Otto

La sua tenda era illuminata solo dal tenue bagliore della stufetta. Quando Sutty entrò, il Controllore cominciò a girare la piccola manovella che azionava la lampada. L’apparecchio impiegò parecchio tempo ad accendersi, ed emise poi una fioca luminosità.

Sutty si sedette a gambe incrociate nella metà vuota della tenda. A quanto poteva vedere, la faccia del prigioniero non era più gonfia, ma non aveva ripreso colore. Lo schienale del giaciglio era sollevato per consentirgli di sedere col busto quasi in posizione eretta.

«Stai qua al buio, notte e giorno» esordì Sutty. «Dev’essere insolito. Deprivazione sensoriale. Come passi il tempo?» Udì l’asprezza gelida della propria voce.

«Dormo» rispose lui. «Penso.»

«Dunque esisti… Reciti slogan? Avanti, in alto, sempre più in alto? Il pensiero reazionario è il nemico sconfitto?»

Lui non disse nulla.

Vicino al materassino, c’era un libro. Sutty lo prese. Era un libro scolastico, una raccolta di poesie, storie, vite esemplari e via dicendo, per bambini di dieci anni, o giù di lì. Le ci volle qualche istante per rendersi conto che era scritto in ideogrammi, non nel nuovo alfabeto. Si era quasi dimenticata che nel mondo del Controllore, nel mondo moderno di Aka, esisteva solo l’alfabeto, gli ideogrammi erano banditi, illegali, in disuso, dimenticati.

«Sai leggerlo?» domandò, sorpresa e piuttosto spaventata.

«Me l’ha dato Odiedin Manma.»

«Sai leggerlo?»

«Lentamente.»

«Quand’è che hai imparato a leggere la putrida scrittura primitiva antiscientifica, Controllore?»

«Quand’ero bambino.»

«Chi ti ha insegnato?»

«Le persone con cui vivevo.»

«Chi erano?»

«I genitori di mia madre.»

Le sue risposte giungevano sempre dopo una pausa, e a voce bassa, quasi biascicate, parevano le risposte di uno scolaro umiliato da un esaminatore incalzante. Sutty fu sopraffatta da una vergogna improvvisa. Si sentì le gote in fiamme, la testa che le girava.

Ancora sbagliato. Peggio che sbagliato.

Dopo un lungo silenzio, disse: «Ti chiedo scusa per come ti ho parlato. Non mi è piaciuto il tuo comportamento nei miei confronti, sul battello e a Okzat-Ozkat. Sono arrivata a odiarti quando ti ho ritenuto responsabile della distruzione dell’erbario di maz Sotyu Ang, il lavoro di una vita, la sua vita. E di avere braccato i miei amici. E braccato me. Odio il fanatismo in cui credi. Ma cercherò di non odiarti».

«Perché?» chiese lui. La sua voce era fredda, come la ricordava Sutty.

«L’odio divora chi odia» rispose Sutty, citando un passo familiare della Narrazione.

Il Controllore sedeva impassibile, teso come sempre. Lei, invece, cominciò a rilassarsi. La sua confessione aveva dissolto non solo il senso di vergogna ma pure l’oppressione piena di risentimento che provava davanti a quell’individuo. Assunse con le gambe una posizione più comoda, un semiloto, drizzò la schiena. Adesso poteva guardarlo bene, invece di lanciargli occhiate furtive. Osservò per un po’ quella faccia rigida. Il Controllore non voleva o non poteva dire nulla, ma lei sì.

«Vogliono che parli con te» disse. «Vogliono che ti racconti com’è la vita sulla Terra. Le cose brutte e dolorose che troverete alla fine della Marcia verso le Stelle. Così forse comincerai a porti la domanda fatidica: so quello che sto facendo? Ma a te forse non interessa… E sono anche curiosa di sapere com’è la vita di uno come te. Cos’è che fa di un uomo un Controllore. Vuoi dirmelo? Perché vivevi con i nonni? Perché hai imparato a leggere la vecchia scrittura? Sei sulla quarantina, mi pare. Era già proibita quando eri bambino, no?»

Lui annuì. Sutty aveva posato il libro. Il Controllore lo prese, sembrò studiare i tratti armoniosi della calligrafia del titolo sulla copertina: FRUTTI GEMME DELL’ALBERO DEL SAPERE.

«Dimmi» lo sollecitò Sutty. «Dove sei nato?»

«A Bolov Yeda. Sulla costa occidentale.»

«E ti hanno chiamato Yara… "forte"…»

Lui scosse la testa. «Mi hanno chiamato Azyaru.»

Azya Aru. Sutty aveva letto di loro proprio un paio di giorni prima, in una Storia delle Terre Occidentali che Unroy le aveva mostrato durante una delle loro scorrerie nella Biblioteca. Una coppia di maz di due secoli addietro, Azya e Aru erano stati i principali fondatori e apostoli della Narrazione in Dovza. I primi maz tirannici. Eroi della cultura dovzana, fino alla secolarizzazione. Sotto l’Azienda, erano diventati senza dubbio personaggi malvagi, da dimenticare, cancellare.

«I tuoi genitori erano maz, allora?»

«I miei nonni.» Il Controllore teneva il libro come se fosse un talismano. «La prima cosa che ricordo è mio nonno che mi insegna a scrivere la parola "albero".» Il suo dito sulla copertina del libro tracciò i due tratti dell’ideogramma. «Eravamo seduti sulla veranda, all’ombra, da là si vedeva il mare. I pescherecci stavano rientrando. Bolov Yeda è in collina, sopra una baia. La più grande città della costa. I miei nonni avevano una bella casa. C’era un rampicante che cresceva sul portico, fino al tetto, con un tronco grosso e fiori gialli. Ogni giorno, in casa, loro facevano la Narrazione. Di sera, andavano all’umyazu.»

Aveva usato il pronome proibito lui/lei/loro. Non se n’era accorto, rifletté Sutty. La voce del Controllore era diventata sommessa, roca, tranquilla.

«I miei genitori erano insegnanti. Insegnavano la nuova scrittura nella scuola dell’Azienda. Io l’ho imparata, ma preferivo quella vecchia. Mi interessavano la scrittura, i libri. Le cose che mi insegnavano i miei nonni. Loro pensavano che fossi destinato a diventare un maz. La nonna diceva: "Oh, Kiem, lascia che il bambino vada a giocare! ". Ma il nonno voleva che rimanessi in casa a imparare qualche altro carattere, e io volevo sempre accontentarlo. Migliorare… La nonna mi insegnava le cose parlate, le cose che i bambini imparavano della Narrazione. Ma io preferivo la scrittura. Potevo renderla bellissima. Conservarla. Le parole parlate volavano via come il vento, e bisognava sempre ripeterle per tenerle vive. Ma lo scritto rimaneva, e si poteva sempre migliorarlo.»

«Così sei andato a vivere con i nonni, a studiare con loro?»

Lui rispose con la stessa pacatezza, con quella calma quasi sognante. «Quando ero piccolo, vivevamo là tutti insieme. Poi mio padre diventò amministratore scolastico e mia madre entrò a far parte del Ministero dell’Informazione. Furono trasferiti a Tamble, e poi a Dovza City. Mia madre doveva viaggiare parecchio. Fecero carriera in fretta nell’Azienda. Erano funzionari preziosi. Molto attivi. I nonni dissero che per me sarebbe stato meglio restare da loro, mentre i miei genitori erano sempre in giro e lavoravano tanto. Così rimasi con loro.»

«E tu volevi rimanere con loro?»

«Oh, sì» rispose lui, con assoluta franchezza. «Ero felice.»

La parola sembrò echeggiargli nella mente, scuotere la tranquillità con cui stava parlando. Distolse lo sguardo, un movimento improvviso che ricordò chiaramente a Sutty l’incontro nella strada di Okzat-Ozkat, quando lui le si era rivolto rabbioso e supplichevole, dicendole: «Non tradirci!».

Rimasero seduti un po’ senza parlare. Nella Caverna dell’Albero nessun altro si muoveva o stava parlando. Silenzio profondo nel Grembo del Silong.

