QUAAAATTRO!

Cole serrò le dita sulla sbarra di metallo e aspettò che l’uomo con la torcia e la pistola, che avanzava verso di loro a testa bassa, gli fosse sopra nei confini tenebrosi del cassone. Il viso dello sconosciuto, illuminato dal basso, ricordava una scultura mostruosa: e allora Cole diede uno strappo alla sbarra, facendo ricorso a tutto il suo peso. E urlò quando la sua mano si rifiutò di seguirlo, e perse l’equilibrio e cadde sulla schiena, dolorante. La sbarra era inchiodata al pavimento; era la maniglia della calotta di protezione dell’albero di trasmissione.

Cole pensò che non c’era proprio niente di buffo; allora, perché diavolo il vigilante si era messo a ridere?

Il braccio destro gli doleva paurosamente; forse gli era andato fuori posto qualche osso della spalla. Se avesse avuto una bocca, il braccio avrebbe urlato quando il vigilante lo piegò per costringere Cole a coricarsi sullo stomaco. Poi gli serrò i polsi con un paio di manette.

Con la coda dell’occhio, Cole vide Catz scattare. Ci fu un bang, un tonfo metallico; le figure avvinghiate sul pavimento bestemmiarono.

A viso in giù, Cole poteva soltanto ascoltare e tentare di strisciare via. Fiutò il puzzo della benzina, della gomma dei pneumatici, del sudore del vigilante. Sentì in bocca il sapore acido del proprio terrore. Il raggio di luce danzò follemente nello spazio ristretto, poi si spense.

Catz uggiolò. Il vigilante grugnì, trionfante.

“Forse, se resto qui e non mi muovo più, si dimenticheranno di me” pensò Cole.

La torcia si riaccese, e poco dopo un secondo raggio di luce si unì al primo. Un altro uomo (o una donna molto grossa? La voce era acuta) era immobile dietro il camioncino, con la torcia in mano, e diceva: — Stupido, dovevi farli uscire uno dopo l’altro, non salire tu. Potevano romperti la testa.

“E gliel’avrei rotta di sicuro, se quella sbarra non mi avesse fregato” pensò Cole.

— Chiudi il becco — mugugnò il vigilante vicino a Cole. Respirava affannosamente, e il suo volto era quello di un feto gigantesco, sotto il nylon: approssimativo, incompleto. L’uomo stava trascinando via qualcosa.

Trascinava via Catz. “Come se fosse un sacco della spazzatura” pensò Cole, e le lacrime gli bruciarono gli occhi.

Senza riflettere, spinto da una furia improvvisa, rotolò sulla schiena e tirò un calcio al vigilante. Lo colpì alla gamba.

— Merda! — urlò l’uomo, vacillando all’indietro.

Poi altre persone salirono sul camioncino. Cole venne sollevato, trasportato fuori, nell’aria della sera, per il colletto e le caviglie. Gli venne la nausea. — Città… — mormorò debolmente, mentre gli sconosciuti lo trasportavano lungo un sentiero, oltre una porta.

— Cos’ha detto? — chiese qualcuno alle sue spalle.

— Credo che abbia detto “pietà” — rispose qualcun altro, aggiungendo: — Tsk tsk tsk. — Cole e Catz si trovarono in una casa. Lasciarono cadere Catz su un divano nero.

“Città!” Ma forse lì l’influenza di Città poteva essere meno forte; dopo tutto, erano a Oakland, dall’altra parte della baia, a sud di San Francisco. Erano lontani dal cuore di Città, e forse lontani dalla sua forza. Però il viaggio non era stato lungo, l’Auditorium doveva essere abbastanza vicino. E all’Auditorium, Città li aveva aiutati.

Lasciarono cadere Cole per terra, sulla pancia. L’impatto gli svuotò i polmoni. Boccheggiò. Tossì, respirò furiosamente, riprese fiato, anche se fu costretto a ingoiare una boccata di polvere dal tappeto verde.

