XXXVI ORO FALSO E FUOCHI ACCESI

Non mi rimane altro da dire. Sapevo che avrei dovuto lasciare la città fra pochi giorni, per cui dovevo spicciarmi a fare tutto ciò che occorreva. Nella corporazione non avevo altri amici su cui poter contare, tranne il Maestro Palaemon, ed egli mi sarebbe stato di ben poca utilità per ciò che avevo in mente. Convocai Roche, sapendo che non era in grado d’ingannarmi per lungo tempo, se mi stava faccia a faccia (mi aspettavo di vedere un uomo più vecchio di me, ma l’artigiano dai capelli rossi che si presentò al mio cospetto era poco più di un ragazzo; quando se ne fu andato, studiai il mio viso allo specchio, cosa che non avevo fatto prima).

Roche mi disse che sia lui che parecchi altri, che erano stati miei amici più o meno intimi, avevano votato contro la mia condanna a morte quando la volontà della maggioranza della corporazione era quella di uccidermi, ed io gli credetti. Ammise anche liberamente di aver proposto che venissi storpiato ed espulso, anche se aggiunse di averlo fatto perché sperava in questo modo di salvarmi la vita. Credo si aspettasse di essere punito in qualche modo… le sue guance e la fronte, normalmente così rossicce, erano abbastanza bianche da far spiccare le lentiggini come macchie di pittura. La sua voce era ferma, però, ed egli non affermò nulla che servisse a giustificarlo ed a gettare la colpa sugli altri.

Il fatto era, naturalmente, che intendevo punirlo, insieme al resto della corporazione. Non perché portassi rancore verso di lui o uno qualsiasi degli altri, ma perché sentivo che essere rinchiusi per qualche tempo sotto quella torre avrebbe destato in loro una certa sensibilità verso quel principio di giustizia di cui aveva parlato il Maestro Palaemon, e perché sarebbe stato il modo migliore per assicurarmi che l’ordine proibente la tortura, che intendevo emanare, venisse rispettato.

Comunque, non dissi nulla a proposito di Roche e gli chiesi soltanto di portarmi quella sera un abito da artigiano e di tenersi pronto insieme a Drotte e ad Eata ad aiutarmi, il mattino successivo.

Roche tornò con gli abiti subito dopo il vespro. Fu un piacere incredibile togliermi il rigido costume che indossavo e rivestire il manto di fuliggine. Di notte, il suo oscuro abbraccio è la cosa che più si avvicina all’invisibilità che io conosca, e, dopo essere scivolato fuori dalle mie stanze mediante una delle uscite segrete, mi spostai da una torre all’altra come un’ombra, fino a raggiungere la sezione caduta del muro di cinta.

Era stata una giornata calda, ma la notte era fresca e la necropoli era piena di nebbia, proprio come quando ero uscito da dietro il monumento per salvare Vodalus. Il mausoleo nel quale avevo giocato da ragazzo sorgeva come lo avevo lasciato, la porta incastrata chiusa per tre quarti.

Mi ero portato una candela, e l’accesi, una volta all’interno. Gli ottoni funebri che un tempo avevo tenuto lucidi erano nuovamente verdi, e foglie cadute e schiacciate erano sparse dappertutto. Un albero aveva infilato uno snello ramo attraverso la piccola finestra sbarrata.

Resta dove ti metto,

non farti vedere da nessuno,

diventa trasparente come vetro,

ma non per me.

Resta qui ben protetto,

ed inganna la mano di ciascuno

finché tornerò indietro

e ti vedrò.

La pietra era più piccola e leggera di come la ricordassi. La moneta sotto di essa era diventata opaca per l’umidità, ma era ancora là, ed un momento più tardi la tenevo nuovamente in mano, ricordando il ragazzo che ero stato, per poi tornare, scosso, verso il muro rotto, nella nebbia.

Adesso devo chiedere a te, a te che hai perdonato così tante deviazioni e digressioni da parte mia, di perdonarmene ancora una. È l’ultima.

