Sutty andò a parlare con Odiedin Manma. Nonostante i suoi insegnamenti enigmatici, nonostante l’evento straordinario accaduto durante quella lezione (e adesso era sicurissima di averlo soltanto immaginato), riteneva che, tra tutti i maz che conosceva, Odiedin fosse il più informato e perspicace per quanto riguardava la politica e le cose del mondo, e lei aveva un disperato bisogno di consigli pratici. Attese che la lezione fosse terminata, poi gli chiese un parere.
«Maz Elyed vuole che vada in quel luogo, in quell’umyazu, perché pensa che se io andrò là, la mia presenza proteggerà l’umyazu? Maz Elyed potrebbe sbagliarsi, secondo me. Credo che le divise blu-marroni mi sorveglino di continuo. Quello è un posto segreto, un posto nascosto, no? Se andassi là, loro potrebbero seguirmi facilmente. Può darsi che abbiano congegni di rilevamento di ogni tipo.»
Odiedin alzò la mano, l’aria gentile ma seria. «Non credo che ti seguiranno, yoz. Hanno ricevuto ordini da Dovza di lasciarti in pace. Di non seguirti e di non sorvegliarti.»
«Lo sai per certo?»
Lui annuì.
Sutty gli credette. Ricordava la rete invisibile che aveva percepito poco dopo il suo arrivo. Odiedin era uno di quelli che la tessevano.
«Comunque, la via del Silong non è una pista facile da seguire. E tu potresti partire senza farti notare.» Il maz si mordicchiò un labbro. Una traccia di calore, un’espressione gradevole, era apparsa sul suo volto scuro e severo. «Se maz Elyed ti ha consigliato di andare là, e se tu vuoi andare, io potrei indicarti il cammino» disse.
«Davvero?»
«Sono stato al Grembo del Silong, una volta. Avevo dodici anni. I miei genitori erano maz. Era un brutto periodo, allora. Quando bruciavano i libri. Molta polizia. Molte perdite, distruzione. Arresti. Paura. Così abbiamo lasciato Okzat-Ozkat, siamo andati sulle colline, nelle cittadine di collina. Poi, in estate, ci siamo spinti oltre lo Zubuam, fino al grembo della Madre. Mi piacerebbe moltissimo fare di nuovo quel viaggio prima di morire, yoz.»
Sutty cercò di non lasciare alcuna traccia, nessuna "orma nella polvere". Non informò Tong, gli comunicò soltanto che aveva intenzione nei prossimi mesi di fare qualche breve escursione nei dintorni. Non disse nulla agli amici, né ai conoscenti né agli insegnanti, a parte Elyed e Odiedin. Era preoccupata per i cristalli… quattro, adesso, perché aveva scaricato di nuovo il noter. Non poteva lasciarli a casa di Iziezi, il primo posto dove le divise blu-marroni li avrebbero cercati. Si stava arrovellando per decidere dove e come sotterrarli senza essere vista, quando Ottiar e Uming, con la massima indifferenza, le dissero che, dato il gran daffare della polizia in quei giorni, avevano intenzione di nascondere per qualche tempo il loro mandala in un luogo sicuro… lei, per caso, aveva qualcosa da mettere al sicuro insieme al mandala? La loro intuizione le parve sorprendente, poi però ricordò che anche loro facevano parte della rete, che da quando erano adulti erano sempre vissuti in segretezza, nascondendo tutto ciò che per loro era prezioso. Diede ai maz i cristalli. Loro le dissero dov’era il nascondiglio. «Non si sa mai» fece Ottiar, pacata. Sutty disse ai maz chi era Tong Ov e cosa riferirgli, caso mai fosse successo qualcosa. Si separarono con abbracci affettuosi.
Infine, Sutty parlò a Iziezi del lungo viaggio che intendeva fare sulle montagne.
«Akidan verrà con te» annunciò Iziezi con un sorriso allegro.
Akidan era fuori con alcuni amici. Le due donne stavano cenando insieme nell’angolo con tappeto rosso della cucina immacolata di Iziezi. Era una serata di "piccolo banchetto": parecchi piattini con vivande dal sapore intenso ma delicato, attorno a un mucchio di tuzi morbido e insipido. A Sutty ricordava il cibo della sua infanzia lontana. «Ti piacerebbe il riso basmati, Iziezi!» disse. Poi si rese conto di quello che aveva detto l’amica.
«Sulle montagne? Ma… Può darsi che stiamo via a lungo.»
«Akidan è salito sulle colline parecchie volte. Quest’estate compirà diciassette anni.»
«Ma tu cosa farai?» Akidan sbrigava le commissioni della zia, faceva la spesa per lei, le puliva la casa, le portava le cose, l’aiutava quando le scivolava una stampella.
«La figlia di mia cugina verrà a stare con me.»
«Mizi? Ma ha appena sei anni!»
«È un aiuto.»
«Iziezi, non so se sia una buona idea. Può darsi che vada molto lontano. Può darsi addirittura che passi l’inverno in uno dei villaggi lassù.»
«Cara Sutty, non devi preoccuparti di Ki. Maz Odiedin Manma gli ha detto di venire. Andare con un maestro al Grembo del Silong è il sogno della sua vita. Ki vuole diventare maz. Naturalmente, deve crescere e trovare una compagna. Forse, adesso pensa soprattutto a trovare una compagna.» Iziezi sorrise un po’, non tanto allegramente. «I suoi genitori erano maz.»
«Tua sorella?»
«Lei era maz Ariezi Meneng.» La donna usò il pronome proibito, lei/lui/loro. Il suo viso adesso aveva assunto la consueta espressione sofferente. «Erano giovani» disse. Una lunga pausa. «Il padre di Ki, Meneng Ariezi, era amato da tutti. Era come i vecchi eroi, come Penan Teran, così bello e coraggioso… Credeva che essere maz equivalesse a indossare una corazza. Credeva che nulla potesse ferire lui/lei/loro. Allora, per un certo periodo, tre o quattro anni, le cose procedettero più o meno come ai vecchi tempi. Nessun arresto. Niente più frotte di giovani dovzani a rompere finestre, dipingere tutto di bianco, a strillare… La situazione si era calmata. La polizia non veniva qui spesso. Pensavamo che fosse finita, che tutto sarebbe tornato come un tempo. Poi all’improvviso arrivò una moltitudine di dovzani. Sono fatti così. Arrivano all’improvviso. Dissero che qua c’erano troppe persone che violavano la legge, leggevano, narravano… Dissero che avrebbero pulito la città. Pagarono gli skuyen perché facessero la spia. Certe persone che conoscevo accettarono i loro soldi.» La sua faccia era tesa, cupa. «Arrestarono parecchia gente. Mia sorella e suo marito. Li portarono in un luogo chiamato Erriak. Un posto lontano. Un’isola, penso. Un’isola in mezzo al mare. Un centro di riabilitazione. Cinque anni fa abbiamo saputo che Ariezi era morta. Abbiamo ricevuto una comunicazione. Non abbiamo più avuto notizie di Meneng Ariezi. Forse è ancora vivo.»
«Quanto tempo fa…?»
«Dodici anni.»
«Ki aveva quattro anni?»
