio destro ti offende, tu cavatelo.» Ego. Ego. Si fermò di colpo. Sentì farsi luce dentro di sé. C’era quasi arrivato. Qualcosa. Qualcosa… «Se il tuo occhio destro…»

Gridò: «Il nastro!».

Compì una giravolta e si precipitò verso la porta. Edith gli corse appresso. Discesero lo scalone. Lui la precedeva di mezza rampa. Compiva balzi. Edith discese i gradini più in fretta che poteva, attraversò di corsa il vestibolo.

Entrò nel salone e Fischer era già arrivato al tavolo e aveva acceso il registratore. Edith si morse il labbro, udendo la voce di Lionel. «… ha determinato un trauma nervoso in lei.»

Fischer spinse il pulsante della retromarcia, fece scorrere all’inverso la bobina. Poi schiacciò il pulsante dell’ascolto. «Il dinamometro segna…» Con un moto d’impazienza, Fischer fece girare ancora la bobina all’inverso. Poi riattaccò. E si udì la voce di Florence: «Uscite da questa casa prima che vi ammazzi tutti». Fischer emise una specie di ringhio e fece scorrere ancor di più la bobina all’inverso. Poi schiacciò il bottone dell’ascolto. E la voce di Florence disse: «Qui da troppo tempo». La sua voce era cavernosa, imitando la voce della sua guida pellerossa. «Non ascolta. Non capisce. Troppo malato qui dentro.» Una pausa. Fischer si sporse in avanti, era tutto teso. La voce disse: «Limiti. Nazioni. Confini. Non capisco cosa questo vuol dire. Estremi e confini. Termini ed estremità».

Fischer emise un grido di gioia selvaggia, che fece sussultare Edith. Fece scorrere il nastro all’inverso e poi lo ripassò. «Estremi e confini. Termini ed estremità.» Fischer afferrò il registratore e lo sollevò in alto sopra la testa come un trofeo. «Florence lo sapeva!» gridò. «Lo sapeva! Lo sapeva!» Scagliò lontano il registratore. Prima ancora che l’apparecchio si schiantasse sul pavimento, lui già correva verso il vestibolo. «A noi due!» gridò.

Fischer sfrecciò per il vestibolo e infilò il corridoio. Edith lo seguì. Gettando un’esclamazione che sembrava il grido di guerra di un indiano, Fischer varcò la porta della cappella. «Belasco!» gridò. «Sono tornato! Distruggimi, se ce la fai!»

Edith entrò a sua volta nella cappella.

«Avanti!» gridava Fischer. «Siamo qui tutti e due adesso. Ammazzaci! Non lasciare il lavoro a metà!»

Silenzio. Fischer respirava in modo strano. «Avanti» Edith lo udì mormorare fra sé.

Poi gridò a squarciagola: «Fatti sotto, lurido bastardo!».

Edith guardò verso l’altare. Per un momento non riuscì a credere alle proprie orecchie. Poi il rumore si fece più distinto, non si poteva sbagliare.

Un rumore di passi che si avvicinavano.

Edith si trasse indietro, d’instinto, tenendo gli occhi fissi sull’altare. I passi si fecero più distinti. Fischer le prese una mano. Ella guardava a bocca aperta. Il rumore si faceva via via più forte. Il pavimento cominciò a traballare. Era come se un gigante invisibile si stesse avvicinando.

Edith emise un gemito, diede uno strattone, ma Fischer la tratteneva. I passi si erano fatti quasi assordanti adesso. Fece per portare le mani alle orecchie, ma una era trattenuta da Fischer. La cappella pareva rabbrividire a quel rumore tonante che si appressava, che si faceva sempre più vicino. Edith si ritrasse e il suo grido di terrore si perse sopraffatto dall’eco di quei passi titanici. E si facevano più vicini, sempre più vicini. Stiamo per morire, ella pensò.

Stiamo per morire!

Gettò un grido. Una violenta esplosione scosse la cappella. Edith chiuse gli occhi, istintivamente.

Seguì un silenzio di tomba. Riaprì gli occhi.

Fece un balzo all’indietro, ansando. Fischer la trattenne. «Non abbia paura.» La sua voce era tesa per l’eccitazione. «Questo è un grande momento, Edith. Nessuno l’ha mai visto, se non in punto di morte, prima d’ora. Guardi bene, Edith. Le presento Emeric Belasco. Il Gigante Ruggente.»

Edith guardò, a bocca aperta, la figura.

Belasco era enorme, nerovestito, i tratti del volto marcati, pallido, con una barba nerissima. I denti, che un ghigno selvaggio scopriva, erano quelli di un carnivoro. Gli occhi verdi brillavano di una luce interiore. Edith non aveva mai visto una faccia tanto maligna, in vita sua. Nel freddo terrore che serpeggiava per tutte le sue membra, ella si chiese come mai non li ammazzava, cosa aspettava.

