Ursula Le Guin La salvezza di Aka

Il mio primo errore l’ho fatto il giorno che sono nato,

e da allora non ho mai smesso

di cercare la saggezza su questo cammino.

MAHABHARATA

Uno

Quando Sutty tornava sulla Terra di giorno, era sempre al villaggio. Di notte, era nella Riserva.

Il giallo dell’ottone, il giallo della pasta di curcuma e del riso cotto con lo zafferano, l’arancione delle calendule, l’opaca foschia aranciata del pulviscolo del tramonto sopra i campi, rosso henné, rosso passiflora, rosso sangue secco, rosso fango: tutti i colori della luce del sole durante il giorno. Una zaffata di assafetida. Il mormorio d’acqua di ruscello di Zietta che chiacchierava con la madre di Moti nella veranda. La mano scura di zio Hurree immobile su una pagina bianca. Il benevolo occhietto porcino di Ganesh. Un fiammifero acceso, e l’intensa voluta grigia di fumo d’incenso: penetrante, vivido, dissolto. Fragranze, immagini fuggevoli, echi che le vagavano o le baluginavano nella mente quando camminava nelle strade, o mangiava, o si concedeva un attimo di sosta sottraendosi all’aggressione sensoriale dei quasiveri che doveva subire, di giorno, sotto l’altro sole.

Ma la notte era uguale su qualsiasi mondo. L’assenza di luce non era altro che quello. E nell’oscurità, lei si trovava nella Riserva. Non in sogno, mai in sogno. Sveglia, prima di dormire o quando si svegliava dal sogno, turbata e tesa, e non riusciva a riaddormentarsi. Una scena cominciava a manifestarsi, non in dolci e vividi frammenti, ma nel ricordo completo di un luogo e di un arco di tempo; e una volta iniziati i ricordi, lei non poteva fermarli. Doveva riviverli finché non l’abbandonavano. Forse era una specie di punizione, simile a quella degli amanti nell’Inferno dantesco, ricordare il tempo felice. Ma quegli amanti erano fortunati, ricordavano insieme.

La pioggia. Il primo inverno con la pioggia di Vancouver. Il cielo simile a un tetto di piombo che gravava sulla sommità degli edifici, appiattendo e sfumando le imponenti montagne nere che si stagliavano dietro la città. A sud, l’acqua grigia e agitata del braccio del Sound, sotto cui giaceva Vancouver Vecchia, sommersa tempo addietro dall’aumento del livello del mare. Nevischio nero su luccicanti strade asfaltate. Vento, il vento che la faceva uggiolare come un cane e rannicchiare, rabbrividendo sbigottita ed euforica, tonificata, tanto era furioso e folle, quel vento freddo dell’Artico, respiro gelido dell’orso polare. Le penetrava sotto la giacca troppo leggera, però gli stivali erano caldi, brutti stivaloni neri di plastica che sguazzavano nei rigagnoli, e presto sarebbe arrivata a casa. Ti faceva sentire al sicuro, quel freddo tremendo. La gente si affrettava e lasciava in pace il prossimo, odi e passioni congelati. Le piacevano il Nord, il freddo, la pioggia, la bella e tetra città.

Zietta sembrava così piccola, lì, piccola ed effimera, come una farfallina. Un sari di cotone rosso e arancione, cerchietti d’ottone ai polsi da insetto. Sebbene ci fossero molti indiani e indo-canadesi, lì, molti fra i vicini, Zietta sembrava piccola perfino tra loro, una profuga, fuori posto. Il suo sorriso pareva estraneo e di scusa. Zietta doveva portare sempre calze e scarpe. Solo quando si accingeva ad andare a letto i suoi piedi riapparivano, i piccoli piedi bruni così forti che, al villaggio, erano sempre stati una parte visibile di lei, come le mani e gli occhi. Lì, i suoi piedi erano chiusi in guaine di cuoio, amputati dal freddo. Così, non camminava molto, non correva qua e là per la casa, non si affaccendava in cucina. Sedeva vicino alla stufetta in soggiorno, avvolta in una coperta di maglia di lana stinta e sbrindellata, una farfalla che tornava nel bozzolo. Che si allontanava, si allontanava sempre più, ma non camminando.

Per Sutty adesso era più facile intendersi con mamma e papà — conosciuti a malapena negli ultimi quindici anni — che con Zietta, che le aveva sempre offerto rifugio in grembo e tra le braccia. Era delizioso scoprire i propri genitori, l’intelligenza e lo spirito bonario della mamma, gli sforzi timidi e goffi del padre di dimostrarle affetto. Conversare con loro da adulta, consapevole del grande amore che nutrivano per la loro bambina… era facile, e delizioso. Parlavano di tutto, imparando a vicenda. Mentre Zietta rimpiccioliva, si distaccava silenziosa, in modo ambiguo, dando l’impressione di non andare in nessun posto, di tornare al villaggio, alla tomba di zio Hurree.

Arrivò la primavera, arrivò la paura. La luce del sole tornò a nord, alta e pallida come un adolescente, un vago fulgore argenteo. Piccoli susini rosa fiorirono lungo tutte le vie trasversali del quartiere. I Padri dichiararono che il Trattato di Pechino era in contrasto con la Dottrina dell’Unico Destino e andava abrogato. Le Riserve dovevano essere aperte, dissero i Padri, ai loro abitanti doveva essere consentito di ricevere la Luce Santa, le loro scuole dovevano essere mondate dalla miscredenza, purificate dall’errore alieno e dalla devianza. Chi fosse rimasto attaccato al peccato sarebbe stato rieducato.

