Cinque

L’inverno arrivò con poca neve ma freddissimo, con venti che soffiavano sferzanti dall’immensa distesa desolata di montagne a ovest e a nord. Iziezi portò Sutty in un negozio di abbigliamento usato, a comprare un cappotto di pelle, consunto ma robusto, foderato di morbido vello. La fodera del cappuccio era la soffice pelliccia di un animale di montagna, a proposito del quale Iziezi commentò: «Tutti scomparsi, adesso. Troppi cacciatori». Disse che la pelle dell’indumento non era di eberdin, come aveva pensato Sutty, ma di minule, una specie d’alta montagna. Il cappotto le scendeva sotto il ginocchio, fino agli stivali leggeri foderati di lana. Questi erano nuovi, fatti di materiali sintetici, adatti agli sport e alle escursioni in montagna. La gente legata alle usanze passate accettava le nuove tecnologie e i nuovi prodotti, purché funzionassero meglio dei vecchi e non comportassero alcun cambiamento significativo del loro modo di vivere. A Sutty quello sembrava un conservatorismo profondo ma ragionevole. Per un’economia basata sullo sviluppo continuo, tuttavia, era una maledizione.

Sutty percorreva con passo pesante le strade ghiacciate indossando il vecchio cappotto e gli stivali nuovi. In inverno, a Okzat-Ozkat, tutti si assomigliavano, imbacuccati nei cappotti di pelle con cappuccio imbottito, tranne i burocrati in divisa, che a loro volta sembravano tutti uguali nei loro indumenti pesanti di fibra sintetica dai colori vistosi, blu, ruggine, viola. Il freddo inclemente creava una specie di cameratesco anonimato. Quando si entrava in qualche luogo chiuso, il tepore era una fonte immancabile di sollievo, piacere, senso di solidarietà. In una sera lugubre e pungente, arrancare lungo le strade ripide fino a raggiungere qualche stanzetta buia dall’aria viziata e radunarsi con gli altri accanto al focolare — una stufetta elettrica, perché c’era poca legna lì, vicino al limite della vegetazione arborea, e tutto il calore era generato dalla gelida energia del fiume Ereha — e togliersi le muffole e strofinarsi le mani, che sembravano così nude e delicate, e guardare le altre facce bruciate dal vento e le ciglia imperlate di ghiaccio, e sentire il piccolo tamburo che rullava tatat tatat, e la voce sommessa che cominciava a parlare, elencando i nomi dei fiumi di Hoying che confluivano l’uno nell’altro, o raccontando la storia di Ezid e Inamena sulla Montagna di Gam, o descrivendo come il Consiglio di Mez avesse radunato un esercito contro i selvaggi occidentali… tutto questo rappresentò per Sutty un’esperienza piacevolissima, sicura, concreta, continua, durante tutto l’inverno.

I selvaggi occidentali, adesso lo sapeva, erano i dovzani. Quasi tutto quello che i maz insegnavano, leggende e storia e filosofia, proveniva dal centro e dall’est del grande continente, e da secoli addietro, millenni addietro. Da Dovza proveniva solo la lingua che parlavano, ma lì era infarcita di parole della lingua originale di quella regione, il rangma, e di altri idiomi.

Parole. Un mondo fatto di parole.

C’era della musica. Alcuni maz intonavano canti curativi come quelli registrati da Tong Ov nella metropoli; altri suonavano strumenti a corda, con l’archetto o pizzicati, per accompagnare ballate e canzoni. Sutty registrava quella musica quando poteva, anche se la sua ottusità musicale le impediva di apprezzarla. Un tempo c’erano arte, sculture e dipinti e arazzi, coi simboli dell’Albero e della Montagna e figure ed episodi delle leggende e delle storie. C’era stata la danza, ed esistevano ancora le varie forme di esercizio fisico e di meditazione mobile. Ma innanzitutto c’erano le parole.