«Sono cresciuta in un villaggio» disse Sutty. «Con mio zio e mia zia. O meglio, prozio e prozia. Zio Hurree era magro e molto scuro di carnagione, con capelli bianchi ispidi e sopracciglia altrettanto bianche e ispide… sopracciglia terribili. Quando ero piccola, pensavo che quelle sopracciglia sprizzassero lampi ogni volta che le aggrottava. Zietta era una cuoca e un’organizzatrice fantastica. Sapeva gestire qualsiasi situazione. Ho imparato a cucinare prima di imparare a leggere. Ma lo zio mi ha insegnato, alla fine. Era stato professore all’università di Calcutta. Una grande città della mia parte della Terra. Insegnava letteratura. Avevamo cinque stanze nella casa al villaggio, ed erano tutte piene di libri, tranne la cucina. Zietta non voleva libri in cucina. Nella mia stanza ce n’erano mucchi dappertutto, lungo le pareti, sotto il letto e sotto il tavolino. Quando ho visto le caverne della Biblioteca, qui, ho pensato subito alla mia camera a casa.»

«Tuo zio insegnava nel villaggio?»

«No. Si era nascosto, là. Ci eravamo nascosti. I miei genitori si erano nascosti in un altro posto. Si cercava di non attirare l’attenzione. Era scoppiata una specie di rivoluzione. Come la vostra, qui, ma al contrario. Gente che… Ma preferisco ascoltarti invece di parlare. Raccontami cos’è successo. Hai dovuto lasciare i tuoi nonni? Quanti anni avevi?»

«Undici.»

Sutty ascoltò. Il Controllore parlò.

«Anche i miei nonni erano attivi» disse. Il tono adesso era greve, penoso, tuttavia non sembrava restio a raccontare. «Ma non come fedeli produttori-consumatori. Erano capi di una banda di attivisti reazionari clandestini. Fomentavano attività di culto e insegnavano l’antiscienza. Io non capivo. Mi portavano a riunioni organizzate da loro. Non sapevo che fossero riunioni illegali. L’umyazu era chiuso, ma loro non mi avevano detto che l’aveva chiuso la polizia. Non mi mandavano alla scuola dell’Azienda. Mi tenevano in casa e mi insegnavano solo superstizione e moralità deviante. Alla fine, mio padre si rese conto di quello che stavano facendo. Lui e mia madre si erano separati. Non mi vedeva da due anni, ma mi mandò a prendere. Venne un uomo, di notte. Sentii mia nonna parlare a voce alta, gridare quasi, rabbiosa. Non l’avevo mai sentita parlare così. Mi alzai e andai nel soggiorno. Il nonno era seduto, immobile, non mi guardò, non disse nulla. La nonna e uno sconosciuto erano vicini al tavolo, una di fronte all’altro. Guardarono me, poi l’uomo guardò lei. La nonna disse: "Va’ a vestirti, Azyaru, tuo padre vuole che tu vada da lui". Io andai a vestirmi. Quando tornai in soggiorno, erano esattamente come li aveva lasciati: il nonno sedeva come un vecchio sordo e cieco, lo sguardo fisso nel vuoto, e la nonna era in piedi con i pugni stretti sul tavolo, di fronte a quell’uomo. Io cominciai a piangere, dissi che non volevo andar via, che volevo rimanere là. Allora la nonna mi venne vicino e mi prese per le spalle, ma mi spinse, mi spinse verso l’uomo. Lui disse: "Andiamo", e la nonna disse: "Va’, Azyaru!", e io… andai con lo sconosciuto.»

«Dove?» chiese Sutty, in un sussurro.

«Da mio padre, a Dovza City. Andai a scuola là.» Un lungo silenzio. Poi il Controllore chiese: «Parlami… del tuo villaggio. Perché vi nascondevate?».

«Quel che è giusto è giusto» annuì Sutty. «Ma è una storia lunga.»

«Tutte le storie sono lunghe» mormorò lui. Il Fecondatore aveva detto qualcosa del genere, una volta: «Le storie corte sono solo pezzi di quella lunga…».

«La cosa difficile da spiegare è il concetto di dio, nel mio mondo.»

«Conosco dio» fece Yara.

Quelle parole la fecero sorridere. Per un attimo, Sutty si rilassò. «Ne sono certa. Ma quello che potrebbe essere difficile da capire, qui, è cos’è dio, là. Qui, in fondo, è poco più di una parola. Nel vostro teismo di stato, sembra che significhi "ciò che è bene", "ciò che è giusto". È così?»

«Dio è Ragione, sì» rispose lui, piuttosto incerto.

«Be’, sulla Terra, da migliaia di anni è una parola importantissima, per molta gente. E di solito non si riferisce tanto a ciò che è conforme alla ragione quanto invece a ciò che è misterioso, che non si può comprendere. Quindi esistono svariate idee di dio. Secondo una di tali idee, per esempio, dio è un essere che ha creato ogni cosa ed è responsabile di tutto ciò che esiste e accade. Una specie di Azienda eterna universale.»

Yara sembrava attento ma perplesso.

«Dove sono cresciuta io, nel villaggio, conoscevamo quel tipo di dio, ma ne avevamo molti altri tipi. Dèi locali. Tantissimi. In realtà, però, erano tutti uno, lo stesso. Ce n’erano alcuni molto importanti, ma da piccola non è che sapessi granché degli dèi. Sapevo qualcosa solo per via del mio nome. Zietta mi aveva spiegato il mio nome, una volta. Le avevo chiesto: "Perché sono Sutty?", e lei mi aveva detto: "Sutty è la moglie di dio". Allora le avevo chiesto: "Sono la moglie di Ganesh?", perché era il dio che conoscevo meglio, e mi piaceva. Ma lei mi aveva detto: "No, la moglie di Shiva". Di Shiva, allora, sapevo solo che aveva per amico un bellissimo toro bianco e lunghi capelli sporchi ed era il più grande danzatore dell’universo. Con la sua danza crea il mondo e lo distrugge. È molto strano e brutto e digiuna sempre. Zietta mi spiegò che Sutty lo amava tanto che lo sposò contro il volere di suo padre. Sapevo che a quell’epoca non era facile per una ragazza fare una cosa del genere, così Sutty mi sembrava davvero coraggiosa. Poi però Zietta mi disse che Sutty era tornata a trovare suo padre. E suo padre parlò male di Shiva e fu molto scortese con lui. E Sutty si arrabbiò e si vergognò a tal punto che morì. Non fece nulla, morì e basta. Da allora, le mogli fedeli che muoiono quando muoiono i loro mariti sono chiamate come lei. Be’, quando Zietta mi raccontò questo, io dissi: "Perché mi avete messo il nome di una donna così stupida e sciocca?".

«E lo zio, che stava ascoltando, disse: "Perché Sati è Shiva, e Shiva è Sati. Tu sei l’amante e l’afflitto. Tu sei la collera. Tu sei la danza".

«Così decisi che se dovevo essere Sutty, mi andava benissimo, a patto di poter essere anche Shiva…»

Guardò Yara. Era assorto e visibilmente sconcertato.

«Be’, lasciamo perdere questo. È complicatissimo. Comunque, quando si hanno molti dèi, forse è più facile di quando ce n’è uno solo. Avevamo un dio di pietra tra le radici di un grosso albero vicino alla strada. La gente del villaggio dipingeva la pietra di rosso e le offriva del burro, per soddisfare la divinità, e per soddisfare se stessa. Zietta metteva ogni giorno delle calendule ai piedi di Ganesh. Era un piccolo dio di bronzo con un naso da animale, nella stanza sul retro. Era il figlio di Shiva, in realtà. Molto più buono di Shiva. Zietta gli recitava delle cose e gli cantava delle canzoni. Faceva la puja, le devozioni. Io l’aiutavo a fare la puja. Sapevo cantare qualche canzone. Mi piacevano l’incenso e le calendule… Ma le persone di cui devo parlarti, quelle da cui ci nascondevamo, non avevano nessun piccolo dio. Li odiavano. Loro ne avevano uno solo, grande. Un grande dio tirannico. Tutto quello che, secondo loro, dio diceva di fare era giusto. Chi non faceva quello che, secondo loro, dio diceva di fare sbagliava. Molta gente ci credeva. Si chiamavano Unisti. "Un Dio, una Verità, una Terra." E loro… hanno combinato un sacco di guai.»

