Gli alloggi che mi furono assegnati si trovavano nella parte più antica della Cittadella. Le stanze vuote erano rimaste chiuse tanto a lungo che il vecchio castellano ed il cameriere incaricato di mantenerle in ordine pensarono che le chiavi fossero andate perdute e si offrirono, con molte scuse e molta reticenza, di forzare le serrature per me. Non mi concessi il piacere di guardarli in faccia, ma li sentii trattenere il respiro quando pronunciai le semplici parole che controllavano la porta.
Fu affascinante, quella sera, vedere quanto fosse stata diversa dalla nostra la moda del periodo durante il quale erano state arredate quelle camere. Non vi erano sedie, nel senso in cui noi le conosciamo, e come sedili c’erano soltanto complessi cuscini. I tavoli mancavano di cassetti e di quella simmetria che noi siamo arrivati a considerare cosi essenziale. Inoltre, per i nostri criteri, c’erano troppe stoffe e troppo poco legno, cuoio, pietra ed osso. Trovai l’effetto complessivo al contempo scomodo e sibaritico.
Eppure, era impensabile che potessi occupare un alloggio diverso da quello anticamente predisposto per gli Autarchi; ed era anche impossibile che lo facessi riarredare in una certa misura, perché questo avrebbe sottinteso una critica nei confronti dei miei predecessori. E, se l’arredo era più piacevole alla mente che al corpo, che gioia fu scoprire gli altri tesori che quegli stessi predecessori si erano lasciati alle spalle: c’erano documenti relativi a questioni ormai completamente dimenticate e non sempre identificabili; congegni meccanici ingegnosi ed enigmatici; un microcosmo che si animava al contatto delle mie mani ed i cui minuscoli abitanti sembravano farsi più grandi e umani man mano che li guardavo; un laboratorio contenente il favoloso «tavolo di smeraldo» e molte altre cose, la più interessante delle quali era una mandragora sotto spirito.
Il recipiente in cui galleggiava non era più alto di sette spanne né più largo di tre; l’omuncolo racchiuso all’interno non superava le due spanne. Quando picchiai contro il vetro, esso girò gli occhietti simili a perline verso di me, occhi, all’aspetto, più ciechi di quelli del Maestro Palaemon. Non udii alcun suono quando le sue labbra si mossero, eppure compresi immediatamente le parole che si formavano… ed in un qualche modo inesplicabile sentiii che il pallido fluido in cui la mandragora galleggiava era la mia stessa urina tinta di sangue.
— Perché mi hai distratto, Autarca, dalla contemplazione del tuo mondo?
— È veramente mio? — chiesi. — Adesso so che ci sono sette continenti, e che solo una parte di uno di essi obbedisce alle frasi santificate.
— Tu sei l’erede. — L’essere avvizzito mi rispose e poi si girò, non saprei dire se per caso o volutamente, fino a non trovarsi più di fronte a me.
— E tu chi sei? — chiesi, picchiando ancora sul vetro.
— Un essere senza genitori, la cui vita è trascorsa immersa nel sangue.
— Come, io sono stato un essere così! Allora dovremmo diventare amici, tu ed io, come lo sono di solito due esseri con lo stesso passato.
— Stai scherzando.
— Per nulla. Provo una reale simpatia per te, e credo che siamo più simili di quanto tu supponga.
La piccola creatura tornò a girarsi fino a che la sua faccia arrivò a fissare la mia.
— Vorrei poterti credere, Autarca.
— Dico sul serio. Nessuno mi ha mai accusato di essere un uomo onesto, ed ho mentito a sufficienza quando pensavo che mi sarebbe stato utile, ma sono assolutamente sincero. Se posso fare qualcosa per te, dimmi di cosa si tratta.
— Rompi il vetro.
— Ma tu non moriresti? — chiesi, esitando.
— Non ho mai vissuto. Cesserei di pensare. Rompi il vetro.
— Ma tu vivi.
— Io non cresco, non mi muovo, non rispondo ad alcuno stimolo tranne che al pensiero, che non è considerato una reazione. Sono incapace di propagare la mia razza o qualsiasi altra. Rompi il vetro.
— Se davvero non sei vivo, mi piacerebbe trovare un qualche modo per portarti alla vita.