«Quasi cinque. Li ricorda un po’, i genitori. Io cerco di aiutarlo a ricordarli. Gli parlo di loro.»
Sutty rimase a lungo in silenzio. Sparecchiò la tavola, infine tornò a sedersi. «Iziezi, sei mia amica. Akidan è come un figlio per te. Non posso non preoccuparmi di lui. Potrebbe essere un viaggio pericoloso. Potrebbero seguirci.»
«Nessuno segue la gente della Montagna sulla Montagna, cara Sutty.»
Avevano tutti quella sicurezza serena, temeraria, quando parlavano delle montagne. Nessun problema. Nulla da temere. Forse dovevano pensare così, per riuscire a tirare avanti.
Sutty comprò due sacchi a pelo leggerissimi dalle proprietà termiche miracolose, uno per sé e uno per Akidan. Iziezi protestò, pro forma. Akidan ne fu entusiasta e, come un bambino, da quella notte dormì nel sacco a pelo soffocando dal caldo.
Sutty tirò fuori stivali e capi pesanti, preparò lo zaino, e di prima mattina, il giorno stabilito, raggiunse con Akidan il luogo di raduno. Era primavera inoltrata, quasi estate. Le strade erano blu scuro nella luce incerta del mattino, ma lassù a nordovest la grande parete si ergeva illuminata a giorno, la vetta sventolava le sue fulgide bandiere. "Andiamo là" pensò Sutty. "Andiamo là!" E abbassò lo sguardo per vedere se aveva ancora i piedi per terra o se camminava a mezz’aria.
Vasti pendii s’innalzavano tutt’intorno, convergevano verso ghiacciai sospesi e il chiarore accecante di banchi di ghiaccio nascosti. Il loro gruppo di otto persone arrancava in fila, così minuscolo in quell’immensità da sembrare fermo. In alto, sopra di loro, volteggiavano due geyma, gli uccelli necrofagi dalle lunghe ali che vivevano solo tra le vette e volavano sempre in coppia.
Erano partiti in sei: Sutty, Odiedin, Akidan, una giovane di nome Kieri e una coppia di maz sulla trentina, Tobadan e Siez. In un villaggio collinare a quattro giorni da Okzat-Ozkat si erano unite al gruppo due guide, uomini schivi e garbati, con il viso segnato dalle intemperie, di cui era difficile stabilire l’età… dai trenta ai settant’anni. Si chiamavano Ieyu e Long.
Il gruppo era andato su e giù per le colline per una settimana, prima di raggiungere quelle che la gente del luogo chiamava "montagne". Poi era iniziata l’ascesa. Ormai stavano salendo costantemente da undici giorni.
La parete luminosa del Silong sembrava sempre uguale, non più vicina. Un paio di vette insignificanti da cinquemila metri, a nord, avevano cambiato posizione, rimpicciolendo un poco. Le guide e i tre maz, con la loro memoria abituata ai dettagli descrittivi e alle cifre, conoscevano nome e altezza di tutte le vette. Usavano una unità di misura particolare per l’altitudine, il pieng. A quanto ricordava Sutty, quindicimila pieng erano circa cinquemila metri; ma dato che non era sicura di ricordare bene, perlopiù lasciava le cifre in pieng. Le piaceva sentir parlare di quelle grandi altezze, ma non cercava di ricordarle, né di tenere a mente i nomi delle montagne e dei passi. Prima della partenza, aveva deciso di non chiedere mai dove fossero, dove stessero andando, o quanto mancasse alla meta. Era stato facile mantenere quel proposito, perché le consentiva di essere libera e spensierata.
Non c’erano sentieri veri e propri, se non nei pressi dei villaggi, ma c’erano carte che, come quelle dei piloti fluviali, indicavano la rotta mediante punti di riferimento e allineamenti: "Quando la scarpata nord del Mien rimane dietro gli Orecchi di Taziu…". Odiedin e gli altri maz consultavano le carte ogni notte, insieme alle due guide che si erano unite al gruppo nelle colline. Sutty ascoltava la poesia delle parole. Non chiedeva il nome dei minuscoli villaggi che attraversavano. Se l’Azienda, o anche l’Ekumene, avessero preteso di conoscere la strada che portava al Grembo del Silong, lei avrebbe potuto rispondere con la massima sincerità di non conoscerla.
Non sapeva neppure il nome del luogo dov’erano diretti. L’aveva sentito chiamare la Montagna, il Silong, il Grembo del Silong, la Radice Madre, l’Umyazu Alto. Forse c’era più di un luogo. Lei non ne sapeva nulla. Resisteva al desiderio di imparare il nome di ogni cosa, la parola per ogni cosa. Viveva tra persone per le quali la massima realizzazione spirituale era raccontare il mondo fedelmente, e che erano state ridotte al silenzio. Lì, in quel silenzio più profondo, dove loro potevano parlare, Sutty voleva imparare ad ascoltarle. Non a fare domande, solo ad ascoltare. Avevano diviso con lei la dolcezza della vita quotidiana vissuta con sollecitudine. Adesso lei divideva con loro l’ardua ascesa alle vette.
Aveva temuto di non essere in grado, fisicamente, di affrontare il viaggio. Un mese nella regione collinare del Ladakh e alcune escursioni nelle Ande cilene durante le vacanze costituivano le sue esperienze alpinistiche, e quelle non erano state arrampicate, ma semplici camminate in salita. Era quello che stavano facendo anche adesso, però Sutty si chiedeva fino a quale altitudine si sarebbero spinti. Non aveva mai superato i quattromila metri. Finora, anche se ormai dovevano trovarsi a quell’altezza, non aveva avuto problemi, a parte il respiro affannoso nei tratti di salita più ripidi. Anche Odiedin e le guide procedevano adagio quando il sentiero era particolarmente erto. Solo Akidan e Kieri, una ragazza robusta e paffuta di circa vent’anni, correvano sui pendii interminabili, e danzavano su affioramenti di granito sopra grandi abissi azzurri, e non avevano mai il fiato grosso. Gli eberdibi, li chiamavano gli altri: i bambinetti, i cuccioli.
Avevano camminato tutto il giorno per arrivare a un villaggio estivo: sei o sette cerchi di pietra su cui erano state erette delle iurte, tra ripidi pascoli sassosi a ridosso di un’immensa parete coperto che tanta gente abitava lassù, dove sembdi granito. Sutty era rimasta sbalordita quando aveva srava che si potesse vivere solo di aria, ghiaccio e roccia. Le vaste colline pedemontane sopra Okzat-Ozkat, in apparenza aride, erano in realtà piene di villaggi, pascoli, piccoli campi con muretti di pietra. Perfino lì in alto, tra le vette, c’erano abitazioni: i villaggi estivi. Verso la fine della primavera, quando la neve non bloccava più il cammino, i paesani salivano dalle colline coi loro animali, gli eberdin di razza minule. Cornuti, semiselvatici, con lunghe zampe e un lungo vello chiaro, i minule pascolavano fin dove cresceva l’erba, e partorivano i piccoli nei più alti prati alpini. Il loro vello fine e serico era prezioso anche allora, nell’era delle fibre sintetiche. I paesani ne vendevano la lana, ne bevevano il latte, conciavano le pelli per ricavarne scarpe e indumenti, e usavano lo stereo come combustibile.