Una serie di stivali gli sfilò davanti al naso. Ci furono brevi scoppi di risa, ed esplosioni di rabbia più lunghe. — Sta’ lontano dalla finestra, maledetto idiota! — e: — Ehi, va’ a farti fottere, ai nostri vicini non gliene importa un… — e: — Sì, però c’è una fetente macchina della polizia che fa servizio di pattuglia qui, e quei ragazzi non… — e: — Chiudete il becco tutti quanti!

Catz era stesa sul divano alla destra di Cole. Lentamente, col braccio che urlava, lui si girò sul fianco sinistro finché non riuscì a vedere il divano. Era un vecchio divano di vinile, pieno di bruciature di sigaretta. Dalla sua posizione sul pavimento, Cole riusciva a intravedere solo il braccio destro di Catz, inerte, e la curva dei suoi fianchi. Gli venne in mente, per la prima volta, che poteva anche essere già morta.

“Potrebbe essere già morta.”

— Senti, dobbiamo tenere su queste calze per tutta la notte o cosa? — chiese qualcuno.

Una voce di donna rispose: — Logico, idiota. Dobbiamo tenerle finché non ci saremo liberati di questi due. Forse potremmo bendarli.

— Aspettiamo di sentire cosa vuole Salmon.

Chi l’ha detto? — domandò la donna.

— Ehi, uh, merda, tanto di qui non usciranno vivi, potrebbero anche vederci in faccia. Inutile che stiamo attenti a quello che diciamo quando…

— Senti, stronzo, qui potrebbe succedere di tutto. A ogni modo, forse vorrà tenerli in ostaggio, il che significa che prima o poi potrebbe doverli liberare. E poi questi due…

— Ma adesso che quest’imbecille ha fatto il nome di Sa…

— Ehi, che razza di storia idiota vorresti farmi bere? Non ci credo a queste fesserie. Dovremmo…

— Ehi, è una di quelle ragazzine punk!

— Ehi, ha una tetta fuori!

Cole era nauseato.

— Ehi, non possiamo portarcela in camera da letto per qualche mi…

Cole stava malissimo.

— State a sentire, sono tre settimane che Salmon non mette nemmeno un centesimo sul mio fottuto conto, e finché non mi paga io…

Cole starnutì, sollevò una nube di polvere.

— Ehi, l’abbiamo trovato al telefono. Ha saputo della merda che è successa all’Auditorium, ma non ha idea di come sia andata la faccenda degli ologrammi… Dice di scoprire tutto quello che possiamo su questi due e poi portarli a dare un’occhiata ad Alcatraz dal punto di vista dei pesci. — Risate. — Dice di tenere le calze, per adesso. — Grugniti. Qualcuno afferrò Cole per le manette, lo tirò in piedi di colpo. Lui dovette mordersi la lingua per impedirsi di urlare quando le manette gli affondarono nei polsi e il braccio ferito ricevette un altro strattone. Stordito, traballante, si guardò attorno. Una casa con pochi mobili, nuova ma squallida. E una trentina di loro, in piedi sulle soglie, seduti a un tavolo di legno nel cucinotto, appoggiati alle pareti prive di decorazioni. Due vigilantes gli stavano davanti, in attesa di un segnale, leggermente protesi verso di lui, i muscoli contratti. Tutti portavano calze di nylon, con macchie scure di vapore attorno alla bocca. E tutti avevano i lineamenti stravolti dalle calze, come se tenessero i visi premuti contro i vetri di finestre invisibili.

Accanto a lui, sul divano, giaceva Catz, il braccio che ciondolava, senza manette. Qualcuno le aveva tolto la maschera di plastica. Respirava regolarmente, e il pugno che serrava il cuore di Cole diminuì la stretta. “È viva.”

Mentre lui la guardava, gli occhi della ragazza si aprirono. Ma Catz restò immobile, si finse ancora svenuta.

Cole alzò lo sguardo sull’uomo davanti a lui…

— Okay — disse la donna.