La mamma andava ogni giorno agli uffici del Collegamento e rincasava tardi, cupa in viso. «Questo è il loro attacco decisivo» diceva. «Se fanno una cosa del genere, non ci resta che darci alla clandestinità.»

Verso la fine di marzo, una squadriglia di aerei dell’Esercito di Dio volò dal Colorado al Distretto di Washington e bombardò la Biblioteca: un aereo dopo l’altro, quattro ore di bombardamento che ridussero in cenere secoli di storia e milioni di libri. Washington non era una Riserva, ma il bell’edificio antico, anche se sorvegliato e spesso chiuso, non era mai stato attaccato; aveva superato indenne tutti i disordini e la guerra, lo sfacelo e la rivoluzione, fino a quel giorno. Il Tempo della Purificazione. Il Comandante Supremo degli Eserciti di Dio annunciò il bombardamento mentre l’operazione era in corso, dicendo che si trattava di un’azione educativa. Un solo Verbo, un solo Libro. Tutte le altre parole, tutti gli altri libri erano tenebra, ignoranza, errore. Immondizia. «Dio brilli radioso!» gridavano i piloti in uniforme bianca e maschera speculare, nella chiesa della base aerea in Colorado, fronteggiando anonimi le telecamere e la folla che cantava e ondeggiava in estasi. «Eliminiamo il sudiciume, e Dio brilli radioso!»

Ma Dalzul, il nuovo inviato giunto da Hain l’anno prima, stava parlando con i Padri. I Padri l’avevano ammesso nel Sancta Sanctorum. C’erano quasiveri e olo e 2D di Dalzul in rete e in Verbo Divino. Sembrava che il Comandante Supremo degli Eserciti non avesse ricevuto ordine dai Padri di distruggere la Biblioteca di Washington. L’errore non era stato del Comandante Supremo, naturalmente. I Padri non commettevano errori. Lo zelo dei piloti era stato eccessivo, la loro azione non autorizzata. Dal Sancta Santorum giunse un ordine: i piloti dovevano essere puniti. E i piloti furono portati fuori, di fronte alla truppa e alle telecamere e alla folla, e spogliati pubblicamente delle armi e delle uniformi bianche. Furono tolti loro i cappucci, le facce vennero messe a nudo. E li condussero via, coperti di vergogna, alla rieducazione.

Tutto questo era nella rete, anche se Sutty poteva osservare senza dover partecipare direttamente, dato che papà aveva staccato i collegamenti corporei della realtà virtuale. E ne parlava anche Verbo Divino, che dava pure grande spazio al nuovo inviato. Dalzul era un terrestre. Nato proprio lì sulla Terra, il pianeta di Dio, dicevano. Un uomo che capiva gli uomini della Terra come nessun extraterrestre sarebbe mai stato in grado di fare, dicevano. Un uomo delle stelle che veniva a inginocchiarsi ai piedi dei Padri e a discutere dell’attuazione delle intenzioni pacifiche del Sant’Uffizio e dell’Ekumene.

«Un bell’uomo» disse la mamma, guardando da presso. «Cos’è? Un bianco?»

«Fin troppo» disse papà.

«Di dov’è?»

Ma nessuno lo sapeva. Islanda, Irlanda, Siberia… ognuno aveva una storia diversa. Dalzul aveva lasciato la Terra per studiare su Hain, su questo concordavano tutti. Aveva conseguito molto rapidamente la qualifica di Osservatore, poi di Mobile, quindi era stato rimandato a casa: il primo inviato terrestre sulla Terra.

«Se n’è andato più di un secolo fa» disse la mamma. «Prima che gli Unisti conquistassero l’Asia orientale e l’Europa. Quando non erano ancora tanto numerosi nemmeno nell’Asia occidentale. Deve trovarlo molto cambiato, il suo mondo.»

Un uomo fortunato, stava pensando Sutty. Oh, che uomo fortunato! Era andato via, era andato su Hain, aveva studiato alla Scuola di Ve, era stato in luoghi dove non esistevano solo Dio e odio, dove la gente aveva vissuto un milione di anni di storia, dove capivano tutto!

Quella stessa sera, disse a mamma e papà che voleva andare alla Scuola di Tirocinio per cercare di essere ammessa all’Università Ecumenica. Lo annunciò con molta timidezza, ma i suoi genitori non ne furono costernati, non parvero nemmeno sorpresi. «Andarsene da questo mondo, adesso, mi sembra un’ottima idea» disse la mamma.

Erano così calmi e favorevoli che lei pensò: "Non si rendono conto che se otterrò l’abilitazione e verrò mandata su uno degli altri mondi, non mi rivedranno più?". Cinquant’anni, cento, centinaia di anni… i viaggi di andata e ritorno nello spazio in genere duravano raramente di meno, spesso di più. A loro non importava? Solo più tardi, quella sera, quando stava osservando il profilo di suo padre a tavola — le labbra carnose, il naso aquilino, i capelli che cominciavano a ingrigire, una faccia severa e fragile — si rese conto che se l’avessero inviata su un altro mondo nemmeno lei li avrebbe più rivisti. Mamma e papà ci avevano pensato prima di lei. Breve presenza e lunga assenza, il loro rapporto era sempre stato così. E si erano adattati, accontentandosi.

«Mangia, Zietta» disse la mamma, ma Zietta si limitò a dare dei colpetti al proprio pezzo di naan con le piccole dita simili ad antenne d’insetto, senza prenderlo dal piatto.

«Impossibile fare del buon pane con una farina del genere» disse, discolpando il fornaio.