«Dimmi una cosa, Belasco» intimò Fischer.

Ed Edith non sapeva se sentirsi rassicurata o vieppiù intimorita a quel tono sprezzante di voce.

«Perché,» seguitò Fischer «perché non sei mai uscito all’aperto? Perché hai sempre fuggito la luce del sole? Non t’interessava oppure… oppure preferivi nasconderti nell’ombra?»

La figura avanzò verso di loro. Edith si trasse indietro. Invece, Fischer si spinse avanti.

«Tu cammini a fatica, Belasco» disse. «Ti costa un certo sforzo muoverti, non è vero?»

Quindi gridò, con ferocia: «Vero, Belasco?».

Edith apri la bocca.

Belasco si era fermato. I suoi tratti erano alterati dalla rabbia. Ma aveva tutta l’aria di essere una rabbia impotente.

«Guarda le tue labbra, Belasco» disse Fischer, avanzando ancora. «Sono contratte da uno spasimo. Guardati le mani. Una tensione spasmodica ti fa stringere i pugni. Perché mai, Belasco? Forse perché tu sei un volgare impostore?»

La sua risatina di scherno echeggiò nella cappella. «Il Gigante Ruggente!» gridò. «Tu? Un cavolo! Simulatore di mezza tacca ch’altro non sei! Buffone! Buffone!»

Edith tratteneva il fiato. Belasco si stava ritirando. Ella si sfregò gli occhi, con la mano che le tremava. Era proprio così!

Stava rimpicciolendo!

«Maligno?» disse Fischer. Avanzava su Belasco, con un’espressione di spietato rancore sul volto. «Tu? tu, piccolo buffone bastardo?»

Un grido di rabbiosa angoscia uscì dalle labbra della figura che si rattrappiva, nerovestita. Per un attimo, Fischer non reagì. Poi quel ghignetto tornò sulle sue labbra. «Oh no» disse. Si mise a scuotere la testa. «Oh, no. Non potevi essere basso a quel punto!»

Si fece ancora avanti. «Bastardo.» La figura si ritrasse ancor più. «Bastardo. È questo che ti duole? Oh, Belasco! Che uomo meschino, che buffone da poco, che eri in realtà! Che razza di buffo piccolo fantasma da quattro soldi! No, no, non eri un genio. Eri un pazzo, un pervertito, un verme, un vinto! E un bastardo di mezza tacca per soprammercato!»

Quindi gridò: «BELASCO! Tua madre era una puttana, una troia! E tu eri un bastardo, Emeric! Un buffo piccolo bastardo di merda! M’hai sentito, Emeric? Un bastardo, un bastardo, UN BASTARDO, UN BASTARDO!».

Edith si tappò le orecchie con le mani per non udire i gemiti sinistri che riempivano l’aria. Fischer si arrestò, barcollando, e la rabbia scomparve dal suo volto udendo quei lamenti.

Guardò la nebulosa figura dietro l’altare — che si rannicchiava, spaurita, vinta — e gli parve di udire la voce di Florence sussurrargli: Il perfetto amore caccia via la paura. E d’un tratto, nonostante tutto, provò un senso di pietà per la figura che gli stava di fronte.

«Che Dio ti aiuti, Belasco» disse.

La figura svanì. A lungo udirono echeggiare un urlo, come di qualcuno che precipita in un pozzo senza fondo, poi la cappella tornò silenziosa.

Fischer andò dietro l’altare e osservò il tratto di muro messo a nudo dalla tappezzerìa lacerata.

Sorrise. Anche quello Florence gli aveva mostrato. Se solo lui l’avesse capito!

Sporgendosi, diede una spinta alla parete. Questa si aprì con un sordo stridore.

Apparve una breve scala che scendeva. Egli si volse e porse la mano a Edith. Ella non disse nulla. Girando intorno all’altare, gli andò accanto e gli prese la mano.

Discesero quei gradini. C’era una pesante porta, al termine di essi. Fischer l’aprì con una spallata.

Ristettero sulla soglia. Ai loro sguardi apparve una figura mummificata seduta su una poltrona di legno.

«Non l’hanno mai trovato perché era qui» disse Fischer.

Entrarono in quella stanza piccola e mal illuminata. Benché sapesse che ormai tutto era finito, Edith si sentì agghiacciare il sangue alla vista degli occhi neri di Emeric Belasco che la fissavano da oltre la morte.

«Guardi.» Fischer raccolse un boccale.

«Che cos’è?»

«Non ne sono sicuro ma…» Passò un dito lungo l’orlo di quel boccale. Le impressioni gli vennero, nitide, subito. «Questo boccale, Belasco lo posò accanto a sé pieno d’acqua poi si lasciò morire di sete. E fu l’ultima dimostrazione della sua forza di volontà, che diede a se stesso. Da vivo, voglio dire.»