Certo, i primi pugni fecero molto male. I primi cinque o sei. Ripensandoci in seguito, non riuscì mai a esserne sicuro, ma probabilmente pianse e cercò di fuggire. Qualcuno lo teneva fermo da dietro. Dopo ogni pugno, gli fecero una domanda. Sulla sua tempia destra si abbatté un thump, si trasformò in un ruggito incandescente che echeggiò all’infinito nella sua testa. — Nel portafogli c’è scritto Stu Cole, e uno dei ragazzi conosce il tuo club. E sappiamo che non ti piace quello che stiamo cercando di fare. Allora, com’è che ci hai fregati a quel concerto? — (Cole non rispose.)

Sulla sua guancia sinistra, un crunch che diffuse in tutto il suo corpo una ragnatela di dolore. Gli parve di essere fatto di vetro. — Cosa c’entri tu con quegli ologrammi e con quei fottuti angosciari che ci sono saltati addosso? — (Cole non rispose.)

Sulla sua bocca, un whump osceno e la sensazione del sangue che zampillava dalle labbra squarciate, che gli scendeva sulla camicia. — Perché sei saltato sul camioncino? Volevi scoprire dove ci riuniamo?

— No — farfugliò Cole, sputando sangue. In bocca aveva il sapore di una spiaggia inquinata dal petrolio quando la marea è bassa. — Ho sbagliato camioncino. Cercavo quello di un amico. Il panico. — “Questa non la berranno mai” pensò.

Di nuovo thunk sulla bocca, il rumore di un dente che si spezzava, la testa che gli rimbombava. — E vorresti che credessimo a merdate del genere? Non funziona. Avanti, fesso. Perché sei saltato sul camioncino?

Cole non rispose.

Thud-thud al suo plesso solare, due volte di seguito. I polmoni gli si svuotarono completamente. Si piegò su se stesso di scatto, e la testa gli sbatté contro il ginocchio.

— Ti ho chiesto cosa madonna ci facevi sul nostro camioncino — disse il viso appiattito.

Cole non aveva fiato per una risposta. Cadde in ginocchio. La stanza era piena di fiocchi di neve luminosi, purpurei. Chiuse gli occhi. Li serrò.

Per un momento, forse per diversi momenti, gli parve di volare in un’oscurità scintillante. Poi un suono lo riportò all’autocoscienza. Catz stava urlando. Cole guardò: la stavano picchiando.

La picchiavano con una bottiglia.

Una donna (Cole ne scorgeva vagamente il profilo sotto la tuta da lavoro: una donna robusta, ma probabilmente giovane) stringeva i capelli di Catz nel pugno guantato, li torceva. E un uomo massiccio al suo fianco tirava calci con lo stivale, colpiva Catz al torace.

— Ehi! — urlò Cole. — Cosa… Cosa volete sapere?

— Lo immaginavo che così avremmo attirato la sua attenzione — disse uno degli uomini, girandosi da Catz verso Cole.

Le luci si spensero.

Le tenebre svanirono alla stessa velocità con cui erano scese: dalle prese di corrente uscirono scintille, dagli zoccoli si alzarono fiamme che avvilupparono le pareti.

Figure scure schizzarono via.

Cole, che era in ginocchio, si rizzò in piedi. Si udì un clic, e le manette che gli serravano i polsi si aprirono. — Città… — mormorò Cole, riconoscente, le labbra sporche di sangue.

Frammenti dei discorsi sconclusionati dei vigi lo raggiunsero mentre avanzava barcollando verso Catz…