«La vita al villaggio ti ha viziata» la canzonò la mamma. «Questa è la farina migliore che si possa trovare in Canada. Paglia tritata e gesso in polvere di prima qualità.»

«Sì, sono viziata» annuì Zietta, sorridendo da un paese lontano.


Gli slogan più vecchi erano incisi sulle facciate degli edifici: AVANTI VERSO IL FUTURO. I PRODUTTORI-CONSUMATORI DI AKA MARCIANO VERSO LE STELLE. Quelli più nuovi scorrevano sugli .edifici in nastri abbaglianti di caratteri elettronici: IL PENSIERO REAZIONARIO È IL NEMICO SCONFITTO. Quando i display funzionavano male, i messaggi diventavano ermetici: IO È ONE. I più recenti si libravano olografici sopra le strade: LA SCIENZA PURA DISTRUGGE LA CORRUZIONE. IN ALTO, AVANTI, SEMPRE AVANTI. Erano accompagnati da musica, una musica molto ritmata, corale, che affollava l’aria. «Avanti, avanti verso le stelle!» strillava un coro invisibile al traffico bloccato all’incrocio dove era fermo il robotaxi di Sutty. Sutty alzò il volume dell’audio del taxi per coprire il motivo che risuonava all’esterno. «La superstizione è un cadavere putrescente» disse l’impianto audio, con una voce maschile profonda e affascinante. «Le pratiche superstiziose contaminano la mente dei giovani. È dovere di ogni cittadino, adulto o studente, riferire gli insegnamenti reazionari e denunciare alle autorità gli insegnanti che consentono la sedizione o introducono nelle aule l’irrazionalità e la superstizione. Alla luce della Pura Scienza sappiamo che la fervida collaborazione di tutto il popolo è il primo requisito…» Sutty abbassò l’audio al minimo. Il coro esterno riesplose: «Alle stelle! Alle stelle!» e il robotaxi balzò in avanti di un paio di metri. Ancora due balzi come quello, e forse sarebbe riuscito a superare l’incrocio al prossimo verde.

Sutty si frugò nelle tasche della giacca, cercando un akagest, ma li aveva mangiati tutti. Le faceva male lo stomaco. Cibo cattivo, aveva mangiato troppo cibo cattivo per troppo tempo, robaccia trattata, integrata con proteine e condimenti e stimolanti, che costringeva a comprare gli stupidi akagest. E gli stupidi e assurdi ingorghi stradali causati dalle stupide auto malfatte che si rompevano in continuazione, e il rumore continuo, gli slogan, le canzoni, la propaganda, un popolo che a suon di strombazzamenti si gasava e commetteva tutti gli errori commessi da ogni altra popolazione in fase di rapido progresso tecnologico… Sbagliato.

Atteggiamento giudicatorio. Era sbagliato permettere che la frustrazione le annebbiasse il pensiero e le percezioni. Era sbagliato avere preconcetti. Guardare, ascoltare, rilevare: osservare. Ecco il suo compito. Quello non era il suo mondo.

Ma lei era lì, su quel pianeta, in quel mondo. Come poteva osservarlo dal momento che era impossibile distaccarsene? O l’iperstimolazione dei quasiveri che doveva studiare, o il frastuono delle strade: non c’era nessun posto dove andare per sottrarsi all’incessante aggressione della propaganda, tranne la solitudine del suo appartamento, dove poteva isolarsi dal mondo che era venuta a osservare.

In sostanza, non era adatta a fare l’osservatrice, lì. In altri termini, era il suo primo incarico e lei aveva fallito. Sapeva che l’inviato l’aveva convocata per dirle questo.

Era già quasi in ritardo per l’appuntamento. Il robotaxi fece un altro balzo in avanti, e l’impianto audio alzò automaticamente il volume per uno degli annunci dell’Azienda. Non esisteva pulsante di spegnimento. «Un annuncio del Dipartimento di Astronautica!» disse una voce femminile sonora, energica, sicura. E Sutty si coprì gli orecchi con le mani e gridò: «Chiudi il bec…».

«Le porte del veicolo sono chiuse» disse il robotaxi, con la monotona voce meccanica assegnata alle macchine che rispondevano a ordini verbali. Sutty si rese conto della comicità della situazione, ma non riuscì a ridere. L’annuncio proseguì interminabile, mentre le voci stridule nell’aria cantavano: «Sempre più in alto, sempre più grandi, in marcia verso le stelle!».

L’inviato dell’Ekumene, un chiffewariano dagli occhi miti di nome Tong Ov, era ancora più in ritardo di lei all’appuntamento perché aveva perso tempo quando era uscito di casa per colpa del cattivo funzionamento del lettore d’identità del palazzo, episodio di cui rise. «E qui in ufficio il sistema ha smarrito il microdoc che volevo darti» disse, spulciando file. «L’ho codificato, perché naturalmente controllano i miei file, e il mio codice ha confuso il sistema. Però so che il documento è qui, da qualche parte… Intanto raccontami come sono andate le cose.»

«Be’» esordì Sutty, e s’interruppe. Da mesi parlava e pensava in dovzano. Per un attimo, anche lei dovette esaminare i propri file: hindi no, inglese no, hainiano sì. «Mi hai chiesto di preparare un rapporto sulla lingua e la letteratura contemporanee. Ma i cambiamenti sociali avvenuti qui mentre ero in viaggio… Be’, dato che adesso è illegale parlare o studiare qualunque lingua che non sia il dovzano o l’hainiano, non posso lavorare sulle altre lingue. Sempre che esistano ancora. Quanto al dovzano, i Primi Osservatori hanno compiuto un’indagine linguistica molto accurata. Io posso solo aggiungere qualche dettaglio e qualche vocabolo.»