Quella gente viveva così da sempre. Per loro, Okzat-Ozkat, un remoto avamposto provinciale della civiltà, era la civiltà. Erano tutti rangma. Parlavano un po’ il dovzano nella regione collinare, e Sutty poteva conversare discretamente con Ieyu e Long; ma lassù, anche se il suo rangma era migliorato moltissimo durante l’inverno, faticava a capire il dialetto di montagna.
Gli abitanti del villaggio accorsero tutti ad accogliere i visitatori, una confusione di sorridenti facce sporche bruciate dal sole, ragazzini che correvano, bambini timorosi avvolti in bozzoli di cuoio e appesi a pertiche come piccoli trofei, minule che belavano accanto ai loro cuccioli, candidi e silenziosi. Vita, vita in abbondanza in quei luoghi elevati e deserti.
In alto, come sempre, una coppia di geyma volteggiava lenta su slanciate ali scure nel blu abbacinante.
Odiedin e la giovane coppia di maz, Siez e Tobadan, erano già indaffarati a benedire capanne e bambini e bestiame, a curare piaghe e occhi infiammati, e a narrare. La benedizione, sempre che quella fosse la parola giusta — la parola usata dai maz significava più o meno "inclusione" o "introduzione" — consisteva in un canto rituale accompagnato da colpi di tamburello e nella distribuzione di striscioline di carta rossa o blu su cui i maz scrivevano il nome e l’età del destinatario, e qualsiasi fatto biografico il destinatario chiedesse di scrivere. Per esempio:
"Sposato con Temazi quest’inverno."
"Ho costruito la mia casa nel villaggio."
"Ho messo al mondo un figlio lo scorso inverno. È vissuto un giorno e una notte. Il suo nome era Enu."
"Ventidue minule sono nati quest’anno nel mio gregge."
"Io sono Ibien. Questa primavera ho compiuto sei anni."
Gli abitanti dei villaggi sapevano leggere solo qualche carattere o non sapevano leggere affatto, almeno questa era l’impressione che aveva avuto Sutty. Toccavano con timore reverenziale e intensa soddisfazione le striscioline di carta scritte. Le esaminavano a lungo da ogni angolazione, le piegavano con cura, le infilavano in borse speciali o in scatole finemente decorate che tenevano nelle case o nelle tende. I maz avevano officiato una benedizione o una cerimonia collettiva di quel tipo in ogni villaggio attraversato che non disponesse di un maz proprio. Alcune delle scatole narrative nelle case dei villaggi, splendidamente intarsiate e decorate, contenevano centinaia di quei piccoli documenti rossi e blu, che raccontavano vite presenti, vite passate.
Odiedin li stava scrivendo per una famiglia, Tobadan stava dando erbe e unguenti a un’altra famiglia, e Siez, terminato il canto, si era seduto con gli altri abitanti del villaggio per narrare. Siez era un giovane taciturno dagli occhi a fessura, ma nei villaggi diventava un torrente di parole.
Stanca e con la testa che le girava un po’ — dovevano essere saliti di un altro chilometro, quel giorno — e godendosi il sole pomeridiano, Sutty si unì al semicerchio attento di uomini e donne e bambini, si sedette a gambe incrociate sul terreno sassoso, e ascoltò insieme a loro.
«La narrazione!» esordì solenne, a voce alta, Siez, e fece una pausa.
Il suo pubblico emise un suono sommesso, ah, ah, e ci fu uno scambio di mormorii.
«La narrazione di una storia!»
Ah, ah, mormorii…
«La storia è il caro Takieki!»
Sì, sì. Il caro Takieki, sì.
«Ora la storia inizia! Ora, la storia inizia quando il caro Takieki viveva ancora insieme alla vecchia madre, essendo un uomo adulto, ma sciocco. Sua madre morì. Era povera. Tutto ciò che aveva da lasciargli era un sacco di farina di fagioli che aveva tenuto in serbo per loro perché la mangiassero durante l’inverno. Il padrone di casa venne e cacciò Takieki.»
Ah, ah, mormorarono gli ascoltatori, annuendo mesti.
«Così Takieki si mise in cammino lungo la strada con il sacco di farina di fagioli in spalla. Camminò e camminò, e giunto su una collina vide avanzare verso di lui un uomo lacero. S’incontrarono sulla strada. L’uomo disse: "È un sacco pesante, quello che porti, giovanotto. Mi mostri cosa contiene?". E Takieki lo fece. "Farina di fagioli!" disse il pezzente.»
«Farina di fagioli» mormorò un bambino.
«"E che bella farina di fagioli è! Ma non ti basterà per tutto l’inverno. Farò un affare con te, giovanotto. Ti darò un vero bottone di ottone per quella farina!" Takieki disse: "Oh, oh, credi di imbrogliarmi, ma non sono così sciocco!".»
Ah, ah.
«Dunque Takieki si issò il sacco in spalla e proseguì. E camminò e camminò, e sulla collina successiva vide avanzare verso di lui una ragazza lacera. S’incontrarono sulla strada, e la ragazza disse: "Porti un sacco pesante, giovanotto. Devi essere molto forte! Posso vedere cosa c’è dentro?". Così Takieki le mostrò la farina di fagioli, e lei disse: "Che bella farina! Se la dividerai con me, giovanotto, verrò con te, e farò l’amore con te ogni volta che vorrai, finché durerà la farina".»
Una donna diede un colpetto di gomito alla donna seduta accanto a lei, sorridendo.
«Takieki rispose: "Oh, no. Credi di imbrogliarmi, ma non sono così sciocco!". E si mise il sacco in spalla e proseguì. E camminò e camminò, e sulla collina successiva vide avanzare verso di lui un uomo e una donna.»
Ah, ah, molto sommessamente.
«L’uomo era scuro come il crepuscolo e la donna chiara come l’alba, e indossavano indumenti dai colori vivaci e gioielli scintillanti, rossi e blu. S’incontrarono sulla strada, e lui/lei/loro dissero: "Che sacco pesante porti, giovanotto. Vuoi mostrarci cosa contiene?". E Takieki lo fece. Allora i maz dissero: "Che bella farina di fagioli! Ma non ti basterà per tutto l’inverno". Takieki non sapeva cosa dire. I maz dissero: "Caro Takieki, se ci darai il sacco di farina che ti ha dato tua madre, potrai avere la fattoria che è su quella collina, con cinque granai pieni di grano, e cinque magazzini pieni di farina, e cinque stalle piene di eberdin. Nella fattoria ci sono cinque grandi stanze, e il tetto è fatto di monete d’oro. E la padrona di casa è nella casa, e aspetta di diventare tua moglie". Takieki disse: "Oh, oh. Credete di imbrogliarmi, ma non sono così sciocco!". E continuò a camminare e a camminare, e raggiunse la collina, e passò accanto alla fattoria con cinque granai e cinque magazzini e cinque stalle e il tetto d’oro, e continuò a camminare, il caro Takieki!»