Quando i maz si appoggiavano sulle spalle il manto della loro carica — un piccolo pezzo di stoffa sottile, rosso o blu — venivano percepiti come portatori di un’autorità sacra, un potere sacro. Quello che dicevano allora faceva parte della Narrazione.

Quando si toglievano la sciarpa tornavano alla condizione normale, non vantavano alcuna autorità spirituale, quello che dicevano allora contava quanto le parole di chiunque. Certe persone, naturalmente, insistevano nell’attribuire ai maz un’autorità permanente. Come la gente della tribù di Sutty, molti akani desideravano seguire un capo, versare tributi invece di pagare prestazioni, scaricare la responsabilità sulle spalle di qualcun altro. Ma se i maz avevano una qualità in comune, era un’ostinata modestia. Non miravano a diventare figure carismatiche. Maz Imyen Katyan era uno degli uomini più gentili che Sutty avesse mai conosciuto, ma quando una donna si rivolse a lui con un titolo ossequioso, "munan", usato per i maz famosi dei racconti e della storia, lui la redarguì rabbioso: «Come osi chiamarmi così?» e poi, calmatosi, aggiunse: «Quando sarò morto da cent’anni, yoz».

Poiché ogni aspetto dell’attività professionale dei maz era una violazione della legge e comportava un rischio personale considerevole, Sutty aveva creduto che parte di quello stile modesto, quel restare in ombra, fosse un atteggiamento recente. Ma quando lo disse, maz Ottiar Uming scosse la testa.

«Oh, no» replicò la vecchia. «Dobbiamo nasconderci, tenere tutto segreto, sì. Ma penso che all’epoca dei miei nonni la maggior parte dei maz vivessero come viviamo adesso. Nessuno può portare la sciarpa in continuazione! Neppure maz Elyed Oni… Certo, negli umyazu era diverso.»

«Parlami degli umyazu, maz.»

«Erano luoghi costruiti per accumulare la forza. Luoghi pieni di essere. Pieni di gente che narrava e ascoltava. Pieni di libri.»

«Dov’erano?»

«Oh, dovunque. Qui a Okzat-Ozkat, ce n’era uno dove adesso c’è il Liceo, e un altro dove adesso lavorano la pietra pomice. Su fino al Silong, nelle valli, lungo le strade commerciali, c’erano umyazu per i pellegrini. E giù dove la terra è ricca, c’erano enormi umyazu, con centinaia di maz che vi abitavano, e si spostavano in visita da un umyazu all’altro per tutta la vita. Conservavano libri, e ne scrivevano, e continuavano a narrare. Capisci, potevano dedicare tutta la vita a questo. Potevano rimanere sempre là. La gente andava a visitarli, per sentire la narrazione e leggere i libri conservati nelle biblioteche. La gente andava in processione, con bandiere rosse e blu. Andava, e rimaneva tutto l’inverno, a volte. Risparmiava per anni per poter pagare i maz e l’alloggio. Mia nonna mi parlò del viaggio che fece all’Umyazu Rosso di Tenban. Aveva undici o dodici anni. Impiegarono quasi un anno intero per andare, fermarsi, e tornare. Era abbastanza ricca, la famiglia di mia nonna, così fecero tutto il viaggio su un carro trainato da eberdin. Sai, allora non avevano auto e aerei. Nessuno li aveva. La maggior parte della gente andava a piedi. Ma tutti avevano bandiere e portavano nastri. Color rosso e blu.» Ottiar Uming rise contenta al pensiero di quelle processioni. «La madre di mia madre scrisse la storia di quel viaggio. Un giorno, la tirerò fuori e la racconterò.»