— Checcavolo…

— Che accidenti è successo al…

— Merda, forse è…

— Cristo, non vedo niente…

— Potrebbero essere gli amici di…

— Ha preso fuoco, vediamo di…

— Sembra un incendio da corto circuito…

— All’inferno, piantiamoli qui…

— No, portiamoli con…

Cole tentò di sollevare Catz; un dolore mostruoso gli morse il braccio. La vista gli si confuse. La rimise sul divano. Il buio si riempì di fumo. Qualcuno, correndo, lo gettò a terra. Cadde sul fianco destro. Le fiamme erano sempre più alte; il loro calore gli asciugava il sudore delle guance. Bagliori irregolari illuminavano la stanza; le tenebre erano percorse da scintillii rossi e azzurri. Quasi tutti i vigi erano scomparsi. Due stavano correndo verso l’uscita laterale, tossivano. — Catz… ehi… — disse Cole, tirandola per il braccio. Aveva la gola intasata di fumo. La ragazzo non si mosse. — Catz, Città ha dato fuoco alla casa per liberarci… Dobbiamo uscire anche noi, se no bruciamo vivi! — Il sangue che gli saliva in bocca rendeva confuse le sue parole.

Catz gemette, si ritrasse. Cominciò a tossire, spalancò gli occhi. Si mise una mano sulla bocca. Cole l’aiutò ad alzarsi. Gli lacrimavano gli occhi per il fumo, le fiamme gli mordevano i piedi, il sudore che gli scendeva lungo tutto il corpo evaporava immediatamente. Assieme, avanzarono verso la porta. La porta era un rettangolo mostruosamente giallo oscurato dal fumo, tremolante per il gran calore. Catz gli lasciò andare la mano. Cole, convinto che quel gesto significasse che la ragazza poteva seguirlo da sola, balzò avanti. La vicinanza delle fiamme gli fornì energie: la forza del terrore.

Pensava che Catz fosse alle sue spalle.

Superò di corsa il cucinotto in penombra, uscì dalla porta laterale, si gettò dietro i cespugli, boccheggiò all’aria fresca della notte. Sul davanti della casa, due camioncini stavano partendo. Qualcuno passò di corsa, urlando, sul sentiero. Diversi uomini si accalcarono in una berlina. Sul marciapiede, impassibili, un nugolo di neri osservava la scena.

Cole si guardò disperatamente attorno. Catz non c’era. — Catz! — urlò, roco, e come un automa si avviò verso la casa in fiamme.

Due uomini uscirono dall’ingresso principale, reggendo un fagotto. Cole si nascose dietro l’angolo di un garage e restò a guardare. E capì, scrutando il profilo della figura che i due reggevano (legata, ma estremamente battagliera), che si trattava di Catz. Gli uomini trasportarono Catz in garage, e lui indietreggiò.

Tossì. Cercò freneticamente un’arma. Ma proprio in quel momento, dalla porta aperta del garage uscirono i fasci di luce di due fari d’automobile. Si accese un motore. Una berlina azzurra divorò il sentiero, arrivò in strada, svoltò. Portava via Catz, lontano da lui.


— Sei sicuro, eh? — chiese Cole al viso grinzoso del direttore del motel, un nero.

— Sicuro che sono sicuro. La tivù funziona benissimo — rispose l’altro. — Ma perché hai questa fregola di guardare la televisione? Secondo me dovresti farti vedere da un dottore, figliolo. Madonna, hai una faccia che sembra ci sia passato sopra un camion. Vuoi che ti trovi qualche ben…

— No! — urlò Cole. Il nero ebbe un’espressione di stupore e paura; Cole fece uno sforzo. — No, ho fretta. Intervistano un mio amico per l’ultimo notiziario della notte, e gli ho promesso di guardarlo. Poi mi darò una ripulita. Sono andato a sbattere contro un lampione.

— Però io non posso lasciarti salire solo per guardare la tivù. Devo farti pagare la stanza, anche se ti fermi cinque minuti — disse il direttore, scrollando le spalle.

— Sì, sì, okay…

Il vecchio nero prese la carta di credito di Cole e la inserì nel terminale. Guardò le cifre che apparvero sul piccolo schermo, annuì leggermente, gli restituì la carta.

Cole restò lì, impaziente, bilanciando il peso del corpo da un piede all’altro, finché il vecchio, dai movimenti estremamente lenti, gli portò la chiave. Numero sette.