«E per quanto riguarda la letteratura?» chiese Tong.

«Tutti i testi scritti nei vecchi caratteri sono stati distrutti. O se esistono ancora, non so di cosa si tratti, perché il Ministero non permette di accedervi. Quindi, ho potuto studiare solo la letteratura audio moderna. Tutta scritta in base ai dettami dell’Azienda. In genere è molto… è standardizzata.»

Sutty guardò Tong Ov per vedere se le sue lagnanze lo annoiassero ma, nonostante stesse ancora cercando il file smarrito, sembrava che stesse ascoltando con vivo interesse. «Tutto audio, eh?» disse.

«A parte i manuali dell’Azienda, in pratica non c’è nulla di stampato, esclusi i testi per i sordi e i manualetti elementari che accompagnano i testi audio per gli scolari… La campagna contro le vecchie forme ideografiche è stata molto efficace, a quanto pare. Forse, a causa di essa, la gente ha paura di scrivere… diffida della scrittura in generale. Comunque, per quanto concerne la letteratura, sono riuscita a procurarmi solo nastri audio e quasiveri. Pubblicati dal Ministero Mondiale dell’Informazione e dal Ministero Centrale della Poesia e dell’Arte. Si tratta perlopiù di materiale educativo o informativo, e non di… be’, letteratura o poesia come le intendo io. Anche se molti quasiveri sono drammatizzazioni di problemi pratici o etici e relative soluzioni…» Si stava talmente sforzando di parlare in modo neutro, obiettivo, senza pregiudizi, che la sua voce era completamente atona.

«Sembra molto noioso» commentò Tong, continuando a esaminare file.

«Be’, mi sento apatica, credo di essere insensibile a questa estetica. È così politicizzata che… Certo, qualsiasi arte è politicizzata. Ma quando è tutto didascalico, quando ogni cosa è al servizio di un sistema di convinzioni, mi dà fastidio… voglio dire, oppongo resistenza. Ma cerco di non farlo. Forse, dal momento che fondamentalmente hanno cancellato la loro storia… Certo, era impossibile sapere che erano sull’orlo di una rivoluzione culturale, quando sono stata inviata qui… In ogni modo, per questo incarico di Osservatore toccato a me, forse è stato un errore scegliere una terrestre. Noi sulla Terra, infatti, stiamo vivendo il futuro di un popolo che ha rinnegato il proprio passato.»

Sutty s’interruppe di colpo, allibita per tutto ciò che aveva detto.

Tong si girò verso di lei, impassibile. Disse: «Non mi sorprende che tu abbia la sensazione di trovarti di fronte a un compito impossibile. Però mi serviva la tua opinione. Quindi quello che hai fatto è stato utile per me, anche se faticoso per te. Ci vuole un cambiamento». C’era un luccichio nei suoi occhi scuri. «Che ne dici di risalire il fiume?»

«Il fiume?»

«È l’espressione che usano qui per riferirsi a "un posto sperduto", vero? Ma in effetti io mi riferivo proprio all’Ereha.»

Quando Tong disse il nome, Sutty si ricordò che un grande fiume attraversava la capitale, in parte coperto, e talmente nascosto da edifici e banchine che lei non ricordava di averlo mai visto, se non sulle cartine.

«Intendi dire, uscire da Dovza City?»

«Sì» rispose Tong. «Fuori dalla città! E non in un’escursione guidata! Per la prima volta in cinquant’anni!» Era raggiante, come un bambino che tira fuori un regalo nascosto, una splendida sorpresa. «Sono qui da due anni, e ho presentato ottantuno richieste di inviare un membro del nostro gruppo fuori da Dovza City o Kangnegne o Ert. Richieste garbatamente respinte per ottanta volte, accompagnate dalla proposta dell’ennesima visita guidata per ammirare gli impianti del programma spaziale o le bellezze della primavera nelle Isole Orientali. Presento queste richieste per abitudine, di routine. E all’improvviso ne accolgono una! Sì! "Un membro del vostro gruppo è autorizzato a trascorrere un mese a Okzat-Ozkat." O è Ozkat-Okzat? È una piccola città nella regione pedemontana, lungo il fiume. L’Ereha nasce nella Grande Catena delle Sorgenti, a circa millecinquecento chilometri dalla costa. Ho chiesto quella regione, il Rangma, non aspettandomi affatto che accogliessero la richiesta. E invece l’hanno accolta!» Tong gongolava.

«Perché proprio là?»

«Ho sentito dire che là vive della gente che sembra interessante.»

«Una minoranza etnica?» chiese Sutty, speranzosa. Poco dopo il suo arrivo, quando aveva incontrato per la prima volta Tong Ov e gli altri due Osservatori attualmente a Dovza City, avevano discusso della massiccia monocultura che caratterizzava le grandi città di Aka, gli unici posti dove ai pochi extraplanetari ammessi su quel mondo fosse consentito vivere. Erano tutti convinti che la società akana avesse delle diversità, delle variazioni regionali, ed era frustrante non poterle scoprire.

«Una setta, credo, più che una minoranza etnica. Un culto. Forse, resti nascosti di una religione proibita.»

«Ah» disse Sutty, cercando di mantenere un’espressione interessata.

Tong era ancora alle prese con i file. «Sto cercando le poche informazioni che ho raccolto sull’argomento. Rapporti del Dipartimento Socioculturale sulle attività di culto antiscientifiche criminali rimaste. E anche qualche diceria e qualche storia. Riti segreti, camminare sul vento, cure miracolose, predizione del futuro. Il solito.»