Il suo compagno, Uming Ottiar, stava spiegando un grande foglio rigido sul tavolo, nel retro della loro drogheria. Ottiar Uming andò ad aiutarlo e mise una pietra nera lucida su ogni angolo che tendeva ad arricciarsi. Poi invitarono i loro cinque ascoltatori ad avvicinarsi, a salutare il foglio col gesto della montagna e del cuore, e a studiare la carta e le sue iscrizioni. La mostravano ogni tre settimane, e Sutty era sempre venuta, per tutto l’inverno. Era stato il suo primo contatto ufficiale con il sistema concettuale dell’Albero. Il bene più prezioso della coppia di maz, ricevuto in dono cinquant’anni prima dal loro maz-insegnante, era una splendida mappa o mandala dell’Uno che è Due da cui hanno origine il Tre, il Cinque, la Miriade, e dalla Miriade il Cinque, il Tre, il Due, l’Uno… Un Albero, un Corpo, una Montagna, tracciati nel cerchio che era tutto e nulla. Delicate figurine, animali, persone, piante, rocce, fiumi, vivide come fiamme guizzanti, costituivano le forme più grandi, che si dividevano, si ricongiungevano, si trasformavano nelle altre forme e nel tutto, l’unità fatta di varietà infinita, il mistero chiaro come il giorno.

A Sutty piaceva studiare la carta e cercare di decifrare le scritte e le poesie attorno alle immagini. Il dipinto era bellissimo, le poesie splendide e difficili da afferrare, la carta era un’opera d’arte, avvincente, illuminante. Maz Uming si sedette e dopo alcuni colpi sul piccolo tamburo cominciò a intonare uno dei canti interminabili che accompagnavano i rituali e molte narrazioni. Maz Ottiar lesse e discusse alcune delle iscrizioni, che risalivano a quattrocento o cinquecento anni prima. La sua voce era sommessa, piena di silenzi. Sottovoce, esitanti, gli studenti fecero delle domande. Lei rispose con lo stesso tono.

Poi indietreggiò, si sedette e proseguì il canto con voce da moscerino, e il vecchio Uming, mezzo cieco, biascicando le parole per via di un colpo apoplettico, si alzò e parlò di una delle poesie.

«Questa è di maz Niniu Raying, cinque, sei, settecento anni fa, eh? È nel Pergolato. Qualcuno l’ha scritta qui, un bravo calligrafo, perché parla di come le foglie dell’Albero muoiano ma ritornino sempre, purché noi le vediamo e le raccontiamo. Vedete, qua dice: "Parola, l’oro oltre la cascata, restituisce lo splendore al ramo". E qua sotto, vedete, qualcuno in seguito ha scritto: "La vita della mente è memoria".» Sorrise ai presenti, un sorriso lieve, gentile. «Ricordatelo, eh? "La vita della mente è memoria". Non dimenticatelo!» Rise, risero tutti. Intanto, nella stanza accanto, la drogheria, il nipote dei maz teneva alto il volume dell’impianto audio: musica allegra, esortazioni, notizie strombazzate, che servivano a coprire la poesia illecita, il riso proibito.

Era un peccato, ma affatto sorprendente, disse Sutty al noter, che un’antica disciplina popolare cosmologica-filosofica-spirituale contenesse una gran quantità di superstizione e sfociasse in quelle che lei aveva etichettato SA, sciocchezze astruse. La grande giungla di significati importanti aveva pantani e acquitrini, e lei alla fine ne aveva incontrati alcuni. Conobbe dei maz che sostenevano di possedere conoscenze arcane e poteri divini. Per quanto trovasse noiose tali affermazioni, si rendeva conto di non sapere con certezza che cosa fosse prezioso e che cosa ciancia, e registrò scrupolosa tutte le informazioni che poteva comprare da quei maz riguardanti l’alchimia, la numerologia, l’interpretazione letterale di testi simbolici. Per frammenti di testi e brandelli di metodologia, quei maz pretesero da lei un prezzo piuttosto salato, mostrandosi restii, facendo seguire alla compravendita avvertimenti solenni per metterla in guardia contro i pericoli di conoscenze così potenti.

Sutty detestava soprattutto le interpretazioni letterali. Con quella stretta aderenza alla lettera, con un simile fondamentalismo, le religioni tradivano le migliori intenzioni dei loro fondatori. Riducendo il pensiero a formula, sostituendo la possibilità di scelta con l’obbedienza, quei predicatori trasformavano la parola viva in legge morta. Ma Sutty inserì ogni cosa nel noter, che aveva già dovuto scaricare due volte su microcristallo perché non poteva trasmettere nulla della mole di tesori e sciocchezze che stava accumulando.