Cole afferrò la chiave e corse fuori. Col fianco che gli doleva (forse gli avevano rotto qualche costola), con le labbra che ricominciavano a sanguinare, Cole controllò i numeri delle porte finché non trovò il sette. Infilò ansiosamente la chiave nella serratura. Si aprì al primo tentativo, e un gemito di sollievo gli uscì dalla bocca. Entrò nella stanza buia, odorosa di muffa; lasciò la porta aperta e la chiave infilata nella serratura. Immediatamente, si avvicinò al televisore, inserì la carta dell’Interfondo nella fessura, e l’apparecchio si accese.

— Città! — urlò Cole allo schermo. — E dai, parlami!

Non c’erano immagini a rispondergli.

— Lo so che mi stati ascoltando! — gridò. — Porca miseria, fatti vedere!

Il rettangolo azzurro-bianco fu scosso da brividi allettanti. Però, niente.

Città! Fatti vedere, parlami, se no io me ne vado da San Francisco! Me ne vado e racconto tutto al National Enquirer!

E Cole aspettò.

Niente.

Passò da canale a canale. Notiziari, pornografia, quiz, Panoramica delle esecuzioni capitali. L’ora della disciplina dei bambini con James Bondage… E Città non c’era. Tornò sul canale libero.

Catz.

Cole aspettò, agitò i pugni, si chiese dove l’avessero portata. In lontananza risuonavano le sirene delle pompe antincendio, dirette alla casa in fiamme, tre isolati più a nord.

Cole, in piedi, oscillava, fremeva, si agitava come un’antenna televisiva sotto un vento troppo forte.

Città! — gemette, con voce sempre più roca.

E poi: sullo schermo, un busto bidimensionale, scuro, coi tratti cupi, inflessibili.

— Città… Perché non hai liberato anche lei? Perché non hai fermato quella macchina?

— Ho deciso di non servirmi più della donna.

— Cosa? Perché?

— Non mi è fedele.

— Ma sei… Cosa? Se è stata lei a convincermi a uscire stasera! Ha fatto tutto quello che volevi farle…

— No… Io posso arrivare dentro di lei, ai suoi pensieri. Non si fida di me. Ha fatto quello che ha fatto per te. È convinta di proteggerti. Non voglio che resti con te. Posso proteggerti io.

— Sarebbe lei a proteggermi? E da che cosa?

Città non rispose.

— La libereremo — disse Cole, a labbra serrate.

— No.

La bocca di Cole si spalancò. Lui fissò lo schermo, senza capire. — No — ripeté, scuotendo la testa. — No? Senti, insomma… Non c’è bisogno che tu ti serva di lei. Basta che le salvi la pelle e che la lasci… che la lasci andare per i fatti suoi.

— Non posso. Adesso non ne ho la forza. Stasera ho usato troppe delle mie risorse. Sono debole.

E l’immagine scomparve.

— Bugiardo. Maledetto fottuto bugiardo — disse Cole allo schermo vuoto. Girò sui tacchi, uscì, raggiunse il telefono. Chiamò un taxi.


Però Cole aspettò sino al giorno successivo prima di fare una mossa. Aveva passeggiato su e giù per il suo appartamento tutta notte, fumando un sigaro dopo l’altro, finché non sentì in bocca il fetore di una marmitta, finché la stanza non fu invasa dal puzzo di fumo rancido. Si era avvicinato al telefono sei o sette volte per chiamare Bill, con l’idea di assoldare qualche gorilla per liberare Catz. Ogni volta, raggiunto il telefono, le sue dita iniziavano automaticamente a premere la tastiera; poi, appena riceveva il segnale di libero dall’altra parte, interrompeva il contatto. Perché, se davvero Città era deciso a escludere dalla partita Catz, avrebbe potuto fermare Cole. Di notte, aveva l’energia necessaria. Di giorno, Città non poteva fermarlo.

— Forse in questo momento la stanno picchiando — si diceva Cole. — La stanno torturando.

Alle due di notte mormorò: — Forse la stanno picchiando e violentando.