Ereditare una storia di tre milioni di anni significava trovare ben poco che potesse definirsi insolito nel comportamento o nell’inventiva umana. Gli hainiani erano abituati a quel retaggio, ma per i loro vari discendenti era un onere gravoso sapere che avrebbero stentato parecchio a trovare qualcosa di nuovo, perfino di immaginario, sotto qualsiasi sole.

Sutty non disse nulla.

«Nel materiale inviato sulla Terra dai Primi Osservatori in missione qui su Aka» proseguì Tong «non c’era nulla che riguardasse le religioni?»

«Be’, dato che solo il rapporto linguistico è arrivato a destinazione intatto, per le informazioni su tutto il resto ci siamo dovuti accontentare del poco che siamo riusciti a dedurre dal lessico.»

«Tutte quelle informazioni dalle uniche persone che hanno avuto modo di studiare Aka liberamente… perse per un difetto di funzionamento» commentò Tong, mettendosi comodo sulla sedia e lasciando che il vaglio dei file si completasse automaticamente. «Che sfortuna! Sarà stato proprio un difetto di funzionamento?»

Come tutti i chiffewariani, Tong era totalmente calvo, un chihuahua, nel gergo di Valparaíso. Per mascherare il proprio aspetto insolito lì su Aka, dove la calvizie era assai rara, portava un cappello; ma dato che gli akani di rado lo portavano, forse Tong sembrava ancora più alieno col cappello che senza. Era un uomo garbato, alla mano, schietto, che cercava di mettere Sutty il più possibile a proprio agio; tuttavia era così discreto da risultare, in definitiva, distaccato. La sua riservatezza inviolabile non offriva alcuna intimità. Sutty era contenta che lui accettasse il suo riserbo. Finora, Tong aveva mantenuto il proprio. Ma la domanda che le aveva fatto le sembrò insincera. Tong sapeva sicuramente che la perdita di dati durante la trasmissione non era stata un incidente. Perché avrebbe dovuto spiegarglielo lei? Sutty aveva messo bene in chiaro che viaggiava senza bagaglio, come facevano gli Osservatori e i Mobili nello spazio da secoli. Non rispondeva del posto da cui la separavano ormai sessanta anni luce. Non era responsabile della Terra e del suo sacro terrorismo.

Il silenzio si protrasse, e alla fine Sutty disse: «L’ansible di Pechino è stato sabotato».

«Sabotato?»

Lei annuì.

«Dagli Unisti?»

«Verso la fine del regime ci sono stati attacchi contro la maggior parte delle installazioni dell’Ekumene e le zone protette. Le Riserve.»

«Ne hanno distrutte molte?»

Cercava di farla parlare. Di spingerla a raccontare. Sutty fu invasa dalla collera. Era furiosa. Aveva la gola serrata. Non disse nulla, perché era incapace di parlare.

Ci fu una pausa considerevole.

«Dunque, a parte il rapporto linguistico, non è arrivato nulla» disse Tong.

«Quasi nulla.»

«Che sfortuna!» ripeté con veemenza Tong Ov. «Che i Primi Osservatori fossero terrestri, e che quindi abbiano inviato il loro rapporto alla Terra invece che a Hain… un fatto non proprio insolito, ma comunque una disdetta. E una sfortuna anche peggiore, forse, che le trasmissioni via ansible provenienti dalla Terra siano giunte tutte a destinazione. Tutte le informazioni tecniche chieste dagli akani, che la Terra ha inviato, senza alcuna obiezione, senza alcuna restrizione… Perché? Perché i Primi Osservatori hanno consentito un intervento culturale così massiccio?»

«Forse loro non c’entrano. Forse sono stati gli Unisti a inviare le informazioni.»

«Perché gli Unisti avrebbero dovuto avviare la marcia verso le stelle di Aka?»

Sutty si strinse nelle spalle. «Proselitismo.»

«Cioè convincere gli altri a credere in quello in cui credevano loro? Il progresso tecnologico industriale era un elemento costitutivo della religione unista?»

Sutty si trattenne dall’alzare di nuovo le spalle.

«Allora, nel periodo in cui rifiutavano il contatto via ansible con gli Stabili su Hain, gli Unisti stavano… convertendo gli akani? Sutty, pensi che possano avere inviato qui dei… come li chiamate, voi?… dei missionari?»

«Non lo so.»

Tong non la stava sondando, non le tendeva trappole. Proseguiva con entusiasmo il proprio ragionamento, e cercava di indurre Sutty, una terrestre, a spiegargli cos’avevano fatto i terrestri e perché. Ma lei non voleva e non poteva spiegare, né parlare per gli Unisti.

Cogliendo il suo rifiuto di fare delle ipotesi, Tong disse: «Sì, sì, scusa. Certo, non eri in confidenza con i capi unisti! Ma, vedi, ho appena avuto un’idea… Se hanno davvero inviato dei missionari, e se in qualche modo hanno trasgredito i codici akani, capisci… questo potrebbe spiegare la Legge del Limite». Si riferiva all’annuncio improvviso, fatto cinquant’anni prima e applicato da allora, che solo quattro extraplanetari alla volta sarebbero stati ammessi su Aka, e soltanto nelle città. «E potrebbe spiegare la messa al bando della religione alcuni anni dopo!» Stava infervorandosi per quella teoria. Sorrise radioso, poi le chiese quasi supplichevole: «Non hai mai sentito parlare di un secondo gruppo mandato qui dalla Terra?».

«No.»