Ah, ah, ah, dissero tutti gli ascoltatori, con grande contentezza. Poi, dopo avere ascoltato con tanta attenzione, si rilassarono e chiacchierarono un po’, e portarono a Siez una tazza e una teiera di tè caldo perché si ristorasse, e attesero rispettosi il proseguimento della narrazione.
Perché Takieki era "caro"?, si chiese Sutty. Perché era sciocco? (Piedi nudi che camminavano nell’aria.) Perché era saggio? Ma un uomo saggio avrebbe diffidato dei maz? Sicuramente era stato sciocco a rifiutare la fattoria e i cinque granai e una moglie. La storia significava che, per un sant’uomo, una fattoria e cinque granai e una moglie non valevano un sacco di farina di fagioli? O significava che un sant’uomo, un asceta, era uno sciocco? La gente con cui era vissuta negli ultimi mesi onorava l’autocontrollo, la moderazione, ma non ammirava la privazione. Non aveva una concezione rigorosa del digiuno, e non vedeva alcun pregio nel disagio, nella fame, nella povertà.
Se fosse stata una parabola terrestre, molto probabilmente Takieki avrebbe dovuto dare il sacco di farina al pezzente in cambio del bottone di ottone, o regalarglielo semplicemente, e una volta morto avrebbe ricevuto la ricompensa in paradiso. Ma su Aka, la ricompensa, spirituale o fiscale, era immediata. Svolgendo le sue funzioni di maz, Siez non stava accumulando un conto bancario di virtù o santità: in cambio della sua narrazione, otteneva lode, riparo, cibo, provviste per il viaggio, e la consapevolezza di avere svolto il proprio compito. Gli esercizi fisici non miravano al conseguimento di un ideale di salute o longevità, ma venivano fatti per il benessere immediato e per il piacere di farli. La meditazione aveva come scopo una trascendenza presente e temporanea, non un nirvana definitivo. Aka era un’economia basata sul contante, non sul credito.
Ecco perché odiavano l’usura. Loro volevano affari equi e pagamento in contanti.
Ma, allora, la ragazza che si era offerta a Takieki se lui avesse diviso con lei la sua farina? Non era un affare equo?
Sutty meditò sul problema durante tutta la narrazione successiva, un brano famoso della Guerra della valle che lei aveva sentito raccontare da Siez parecchie volte nei villaggi pedemontani. «Questa storia potrei raccontarla anche addormentato» diceva Siez. Sutty concluse che molto dipendeva dal grado di consapevolezza che Takieki aveva della propria ingenuità. Sapeva che la ragazza avrebbe potuto ingannarlo? Sapeva di non essere in grado di gestire una grande fattoria? Forse aveva fatto la cosa giusta, tenendosi stretto quello che gli aveva dato sua madre. Forse, no.
Non appena il sole calò dietro la parete della montagna a ovest, nelle tenebre incombenti l’aria scese subito di parecchi gradi sotto zero. Tutti si accalcarono nelle tende-capanne a mangiare, soffocando per il fumo e l’odore acre. I viaggiatori avrebbero dormito nelle loro tende, montate vicino a quelle più grandi degli abitanti del villaggio. Questi ultimi dormivano nudi, sudici, promiscuamente, sotto mucchi di pelli morbide, unte di grasso e piene di pulci. Nella tenda che divideva con Odiedin, Sutty pensò a quella gente prima di addormentarsi. Gente brutale, gente primitiva, aveva detto il Controllore, appoggiato al parapetto del battello, guardando il lungo rialzo del terreno che nascondeva la Montagna. Aveva ragione. Erano primitivi, sporchi, analfabeti, ignoranti, superstiziosi. Rifiutavano il progresso, si sottraevano a esso, non sapevano nulla della Marcia verso le Stelle. Si tenevano stretto il loro sacco di farina di fagioli.
Una decina di giorni dopo, mentre erano accampati sulla neve compatta in una valle lunga e poco profonda tra pallidi dirupi e ghiacciai, Sutty udì un motore, un aereo o un elicottero. Il suono era distorto dal vento e dall’eco. Avrebbe potuto essere vicinissimo, o provenire da molto lontano, riverberato da un versante all’altro. C’era qualche banco sparso di nebbia bassa, il cielo era coperto. Le loro tende, grigio spento, al riparo di un seracco, potevano essere indistinguibili nel vasto paesaggio o facilmente visibili dall’alto. Rimasero immobili finché udirono il rumore sordo tamburellante portato dal vento.
Era uno strano posto, quella lunga valle. L’aria gelida scendeva dai ghiacciai e ristagnava lì in basso. Fantasmi di bruma serpeggiavano sulla candida neve immota.
Le loro provviste scarseggiavano. Dovevano essere vicini alla meta, secondo Sutty.
Invece di uscire dalla valle salendo, come si aspettava, scesero procedendo su un lungo e ampio pendio disseminato di massi. Il vento soffiava senza posa, e con tale forza che la ghiaia continuava a battere contro i macigni più grandi. Ogni passo era difficoltoso, e anche ogni respiro. Alzando lo sguardo, adesso, si vedeva il Silong molto più vicino, la grande parete si stagliava imponente nel cielo. Ma la cresta impennacchiata era ancora lontana dietro la barriera. Quella notte, Sutty continuò a sognare una voce, che udiva ma non capiva, una gemma che aveva trovato ma non poteva toccare.
Il giorno dopo continuarono a scendere, a scendere sempre più in direzione sudovest. Nella mente annebbiata di Sutty, si formò un canto: "Se indietreggi per avanzare, non puoi riuscire. Se scendi per salire, non puoi riuscire". Non voleva andarsene dalla sua testa, continuava a risuonare martellante a ogni passo, a ogni sobbalzo… Se "scendi" per "salire", non puoi "riuscire"…
Giunsero a un sentiero che attraversava il pendio di massi, poi a una strada, a un muro di sassi, a una costruzione di pietra. Era la fine del viaggio? Era quello il Grembo della Madre? No, era solo un punto di sosta, un rifugio. Forse un tempo era stato un umyazu. Era silenzioso, adesso. Non racchiudeva nessuna storia. Rimasero due giorni e due notti nella casa tetra, a riposare, a dormire nei sacchi a pelo. Non c’era nulla da ardere per accendere un fuoco, avevano solo i loro fornelletti, e delle provviste non rimaneva che un po’ di pesce secco affumicato, che divisero in piccole porzioni e fecero bollire nella neve sciolta, preparando una zuppa.
«Verranno» dicevano gli altri. Sutty non chiese chi. Era così stanca che aveva la sensazione di poter restare per sempre nella casa di pietra, come uno degli abitanti delle casette di pietra bianche nelle città dei morti che aveva visto in Sudamerica, a riposare in pace. La gente di Sutty bruciava i propri morti. Lei aveva sempre temuto il fuoco. Era meglio quello, il silenzio gelido.
La terza mattina udì uno scampanellio, molto lontano, un lieve tintinnio di campanelle. «Vieni a vedere, Sutty» disse Kieri, e la convinse ad alzarsi e ad andare sulla soglia della casa di pietra a dare un’occhiata.