Pochi giorni fa (il che significa parecchio tempo dopo gli eventi che mi sono prefisso di narrare), mi era stato riferito che un vagabondo si era presentato alla Casa Assoluta sostenendo di dovermi una somma di denaro e rifiutandosi di pagarla a chiunque altro. Sospettando che si trattasse di qualche vecchia conoscenza, avevo ordinato al ciambellano di condurlo a me.

Era il Dr. Talos. Sembrava essere ben provvisto di fondi, e, per l’occasione, aveva indossato un mantello di velluto rosso ed una chechia dello stesso materiale. La sua faccia era sempre quella di una volpe impagliata, ma mi parve che talvolta un accenno di vitalità vi facesse capolino, come se qualcosa o qualcuno sbirciasse attraverso gli occhi di vetro.

— Hai migliorato te stesso — osservò, facendo un inchino tanto profondo che la nappa del suo cappello sfiorò il pavimento. — Ricorderai che ho invariabilmente affermato che ci saresti riuscito. Onestà, integrità ed intelligenza non possono essere tenute a freno.

— Entrambi sappiamo che non c’è nulla che si tenga a freno più facilmente — replicai. — La mia antica corporazione lo ha fatto ogni giorno. Ma ho piacere di rivederti, anche se vieni come emissario del tuo signore.

Per un momento, il volto del dottore divenne vacuo.

— Oh, Baldanders, vuoi dire. No, mi ha congedato, temo. Dopo la lotta. Dopo che si è tuffato nel lago.

— Allora credi che sia sopravvissuto.

— Oh, ne sono assolutamente certo. Tu non lo conoscevi quanto me, Severian. Respirare l’acqua non sarebbe stato nulla per lui. Nulla! Aveva una mente meravigliosa, era un genio supremo di un tipo unico: tutto rivolto interiormente. Combinava l’oggettività dello studioso con l’assorbimento in se stesso del mistico.

— Con il che intendi dire che eseguiva esperimenti su se stesso.

— Oh, no, niente affatto! Ha invertito la cosa! Altri esperimentano su se stessi in modo da poter ricavare una regola da applicare al mondo. Baldanders sperimentava sul mondo, ed utilizzava i risultati, se ci si può esprimere così bruscamente, sulla sua persona. Dicono… — Si guardò nervosamente intorno per essere certo che io solo lo sentissi — … dicono che io sono un mostro, e lo sono. Ma Baldanders era un mostro più di quanto lo sia io. In un certo senso, era mio padre, ma si era costruito da solo. È la legge della natura, e di ciò che c’è di più elevato nella natura, che ogni creatura debba avere un suo creatore. Ma Baldanders era la creazione di se stesso; si era eretto dietro se stesso ed aveva tagliato via la linea che collega il resto di noi all’Increato. Tuttavia, sto deviando dall’argomento. — Il dottore portava alla vita un portafoglio di cuoio scarlatto, e ne allentò ora le cinghie, cominciando a frugare all’interno. Sentii un tintinnio di metallo.

— Adesso porti con te il denaro? — chiesi. — Non eri solito dare tutto a lui?

— Tu non faresti lo stesso nella mia attuale posizione? — rispose, con voce tanto fievole che lo udii appena. — Adesso lascio le monete, piccole pile di aes e di oricalchi, vicino all’acqua. — Quindi, a voce più alta, soggiunse: — Non danneggia nessuno e mi ricorda i grandi giorni. Ma io sono onesto, vedi! Lui lo pretendeva sempre da me. Ed anche lui era onesto, a modo suo. Comunque, ti ricordi il mattino che abbiamo oltrepassato le mura? Stavo distribuendo gli incassi della notte precedente e siamo stati interrotti. Era rimasta una moneta, e spettava a te. L’ho conservata, con l’intenzione di rendertela in seguito, ma me ne sono scordato, e poi, quando sei venuto al castello… — Mi lanciò un’occhiata di tralice. — Ma l’onesto commercio è ripagato, come si suol dire, ed io ho qui la moneta.

Essa era esattamente uguale a quella che avevo preso da sotto la pietra.

— Adesso capisci perché non l’ho potuta consegnare al tuo uomo? Mi avrà certo ritenuto matto.