Tong Ov sospirò, si appoggiò allo schienale della sedia. Un minuto dopo, liquidò le proprie congetture con un lieve gesto della mano. «Siamo qui da settant’anni» disse «e non conosciamo che il lessico.»

Sutty si rilassò. Avevano lasciato la Terra, erano tornati su Aka. Era al sicuro. Parlò circospetta, ma con la scioltezza del sollievo. «Nel mio ultimo anno di addestramento, sono stati ricostruiti dei facsimile, utilizzando i documenti danneggiati. Immagini, alcuni frammenti di libri. Insufficienti, però, per estrapolare elementi culturali importanti. E dato che al mio arrivo lo Stato Azienda si era ormai affermato, non so nulla della situazione esistente prima. Non so nemmeno quando sia stata bandita la religione qui su Aka. Circa quarant’anni fa?» Udì la propria voce: conciliante, falsa, forzata. Sbagliato.

Tong annuì. «Trent’anni dopo il primo contatto con l’Ekumene. L’Azienda ha emanato il primo decreto che dichiarava illegali le pratiche e l’insegnamento religiosi. Nel giro di alcuni anni, sono state proclamate pene spaventose… Ma quel che è strano, quello che mi ha indotto a pensare che l’impulso possa essere stato di origine esterna, extraplanetaria, è la parola che usano per "religione".»

«Una parola di derivazione hainiana» annuì Sutty.

«Non esisteva una parola indigena? Ne conosci qualcuna?»

«No» rispose Sutty, dopo avere ripassato scrupolosamente non solo il proprio vocabolario dovzano, ma parecchie altre lingue akane che aveva studiato a Valparaíso. «Non ne conosco nemmeno una.»

Gran parte del lessico dovzano recente proveniva naturalmente dall’esterno, al pari delle tecnologie industriali; ma mutuare una parola straniera per indicare una istituzione indigena da dichiarare illegale? Strano davvero. E lei avrebbe dovuto accorgersene. Se ne sarebbe accorta, se non avesse ignorato la parola, la cosa, l’argomento, ogni volta che si presentava. Sbagliato. Sbagliato.

Tong adesso era un po’ agitato; il materiale che stava cercando era saltato fuori, finalmente, e doveva acquisirlo e decodificarlo col proprio noter. Ci volle un po’ di tempo. «Il sistema di microfile akano lascia abbastanza a desiderare» commentò, premendo un ultimo tasto.

«Tutto si guasta come programmato» disse Sutty. «È l’unica freddura akana che conosco. Purtroppo, è anche la verità.»

«Però pensa a cos’hanno realizzato in settant’anni!» L’inviato si mise comodo sulla sedia, divagando ciarliero, il cappello leggermente di traverso. «Giusto o sbagliato, a questa gente è stato dato il piano per realizzare una G86.» G86, nel gergo stenografico degli storici hainiani, indicava una società in fase di rapido progresso tecnologico industriale. «E loro hanno divorato le informazioni in un boccone. Hanno rifatto la loro cultura, hanno creato lo stato aziendale globale, hanno inviato un’astronave su Hain… tutto nell’arco di una vita umana! Gente sorprendente, davvero. Una compattezza e una disciplina sorprendenti!»

Sutty annuì rispettosa.

«Però dev’esserci stata qualche resistenza lungo il percorso. Questa ossessione antireligiosa… Anche se siamo stati noi a provocarla, assieme allo sviluppo tecnologico…»

Molto gentile da parte sua continuare a dire "noi", rifletté Sutty. Come se l’Ekumene fosse stato responsabile dell’ingerenza terrestre su Aka. Quello era l’elemento hainiano alla base del pensiero ekumenico: "Assumersi la responsabilità".

Intanto l’inviato proseguiva il proprio ragionamento. «I meccanismi di controllo sono così capillari ed efficaci che devono essere stati istituiti in risposta a qualcosa di molto forte, non credi? Se la resistenza allo Stato Azienda s’imperniava su una religione, una religione consolidata e diffusa, questo spiegherebbe la soppressione delle pratiche religiose da parte dell’Azienda. E il tentativo di creare un teismo nazionale come surrogato. Dio come Ragione, il Martello della Scienza Pura, e via dicendo. Nel cui nome distruggere i templi, vietare la predicazione. Che ne pensi?»

«Penso che sia comprensibile» rispose Sutty.

Forse non era la risposta che lui si aspettava. Rimasero in silenzio un minuto.

«La vecchia scrittura, gli ideogrammi» disse Tong. «Sai leggerli facilmente?»

«Non c’era nient’altro da imparare, durante l’addestramento. Era l’unica scrittura esistente su Aka, settant’anni fa.»

«Certo» convenne Tong, col disarmante gesto chiffewariano che significava: "Per favore, scusa questo idiota". «Sai, venendo da appena dodici anni luce di distanza, io ho imparato solo la scrittura moderna.»

«A volte mi sono chiesta se sono l’unica persona su Aka in grado di leggere gli ideogrammi. Una straniera, un’extraplanetaria. Sicuramente, non sono l’unica.»

«Sicuramente, no. Anche se i dovzani sono gente metodica. Sono così metodici che quando hanno bandito la vecchia scrittura hanno anche distrutto sistematicamente tutto quanto era scritto nei vecchi caratteri… poesie, drammi, filosofia, storia. Proprio tutto, secondo te?»

Sutty ricordò lo smarrimento crescente delle sue prime settimane a Dovza City: la sua incredulità di fronte al contenuto misero e insulso di quelle che chiamavano "biblioteche", il muro cieco contro cui si scontravano tutti i suoi tentativi di ricerca, quando credeva ancora che da qualche parte dovesse esserci qualche traccia della letteratura di un mondo intero.