Alle tre gemette, con voce insolitamente stridula: — Forse la stanno tagliando a pezzettini.

Alle quattro pianse.

Alle cinque cominciò a bere. Cole non beveva spesso, ma quando ci si metteva si vendicava dei periodi d’astinenza. Si vendicava dei periodi d’astinenza: un’espressione perfetta. Beveva sempre per rabbia contro qualcuno. Come se il fatto di smorzare la propria autocoscienza servisse, in qualche modo, a cancellare dal mondo i suoi nemici.

Alle sette aveva il vomito e barcollava. Comunque, cercò di mandare giù un altro gin-and-tonic. Non riuscì a correre fino in bagno, per cui dovette vomitare nel lavandino della cucina.

Chino sulla porcellana bianca, scosso dai conati, invocando il nome di Catz, pensò: “Dio m’aiuti, mi sono innamorato”.

Dopo un po’, la testa gli si schiarì quel tanto che gli bastava per fare del caffè. Gli tremava la mano; si bruciò con l’acqua calda che scendeva dal rubinetto. Bevve quattro tazze di caffè.

Quando sollevò il braccio, si morse la lingua al dolore che gli correva nella carne ferita.

Il combattimento tra caffeina e alcol gli fece venire un mal di testa da campionato. Si cambiò d’abito; fece un bagno, cercando di mascherare le ferite sul viso. Dopo una prima occhiata, stette bene attento a non guardarsi più nello specchio.

Poi chiamò Salmon.

— Il signor Salmon vuole vedere con chi sta parlando — disse la segretaria, di cui si udiva la voce ma non si vedeva l’immagine. Sembrava una donna di una certa età.

— Mi spiace. Il mio schermo è partito. Non riceve e non trasmette. Il signor Salmon sa perché. Nemmeno io posso vedere lui, se questo vi consola. Comunque ditegli che lo ha chiamato Stu Cole e che è per la faccenda dei suoi ragazzi al concerto. — Lo fecero aspettare venti minuti.

Cole pensò: “Forse stanno venendo qui.” Aveva una pistola nascosta nell’armadio, in una scatola da scarpe.

Si avvicinò alla finestra. La strada sembrava normale. Manifesti sui muri di mattoni, come adesivi-ricordo sulla valigia di un giramondo. Bambini messicani che giocavano su un lato della strada; sul lato opposto, un gruppo di ragazzi neri che camminavano e cantavano.

Un invertito e il suo protettore erano fermi alla cabina dell’Interfondo all’angolo.

— Allora? Cole? — La voce di Salmon, dal telefono.

Cole lasciò la finestra, tornò di corsa al telefono. Per abitudine, mentre parlava continuò a fissare lo schermo, anche se era spento. — Salmon? Senti, non mi conosci, o comunque non ci siamo mai incontrati, però…

— So chi siete. Che accidenti volete?

— So per chi lavori tu e per chi lavorano i vigi. E loro hanno fra le mani qualcuno, e ormai immagino che avrai capito a chi alludo. — Cole si accorse vagamente che qualcuno stava salendo le scale del palazzo in cui abitava.

— Avete le idee un po’ confuse, amico. Stiamo indagando sul conto dei vigilantes, e posso assicurarvi che prestissimo…

Piantala con questa farsa! — urlò Cole. Ogni sillaba gli infilò un ago nelle tempie.

Ci fu un attimo di silenzio. — Salmon? Sei ancora lì? Mi senti?

— Sì… Insomma, signor Cole, se vorrete spiegarmi cosa volete da me sarò lieto di…

— Stronzo, non credere di imbrogliarmi. Se pensi… — Cole s’interruppe bruscamente, si mise ad ascoltare i passi che risuonavano sulle scale. C’erano diverse paia di piedi che si muovevano con una frettolosità strana.