Quelle parole le sembrarono sciocche, puerili, parole da manualetto elementare per anni di sofferenza.

«Vedi, la mia gente, e mi riferisco a tutti noi sulla Terra, aveva causato danni notevoli al nostro mondo, aveva combattuto per contenderselo, l’aveva sfruttato, devastato. C’erano state calamità, carestie e miseria per troppo tempo. La gente voleva conforto e aiuto. Voleva credere di fare qualcosa di giusto. Seguendo gli Unisti, suppongo, poteva convincersi di non fare mai nulla di sbagliato.»

Yara annuì. Quello l’aveva capito.

«I Padri unisti sostenevano che la causa di tanta sofferenza fosse quella che chiamavano "conoscenza maligna". Se non ci fosse stata conoscenza maligna, la gente sarebbe stata buona. La conoscenza empia andava distrutta per fare posto alla sacra fede. Erano contrari alla scienza, a tutto il sapere, a ogni cosa che non fosse nei loro libri.»

«Come i maz.»

«No, no. Secondo me, ti sbagli, Yara. Non mi pare che la Narrazione escluda qualche conoscenza, o definisca qualche conoscenza maligna, o empia. Non comprende quello che Aka ha imparato nell’ultimo secolo dal contatto con altre civiltà, questo è vero. Ma penso che sia solo perché i maz non hanno avuto il tempo di cominciare a inserire le nuove informazioni nella Narrazione prima che lo Stato Azienda si affermasse come istituzione sociale centrale. Lo Stato Azienda ha sostituito i maz con i burocrati, e poi ha criminalizzato la Narrazione. L’ha costretta alla clandestinità, impedendo che si sviluppasse e crescesse. L’ha chiamata "conoscenza empia", in pratica. Quello che non capisco è perché l’Azienda abbia ritenuto che fosse necessaria una simile violenza, che fosse necessario un uso così brutale del potere.»

«Perché i maz avevano avuto tutta la ricchezza, tutto il potere. Tenevano la gente nell’ignoranza, la istupidivano con riti e superstizioni.»

«Ma i maz non tenevano la gente nell’ignoranza! Cos’è la Narrazione se non insegnare tutto quello che si sa a chiunque voglia ascoltare?»

Il Controllore esitò, si passò una mano sulla bocca. «Quello era il vecchio sistema, forse… Quello di una volta, forse. Ma le cose sono cambiate. In Dovza, i maz erano oppressori dei poveri. Tutta la terra apparteneva all’umyazu. Le loro scuole insegnavano solo conoscenze inutili, fossilizzate. I maz rifiutavano di concedere alla gente la nuova giustizia, il nuovo sapere…»

«Con la violenza?»

Lui esitò ancora.

«Sì. A Beisi la folla reazionaria uccise due funzionari dello Stato Azienda. C’era disobbedienza ovunque. Disprezzo della legge.»

Si massaggiò con energia la faccia, anche se la tempia e la guancia chiazzate di lividi dovevano dolergli.

«È questo che è successo» riprese. «La tua gente è venuta qui e ha portato con sé un nuovo mondo. La promessa che il nostro mondo sarebbe cresciuto, sarebbe migliorato. Ecco cosa volevano darci. Ma coloro che volevano accettare quel mondo erano frenati, ostacolati dalle vecchie usanze. Dalle vecchie consuetudini in ogni campo… I maz continuavano a farfugliare cose accadute diecimila anni fa, sostenendo di sapere tutto di tutto, rifiutandosi di apprendere qualcosa di nuovo, tenendo la gente nella povertà, impedendoci di uscire da una condizione di arretratezza. Erano egoisti. Usurai della conoscenza. Era necessario spingerli da parte, fare largo al futuro. E se continuavano a intralciare il cammino, bisognava punirli. Dovevamo dimostrare alla gente che sbagliavano. I miei nonni sbagliavano. Erano nemici dello stato. Non volevano ammetterlo. Si rifiutavano di cambiare.»

Aveva cominciato a parlare con voce calma, ma aveva concluso col respiro affannoso, lo sguardo fisso di fronte a sé, le mani serrate sul piccolo sillabario.

«Cos’è successo ai tuoi nonni?»

«Furono arrestati poco tempo dopo il mio trasferimento a casa di mio padre. Rimasero un anno in prigione, a Tambe…» Una lunga pausa. «Un gran numero di capi reazionari recalcitranti vennero portati a Dovza City per un giusto processo pubblico. A quelli che abiurarono fu concesso il lavoro riabilitativo nelle aree agricole dell’Azienda.» La sua voce era spenta. «Quelli che non abiurarono furono giustiziati dai produttori-consumatori di Aka.»

«Fucilati?»

«Furono condotti nella Grande Piazza della Giustizia…» Yara s’interruppe di colpo.

Sutty ricordava il posto, un grande spiazzo lastricato, circondato dai quattro imponenti edifici che ospitavano il Tribunale Centrale. Di solito era intasato da veicoli in coda e pedoni frettolosi.

Yara riprese a parlare, continuando a guardare di fronte a sé, a guardare la scena che stava raccontando.

«Erano tutti in mezzo alla piazza, dentro un perimetro di corda, sorvegliati dalla polizia. La gente era arrivata da ogni parte per vedere applicata la pena. C’erano migliaia di persone nella piazza. Tutte attorno ai criminali. E in tutte le strade che conducevano nella piazza. Mio padre mi portò ad assistere. Eravamo a una finestra del palazzo della Corte Suprema. Mi mise davanti a lui, perché vedessi. C’erano mucchi di pietre, pietre di umyazu demoliti, grossi mucchi di pietre agli angoli della piazza. Non sapevo a cosa servissero. Poi la polizia diede un ordine, e tutti avanzarono verso il centro della piazza, dove si trovavano i criminali. Cominciarono a percuoterli con le pietre. Alzavano e abbassavano le braccia e… Avrebbero dovuto scagliarle, le pietre, lapidare i criminali, ma c’era troppa gente. La piazza era troppo affollata. Centinaia di poliziotti, e tutta quella gente. Così li picchiarono a morte. Fu una cosa lunga.»

«Hai dovuto guardare?»

«Mio padre voleva che vedessi che avevano sbagliato.»

Yara parlava con voce abbastanza ferma, ma la sua mano, la bocca, lo tradivano. Non aveva mai lasciato quella finestra affacciata sulla piazza. Aveva dodici anni ed era là, a guardare per il resto della vita.

Così aveva visto che i suoi nonni avevano sbagliato. Cos’altro poteva aver visto?

Ancora un lungo silenzio. Di entrambi.

Seppellire il dolore in profondità, così in profondità da non doverlo mai più provare. Seppellirlo sotto qualsiasi cosa, ogni cosa. Essere un bravo figliolo. Una brava ragazza. Camminare sulle tombe e non abbassare mai lo sguardo. Tieni lontano il cane che è amico della gente… Ma non c’erano tombe. Facce spappolate, crani sfondati, capelli grigi sporchi di sangue raggrumato… ammucchiati in mezzo a una piazza.

Frammenti ossei, otturazioni, schizzi finissimi di carne esplosa, una zaffata di gas. L’odore dell’incendio tra le rovine di un edificio sotto la pioggia.

«Così, poi sei vissuto a Dovza City. E sei entrato nell’Azienda. Nel Dipartimento Socioculturale.»

«Mio padre assunse degli insegnanti privati per me. Per correggere la mia istruzione. Superai gli esami brillantemente.»

«Sei sposato, Yara?»

«Lo sono stato. Per due anni.»

«Niente figli?»

Lui scosse la testa.

Continuò a fissare il vuoto. Era seduto rigido, immobile. Il sacco a pelo era tenuto sollevato sopra un ginocchio da una specie di intelaiatura costruita da Tobadan per immobilizzare l’arto e alleviare il dolore. Il piccolo libro era vicino alla sua mano: FRUTTI GEMME DELL’ALBERO DEL SAPERE.