Da sud saliva gente, procedeva a zigzag tra i massi grigi enormi, e conduceva dei minule con le selle cariche di pacchi. C’erano delle aste, attaccate alle selle, aste su cui sventolavano lunghi nastri rossi e blu. Al bianco collo lanoso dei giovani animali che correvano accanto alle madri erano legati grappoli di campanelle.
Il giorno dopo, si unirono ai paesani e ai loro animali per raggiungere il villaggio estivo. Impiegarono tre giorni, ma il percorso fu piuttosto agevole. I paesani volevano che Sutty cavalcasse un minule, ma nessun altro li montava. Così anche lei andò a piedi. In un punto, dovettero girare attorno a un dirupo sotto un precipizio che strapiombava in verticale appena oltre la strettissima cornice di roccia praticabile. La cornice era piana, ma a tratti non più larga di un piede, e la neve che la copriva era molle e scivolosa a causa del disgelo estivo. I paesani sciolsero i minule, e invece di guidarli li seguirono. Spiegarono a Sutty che doveva mettere i piedi nelle orme degli animali. Lei seguì un minule con estrema attenzione, passo passo. Facendo ondeggiare disinvolto il posteriore lanoso, l’animale procedeva lentamente, fermandosi di tanto in tanto a guardare con espressione annoiata il precipizio nebbioso. Nessuno disse nulla finché non ebbero superato tutti il sentiero lungo il dirupo. Poi ci furono delle risate e delle battute scherzose, e parecchi montanari, rivolti al Silong, fecero il gesto della montagna e del cuore.
Giù nel villaggio, il corno della vetta non si vedeva; si vedevano solo il versante poderoso di un monte più vicino, e uno scorcio della grande parete che si stagliava contro il cielo a nordovest. Il villaggio sorgeva in un luogo verdeggiante, esposto a nord e a sud, un luogo che offriva buoni pascoli estivi, riparato, idillico. Vicino al fiume crescevano degli alberi: Odiedin li mostrò a Sutty. Erano alti come il suo mignolo. Giù a Okzat-Ozkat, quegli alberi erano gli arbusti che costeggiavano l’Ereha. Nei parchi di Dovza City, lei aveva passeggiato alla loro ombra.
C’era stato un decesso nel villaggio, un giovane che aveva trascurato un taglio al piede ed era morto di setticemia. Avevano conservato nella neve il corpo gelato, in attesa che i maz potessero venire a officiare il funerale. Come facevano a sapere che il gruppo di Odiedin stava arrivando? Come avevano fatto a prendere accordi? Sutty non capiva, ma ben presto lasciò perdere. Lì sulle montagne c’erano tante cose che non capiva. Si abbandonava all’attimo, come un bambino. "Ruzzola e gira, inerme come un bambino…" Chi le aveva detto quelle parole? Sutty si accontentava di camminare, di sedere al sole, di seguire le impronte di un animale. "Dove le mie guide mi conducono benevole, io vado, le seguo leggero…"
I due giovani maz raccontarono il funerale. Era quella l’espressione usata. Come tutti i riti, anche quello funebre era una narrazione. Per due giorni, Siez e Tobadan sedettero con il padre e la zia del defunto, con sua sorella, gli amici, una donna che era stata sua moglie per qualche tempo, con tutti quelli che volevano parlare di lui, e seppero così chi era il defunto, cos’aveva fatto. Poi i due maz narrarono di nuovo tutto quanto, in modo solenne e nel linguaggio rituale, accompagnati dai colpi sommessi del tamburello, parlando a turno accanto alla salma avvolta in un panno bianco sottile, ancora ghiacciato: una canzone di lode, una vita tradotta in parole, inclusa nell’interminabile narrazione.
Poi, con la sua splendida voce, Siez recitò la conclusione della storia di Penan Teran, una mitica coppia di eroi cari al popolo rangma. Penan e Teran erano uomini del Silong, giovani guerrieri che cavalcavano il vento del Nord, sellavano il vento delle montagne come un eberdin e lo cavalcavano per scendere sul campo di battaglia, a bandiere spiegate, e combattere contro l’antico nemico dei rangma, la gente del mare, i selvaggi delle pianure occidentali. Ma Teran fu ucciso in battaglia. E Penan condusse in salvo il suo popolo, poi sellò il vento del Sud, il vento del mare, e lo cavalcò fin sulle montagne, dove balzò dal vento e morì.
La gente ascoltò e pianse, e c’erano lacrime anche negli occhi di Sutty.
Poi Tobadan batté il tamburo come Sutty non aveva mai sentito battere, non colpi lenti e leggeri, ma un ritmo incalzante, trascinante, che incitò la gente a sollevare la salma e a portarla via in processione, allontanandosi rapidamente dal villaggio, sempre col tamburo che batteva.
«Dove lo seppelliranno?» chiese Sutty a Odiedin.
«Nel ventre dei geyma» rispose Odiedin. Indicò delle guglie di roccia lontane su uno dei vasti pendii che sovrastavano la valle. «Lo lasceranno là, nudo.»
Meglio che giacere in una casa di pietra, pensò Sutty. Molto meglio del fuoco.
«Così cavalcherà il vento» disse.
Odiedin la guardò e poco dopo annuì silenzioso.
Odiedin non parlava mai molto, e quello che diceva era spesso ironico. Non era un uomo mite, ma ormai Sutty si sentiva del tutto a proprio agio con lui, e lui con lei. Odiedin stava scrivendo sulle striscioline di carta rossa e blu, di cui sembrava avere una scorta inesauribile nello zaino: scriveva il nome del morto e dei suoi familiari, vide Sutty, perché le persone in lutto potessero portare a casa quei pezzetti di carta e conservarli nelle loro scatole della narrazione.
«Maz» disse Sutty. «Prima che i dovzani diventassero così potenti… prima che cominciassero a cambiare tutto, a usare macchine, a costruire le cose nelle fabbriche invece che a mano, a fare nuove leggi… tutte queste cose…» Odiedin annuì. «Hanno cominciato a farlo dopo l’arrivo della gente dell’Ekumene. Solo una vita fa, più o meno. Cos’erano i dovzani, prima?»
«Selvaggi.»
Odiedin era un rangma; non aveva potuto fare a meno di pronunciare quella parola, chiaro e forte. Ma Sutty sapeva che era anche un uomo profondo e sincero.
«Ignoravano la Narrazione?»
Una pausa. Odiedin posò la penna. «Molto tempo fa, sì. All’epoca di Penan Teran, sì. Quando è stato scritto Il pergolato, sì. Poi la gente delle pianure centrali, di Doy, cominciò a civilizzarli. Commerciando con loro, istruendoli. Così i dovzani impararono a leggere e a scrivere e a narrare. Ma rimanevano dei selvaggi, yoz Sutty. Preferivano la guerra al commercio. Quando commerciavano, facevano del commercio una guerra. Permettevano l’usura, e cercavano grandi profitti. Avevano sempre dei capi ai quali pagavano tributi, uomini che erano ricchi, e trasmettevano il potere ai propri figli. Gobey… tiranni. Così, quando cominciarono ad avere dei maz, trasformarono i maz in capi, con la facoltà di governare e punire. Diedero ai maz il potere di imporre tributi. Li fecero diventare ricchi. E tutti i figli dei maz erano maz per diritto di nascita. E la gente comune non contava più nulla. Era sbagliato. Era tutto sbagliato.»