Feci volare in aria la moneta e la ripresi: al tatto, sembrava leggermente unta.

— A dire il vero, Dottore, noi non comprendiamo.

— Perché è falsa, naturalmente. Te lo dissi, quella mattina. Come avrei potuto dire che ero venuto a pagare l’Autarca e poi consegnare una moneta falsa? Hanno una terribile paura di te, e mi avrebbero sventrato, alla ricerca di una moneta buona! È vero che possiedi un esplosivo che ci mette giorni interi a scoppiare, per cui puoi fare la gente a pezzi lentamente?

Stavo guardando le due monete: avevano il medesimo splendore ottonato e sembravano essere state coniate lo stesso giorno.


Come ho detto, però, quel breve colloquio ebbe luogo parecchio tempo dopo la giusta conclusione della mia narrazione. Rientrai nelle mie camere, nella Torre della Bandiera, per la strada da cui ne ero uscito, e, una volta rientrato, mi tolsi il mantello grondante e lo appesi. Il Maestro Gurloes era solito affermare che il non indossare una camicia era la cosa più dura della corporazione. Anche se lo diceva in senso ironico, sotto un certo punto di vista era vero. Io, che avevo attraversato le montagne a petto nudo, ero stato abbastanza ammorbidito dai pochi giorni trascorsi indossando i soffocanti abiti da autarca da rabbrividire in una brumosa sera autunnale.

C’erano focolari in tutte le mie stanze, e ciascuno di essi era pieno di legna così vecchia e secca che sospettai sarebbe andata in briciole se l’avessi sbattuta contro un muro. Non avevo mai acceso nessuno di quei fuochi, ma decisi di farlo adesso per riscaldarmi, e per stendere gli abiti prestatimi da Roche su una sedia ad asciugare. Peraltro, quando cercai la mia attrezzatura per accendere il fuoco, scoprii che, nella mia eccitazione, l’avevo lasciata nel mausoleo insieme alla candela. Pensando vagamente che l’autarca che aveva occupato quelle stanze prima di me (un governatore esistito al di là dei limiti della mia memoria) doveva certo aver avuto un mezzo per accendere i numerosi fuochi a portata di mano, cominciai a frugare nei cassetti degli armadi.

Essi erano pieni zeppi di documenti, gli stessi che mi avevano tanto affascinato in precedenza; però, invece di soffermarmi a leggerli, come avevo fatto durante la mia prima ispezione delle stanze, li tolsi da ciascun cassetto per vedere se non c’era sotto di essi un acciarino o qualcosa del genere.

Non ne trovai; invece, nel cassetto più grande dell’armadio più grande, nascosta sotto una custodia per penne in filigrana, scoprii una piccola pistola.

Avevo già visto armi del genere… la prima volta quando Vodalus mi aveva dato la moneta falsa che avevo appena recuperato. Tuttavia, non ne avevo mai tenuta una in mano, e scoprii adesso che era molto diverso dal vederle in pugno agli altri. Un giorno, mentre Dorcas ed io ci stavamo dirigendo a nord verso Thrax, ci eravamo uniti ad una carovana di commercianti e di stagnini. Avevamo ancora la maggior parte del denaro datoci dal Dr. Talos e che questi aveva diviso quando lo avevamo incontrato nella foresta a Nord della Casa Assoluta, ma eravamo incerti di quanto ci avrebbe permesso di arrivare lontano e di quanta strada avevamo ancora da percorrere, e quindi avevo cercato di arrotondare il gruzzolo con la mia arte, chiedendo in ogni villaggio e piccola città se ci fosse qualche malfattore che andasse mutilato o decapitato. I Vagabondi ci considerarono due dei loro, e, anche se alcuni di essi ci attribuirono una condizione più o meno elevata per il fatto che lavoravo esclusivamente per le autorità, altri affermarono di disprezzarci, in quanto strumenti della tirannia.