Sutty si piegò in avanti per sciogliere i muscoli delle spalle, si drizzò di nuovo.

«Goiri mi ha chiesto di parlarti del mio mondo. Forse posso farlo, perché la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua, sotto certi aspetti… Ti ho parlato degli Unisti. Una volta assunto il governo della nostra parte del paese, cominciarono a effettuare nei villaggi quelle che chiamavano operazioni di purificazione. La situazione era sempre più critica, per noi. La gente ci diceva di nascondere i nostri libri, o di gettarli nel fiume. Zio Hurree stava morendo, allora. Aveva il cuore stanco, diceva. Disse a Zietta di sbarazzarsi dei libri, ma lei non lo fece. E lui morì circondato dai suoi libri.

«Dopo la morte dello zio, i miei genitori riuscirono a fare andar via dall’India Zietta e me. Ci mandarono dall’altra parte del mondo, in un altro continente, a nord, in una città dove il governo non era religioso. C’erano alcune città del genere, perlopiù dove l’Ekumene aveva fondato scuole che insegnavano il sapere hainiano. Gli Unisti odiavano l’Ekumene e volevano tenere lontano dalla Terra tutti gli extraterrestri, ma avevano paura di provare a farlo direttamente. Così incoraggiavano il terrorismo contro le Riserve e le installazioni ansible e tutte le altre cose di cui erano responsabili i demoni extraplanetari.»

Usò la parola inglese "demoni", perché non ne esisteva una analoga in dovzano. S’interruppe un attimo, trasse volutamente un respiro profondo. Yara sedeva in assoluto silenzio, ansioso di ascoltare.

«Così andai al liceo e all’università in quella città, e iniziai l’addestramento per lavorare per l’Ekumene. In quel periodo, più o meno, l’Ekumene mandò sulla Terra un nuovo rappresentante, un uomo di nome Dalzul, che era cresciuto sulla Terra. Dalzul riuscì a esercitare un’influenza considerevole tra i Padri unisti. In poco tempo, lasciarono che fosse lui ad assumere il controllo in misura sempre maggiore, a dare gli ordini. Dicevano che era un angelo… sarebbe un messaggero di dio. Alcuni di loro cominciarono a dire che avrebbe salvato tutta l’umanità e che li avrebbe avvicinati a dio, e così…» Non esisteva nessuna parola akana che significasse "adorazione". «Si stendevano a terra davanti a lui e lo lodavano e lo supplicavano di essere buono con loro. E facevano qualsiasi cosa Dalzul dicesse loro di fare, perché quella era la loro idea di comportarsi bene… obbedire agli ordini di dio. E pensavano che Dalzul parlasse a nome di dio. O che fosse dio. Così, nel giro di un anno, Dalzul li costrinse a smantellare il regime teocratico. Nel nome di dio.

«La maggior parte delle vecchie regioni e dei vecchi stati stavano ripristinando governi democratici, sceglievano i loro capi attraverso le elezioni, e ricostituivano l’Unione Terrestre, e accoglievano volentieri la gente degli altri mondi dell’Ekumene. Fu un periodo eccitante. Era meraviglioso vedere l’Unismo che crollava, si sgretolava. Un numero sempre più grande di credenti era convinto che Dalzul fosse dio, ma per un numero altrettanto grande di credenti Dalzul era invece il… il contrario di dio, assolutamente malvagio. Alcuni di questi, chiamati Penitenti, andavano in processione cospargendosi la testa di cenere, e si frustavano a vicenda per espiare la colpa di avere frainteso il volere di dio. E si crearono molti gruppi autonomi, che sceglievano come loro Salvatore un Padre unista o qualche capo terrorista e prendevano ordini da lui. Erano tutti pericolosi, erano tutti violenti. I Dalzuliti dovevano proteggere Dalzul dagli anti-Dalzuliti, che volevano ucciderlo. Tutti piazzavano bombe in continuazione, tentavano attacchi suicidi. Tutti. Avevano sempre usato la violenza, perché il loro credo la giustificava. Secondo il loro credo, dio ricompensava coloro che distruggevano i miscredenti e la miscredenza. Ma perlopiù si distruggevano a vicenda, facendosi a pezzi. Le chiamavano Guerre Sante. Un periodo spaventoso, ma non sembrava che ci fossero problemi seri per il resto di noi… L’Unismo si stava semplicemente autodistruggendo.

«Be’, prima che si arrivasse a quel punto, quando la Liberazione era appena iniziata, la mia città fu liberata. E ballammo nelle strade. E io vidi una donna che ballava. E m’innamorai di lei…»

Sutty s’interruppe.

Era stato tutto abbastanza facile, fino a quel punto. Un punto oltre il quale non era mai andata. La storia che aveva raccontato solo a se stessa, solo in silenzio, prima di dormire, terminava lì. Sentì la gola serrarsi.

«So che secondo te è una cosa sbagliata» disse.

Dopo un’esitazione, Yara rispose: «Dato che da una unione di questo tipo non può nascere nessun bambino, il Comitato per l’Igiene Morale ha dichiarato…».

«Sì, lo so. I Padri unisti hanno dichiarato la stessa cosa. Perché dio ha creato la donna come ricettacolo del seme maschile… Ma dopo la Liberazione, non dovevamo nasconderci per paura di essere mandate in qualche campo di rinascita. Come le vostre coppie di maz che vengono mandate nei centri di riabilitazione.» Sutty lo guardò, provocatoria.

Lui non raccolse la provocazione. Accettò le sue parole, e attese, disposto ad ascoltare.

Sutty non poteva girare attorno all’argomento, né evitarlo. Doveva affrontarlo, parlandone. Doveva raccontare.

«Siamo vissute insieme due anni» riprese. La voce le uscì così bassa che Yara si piegò un po’ verso di lei per sentire. «Lei era molto più graziosa di me. E molto più intelligente. E più dolce. E rideva. A volte, rideva nel sonno. Si chiamava Pao.»

Con il nome arrivarono le lacrime, ma le tenne a freno.

«Io avevo due anni più di lei, ed ero avanti di un anno nello studio. Per stare con lei, rimasi un altro anno a Vancouver. Poi dovetti partire e iniziare l’addestramento al Centro Ekumenico, in Cile. Un paese molto lontano, a sud. Pao mi avrebbe raggiunta una volta ottenuta la laurea. Avremmo studiato assieme e formato una squadra, una squadra di Osservatori. Saremmo andate insieme su nuovi mondi. Piangemmo parecchio quando dovetti partire per il Cile, ma la separazione fu meno dolorosa di quello che pensavamo. Non fu affatto dolorosa, anzi, perché potevamo parlare sempre al telefono e in rete, e sapevamo che ci saremmo riviste in inverno, e poi, dopo la primavera, lei mi avrebbe raggiunta e saremmo rimaste insieme per sempre. Eravamo insieme. Eravamo come maz. Eravamo due che non erano due, ma uno. In fondo era un piacere, una gioia, sentire la sua mancanza, perché lei per me esisteva comunque, e potevo sentire la sua mancanza. Lei mi disse la stessa cosa, disse che quando fossi tornata a Vancouver in inverno le sarebbe mancato il fatto di sentire la mia mancanza…»

Sutty aveva cominciato a piangere, ma erano lacrime facili, non amare. Dovette solo interrompersi per tirar su col naso e asciugarsi gli occhi.

«Così tornai a Vancouver per le vacanze. In Cile era estate, ma a Vancouver, inverno. E noi… ci abbracciammo e ci baciammo e preparammo il pranzo. E andammo a trovare i miei genitori e quelli di Pao, e a passeggiare nel parco, dove c’erano grandi alberi, vecchi alberi. Pioveva. Piove parecchio, là. Mi piace la pioggia.»

Le lacrime erano cessate.

«Pao andò in biblioteca, in centro, a cercare qualcosa per gli esami che avrebbe dato dopo le vacanze. Volevo andare con lei, ma avevo il raffreddore, così lei mi disse di rimanere in casa per non bagnarmi… e poi io avevo voglia di poltrire, così restai nel nostro appartamento, e mi addormentai.