«Anche adesso, se trovano libri o testi, li distruggono» disse. «Uno dei dipartimenti principali del Ministero della Poesia è il Dipartimento per la Localizzazione dei Libri. Trovano i libri, li sequestrano, e li mandano al macero per trasformarli in materiale per l’edilizia. Materiale isolante. I vecchi libri sono chiamati "macerabili". Una donna che lavorava in quella sezione mi ha detto che l’avrebbero trasferita a un altro dipartimento perché non c’erano più macerabili nella regione di Dovza. Era pulita, ha detto. Purificata.»

Sentì una nota di irritazione sempre più netta nella propria voce. Distolse lo sguardo, cercò di allentare la tensione che le irrigidiva le spalle.

Tong Ov rimase calmo. «Un’intera storia andata perduta, spazzata via, come in seguito a una terribile calamità» disse. «Straordinario!»

«Nulla di così insolito» fece lei, molto contratta… Sbagliato. Mosse di nuovo le spalle, inspirò ed espirò una volta, e parlò con deliberata pacatezza. «Le poche poesie e immagini akane ricostruite al Centro Comunicazioni Ansible sulla Terra sarebbero illegali, qui. Ne avevo delle copie nel mio noter. Le ho cancellate.»

«Sì. Sì, giustissimo. Non possiamo introdurre nessuna delle cose che non vogliono più nel loro mondo.»

«Mi è dispiaciuto moltissimo farlo. Mi è sembrato di agire in collusione con loro.»

«Il margine tra collusione e rispetto può essere esiguo» disse Tong. «Per nostra sfortuna, noi occupiamo proprio quel margine, qui.»

Per un attimo, Sutty percepì nel chiffewariano una cupa gravità. Tong Ov si era estraniato, aveva lo sguardo perduto lontano, molto lontano. Poi tornò da lei, gioviale e sereno.

«D’altra parte» disse, «ci sono parecchi frammenti di vecchia scrittura dipinti qui e là nella città, no? Senza dubbio è considerata innocua, dato che adesso nessuno è in grado di leggerla… E le cose tendono a sopravvivere nei posti fuori mano. Una sera mi trovavo nel quartiere fluviale… una zona malfamata… non avrei dovuto esserci, ma di tanto in tanto in una città di queste dimensioni si può andare a zonzo senza che i padroni di casa lo sappiano. Almeno, io faccio finta che non lo sappiano. Comunque, ho sentito della musica insolita. Strumenti di legno. Intervalli illegali.»

Sutty assunse un’espressione interrogativa.

«Lo Stato Azienda obbliga i compositori a usare quella che io conosco come l’ottava terrestre.»

Sutty assunse un’espressione stupida.

Tong le cantò un’ottava.

Sutty cercò di assumere un’aria intelligente.

«La chiamano la Scala Scientifica degli Intervalli, qui» spiegò Tong. Vedendo che lei pareva ancora piuttosto perplessa, le chiese sorridendo: «La musica akana ti sembra più familiare di quanto non ti aspettassi?».

«Non ci avevo pensato… non so. Non ho orecchio per la musica. Non so cosa siano le tonalità.»

Il sorriso di Tong si allargò. «Stando alla musica akana che ho avuto modo di ascoltare, nemmeno loro sanno cosa siano le tonalità. Be’, quello che ho sentito nel distretto fluviale era completamente diverso dalla musica diffusa in giro dagli altoparlanti. Intervalli differenti. Armonie molto strane. "Musica curativa"… così la chiamava la gente del posto. Ho dedotto che la musica curativa è suonata da guaritori, stregoni. E in qualche modo, alla fine sono riuscito a fare una chiacchierata con uno di quei guaritori. Mi ha detto: "Conosciamo alcune delle vecchie canzoni e delle vecchie medicine. Non conosciamo le storie. Non possiamo raccontarle. Le persone che raccontavano le storie sono scomparse". Io ho insistito un po’, e lui ha detto: "Forse, alcuni di loro vivono ancora nell’interno, risalendo il fiume. Su nelle montagne".» Tong Ov sorrise di nuovo, ma era un sorriso malinconico. «Ero ansioso di saperne di più, ma naturalmente la mia presenza costituiva un rischio per quell’uomo.» Fece una pausa piuttosto lunga. «A volte si ha la sensazione che…»

«Che sia tutta colpa nostra.»

Dopo un istante di esitazione, Tong annuì. «Sì. È colpa nostra. Ma dal momento che siamo qui, dobbiamo cercare di tenere un atteggiamento discreto.»

I chiffewariani si assumevano la responsabilità, però non coltivavano la colpa come facevano invece i terrestri. Sutty si rese conto di averlo frainteso. Capì di averlo sorpreso, dicendo quelle parole. Ma lei non sapeva che farsene della discrezione. Non disse nulla.

«Cosa credi che intendesse dire lo stregone, a proposito delle storie e della gente che le raccontava?»

Sutty cercò di concentrarsi sulla domanda, ma non ci riuscì. Non era più in grado di seguire Tong Ov. Conosceva il significato del detto: tirare troppo la corda. La sua corda adesso la soffocava, le serrava la gola.

Disse: «Pensavo mi avessi convocata per comunicarmi il mio trasferimento».

«Mandarti via dal pianeta? No! No, no» fece Tong, con stupore e pacata gentilezza.

«Mandarmi qui è stato un errore.»

«Perché dici questo?»

«Ho fatto tirocinio come linguista ed esperta di letteratura. Su Aka non è rimasta che una lingua, e la letteratura non esiste più. Volevo diventare una storica. Ma com’è possibile, su un mondo che ha distrutto la propria storia?»