Una sera, un arrotino che si era dimostrato più cordiale degli altri e che ci aveva fatto una serie di piccoli favori, si offrì di arrotare Terminus Est per me. Gli spiegai che la mantenevo sempre affilata e lo invitai a provarne il filo con il pollice. Dopo che si fu tagliato leggermente, come sapevo che sarebbe accaduto, l’uomo manifestò una notevole ammirazione per la mia spada, non solo per la lama, ma anche per il morbido fodero, l’impugnatura e così via. Dopo aver risposto ad innumerevoli domande sulla storia della fabbricazione della spada, e sul suo modo d’uso, l’arrotino mi chiese se gli avrei permesso di tenerla in mano. Lo misi in guardia contro il peso ed il pericolo di far sbattere la punta delicata contro qualcosa che l’avrebbe potuta danneggiare, quindi gliela porsi. Sorrise ed afferrò l’elsa come io gli avevo insegnato, ma, quando cominciò a sollevare quel sottile e lucente strumento di morte, il suo volto impallidì e le braccia cominciarono a tremargli tanto che gli tolsi di mano la spada prima che la lasciasse cadere. In seguito, tutto quello che fece fu di continuare a ripetere ho spesso affilato le spade dei soldati, più e più volte.

Adesso compresi come lui si era sentito: deposi la pistola sul tavolo tanto rapidamente che quasi mi sfuggì di mano e le girai intorno più volte come se fosse un serpente pronto a colpire.

Era più corta della mia mano, e lavorata tanto bene che avrebbe potuto rappresentare un articolo di gioielleria; eppure, ogni linea della sua sagoma tradiva un’origine al di là delle stelle. Il suo argento non si era ingiallito col tempo ma sembrava ancora fresco di lavorazione. Era coperta di decorazioni che costituivano forse un tipo di scrittura… non avrei saputo dire di quale delle due cose si trattasse, e, per occhi come i miei, abituati a disegni fatti di linee diritte e di curve, esse apparivano spesso nulla più che complessi o lucenti riflessi, salvo per il fatto che erano riflessi di qualcosa che non era presente. L’impugnatura era ricoperta di pietre nere di cui non conoscevo il nome, gemme simili alla tormalina ma più lucenti. Dopo qualche tempo, notai che una di esse, la più piccola di tutte, sembrava svanire a meno che non la fissassi direttamente, quando brillava di uno splendore a quattro raggi di luce. Esaminandola più da vicino, scoprii che non era affatto una gemma, bensì una lente in miniatura attraverso cui brillava un qualche fuoco interno.

Per quanto possa sembrare illogico, quella conoscenza mi rassicurò. Un’arma può essere pericolosa verso chi la usa, in due modi diversi: ferendolo per sbaglio oppure facendo cilecca al bisogno. Rimaneva il primo pericolo, ma, quando vidi il brillio dietro quel punto di luce, compresi che la seconda ipotesi poteva essere esclusa.

Sotto la canna c’era un pulsante che scivolava e che sembrava controllare l’intensità della carica. Il mio primo pensiero fu che chiunque l’aveva usata l’ultima volta doveva averla regolata sulla massima intensità e che quindi, invertendo la gradazione, l’avrei potuta sperimentare con una certa sicurezza, ma non era così… il pulsante era collocato a metà della sua scala. Alla fine, basandomi su un’analogia con la corda di un arco, decisi che la pistola sarebbe stata probabilmente meno pericolosa quando il pulsante si fosse trovato il più avanti possibile. Lo collocai là, puntai l’arma verso il caminetto e tirai il grilletto.

Il suono di uno sparo è il più orribile che ci sia al mondo, è l’urlo della materia stessa. Adesso lo scoppio non era forte, ma minaccioso e distante come un tuono. Per un istante… una frazione di tempo tanto breve che quasi credetti di aver sognato, uno stretto cono viola lampeggiò fra la bocca della pistola ed il mucchio di legna, poi scomparve, la legna prese fuoco e pezzi di metallo bruciato e contorto si staccarono con un rumore di campane fesse dal dietro del camino. Un rivolo d’argento scese nel focolare a bruciare la stuoia sottostante con una puzza nauseante.

Deposi la pistola nella giberna del mio nuovo abito da apprendista.

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