«Una volta, maz Uming Ottiar mi ha parlato di quell’epoca. Pareva che se la ricordasse.»
Odiedin annuì. «Io ricordo la fine di quel periodo. Un brutto periodo. Non brutto come questo» soggiunse, con una breve risata aspra.
«Ma questo periodo deriva da quello. Si è sviluppato da quello. No?»
Il maz sembrava dubbioso, meditabondo.
«Perché non lo raccontate?»
Nessuna risposta.
«Non lo raccontate, maz. Non fa mai parte di tutte le storie del mondo di tutte le epoche che voi raccontate. Voi parlate del passato remoto. E raccontate cose della vostra epoca, della vita di gente comune… ai funerali, e quando sono i bambini a raccontare. Ma non parlate di quei grandi eventi. Non dite nulla di come il mondo è cambiato negli ultimi cento anni.»
«Quello non fa parte della Narrazione» replicò Odiedin, dopo un silenzio teso, assorto. «Noi raccontiamo quello che è giusto, quello che va bene, che va come dovrebbe andare. Non quello che va male.»
«Penan Teran hanno perso la loro battaglia, una battaglia con Dovza. Non è andata bene, maz. Però lo raccontate.»
Lui alzò lo sguardo e la fissò, non con aggressività o risentimento, ma da una distanza remota. Sutty ignorava cosa stesse pensando o provando, cos’avrebbe detto.
Alla fine, il maz disse solo: «Ah».
L’esplosione di una mina? O l’assenso sommesso dell’ascoltatore? Sutty non lo sapeva.
Odiedin piegò il capo e scrisse il nome del morto, tre caratteri decisi ed eleganti sulla striscia di carta rossa sbiadita. Aveva preparato l’inchiostro macinandolo da un blocco che portava con sé e sciogliendolo poi con acqua di fiume in un minuscolo vaso di gres. La penna che usava per scrivere era una piuma di geyma, grigio cenere. Avrebbe potuto trovarsi lì, seduto a gambe incrociate sul terreno sassoso a scrivere un nome, trecento anni addietro. O tremila anni addietro.
Sutty non aveva il diritto di chiedergli quello che gli aveva chiesto. Sbagliato, sbagliato.
Ma il giorno dopo, lui le disse: «Per caso, hai sentito gli Indovinelli della Narrazione, yoz Sutty?».
«Non credo.»
«Li imparano i bambini. Sono indovinelli vecchissimi. Quello che dicono i bambini è sempre lo stesso. "Quando finisce una storia? Quando si comincia a raccontarla." Ecco un indovinello.»
«Un paradosso, più che un indovinello» osservò Sutty, riflettendo. «Dunque, gli avvenimenti devono essersi conclusi prima che inizi la narrazione?»
Odiedin parve leggermente sorpreso, come accadeva in genere quando lei provava a interpretare un detto oppure una storia.
«Non significa questo» fece Sutty, rassegnata.
«Potrebbe significare questo» disse il maz. E dopo alcuni istanti: «Penan balzò dal vento e morì: questa è la storia di Teran».
Sutty pensava che Odiedin stesse rispondendo alla sua domanda sul perché i maz non parlassero dello Stato Azienda e degli abusi che l’avevano preceduto. Cosa c’entravano gli antichi eroi con quegli eventi?
Tra la sua mente e quella di Odiedin c’era una distanza così grande che la luce avrebbe impiegato anni per attraversarla.
«Quindi la storia è andata bene, è giusto raccontarla. Capisci?» disse Odiedin.
«Sto cercando di capire» rispose lei.
Rimasero sei giorni nel villaggio estivo nella valle profonda, riposandosi. Poi si misero ancora in cammino, con nuove provviste e due nuove guide, salendo in direzione nord. Salirono, e continuarono a salire. Sutty non contava i giorni. Arrivava l’alba, si alzavano, il sole splendeva su di loro e sui pendii sterminati di roccia e di neve, e camminavano. Arrivava l’imbrunire, si accampavano, il rumore dell’acqua cessava quando i ruscelletti del disgelo gelavano nuovamente, e i viaggiatori dormivano.
L’aria era rarefatta, il percorso ripido. A sinistra, torreggianti su di loro, si ergevano le scarpate e i pendii della montagna su cui si trovavano. Dietro di loro, a destra, una serie di picchi spuntava dalla foschia e dall’ombra, un mare immobile di onde ghiacciate, frastagliate, che si perdevano all’orizzonte lontano. Il sole batteva come un tamburo bianco nel cielo blu. Era mezza estate, la stagione delle valanghe. Procedevano adagio e silenziosi tra i giganti sbilanciati. Più volte, di giorno, il silenzio era scosso da lunghi boati di cui non si riusciva a individuare il punto d’origine, moltiplicati dall’eco.
Sutty sentì pronunciare il nome della montagna su cui si trovavano, lo Zubuam. Una parola rangma: il Tonante.
Non vedevano il Silong da quando avevano lasciato il villaggio nella valle. La mole smisurata dello Zubuam, segnata da profonde scanalature, ostruiva completamente la visuale a ovest. Procedevano adagio, salendo verso nord, salivano sempre verso nord, superando le enormi rughe del fianco della montagna.
Respirare era difficile.
Una notte cominciò a nevicare. Nevicò poco, ma di continuo, per tutto il giorno seguente.
Odiedin e le due guide che si erano unite al gruppo nell’ultimo villaggio estivo si accovacciarono fuori dalle tende, quella sera, e si consultarono, tracciando linee, percorsi, zigzag sulla neve con le dita guantate. La mattina dopo, il sole riprese a brillare sul mare di ghiaccio delle vette orientali. Ricominciò la lenta avanzata, sudando, salendo in direzione nord.
Una mattina, mentre camminavano, Sutty si rese conto che stavano volgendo le spalle al sole. Per due giorni andarono a nordovest, arrampicandosi lentamente attorno all’immenso contrafforte dello Zubuam. Il terzo giorno, a mezzodì, superarono una sporgenza di roccia e di ghiaccio. Di fronte a loro, oltre un grande abisso d’aria, si stagliava l’immane parete: il Silong sorgeva come un’onda candida dal profondo e si offriva in piena luce. Era una giornata limpida, cristallina, calma. La punta del corno della vetta era visibile sopra i bastioni. Dalla cima, strie d’argento sottilissime si protendevano lievi verso nord.
Soffiava il vento del Sud, il vento da cui Penan era balzato, andando incontro alla morte.
«Manca poco, ormai» disse Siez, mentre arrancavano in direzione sudovest, scendendo.
«Credo che qui potrei camminare in eterno» disse Sutty, e la sua mente disse: "Sì, lo farò…"
Durante la sosta al villaggio, Kieri si era trasferita nella sua tenda. Erano le uniche due donne del gruppo prima che le nuove guide si unissero a loro. Fino a quel momento, Sutty aveva diviso la tenda con Odiedin. Il maz — vedovo, celibe, silenzioso, ordinato — era una presenza schiva, rassicurante. Sutty era restia a cambiare sistemazione, ma Kieri aveva insistito. Fino ad allora era stata in tenda con Akidan, ed era stanca di quella compagnia. Aveva detto a Sutty: «Ki ha diciassette anni, è sempre in fregola. Non mi piacciono i ragazzi! Mi piacciono gli uomini e le donne! Voglio dormire con te. Tu vuoi? Maz Odiedin può dividere con Ki.»