A quella distanza, con tutti i mezzi di comunicazione controllati, non aveva modo di consultarsi con Tong Ov e chiedergli cosa doveva fare di tutto quel materiale. Non poteva nemmeno dirgli che l’aveva trovato. Il problema rimase, e crebbe.

Tra le varie SA, trovò un tipo di sciocchezza astrusa che, a quanto le risultava, esisteva solo su Aka: un sistema di significati arcani attribuiti ai vari tratti che formavano i caratteri ideogrammatici e agli altri tratti e punti che servivano a qualificare il tempo verbale, il modo, il caso sostantivale, l’Azione e l’Elemento (perché tutto, proprio tutto, poteva essere categorizzato nelle Quattro Azioni e nei Cinque Elementi). Ogni carattere della vecchia scrittura diventava quindi un codice che doveva essere interpretato da specialisti, che ricordavano moltissimo gli esperti di oroscopi del paese di Sutty. Scoprì che a Okzat-Ozkat molte persone, compresi i funzionari dell’Azienda, non intraprendevano nulla di importante senza prima chiamare un "lettore di segni" che scrivesse il loro nome e altre cose pertinenti e, esaminati i dati e consultati diagrammi e carte di estrema complessità, li consigliasse e pronosticasse. «Questo è il genere di cosa che mi fa sentire solidale con il Controllore» disse al noter. Poi aggiunse: «No. È quello che il Controllore vuole dal suo genere di SA. SA politiche. Tutto a posto, in perfetto ordine, sotto controllo. Ma anche lui ha ceduto i comandi».

Molte pratiche osservate lì ricordavano pratiche analoghe sulla Terra. Gli esercizi fisici, come lo yoga e il tai chi, interessavano il corpo e la mente, erano discipline coltivate per tutta la vita, e conducevano a una concentrazione estrema, o a uno stato di trance, o al vigore marziale e alla prontezza, a seconda delle inclinazioni e del desiderio del praticante. Lo stato di trance sembrava ambito come esperienza di immobilità ed equilibrio perfetto, non come satori o rivelazione. La preghiera… Be’, e la preghiera?

Gli akani non pregavano.

Sembrava una cosa così strana, così anormale, che non appena si soffermò a pensarci Sutty precisò a se stessa: era possibilissimo che lei non capisse bene cos’era la preghiera.

Se significava chiedere qualcosa, gli akani non lo facevano. Nemmeno a livello invocativo, come capitava invece a lei. Sapeva che quando era sbigottita strillava: "Oh, Rama!", e quando era molto spaventata sussurrava: "Oh, ti prego, ti prego…". Quelle parole non significavano assolutamente nulla, però lei si rendeva conto che erano una specie di preghiera. Non aveva mai sentito pronunciare niente del genere da un akano. Gli akani potevano augurarsi del bene: "Un buon anno a te, e che i tuoi affari fioriscano", come potevano maledirsi a vicenda "Che i tuoi figli mangino sassi", aveva sentito mormorare da Diodi, l’uomo del carretto, mentre passava una divisa blu e marrone. Ma quelli erano auguri, non preghiere. La gente non chiedeva a Dio di aiutarla o di distruggere i nemici. Non chiedevano agli dei di fargli vincere la lotteria o di guarirgli il figlioletto malato. Non chiedevano alle nuvole di lasciar cadere la pioggia o di far crescere il grano. Auguravano, desideravano, speravano, ma non pregavano.

Se la preghiera era lode, allora forse pregavano. Un po’ alla volta, Sutty si era resa conto che la loro descrizione dei fenomeni naturali, la farmacopea del Fecondatore, le carte celesti, gli elenchi di minerali, erano specie di litanie di lode. Pronunciando i nomi, gioivano della complessità e della specificità, della ricchezza e della bellezza del mondo, erano partecipi della pienezza dell’essere. Descrivevano, nominavano, raccontavano tutto di tutto. Ma non pregavano, non chiedevano nulla.