— Ecco a che serve la fratellanza. Quando eri imprigionata qui, Thecla, e quel ragazzo ti ha portato il coltello, perché non hai cercato allora di continuare a vivere?
Il sangue mi bruciò sulle guance, e sollevai il bastone d’ebano, ma non colpii.
— Vivo o morto, hai un’intelligenza penetrante. Thecla è la parte di me più propensa all’ira.
— Se tu avessi ereditato le sue ghiandole, insieme alle sue memorie, sarei riuscito nel mio intento.
— E sai anche questo. Come puoi conoscere tante cose, tu che sei cieco?
— Le azioni delle menti grezze provocano minuscole vibrazioni che agitano l’acqua di questa bottiglia. Io sento i tuoi pensieri.
— Noto che io sento i tuoi. Come può essere che solo io, e non altri, li sento?
Fissando ora direttamente la faccia contratta ed illuminata dall’ultimo raggio di sole che penetrava da un portello polveroso, non fui certo che le labbra si muovessero.
— Senti te stesso, come sempre. Non puoi sentire gli altri perché la tua mente strilla in continuazione, come un neonato che piange nella culla. Ah, vedo che te ne ricordi!
— Ricordo un tempo lontanissimo in cui avevo freddo e fame. Ero steso sulla schiena, circondato da pareti marroni, e sentivo il suono delle mie stesse grida. Sì, dovevo essere un neonato, non abbastanza grade da trascinarmi, credo. Sei molto intelligente: cosa sto pensando adesso?
— Che io non sono altro che un’inconscia manifestazione del tuo potere, come lo era l’Artiglio. È vero, naturalmente. Io ero deforme, e sono morto prima di nascere, e sono stato conservato qui, da allora, immerso in un brandy bianco. Rompi il vetro.
— Ti vorrei prima interrogare.
— Fratello, alla tua porta c’è un vecchio che ha una lettera per te.
Ascoltai. Era strano, dopo aver udito soltanto le sue parole nella mia mente, sentire nuovamente i rumori reali… il richiamo dei sonnacchiosi merli fra le torri ed il bussare alla porta.
Il messaggero era il vecchio Rudesin, colui che mi aveva guidato alla stanza nascosta nel quadro, nella Casa Assoluta. Gli dissi di entrare (con sorpresa, credo, delle sentinelle) perché gli volevo parlare e sapevo che con lui non avevo bisogno di ammantarmi della mia dignità.
— Non sono mai stato qui in tutta la mia vita — esordì. — In che cosa ti posso aiutare, Autarca?
— Siamo già serviti, semplicemente dal fatto di vederti. Sai chi noi siamo, vero? Ci hai riconosciuti, quindi ci hai incontrati in precedenza.
— Se non conoscessi il tuo volto, Autarca, lo avrei già conosciuto una dozzina di volte, a questo punto. Mi è stato descritto spesso. Qui nessuno parla d’altro, sembra. Di come tu sei stato allevato proprio qui, di come ti hanno visto, una volta o l’altra, dell’aspetto che avevi e di quello che hai detto. Non c’è un cuoco che non ti abbia preparato un dolce. Tutti i soldati raccontano storie su di te. È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho incontrato una donna che non sosteneva di averti baciato e di averti ricucito uno strappo ai pantaloni. Avevi un cane…
— Questo è vero — convenni. — Lo avevamo.
— Ed un gatto ed un uccello ed un coti che rubava mele. E tu ti arrampicavi su ogni muro di questo posto e poi saltavi giù o ti calavi con una corda, oppure ti nascondevi e facevi finta di aver saltato. Tu sei ogni ragazzo che sia mai stato qui, ed ho sentito attribuire a te storie che riguardano persone che erano già vecchie quando io ero solo un ragazzo, e ti hanno anche attribuito cose che io stesso ho fatto settant’anni fa.
— Abbiamo già appreso che il volto dell’Autarca è celato dietro la maschera che il popolo intreccia per lui. Indubbiamente, è una buona cosa: non puoi diventare troppo orgoglioso, quando ti rendi conto di quanto sei diverso in realtà dall’entità di fronte a cui la gente s’inchina. Ma noi vogliamo sapere di te. Il vecchio Autarca ci ha raccontato che tu eri la sua sentinella nella Casa Assoluta, ed ora sappiamo che sei un servitore di Padre Inire.