Il suo uso delle parole era speciale: "dividere" significava "dividere la tenda", "dormire" significava "unire i sacchi a pelo".
Quando se ne rese conto, Sutty fu ancor più indecisa; ma l’atteggiamento di passività che aveva assunto volutamente nel corso del viaggio fu più forte dell’esitazione, e acconsentì. Non le era importato molto del sesso, dalla morte di Pao. A volte, il suo corpo moriva dalla voglia di essere toccato ed eccitato. Il sesso era qualcosa che la gente desiderava, qualcosa di cui aveva bisogno. Sutty poteva partecipare fisicamente, purché non le chiedessero altro.
Kieri era forte, morbida, calda, e pulita nei limiti consentiti dalle circostanze. «Scaldiamoci!» diceva ogni notte, infilandosi nei sacchi a pelo attaccati. Faceva l’amore con Sutty in modo rapido ed energico, poi si addormentava, stringendosi alla compagna. Erano come due ciocchi in un fuoco acceso, che bruciavano a poco a poco, pensava Sutty, sprofondando in un sonno caldo.
Per Akidan era stato un onore dividere la tenda col proprio maestro e insegnante, però il ragazzo era seccato o deluso per l’abbandono di Kieri. Per un paio di giorni le tenne il broncio, poi rivolse l’attenzione alla donna che si era unita al gruppo nel villaggio. Le nuove guide erano fratello e sorella, una coppia di ventenni instancabili, gambe lunghe e viso tondo, di nome Naba e Shui. Dopo un paio di giorni, Akidan si trasferì nella tenda di Shui. Odiedin, paziente, invitò Naba a sistemarsi nella propria tenda.
Cosa aveva detto Diodi, l’uomo del carretto, anni prima, ad anni luce da lì, laggiù, nelle strade dove viveva quell’altra gente? «Sesso per trecento anni! Dopo trecento anni di sesso, chiunque può volare!»
"Posso volare" pensò Sutty, arrancando, scendendo verso sudovest. "Nel mondo in realtà non esistono che pietra e luce. Tutte le altre cose, tutte le cose, confluiscono in questa dualità… la pietra, la luce, e i due elementi in uno, il volo… E poi tutto rinascerà, tutto rinasce, sempre, in ogni istante rinasce, ma continuamente esiste solo l’uno, il volo…" E continuò ad arrancare nello splendore.
Giunsero al Grembo della Terra.
Pur sapendo che era assurdo, impossibile, sciocco, la sua immaginazione aveva insistito fin dall’inizio che la meta del loro viaggio sarebbe stata un grande tempio, una città misteriosa nascosta in cima al mondo, bastioni di pietra, bandiere spiegate, sacerdoti che cantavano, oro e gong e processioni. Tutte le immagini mitiche di luoghi quali Lhasa, la Montagna del Drago-Tigre, Machu Picchu. Tutte le rovine della Terra.
Per tre giorni, scesero le erte pendici occidentali dello Zubuam, con un tempo nuvoloso, riuscendo a vedere di rado la parete del Silong al di là del vasto abisso d’aria dove il vento rincorreva spire di nubi e turbini di neve spettrali che non si posavano mai. Seguirono le guide per un giorno intero, attraverso nuvole e nebbia, avanzando su una ruga, un lungo costone di roccia innevata con un precipizio da ambedue i lati.
All’improvviso, il tempo si rasserenò, le nuvole sparirono, il sole brillò allo zenit. Sutty rimase disorientata, alzando lo sguardo verso la grande parete e non trovandola. Odiedin le si accostò. Sorridendo, disse: «Siamo sul Silong».
Erano passati dall’altra parte, avevano attraversato il baratro. L’enorme massa di roccia e ghiaccio dietro di loro, a est, era lo Zubuam. Una valanga rotolò fumando da una parete rocciosa nella parte superiore della montagna. Molto tempo dopo, si udì il suo fragore profondo: il Tonante raccontava ai viaggiatori quello che aveva da dire.
Lo Zubuam e il Silong, erano due e uno, anch’essi. Vecchie montagne maz. Vecchie amanti.
Sutty guardò il Silong. Le alture della grande parete si ergevano proprio sopra di loro, celando la vetta. Il cielo era uno squarcio brillante frastagliato, da nord a sud.
Odiedin stava indicando verso sud. Sutty guardò, e vide solo roccia, ghiaccio, lo scintillio dell’acqua di disgelo. Niente torri, niente bandiere.
Ripresero il cammino, faticosamente. Erano su un sentiero, piano e abbastanza sgombro, segnato qua e là da cumuli di pietre piatte. Spesso, ai lati, si vedevano pallottole secche di sterco di minule.
A metà pomeriggio Sutty scorse, più avanti, un paio di guglie di roccia che spuntavano da un angolo sporgente della montagna, come zanne dalla mascella inferiore di un cranio. Il sentiero si restringeva, avvicinandosi a quell’angolo, diventava una cornice sul fianco di un dirupo. Quando giunsero all’angolo, le due zanne rossastre di roccia si innalzavano davanti a loro come una porta, e il sentiero passava tra di esse.
Lì, si fermarono. Tobadan tirò fuori il proprio tamburo e lo suonò, i tre maz parlarono e cantarono. Le parole erano tutte in rangma e così antiche o formalizzate che Sutty non riuscì a comprenderne il significato. Le due guide del villaggio e le loro guide frugarono negli zaini ed estrassero dei piccoli fasci di ramoscelli legati con filo rosso e blu. Li diedero ai maz, che li presero facendo il gesto della montagna e del cuore, rivolti verso il Silong. Li incendiarono e li misero a bruciare tra le rocce accanto al sentiero. Il fumo sapeva di salvia, un incenso secco. Piccole volute azzurre si levarono lente tra le rocce e lungo il sentiero. Il vento soffiava, un fiume d’aria turbolenta che si riversava nella grande apertura tra le montagne, ma lì, in quel punto d’accesso, il Silong li riparava e non c’era un alito di vento.
Raccolsero gli zaini e si misero di nuovo in fila, passando tra le rocce che sembravano denti a sciabola. Il sentiero adesso piegava all’interno, verso il fianco della montagna, e Sutty vide che attraversava un circo glaciale, un avvallamento a mezzaluna dal fondo piano, nel fianco della montagna. Nella parete interna, curva, quasi verticale, distante ancora circa mezzo chilometro, c’erano dei punti neri o dei fori. Sul fondo della conca c’era della neve, calpestata da un arabesco di sentieri che andavano e venivano da quei buchi neri nella montagna.
"Caverne" le sussurrò nella mente Adien, l’ex minatore sfregiato, morto di itterizia durante l’inverno. "Caverne piene di essere."