«Non è facile» disse Tong, con sincera emozione. Si alzò per controllare il registratore di file. «Per favore, Sutty, dimmi una cosa. L’omofobia istituzionalizzata è molto difficile per te?»

«Sono cresciuta circondata dall’omofobia.»

«Sotto gli Unisti.»

«Non solo gli Unisti.»

«Capisco» fece Tong. Rimanendo in piedi, parlò scegliendo con cura le parole, guardandola; lei abbassò lo sguardo. «So che hai vissuto un grande sconvolgimento religioso. E considero la Terra un mondo con una storia condizionata dalle religioni. Quindi, per me, sei la più adatta del nostro gruppo per compiere un’indagine sulle vestigia della religione di questo pianeta, sempre che esistano. Ki Ala non ha nessuna esperienza in fatto di religione, e Garru non è per nulla obiettivo nei confronti di essa.» S’interruppe di nuovo. Sutty non proferì parola. Tong riprese: «La tua esperienza non ha favorito certo un atteggiamento distaccato da parte tua. Aver vissuto tutta la vita sotto la repressione teocratica, e il disordine e la violenza degli ultimi anni di Unismo…».

Sutty doveva parlare, adesso. Disse gelida: «Credo, grazie alla mia formazione, di essere in grado di osservare un’altra cultura senza eccessivi pregiudizi».

«Grazie alla tua formazione e al tuo carattere… sì. Ne sono convinto anch’io. Ma le pressioni di una teocrazia aggressiva, tutto quello che hai dovuto subire, potrebbero benissimo avere lasciato in te un residuo di diffidenza, di resistenza. Quindi, se ti sto chiedendo di osservare qualcosa che detesti, ti prego di dirmelo.»

Trascorsi alcuni istanti che le parvero molto lunghi, lei disse: «La musica non è proprio il mio campo».

«Penso che la musica sia solo un piccolo elemento di qualcosa di molto grande» replicò Tong, lo sguardo mite, implacabile.

«Non c’è problema, allora» disse Sutty. Aveva freddo; si sentiva artificiosa, sconfitta. Le faceva male la gola.

Tong attese un po’, caso mai lei avesse qualcosa da aggiungere, poi accettò le sue parole come una risposta definitiva. Raccolse il microcristallo contenente la registrazione e glielo porse. Sutty lo prese automaticamente.

«Leggilo e ascolta la musica qui in biblioteca, per favore, poi cancellalo» le disse. «La cancellazione è un’arte che dobbiamo apprendere dagli akani. Davvero! Non scherzo. Gli hainiani vogliono tenersi stretto tutto. Gli akani vogliono buttare via tutto. Forse c’è una via di mezzo, eh? Comunque, per la prima volta abbiamo la possibilità di andare in una zona dove forse la storia non è stata del tutto cancellata.»

«Non so se saprò riconoscere quello che vedo, quando lo vedrò. Ki Ala è qui da dieci anni. Tu hai fatto esperienza su altri quattro mondi.» Sutty gli aveva detto che non c’era problema. Aveva detto di essere in grado di svolgere il compito assegnatole. Ma si rese conto che stava ancora frignando, che stava ancora cercando di tirarsi indietro. Sbagliato. Vergognoso.

«Non ho mai vissuto il dramma di una grande rivoluzione sociale» replicò Tong. «E neppure Ki Ala. Noi siamo figli della pace, Sutty. Ho bisogno di una figlia del conflitto. In ogni modo, Ki Ala è analfabeta. Io sono analfabeta. Tu sai leggere.»

«Lingue morte in caratteri proibiti.»

Tong la guardò di nuovo a lungo, in silenzio, con una tenerezza autentica, impersonale, intellettuale. «Credo che tu tenda a sottovalutare le tue capacità, Sutty» disse infine. «Gli Stabili ti hanno scelta, hanno voluto che tu fossi uno dei quattro rappresentanti dell’Ekumene su Aka. Devi renderti conto che la tua esperienza e le tue conoscenze sono indispensabili per me, per il nostro lavoro qui. Per favore, rifletti su quanto ti ho appena detto.»

Attese, finché lei non disse: «D’accordo, lo farò».

«Prima che tu parta per le montagne, sempre che accetti, voglio anche che consideri i rischi. O meglio, che tenga presente che non sappiamo quali possono essere i rischi. Gli akani non sembrano gente violenta, ma è difficile stabilirlo dalla nostra posizione isolata. Non so perché all’improvviso ci abbiano dato il permesso di fare questo viaggio. Avranno sicuramente qualche motivo, qualche scopo, ma noi possiamo scoprirlo solo approfittandone.» Fece una pausa, continuando a guardarla. «Non hanno parlato di accompagnatori, guide, sorveglianti. Forse sarai proprio sola. Forse no. Non lo sappiamo. Nessuno di noi sa com’è la vita fuori dalle città. Tutte le diversità o le uguaglianze, tutto quello che vedi, tutto quello che leggi, tutto quello che registri, sarà importante. So già che sei un’osservatrice sensibile e imparziale. Se su Aka è rimasta qualche traccia di storia, sei il membro della mia squadra più adatto a trovarla. Ad andare in cerca di quelle "storie", o delle persone che le conoscono. Quindi, per favore, ascolta queste canzoni, e poi va’ a casa e pensaci, e comunicami la tua decisione domani. Okay?»

Pronunciò la vecchia parola terrestre un po’ impettito, con un certo orgoglio per quella conoscenza linguistica.

Sutty provò a sorridere. «Okay» annuì.

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