— Lo sono — confermò il vecchio. — Ho quest’onore, ed è una lettera ciò che ti porto. — Protese una piccola busta alquanto stropicciata.
— E noi siamo il padrone di Padre Inire.
— Lo so, Autarca — rispose con un inchino campagnolo.
— Allora noi ti ordiniamo di sederti e di riposarti: abbiamo alcune domande da porti, e non vogliamo tenere in piedi un uomo della tua età. Quando eravamo quel ragazzo di cui hai detto che tutti stanno parlando, o, almeno, quando eravamo poco più vecchi, tu ci hai indirizzati alla biblioteca del Maestro Ultan. Perché lo hai fatto?
— Non perché sapessi qualcosa che gli altri non conoscevano, e neppure perché me lo aveva ordinato il mio signore, se è questo quello che stai pensando. Non vuoi leggere la sua lettera?
— Fra un momento. Dopo aver avuto un’onesta risposta, in poche parole.
Il vecchio chinò il capo e si tirò la barba. Potevo vedere la pelle secca del suo volto sollevarsi in piccoli coni dalle pareti cave man mano che cercava di seguirne i diversi fili.
— Autarca, tu credi che allora io abbia intuito qualcosa. Forse alcuni lo fecero, forse il mio signore, non lo so. — I suoi occhi reumatici rotolarono sotto le sopracciglia per fissarmi, poi si riabbassarono. — Tu eri cosi giovane, sembravi un ragazzo molto dabbene, perciò ho voluto che vedessi.
— Che vedessi cosa?
— Io sono un vecchio. Ero un vecchio allora e sono un vecchio anche ora. Tu sei cresciuto da allora, lo vedo nel tuo volto. Io sono ben poco più vecchio, perché il tempo non è nulla per me. Se si contasse tutto il tempo che ho impiegato andando su e giù per la mia scala, esso sarebbe più lungo. Io volevo che vedessi che ci sono state molte cose prima di te, che ci sono stati migliaia e migliaia di uomini che hanno vissuto e sono morti prima ancora che tu venissi anche solo concepito, alcuni migliori di te. Voglio dire, Autarca, come eri allora. Potresti pensare che chiunque nasca qui nella Cittadella cresca sapendo tutto questo, ma ho scoperto che non è così. Essendo qui in giro tutto il tempo, essi non lo vedono, ma l’andare giù da Maestro Ultan aiuta i più intelligenti a comprendere.
— Tu sei l’avvocato dei morti.
— Lo sono — annuì il vecchio. — La gente parla dell’essere giusti con questo o con quell’altro, ma nessuno parla di essere giusti con loro. Prendiamo tutto quello che avevano, il che va bene. E sputiamo, di frequente, sulle loro opinioni, il che, suppongo, va anche bene. Ma dovremmo ricordare, di tanto in tanto, quanto di quel che abbiamo viene da loro. Immagino che, finché sono ancora qui, dovrei spendere una parola per loro. Ed ora, se non ti dispiace, Autarca, mi limiterei a deporre la lettera qui su questo buffo tavolo…
— Rudesind…
— Sì, Autarca?
— Stai andando a pulire i tuoi quadri?
— Questo è uno dei motivi per cui sono impaziente di andare — replicò, annuendo ancora. — Sono rimasto alla Casa Assoluta fino a quando il mio signore… — si arrestò e deglutì, come gli uomini sono soliti fare quando sentono di aver forse parlato troppo — … se n’è andato a nord. Ho un Fechin da pulire e sono in ritardo.
— Rudesind, noi conosciamo già le risposte alle domande che tu credi noi siamo sul punto di farti. Sappiamo che il tuo signore è ciò che il popolo chiama un cacogeno e che, per chissà quale ragione, è uno dei pochi che hanno deciso di unire completamente il loro destino a quello dell’umanità, rimanendo su Urth come un essere umano. La Cumana è un altro di questi esseri, anche se tu forse lo ignoravi. Sappiamo perfino che il tuo signore era con noi nelle giungle del nord, dove ha cercato, fino a che non è stato troppo tardi, di salvare il mio predecessore. Vogliamo soltanto dirti che, se un altro giovane con un incarico da svolgere passerà ancora vicino alla tua scala, tu lo dovrai mandare dal Maestro Ultan. Questo è un ordine.