«Ci fu un attacco di terroristi della Guerra Santa. Erano un gruppo chiamato Purificatori della Terra. Credevano che Dalzul e l’Ekumene fossero servi dell’anti-dio e andassero eliminati. Molti di loro aveva fatto parte delle forze armate uniste. Disponevano di alcune delle armi accumulate dai Padri unisti e le usavano contro le scuole.»

Sutty udì la propria voce, spenta come poco prima quella di Yara.

«Usarono degli aerei telecomandati, bombardieri senza equipaggio. Da centinaia di chilometri di distanza, dal North Dakota e dal South Dakota. Stando nascosti sottoterra e premendo un pulsante, mandarono i bombardieri. Fecero saltare in aria l’università, la biblioteca, interi isolati del centro, migliaia di persone rimasero uccise. Cose del genere accadevano di continuo nelle Guerre Sante. Lei era solo una persona fra tante. Non era nessuno, non contava nulla, era solo una persona. Io ero a casa. Sentii il rumore delle esplosioni…»

La gola le faceva male, ma le faceva sempre male. Le avrebbe fatto sempre male.

Per un po’, non riuscì a dire altro.

Yara chiese sommesso: «I tuoi genitori rimasero uccisi?».

La domanda la commosse. La rianimò, consentendole di rispondere. Disse: «No. Rimasero illesi. Mi trasferii da loro. Poi tornai in Cile».

Restarono seduti in silenzio. Nella montagna, nelle caverne piene di essere. Sutty era stanca, esausta. Dalla faccia e dalle mani di Yara, capì che anche lui era stanco, e che soffriva. Il silenzio che li accomunava dopo le parole era calmo, una benedizione meritata.

Trascorso parecchio tempo, Sutty udì delle persone che parlavano, e si scosse dal silenzio.

Sentì la voce di Odiedin, e dopo alcuni istanti, fuori dalla tenda, il maz chiamò: «Yara?».

«Entra» lo invitò Yara. Sutty scostò il lembo dell’apertura.

«Ah» fece Odiedin. Nel debole bagliore della lanterna, la sua faccia scura dagli zigomi marcati che sbirciava all’interno, guardandoli, era una simpatica maschera da folletto.

«Abbiamo parlato» disse Sutty. Uscì dalla tenda e si fermò accanto a Odiedin, stiracchiandosi.

«Sono venuto per i tuoi esercizi fisici» disse Odiedin a Yara, inginocchiandosi nell’apertura.

«Si rimetterà in piedi presto?» chiese Sutty al maz.

«Usare le stampelle è doloroso, a causa delle lesioni alla schiena» spiegò Odiedin. «Alcuni muscoli sono ancora strappati. Continuiamo la cura.»

Entrò nella tenda, carponi.

Sutty fece per allontanarsi, poi si voltò e guardò dentro. Andarsene senza una parola, dopo una conversazione come quella, era sbagliato.

«Tornerò domani, Yara» disse. Lui borbottò qualcosa sottovoce. Sutty si drizzò, e guardò la caverna nel bagliore fioco che proveniva dalle altre tende. Non riuscì a vedere l’intaglio dell’Albero nella parete in fondo, solo un paio di minuscole gemme che scintillavano nel fogliame.

La Caverna dell’Albero aveva un’uscita che portava all’esterno, non lontano dalla tenda di Yara. Imboccando l’uscita, si attraversava una caverna più piccola e si arrivava a un breve passaggio che terminava con un arco così basso che bisognava strisciare per uscire alla luce del sole.

Sutty sbucò dal cunicolo e si alzò in piedi. Aveva tirato fuori gli occhiali scuri, aspettandosi di rimanere abbagliata, ma il sole, nascosto tutto il pomeriggio dalla grande mole del Silong, stava tramontando o era tramontato. La luce era delicata, con una lieve sfumatura viola. Nelle ultime ore era caduta un po’ di neve. L’ampio semicerchio della conca, come un palcoscenico visto dal fondale, si stendeva pallido e senza una sola impronta fino al margine esterno. L’aria era immota, lì, sotto la parete della montagna, ma là in fondo, sull’orlo, a un centinaio di metri, il vento sollevava e lasciava cadere la neve fine e asciutta, formando turbini e mulinelli impalpabili, in perenne movimento.

Sutty era stata sull’orlo solo una volta. Il precipizio sottostante era uno strapiombo di almeno un chilometro, un abisso. Le aveva fatto girare la testa, e mentre era là, il vento l’aveva investita con raffiche insidiose.

Spinse lo sguardo oltre la lieve danza incessante dei turbini di neve, attraverso il vuoto dell’aria crepuscolare, fino allo Zubuam. Le pendici del Tonante erano indistinte, pallide e remote, di sera. Rimase a lungo a osservare la luce che si spegneva a poco a poco.


Andava a parlare con Yara quasi tutti i pomeriggi, dopo avere esplorato un altro settore della Biblioteca e avere lavorato con i maz che la stavano catalogando. Non tornarono mai apertamente su quello che si erano detti delle rispettive vite, anche se era alla base di tutto ciò che dicevano, una base lugubre.

Una volta, Sutty gli chiese se sapesse perché l’Azienda aveva accolto la richiesta di Tong Ov, permettendo a un’extraplanetaria di uscire dall’ambiente controllato di Dovza City, dove l’accesso alle informazioni importanti non era consentito. «Ero un esperimento?» chiese. «O un’esca?»

Non fu facile per Yara superare le abitudini della sua vita di funzionario, della vita di tutti i burocrati: proteggere e accrescere il proprio potere nascondendo informazioni, lasciando che il silenzio sottintendesse che era in possesso di informazioni anche quando non era vero. Si era attenuto a quella regola per tutta la sua vita adulta, e probabilmente adesso non sarebbe riuscito a staccarsene se da bambino non fosse vissuto nella Narrazione. Comunque, rispondere gli costò uno sforzo visibile. Sutty osservò la lotta interiore, e provò un senso di colpa. Giacendo in quella tenda, prigioniero delle sue ferite, dipendente dai suoi nemici, Yara non disponeva che dell’arma del silenzio. Per rinunciarvi e parlare, bisognava essere valorosi. Cedere quel poco che si aveva in mano.

«Il mio dipartimento non è stato informato» esordì, poi s’interruppe, e ricominciò: «Credo che ci siano stati…» e infine, caparbio, riprese da capo, parlando il gergo burocratico della sua professione. «Da parecchi anni, si svolgono discussioni ad alto livello riguardanti la politica estera. Dato che una nave akana è in viaggio alla volta di Hain, ed essendo a conoscenza del fatto che è previsto l’arrivo di una nave ekumenica l’anno prossimo, alcuni elementi nell’ambito del Consiglio hanno propugnato una politica più distensiva. È stato detto che potrebbe essere vantaggioso aprire alcune porte per consentire un incremento del reciproco scambio di informazioni. Altri elementi, ai quali spetta prendere decisioni in tali questioni, erano dell’avviso che il controllo della dissidenza da parte dell’Azienda fosse ancora troppo incompleto e che un atteggiamento lassistico fosse poco opportuno. Un… una forma di compromesso è stata alla fine raggiunta tra le diverse correnti di opinione.»

Quando Yara ebbe esaurito le costruzioni passive, Sutty fece una sommaria traduzione mentale e disse: «Così, io ero il compromesso? Un esperimento, allora. E a te hanno assegnato l’incarico di sorvegliarmi e riferire».

«No» replicò Yara, di colpo brusco, schietto. «L’ho chiesto io. Mi hanno autorizzato. All’inizio. Pensavano che quando tu avessi visto la povertà e l’arretratezza della regione di Rangma, saresti tornata subito in città. Quando ti sei fermata a Okzat-Ozkat, l’Esecutivo Centrale non sapeva come esercitare il controllo senza apparire offensivo. Il mio dipartimento ha dovuto obbedire di nuovo a ordini dall’alto. Io ho consigliato che ti richiamassero nella capitale. Perfino i miei superiori, del mio dipartimento, hanno ignorato i miei rapporti. Mi hanno ordinato di tornare nella capitale. Non vogliono ascoltare. Non credono alla forza dei maz nelle cittadine e nella campagna. Pensano che la Narrazione sia finita!»