L’aria sembrò addensarsi come sciroppo e tremolare, vibrare. Sutty ebbe un capogiro. Il vento le ruggì negli orecchi, intenso, stridulo, terribile. Ma erano al riparo dal vento, lì, nell’aria soleggiata della conca. Si voltò, confusa, poi alzò lo sguardo terrorizzata verso la frana che le piombava addosso strepitando. Ombre nere attraversarono l’aria, il frastuono era assordante. Sutty si rannicchiò, si coprì la testa con le braccia.
Silenzio.
Guardò in su, si raddrizzò. Gli altri erano tutti in piedi, come lei, statue nel sole vivido, chiazze d’ombra nera ai loro piedi.
Dietro di loro, tra le zanne, tra le guglie di roccia della porta, penzolava o era accartocciato qualcosa. Luccicava abbagliante ed era nero come le tenebre, come un modulo d’atterraggio visto dalla nave nello spazio. Un modulo d’atterraggio… un avio… un elicottero. Sutty vide la pala del rotore incastrata nella guglia di roccia esterna. «Oh, Rama» disse.
«Madre Silong» mormorò Shui, portando al cuore una mano serrata a pugno
Poi si avviarono verso la porta d’accesso, verso il veicolo, preceduti da Akidan, che stava correndo.
«Aspetta, Akidan!» gridò Odiedin, ma il ragazzo era già arrivato vicino al veicolo, ai rottami. Akidan rispose, urlando qualcosa. Odiedin si mise a correre.
Sutty non riusciva a respirare. Dovette fermarsi un po’ e calmare i battiti del cuore. La più anziana delle guide della zona pedemontana, Long, un uomo gentile e schivo, era accanto a lei, e al pari di lei stava tremando, stava cercando di respirare a un ritmo regolare, senza affanno. Erano scesi, ma si trovavano ancora a diciottomila pieng, aveva detto Siez a Sutty, seimila metri, l’aria era rarefatta, molto rarefatta. Sutty ripeté quei numeri nella propria mente.
«Stai bene, yoz Long?»
«Sì. Tu stai bene, yoz Sutty?»
Avanzarono insieme.
Sutty udì Kieri che diceva: «L’ho visto, mi sono girata a guardare… stentavo a crederci… stava cercando di volare tra i pilastri…»
«No, l’ho visto, era là fuori, stava salendo lungo il passo, ci seguiva, poi mi è sembrato che una raffica di vento lo colpisse, inclinandolo di traverso, sbattendolo giù tra le rocce!» Quello era Akidan.
«Lei l’ha preso nelle sue mani» disse Naba, l’uomo dell’ultimo villaggio estivo.
I tre maz erano accanto al relitto, in mezzo ai rottami.
Shui si era inginocchiata e stava rompendo qualcosa con un sasso, dando colpi rabbiosi, metodici. I resti di un trasmettitore, vide Sutty. La vendetta dell’età della pietra, disse fredda la sua mente.
La sua mente sembrava molto fredda, distaccata dal resto di lei, glaciale.
Sutty si avvicinò e guardò l’elicottero precipitato. Si era spaccato in uno strano modo. Il pilota penzolava dal sedile, trattenuto dalle cinture di sicurezza, quasi capovolto. La faccia era in gran parte nascosta da una sciarpa di lana inzuppata di sangue. Vide i suoi occhi, grumi di gelatina.
Sul terreno sassoso, tra Odiedin e Siez, giaceva un altro uomo. I suoi occhi erano vivi. Stava fissando Sutty. Alcuni istanti dopo, lei lo riconobbe.
Tobadan, il guaritore, stava passando le mani, rapido e leggero, sul corpo e sugli arti dell’uomo, anche se di sicuro non poteva capire granché attraverso gli indumenti pesanti. Continuava a parlare, come se volesse tenere sveglio l’uomo. «Puoi toglierti il casco?» chiese. Poco dopo, l’uomo cercò di accontentarlo, armeggiando col cinturino. Tobadan lo aiutò. Lui continuò a fissare Sutty con un’espressione di ottusa perplessità. La sua faccia, sempre decisa e dura, adesso appariva fiacca, inerte.
«È ferito?»
«Sì» rispose Tobadan. «Questo ginocchio. La schiena. Non ci sono fratture, mi pare.»
«Sei stato fortunato» disse la mente fredda di Sutty, parlando ad alta voce.
L’uomo la fissò, distolse lo sguardo, fece un gesto debole, provò a sollevarsi a sedere. Odiedin gli premette con delicatezza sulle spalle, dicendo: «Non muoverti. Aspetta. Sutty, non lasciarlo alzare. Dobbiamo tirare fuori l’altro uomo. Tra poco verranno a darci una mano».
Girandosi verso la conca, verso le caverne, Sutty vide delle sagome minuscole che attraversavano la neve, affrettandosi verso di loro.
Prese il posto di Odiedin, e rimase in piedi accanto al Controllore. Il ferito era steso sul terreno con le braccia incrociate sul petto. Di tanto in tanto, rabbrividiva. Anche lei tremava. Batteva i denti. Si strinse le braccia attorno al corpo.
«Il tuo pilota è morto» gli disse.
Lui non disse nulla. Rabbrividì.
All’improvviso, ci furono altre persone attorno a loro. Lavorarono con efficienza: immobilizzarono il ferito su una barella di fortuna, sollevarono la barella e si incamminarono verso le caverne, il tutto in un paio di minuti. Altre persone trasportarono il morto. Alcuni si radunarono attorno a Odiedin e ai giovani maz. C’era un ronzio sommesso di voci che non facevano che ronzare nella testa di Sutty, senza senso come il linguaggio delle mosche.
Cercò Long, lo raggiunse, e insieme attraversarono la conca. Erano più lontano di quanto non sembrasse, la parete della montagna e l’ingresso delle caverne. In alto, un paio di geyma si libravano in lunghe spirali lente. Il sole era già dietro la sommità della parete. La gigantesca ombra blu del Silong si stagliava contro lo Zubuam.
Le caverne erano diverse da qualsiasi cosa Sutty avesse mai visto. Erano numerose, centinaia, alcune minuscole, nient’altro che bollicine nella roccia, altre grandi quanto porte di hangar. Formavano un merletto di cerchi, congiungendosi e sovrapponendosi nella parete di roccia, intagli, motivi. I bordi delle imboccature erano ornati da gruppi di cerchi più piccoli, pietra argentea che brillava sul nero tenebra, simili a bolle di sapone, schiuma, ai contorni di figure di Mandelbrot.
Davanti a un ingresso era stata alzata una piccola staccionata. Mentre passavano, Sutty diede un’occhiata dentro, e il muso bianco di un giovane minule la guardò con tranquilli occhi scuri. C’era un’intera stalla di minule nelle caverne. Sutty sentiva il loro odore pungente, caldo, erbaceo. Le imboccature delle caverne erano state allargate e portate a livello del suolo dove necessario, ma avevano conservato la loro forma circolare. Le persone che lei e Long stavano seguendo entrarono in una di quelle grandi porte rotonde che immettevano nella montagna. Quando fu all’interno, Sutty si voltò un attimo a guardare l’entrata e vide la luce del giorno come un perfetto cerchio ardente incastonato nel nero assoluto.