Edith distolse lo sguardo da quegli occhi. Guardò giù… si chinò in avanti. La stanza era così buia che non se n’era accorta prima. «Le gambe» disse.

Fischer non disse nulla. Depose il boccale e si inginocchiò davanti al cadavere di Belasco. Edith vide le sue mani muoversi nella penombra. Poi emise un’esclamazione di raccapriccio, quando Fischcr si rialzò in piedi tenendo una gamba in mano.

«Se il tuo occhio destro ti offende» disse. «Estremità. Capisce? Essa ci stava dando le risposte…» Passò una mano su quella gamba artificiale. «A tal punto gli dispiaceva d’essere basso di statura che si fece amputare le gambe e metter queste al loro posto, per apparire più alto. Ecco perché ha deciso di morire quaggiù. Cosi nessuno l’avrebbe mai saputo. Lui doveva essere il Gigante Ruggente o niente. Non aveva la statura di un gigante, e cercò di procurarsela. Ma non poteva rimediare al fatto di essere un bastardo.»

Girò lo sguardo intorno. Gettò via la gamba. Andò alla parete e ci appoggiò le mani. «Mio Dio» disse.

«Che c’è?»

«Forse era un genio, dopotutto.» Compì il giro della stanza, tastando tutte le pareti, esaminando il soffitto e il pavimento. «Risolto l’ultimo enigma» disse. «Non è che il suo potere fosse tanto grande da resistere al Reversore.» Il tono di Fischer era quasi di reverenza. «Dev’essere che lui sapeva già, oltre quarant’anni or sono, della connessione esistente fra radiazioni elettromagnetiche e vita d’oltretomba.»

Indicò con la mano: «Qui, le pareti, la porta, il soffitto sono tutti rivestiti di piombo».


ore 21.12


Scesero i gradini. Edith portava la sua valigia, Fischer quella di Barrett e la propria.

«Che effetto fa?» domandò lei.

«Che cosa?»

«Esser quello che ha vinto la Casa d’Inferno.»

«Non l’ho vinta io solo» lui rispose. «C’è voluta l’opera di tutti noi.»

Edith cercò di non sorridere. Lo sapeva che era così, ma voleva che fosse lui a dirlo.

«Gli sforzi di suo marito hanno indebolito l’energia di Belasco. Gli sforzi di Florence ci hanno condotti alla risposta definitiva. Io ho solo provveduto al tocco finale, ecco tutto. E questo non sarebbe stato possibile se lei non mi avesse salvato la vite, Edith.»

Di lì a poco soggiunse: «Doveva andare così, mi sa. La dottrina di suo marito è stata di grande aiuto, ma da sola non sarebbe bastata. La spiritualità di Florence è state anch’essa di grande aiuto, ma da sola non sarebbe bastata. Ci voleva un altro elemento, che ho fornito io: la decisione di affrontare Belasco sul suo stesso terreno, alle sue condizioni, per sconfiggerlo mediante le sue stesse debolezze».

Ridacchiò, ironico. «O sennò, diciamo che Belasco ha sconfitto se stesso. Anche questo è in parte vero. Dopo tutto, erano trent’anni che aspettava nuovi ospiti. E quindi può darsi benissimo che, essendo troppo ansioso di esercitare nuovamente i suoi poteri, si sia esposto troppo e abbia commesso i primi errori della sua esistenza, in questa casa.»

Arrivati alla porte d’ingresso, si fermarono. E stettero lì in silenzio. Edith pensava al suo ritorno a Nuova York e alla sua vite senza Lionel. Non riusciva a immaginarsela. Ma, per il momento, provava un grande senso di pace. Aveva con sé i resti del manoscritto. Avrebbe provveduto a farli pubblicare, a far conoscere alle persone del ramo quel che Barrett aveva compiuto. Dopo di che, avrebbe pensato a se stessa.

Fischer si guardò intorno. E si chiedeva che razza di vita lo aspettasse, adesso. Non che gliene importasse. Qualunque cosa ci fosse in serbo per lui, ora si sentiva il coraggio di affrontarla. Buffo che, proprio in quella casa, dove era cominciato per lui l’orrore, egli avesse poi ritrovato la sicurezza di sé.

Sorrise a Edith, quando i loro sguardi si incontrarono. «Florence non c’è più» disse tristemente. «È rimasta con noi solo il tempo necessario per aiutarci.»

Gettarono un’ultima occhiata in giro. Poi, senza dir altro, uscirono all’aperto e si inoltrarono nella nebbia. Fischer grugnì, borbottò qualcosa.

«Come dice?» chiese Edith.

«Buon Natale» ripeté lui, a bassa voce.


FINE
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