Parlò con una collera intensa e desolata, prigioniero della trappola della propria sofferenza, una sofferenza complessa e insolubile. Sutty non seppe cosa dirgli.

Il loro silenzio diventò a poco a poco più sereno, mentre ascoltavano il silenzio puro delle caverne, e vi si abbandonavano.

«Avevi ragione» disse infine Sutty.

Lui scosse il capo, sprezzante, impaziente. Ma quando lei se ne andò, dicendogli che sarebbe tornata l’indomani, le sussurrò: «Grazie, yoz Sutty». Appellativo servile, fraseologia rituale insignificante. Dal profondo del cuore.

Dopo quella volta, le loro conversazioni furono più rilassate. Yara voleva che lei gli parlasse della Terra, ma per lui era difficile capire, e spesso, anche se Sutty pensava che avesse capito, Yara negava. Protestò: «Mi parli solo di distruzione, di azioni crudeli, di come sono andate male le cose. Tu odi la tua Terra».

«No» replicò lei. Guardò la parete della tenda. Vide la curva della strada appena prima dell’inizio del villaggio, e la polvere ai margini della strada, dove lei e Moti giocavano. Polvere rossa. Moti le aveva insegnato a costruire piccoli villaggi di fango e di sassolini, piantando fiori tutt’intorno a essi. Lui aveva un anno intero più di Sutty. I fiori appassivano subito al sole rovente dell’estate interminabile. Si arricciavano e cadevano e tornavano nel fango rosso scuro che seccava e diventava polvere morbida.

«No, no» disse. «Il mio mondo è talmente bello che la sua bellezza non si può descrivere, e io lo amo, Yara. Quello che ti sto dicendo è propaganda. Sto cercando di spiegarti perché, prima di cominciare a imitare quello che facciamo, il tuo governo avrebbe fatto meglio a guardare bene chi siamo. E cosa abbiamo fatto a noi stessi.»

«Ma siete venuti qui. E avevate tante conoscenze che noi non avevamo.»

«Lo so, lo so. Gli hainiani hanno fatto la stessa cosa con noi. Abbiamo cercato di copiare gli hainiani, di raggiungere il livello degli hainiani, fin da quando ci hanno trovato. Forse l’Unismo rappresentava anche una protesta contro quello. Una rivendicazione del nostro sacrosanto diritto di essere sciocchi, irragionevoli e ipocriti a modo nostro, maledizione, non nel modo di qualcun altro.»

Yara rifletté. «Ma noi dobbiamo imparare. E tu hai detto che l’Ekumene ritiene che sia sbagliato nascondere qualsiasi conoscenza.»

«L’ho detto. Ma gli storici studiano il modo in cui la conoscenza dovrebbe essere insegnata, perché quello che la gente impara sia conoscenza autentica, non frammenti sparsi che non combaciano. C’è una parabola hainiana, la parabola dello specchio. Se il vetro è intero, riflette il mondo intero, ma rotto, mostra solo frammenti, e taglia le mani che lo tengono. Quello che la Terra ha dato ad Aka è una scheggia dello specchio.»

«Forse è per questo che i Dirigenti hanno mandato indietro gli Emissari.»

«Gli Emissari?»

«Gli uomini della seconda nave dalla Terra.»

«Seconda nave?» ripeté Sutty, allarmata e perplessa. «C’è stata solo una nave proveniente dalla Terra, prima di quella che ha portato me.»

Ma mentre parlava, ricordò l’ultima lunga conversazione con Tong Ov. Tong le aveva chiesto se pensava che i Padri unisti, agendo senza informare l’Ekumene, potessero aver mandato dei missionari su Aka.

«Parlamene, Yara! Non so nulla di quella nave.»

Sutty vide che Yara si ritraeva impercettibilmente, lottando contro la riluttanza istintiva a rispondere. "Questa è un’informazione riservata" pensò. "Nota solo alle alte sfere. Non fa parte della storia ufficiale dell’Azienda. Anche se, senza dubbio, loro davano per scontato che noi ne fossimo al corrente."

«È venuta una seconda nave, ed è stata rimandata sulla Terra?» chiese.

«Pare di sì.»

Sutty inviò un tacito messaggio disperato al profilo rigido di Yara: "Oh, non fare il burocrate con la bocca cucita!". Ma non disse nulla. Poco dopo, lui parlò ancora.

«C’erano registrazioni della visita. Io non le ho mai viste.»

«Cosa ti hanno detto delle navi dalla Terra… puoi raccontarmelo?»

Lui meditò un po’. «La prima arrivò nell’anno Redan Trenta. Settantadue anni fa. Atterrò vicino ad Abazu, sulla costa orientale. C’erano diciotto fra uomini e donne a bordo.» Le lanciò un’occhiata per verificare la precisione di quei dati, e Sutty annuì. «I governi provinciali che allora erano ancora al potere nell’Est decisero di lasciare che gli extraplanetari andassero dove volevano. Gli extraplanetari dissero che erano venuti per conoscerci, per invitarci a entrare a far parte dell’Ekumene. Ci spiegavano tutto quello che desideravamo sapere della Terra e degli altri mondi, ma precisarono che erano venuti non come narratori, bensì come ascoltatori. Come yoz, non maz. Rimasero qui cinque anni. Una nave venne a prenderli, e col sistema ansible della nave inviarono alla Terra una narrazione di quello che avevano appreso qui.» Guardò di nuovo Sutty, per avere la conferma che il resoconto era stato accurato.

«La maggior parte di quella narrazione è andata perduta» disse Sutty.

«Sono tornati sulla Terra?»

«Non lo so. Io ho lasciato la Terra sessant’anni fa, sessantuno adesso. Se sono tornati durante il dominio unista, o durante le Guerre Sante, può darsi che li abbiano ridotti al silenzio, o imprigionati, o fucilati… Ma c’è stata una seconda nave?»

«Sì.»

«L’Ekumene finanziò quella prima nave. Ma non finanziò un’altra spedizione dalla Terra, perché gli Unisti si erano impadroniti del potere. Ridussero al minimo i contatti con l’Ekumene. Continuavano a chiudere porti e centri d’insegnamento, minacciando di espellere gli extraplanetari, lasciando che i terroristi danneggiassero gli impianti. Se dalla Terra è partita una seconda nave, l’hanno mandata gli Unisti. Non ne ho mai sentito parlare, Yara. Sicuramente, questa notizia non è mai stata data alla gente comune.»

Accettando le sue parole, lui disse: «Arrivò due anni dopo la partenza della prima. C’erano cinquanta persone a bordo, con un maz tirannico, un capo. Si chiamava Fodderton. Atterrò in Dovza, a sud della capitale. Il suo equipaggio si mise subito in contatto con i Dirigenti dell’Azienda. Dissero che la Terra avrebbe dato ad Aka tutte le sue conoscenze. Portavano informazioni di ogni genere, informazioni tecnologiche. Ci spiegarono che dovevamo smettere di fare le cose secondo le vecchie usanze ignoranti e cambiare modo di pensare, per imparare quello che potevano insegnarci. Avevano progetti, e libri, e ingegneri e teorici per insegnarci le nuove tecniche. Avevano un ansible sulla loro nave, così dalla Terra potevano giungere subito le informazioni di cui avevamo bisogno».

«Uno scatolone pieno di giocattoli» sussurrò Sutty.

«Cambiò tutto. L’Azienda si rafforzò enormemente. Fu il primo passo della Marcia verso le Stelle. Poi… non so cos’è successo. Ci dissero soltanto che all’inizio Fodderton e gli altri ci davano le informazioni gratuitamente, ma poi avevano cominciato a negarcele e a chiedere in cambio un prezzo assurdo.»

«Posso immaginare che prezzo fosse» commentò Sutty.

Yara la fissò con aria interrogativa.