— Va’ a farti fottere, Salmon — urlò Cole allo schermo, e corse all’armadio. Spalancò l’armadio mentre qualcuno tirava un calcio tremendo alla porta d’ingresso. Il catenaccio saltò ma, a giudicare dal tintinnio metallico e dalle bestemmie che si udirono, la catena resistette. Si udì un altro colpo contro la porta. Cole frugò nella scatola da scarpe sul fondo dell’armadio, trovò la pistola, l’alzò esattamente nel momento in cui l’uomo col viso coperto da una calza si girava, incorniciato tra le foto della città appese alla parete del soggiorno, a guardare Cole.

Sia lui che l’intruso erano armati.

Però Cole aveva la pistola puntata, mentre il braccio destro dell’altro penzolava lungo il fianco.

— Ho un’ottima mira — mentì Cole — e ti tengo sotto tiro. Quindi, fermo lì. E se i tuoi amici entrano ti sparo. — I movimenti che s’intuivano alle spalle dell’uomo cessarono immediatamente.

Lo sconosciuto s’immobilizzò, fissò Cole, da sotto la calza, con quel suo viso senza occhi.

— Senti… uh… — Cole sperò che l’altro non notasse quanto gli tremava la mano. — Uh… Posso fare un’ipoteca sul club, mettere assieme un po’ di soldi. Possiamo trattare, che ne dici? Racconta… ai tuoi capi che pagherò per farla liberare.

— Perché non chiami la polizia? — Le labbra, distorte dalla calza rosa, sembravano lumache senza guscio.

— Molto divertente — disse Cole, con una smorfia per il dolore che sentiva nella testa. — La polizia la controllate voi.

— Purtroppo le tue finanze non ti permettono di racimolare i soldi che renderebbero interessante l’idea di non ucciderla. Ci avevamo pensato anche noi. Stasera un pezzo grosso farò un discorso molto serio con lei, dopo di che te la restituiremo. Per posta. Ci vorranno quattro pacchi prima che tu la riabbia tutta intera. — Alle spalle dell’uomo, qualcuno rise. L’uomo, come incoraggiato, si tese, e le sue mani si strinsero sulla pistola appoggiata alla gamba destra fasciata dai blue-jeans.

“Dovrei ucciderlo” pensò Cole. “Ma con quanti altri omicidi posso farla franca?”

— Dimmi dov’è e non ti ucciderò. Tutto qui — disse Cole.

— Perché non vai a prendertela? È ancora dove l’hai vista l’ultima volta.

— L’ultima volta l’ho vista per strada. Su una macchina. — A Cole cominciava a fare male il braccio; allora strinse la pistola anche con l’altra mano, tenendola rigidamente protesa.

— Le autopompe sono arrivate subito. I vigili del fuoco sono vicini. L’incendio non era un granché. Tutto il retro della casa è intatto. E siccome lì abbiamo delle scorte di materiale, siamo tornati. La ragazza è lì… Ce ne siamo andati prima che arrivasse la polizia di Oakland e siamo tornati cinque minuti dopo che se n’era andata. Semplicissimo.

— Allora la polizia di Oakland non è al vostro servizio? — chiese Cole, fingendo indifferenza.

— Idiota! — sibilò qualcuno.

Una buona informazione. Poteva essergli utile: la polizia di Oakland era pulita. Ma allora, perché si riunivano proprio a Oakland? Forse perché in quei quartieri miserabili nessuno badava a quel che facevano i vicini.

— Okay — disse Cole. — Torna in corridoio. Prima butta la pistola a terra. — L’arma cadde sul pavimento. Il vigi indietreggiò lentamente, scomparve dietro l’angolo del corridoio esterno. — Di sopra ho degli amici armati! — urlò Cole, mentendo. — Sparite di qui!

Li sentì scendere le scale.

Quando fu certo che non si trovassero più al suo piano, raggiunse una finestra, la scavalcò, scese la scala antincendio, arrivò in un vicolo cieco, lo traversò, s’infilò nella finestra fracassata di un edificio abbandonato. Nella penombra, avanzò tra i detriti finché non trovò una porta che dava sull’esterno, mezza scardinata. Giunto in strada, si mise a correre.

Загрузка...