Quando se ne fu andato, strappai l’involucro della lettera. Il foglio all’interno non era grande, ma era coperto da righe sottili, come se uno sciame di ragnetti fosse stato schiacciato sulla sua superficie.
Il suo servitore Inire saluta lo sposo di Urth, il Maestro di Nessus e della Casa Assoluta, il Capo della Sua Razza, l’Oro del suo Popolo, il Messaggero dell’Aurora, di Helios, di Hyperion, di Surya e di Savitar, e nostro Autarca.
Mi sto affrettando e ti raggiungerò fra due giorni.
È passato più di un giorno prima che apprendessi cosa era accaduto. Molte delle mie informazioni sono giunte tramite quella donna, Agia, la quale, almeno stando al suo racconto, è stata lo strumento della tua liberazione. Mi ha anche raccontato qualcosa dei tuoi passati rapporti con lei, perché io posseggo, come tu sai, mezzi adeguati per ottenere le informazioni necessarie.
Avrai appreso da lei che l’Esultante Vodalus è morto per sua mano. La sua amante, la Castellana Thea, ha dapprima tentato di ottenere il controllo di quei mirmidoni che lo circondavano al momento della morte; ma, dato che non è assolutamente adatta a guidarli, ed ancor meno a tenere sotto controllo gli uomini nel sud, ho fatto in modo di mettere questa donna, Agia, al suo posto. Considerata la tua passata clemenza nei suoi confronti, sono certo di incontrare la tua approvazione. È certamente desiderabile mantenere operante un movimento che si è dimostrato tanto utile in passato, e, fintanto che gli specchi di Hethor rimarranno interi, ella fornirà a quel movimento un apprezzabile comandante.
Tu forse considererai la nave che ho mandato in aiuto del mio signore, l’autarca dei suoi giorni, inadeguata… come del resto la considero io… ma era la migliore che sono riuscito ad ottenere, ed ho avuto difficoltà a procurarla. Io stesso sono stato costretto a spostarmi a sud in altro modo e molto più lentamente; potrebbe venire presto il momento in cui i mei cugini decideranno di schierarsi non soltanto con la razza umana, ma con noi…; per ora persistono nel considerare Urth uno dei meno significativi fra i molti mondi colonizzati, e ci pongono sullo stesso piano degli Asciani, e, se è per questo, anche degli Xantodermi e di molti altri.
Tu forse avrai già ottenuto notizie più fresche e precise delle mie.
Nel caso che così non fosse: la guerra va bene e male. Nessuna punta del loro schieramento è penetrata in profondità, e soprattutto la punta meridionale ha subito tali perdite che la si potrebbe correttamente definire distrutta. So che la morte di così tanti miserabili schiavi di Erebus non ti darà alcuna gioia, ma almeno le nostre armate avranno un po’ di respiro.
E ne hanno terribilmente bisogno. Fra i Paraliani c’è un inizio di sedizione che deve essere sradicato. I Tarentini, i tuoi Antrustioni e le legioni della città… i tre gruppi che hanno sopportato l’impatto dell’assalto… hanno sofferto quasi altrettanto duramente quanto il nemico. Fra di loro ci sono coorti che non possono annoverare cento soldati validi.
Non c’è bisogno che ti dica che dovremmo ottenere un maggior numero di piccole armi, ed in particolare di artiglieria, se i miei cugini potranno essere persuasi a cederle ad un prezzo che siamo in grado di pagare. Nel frattempo, bisogna fare tutto il possibile per arruolare truppe fresche, in tempo perché le reclute siano addestrate entro la primavera. Ciò che serve attualmente sono unità leggere in grado di affrontare gli scontri senza sparpagliarsi; ma se gli Asciani si apriranno un varco l’anno prossimo, allora ci serviranno piquenari e pilani a centinaia di migliaia, e potrebbe convenire arruolare fin da ora almeno una parte di loro.
Qualsiasi altra notizia tu abbia sulle incursioni di Abaia, sarà più recente delle mie, dato che non ne ho ricevuta alcuna da quando ho lasciato le nostre linee. Hormisdas è andato a sud, credo, ma Olaguer dovrebbe essere in grado d’informarti.
Affrettatamente e con rispetto,