«La vostra parte immortale» disse Sutty. Non c’era nessuna parola akana che corrispondesse ad "anima". Yara attese che lei spiegasse. «Immagino che quell’individuo avrà detto: "Dovete credere. Dovete credere nell’Unico Dio. Dovete credere che solo io, Padre John, sono la voce di dio su Aka. Solo la storia che racconto io è vera. Se obbedirete a dio e a me, vi diremo tutte le cose meravigliose che sappiamo. Ma il prezzo della nostra Narrazione è alto. Più di qualsiasi somma di denaro!".»

Yara annuì dubbioso, e rifletté. «Fodderton disse proprio che il Consiglio Esecutivo avrebbe dovuto eseguire i suoi ordini. Ecco perché l’ho chiamato "maz tirannico".»

«Lo era.»

«Non so se abbia detto le altre cose… A noi dissero che c’erano state delle divergenze politiche, e che la nave e gli Emissari erano stati rimandati sulla Terra. Comunque… non sono sicuro che sia andata davvero così.» Yara sembrava a disagio, e meditò a lungo su quanto si accingeva ad aggiungere. «A New Alyuna ho conosciuto un ingegnere che ha lavorato alla costruzione dell’Aka Uno.» Si riferiva alla nave QVCLL (Quasi Veloce Come La Luce) in viaggio da Aka a Hain, l’orgoglio dell’Azienda. «Mi ha detto che avevano usato la nave terrestre come modello. Forse intendeva dire che avevano i progetti. Ma dal modo in cui l’ha detto, sembrava che fosse stato a bordo di quella nave. Era ubriaco. Non so…»

I cinquanta missionari-conquistatori unisti molto probabilmente erano morti in qualche campo di lavoro dell’Azienda. Tuttavia Sutty si rese conto in quel momento che Dovza stessa era stata tradita e aveva finito col tradire il resto di Aka.

Era una storia che rattristava. Tutti i vecchi errori, ripetuti in continuazione. Sutty sospirò forte. «Così, non avendo modo di distinguere gli Emissari unisti dagli Osservatori ekumenici, da allora ci avete trattati con estrema diffidenza… Sai, Yara, penso che i vostri Dirigenti siano stati saggi a rifiutare l’affare proposto da Padre John. Anche se probabilmente loro consideravano la cosa una semplice lotta per il potere. Quello che è difficile da capire è che perfino il dono della conoscenza aveva un prezzo. E lo ha ancora.»

«Sì, certo che ce l’ha» fece Yara. «Solo che non sappiamo quale sia. Perché la tua gente nasconde il prezzo?»

Sutty lo fissò, perplessa.

«Non lo so» rispose. «Non mi ero resa conto che… Devo pensarci.»

Yara si appoggiò allo schienale del giaciglio, l’aria stanca. Si strofinò gli occhi, e li chiuse. Disse sottovoce: «Il dono è il lampo» citando evidentemente un passo della Narrazione.

Sutty vide degli splendidi ideogrammi arcuati sulla parte superiore di una parete bianca immersa nella penombra: "L’albero-lampo biforcuto cresce dalla terra". Vide le mani scure e consunte di Sotyu Ang congiungersi nella forma di una vetta sopra il cuore. "Il prezzo è zero…"

Rimasero seduti in silenzio, seguendo ognuno i propri pensieri.

Molto tempo dopo, Sutty chiese: «Yara, conosci la storia del caro Takieki?».

Lui la fissò, poi annuì. Era un ricordo d’infanzia, evidentemente, e richiedeva una breve operazione di ricerca prima di emergere. Trascorsi alcuni istanti, Yara disse deciso: «Sì».

«Il caro Takieki era davvero uno sciocco? Voglio dire, era stata sua madre a dargli il sacco di farina di fagioli. Forse Takieki ha fatto bene a non cederlo, rifiutando qualsiasi offerta.»

Yara meditò. «Mia nonna mi raccontò questa storia. Ricordo di avere pensato che mi sarebbe piaciuto poter andare dovunque, come lui, senza nessuno che badasse a me. Ero ancora piccolo, i nonni non mi lasciavano andare in giro da solo. Così dissi che secondo me Takieki probabilmente voleva continuare a camminare. Non fermarsi in una fattoria. E la nonna mi chiese cos’avrebbe fatto Takieki una volta finito il cibo. Io le risposi: "Forse può contrattare. Forse può dare ai maz una parte della farina di fagioli e tenerne un po’ per sé, e prendere appena qualche moneta d’oro. Così potrà continuare a camminare, e comprare ugualmente da mangiare quando arriverà l’inverno".»

Sorrise fiacco, al ricordo, ma la sua faccia era ancora turbata.

Era sempre una faccia turbata. Sutty ricordava com’era un tempo quella faccia: dura, gelida, chiusa. Adesso era stata aperta a forza.

Yara era preoccupato a ragione. Non stava facendo progressi per quanto riguardava la deambulazione. Il ginocchio non era ancora in grado di sostenere il peso del corpo se non per pochi minuti, e la lesione ai muscoli della schiena gli impediva di usare le stampelle, se non voleva soffrire e rischiare di rallentare la guarigione. Odiedin e Tobadan lavoravano con lui ogni giorno, con infinita pazienza. Yara reagiva alla loro sollecitudine con il suo atteggiamento di pazienza ostinata, ma l’espressione preoccupata non abbandonava mai il suo viso.


Due gruppi avevano già lasciato il Grembo del Silong, andandosene alla chetichella alle prime luci dell’alba: alcune persone, un paio di minule carichi. Nessuna carovana con bandiere sventolanti.

La vita nelle caverne era gestita basandosi quasi interamente sulla consuetudine e il consenso generale. Sutty aveva notato che si evitava di proposito qualsiasi struttura gerarchica. Le persone stavano attente a non far pesare la propria autorità. Accennò alla cosa parlando con Unroy, che disse: «È questo che è andato storto nel secolo precedente l’arrivo dell’Ekumene».

«I maz tiranni» fece Sutty, esitante.

«I maz tiranni» confermò Unroy, sorridendo. Era sempre stuzzicata da certe espressioni usate da Sutty, e dai suoi arcaismi rangma. «La Riforma Dovzana. Gerarchie di potere. Lotte per il potere. Umyazu enormi e ricchi che tassavano i villaggi. Usura monetaria e spirituale! La tua gente è arrivata in un brutto momento, yoz.»

«Le navi arrivano sempre nel nuovo mondo in un brutto momento» commentò Sutty. Unroy le lanciò un’occhiata leggermente sorpresa.

Ammesso che si potesse dire che qualcuno dirigeva le cose al Grembo del Silong, le persone cui spettava tale compito erano i maz Igneba e Ikak. Una volta ottenuto il consenso generale, le decisioni specifiche venivano prese da loro. Una di queste decisioni era stabilire l’ordine e il momento in cui la gente doveva partire. Una sera Ikak andò da Sutty all’ora di cena. «Yoz Sutty, se non hai nulla in contrario, il tuo gruppo partirà tra quattro giorni.»

«Tutto il gruppo di Okzat-Ozkat?»

«No. Tu, maz Odiedin Manma, Long e Ieyu, avremmo pensato. Un piccolo gruppo, con un mìnule. Dovreste riuscire a viaggiare veloci e scendere nelle colline prima della stagione autunnale.»

«Benissimo, maz» disse Sutty. «Mi dispiace moltissimo andarmene con tanti libri ancora da leggere.»

«Forse puoi tornare. Forse puoi salvare i libri per i nostri bambini.»

Quella speranza ardente e struggente che avevano tutti, la speranza riposta in lei e nell’Ekumene: ogni volta che ne avvertiva l’intensità, Sutty si spaventava.

«Cercherò di farlo, maz» disse. Poi… «Ma… e Yara?»

«Dovranno trasportarlo. I guaritori dicono che non sarà in grado di percorrere lunghe distanze prima che la stagione cambi. I vostri due giovani saranno nel suo gruppo, e Tobadan Siez, e due delle nostre guide, e tre minule con uno stalliere. Un gruppo numeroso, ma non si può fare diversamente. Partiranno domattina, intanto che il bel tempo regge. Purtroppo non sapevamo che Yara non sarebbe stato in grado di camminare. Altrimenti li avremmo fatti partire prima. Ma prenderanno il Sentiero di Reban, il più agevole.»

«Che ne sarà di lui, una volta arrivati in Amareza?»

Ikak allargò le mani. «Cosa possiamo fare? Tenerlo prigioniero! Dobbiamo farlo! Potrebbe indicare alla polizia la posizione esatta delle caverne. Manderebbero qui della gente il più in fretta possibile, a piazzare cariche esplosive, a distruggere tutto. Come hanno distrutto la Grande Biblioteca di Marang, e tutte le altre biblioteche. La politica dell’Azienda non è cambiata. A meno che tu non riesca a convincerli a cambiarla, yoz Sutty. A lasciare stare i libri, a lasciare che l’Ekumene venga a studiarli e a salvarli. Se questo accadesse, noi lo libereremmo, naturalmente. Ma se lo libereremo, la sua gente lo arresterà e lo imprigionerà per azioni non autorizzate. Poveretto, non ha un futuro molto roseo.»

«Può darsi che lui non dica nulla alla polizia.»

Ikak, sorpresa, le rivolse uno sguardo interrogativo.

«Lo so che per lui era diventata una missione personale, trovare la Biblioteca e distruggerla. Una ossessione, anzi. Ma lui… È stato allevato da una coppia di maz. E…»

Sutty esitò. Non poteva rivelare a Ikak il segreto di Yara, come non poteva rivelarle il proprio.

«È stato costretto a diventare quello che è diventato» proseguì infine. «Ma, a mio avviso, l’unica cosa che abbia davvero senso per lui è la Narrazione. Penso che sia tornato alla Narrazione. So che non prova alcuna ostilità nei confronti di Odiedin né di nessun altro qui. Forse potrebbe restare con qualcuno, là in Amareza, senza essere tenuto prigioniero. Stare semplicemente nascosto.»

«Forse» disse Ikak, comprensiva ma per nulla convinta. «Solo che è molto difficile nascondere una persona simile, yoz Sutty. Ha un chip d’identità inserito nel braccio. Ed era un funzionario di grado abbastanza elevato, incaricato della sorveglianza di un Osservatore dell’Ekumene. Lo cercheranno. Quando lo prenderanno, temo, qualsiasi cosa provi, possono costringerlo a dire tutto ciò che sa.»

«Potrebbe tenersi nascosto in un villaggio per tutto l’inverno, forse. Non scendere affatto in Amareza. Io avrò bisogno di tempo, maz Ikak Igneba… il rappresentante dell’Ekumene avrà bisogno di tempo… per parlare alle autorità dovzane. E se l’anno prossimo arriverà una nave, come previsto, allora potremo contattare via ansible gli Stabili dell’Ekumene e discutere di queste cose. Ma ci vorrà tempo.»

Ikak annuì. «Ne parlerò con gli altri. Faremo il possibile.»

Dopo cena, Sutty andò subito nella tenda di Yara.

Odiedin e Akidan erano già là; Akidan con gli indumenti caldi che sarebbero serviti a Yara per il viaggio, Odiedin per rassicurarlo e dirgli che era in grado di affrontarlo. Akidan era eccitato all’idea della partenza. Per Sutty fu commovente vedere con quanta gentilezza il ragazzo si rivolgeva a Yara, il bel viso giovane splendente di gioia. «Non preoccuparti, yoz» disse entusiasta Akidan. «È un percorso facile e abbiamo un gruppo molto forte. Saremo giù nelle colline in una settimana.»

«Grazie» fece Yara, inespressivo. La sua faccia si era chiusa.

«Tobadan Siez sarà con te» disse Odiedin.

Yara annuì. «Grazie» ripeté.

Kieri arrivò con un poncho termico che Akidan aveva dimenticato, e s’infilò nella tenda, chiacchierando. La tenda era troppo affollata. Sutty s’inginocchiò presso l’apertura dell’entrata e posò una mano su quella di Yara. Non l’aveva mai toccato, prima.

«Grazie di avermi raccontato quello che mi hai raccontato, Yara» disse, sentendosi frettolosa e imbarazzata. «E di avere ascoltato quello che ti ho raccontato io. Spero che tu… Spero che le cose vadano per il meglio. Addio.»

Alzando lo sguardo verso di lei, Yara la salutò col suo consueto breve cenno del capo, poi distolse lo sguardo.

Sutty tornò nella propria tenda, ansiosa ma anche sollevata.

La tenda era un vero caos: Kieri aveva sparso in giro tutto quello che possedeva, in attesa di fare i bagagli. Sutty non vedeva l’ora di dividere di nuovo una tenda con Odiedin, di avere un po’ di ordine, silenzio, castità.

Aveva lavorato tutto il giorno al catalogo… un lavoro faticoso e complesso con i programmi akani, programmi recalcitranti e difficili. Andò a letto con l’intenzione di alzarsi molto presto e salutare gli amici alla partenza. Si addormentò subito. Il ritorno di Kieri e il rumore che fece per riporre le sue cose non la disturbarono quasi. Sembrava che fossero trascorsi appena cinque minuti quando la lampada fu riaccesa e Kieri, già in piedi, vestita, uscì dalla tenda. Sutty si districò a fatica dal sacco a pelo e disse: «Ti raggiungo per la colazione».

Ma quando arrivò nella cucina, la gente del gruppo in partenza non stava consumando il pasto caldo necessario per affrontare il cammino. Non c’era nessuno, solo Long, che era di turno come cuoco.

«Dove sono gli altri, Long?» gli chiese, allarmata. «Non saranno già partiti, eh?»

«No» rispose Long.

«È successo qualcosa?»

«Credo di sì, yoz Sutty.» L’espressione angosciata, Long indicò con un cenno le caverne esterne. Sutty andò verso l’uscita. Incontrò Odiedin che stava rientrando.

«Cos’è successo?»

«Oh, Sutty» disse Odiedin, abbozzando un gesto di disperazione.

«Di che si tratta?»

«Yara.»

«Cosa?»

«Vieni con me.»

Sutty lo seguì nella Caverna dell’Albero. Odiedin passò accanto alla tenda di Yara. C’era molta gente lì attorno, ma Sutty non vide Yara. Odiedin proseguì svelto attraverso la piccola caverna col fondo accidentato, e imboccò il breve passaggio che conduceva all’esterno e terminava con l’apertura ad arco dove si insinuarono avanzando carponi.

Odiedin si drizzò, appena fuori dal cunicolo. Sutty sbucò accanto a lui. Mancava ancora parecchio al levar del sole, ma il pallore del cielo sembrava meravigliosamente fulgido e smisurato dopo l’oscurità angusta delle caverne.

«Guarda dov’è andato» disse Odiedin.

Sutty abbassò gli occhi nella direzione indicata dal maz. La neve arrivava alla caviglia sul fondo della conca. Dall’imboccatura del cunicolo dove si trovavano, delle impronte di scarponi andavano dritte fino all’orlo della conca e tornavano indietro, orme di tre o quattro persone, a quanto sembrava.

«Non le orme» disse Odiedin. «Quelle sono nostre. Lui era carponi. Non poteva camminare. Non so come abbia fatto a strisciare su quel ginocchio. È un tratto lungo.»

E Sutty vide i segni nella neve, segni profondi, solchi. Tutte le impronte di scarponi erano ben lontane, a sinistra.

«Nessuno l’ha sentito. Dev’essere uscito strisciando dopo mezzanotte.»

Abbassando lo sguardo, vicino all’imboccatura ad arco del cunicolo, dove la neve formava uno strato sottile sulla roccia nera, Sutty scorse l’impronta confusa di una mano.

«Là sull’orlo si è alzato in piedi» disse Odiedin. «Per riuscire a saltare.»

Sutty emise un gemito soffocato. Si rannicchiò, dondolando un po’ il proprio corpo. Le lacrime non vennero, ma aveva la gola serrata, stentava a respirare.

«Penan Teran» disse. Odiedin non capì. «Sul vento» aggiunse Sutty.

«Non doveva farlo.» La voce di Odiedin era rabbiosa, desolata. «Ha sbagliato.»

«Lui pensava che fosse giusto» disse Sutty.

Загрузка...