Né sacrificavano nulla. Tranne il denaro.

Per ottenere denaro, bisognava dare denaro: quello era un principio saldo e universale. Prima di qualsiasi affare, seppellivano delle monete d’argento e di rame, o le gettavano nel fiume, o le davano ai mendicanti. Martellavano le monete d’oro trasformandole in sottilissime lamine traslucide con cui decoravano nicchie, colonne, perfino interi muri di edifici, oppure le trafilavano ricavandone fili d’oro con cui tessevano bellissimi scialli o sciarpe da regalare a Capodanno. Le monete d’oro e d’argento scarseggiavano, dato che l’Azienda, detestando un simile spreco, aveva adottato perlopiù la cartamoneta; così la gente bruciava le banconote come incenso, faceva barchette con le banconote e le metteva a galleggiare sul fiume, le tritava fini fini e le mangiava con l’insalata. Quell’usanza era decisamente SA, ma Sutty la trovava affascinante. Uccidere capre o il proprio primogenito per placare il soprannaturale le sembrava il peggior tipo di malvagità, ma in quel sacrificio di denaro coglieva un gesto ardimentoso da giocatore d’azzardo. Tanti presi, tanti spesi. A Capodanno, quando s’incontrava un amico o un conoscente, ognuno accendeva un biglietto da un ha e lo agitava come una piccola torcia, augurando all’altro salute e prosperità. Sutty lo vide fare perfino da dipendenti dell’Azienda. Si domandò se il Controllore l’avesse mai fatto.

Le persone più ingenue che incontrava alle narrazioni e ai corsi, e Diodi e altri amici che vedeva spesso per strada, credevano tutti nella lettura dei segni e nei prodigi alchemici e parlavano di diete che permettevano di vivere in eterno, di esercizi che avevano dato agli antichi eroi la forza di opporsi a interi eserciti. Perfino Iziezi approvava la lettura dei segni. Ma la maggior parte dei maz, i dotti, gli insegnanti, non vantavano alcun potere speciale. Vivevano decisamente e interamente nel mondo reale. Conoscevano la brama spirituale e il senso della sacralità, però per loro non esisteva nulla di più sacro del mondo, non cercavano un potere più grande della natura. Sutty ne era certa. «Niente miracoli!» disse al noter, esultante.

Codificò gli appunti, infilò cappotto e stivali, e s’incamminò nel vento maligno della primavera appena iniziata per andare al corso di esercizio fisico di maz Odiedin Manma. Dopo molte settimane, il Silong era visibile per la prima volta, non la parete imponente, solo la vetta, che spuntava come un corno argenteo dalle fosche nubi temporalesche.

Adesso andava con regolarità a esercitarsi assieme a Iziezi, e spesso si tratteneva oltre, per osservare Akidan e altri adolescenti e giovani che facevano il "due-uno", una disciplina atletica che si praticava a coppie, con finte e cadute spettacolari. Odiedin Manma, il narratore della strana storia dell’uomo che sognava di volare, era molto ammirato da quei giovani, ed erano stati alcuni di loro a farlo conoscere a Sutty, portandola da lui. Il maz insegnava un tipo di esercizio-meditazione austero e bellissimo. Aveva invitato Sutty a unirsi al gruppo.

Si trovavano in un vecchio magazzino vicino al fiume, un posto meno sicuro dell’umyazu trasformato in palestra dove lei si recava con Iziezi, ed eseguivano per davvero gli esercizi ginnici legittimi del manuale sanitario che servivano come copertura per quelli proibiti. Il magazzino era illuminato solo da feritoie sporche sotto i cornicioni. Nessuno parlava, se non sussurrando a voce bassissima. Non c’era nulla di magico e fumoso in Odiedin, ma Sutty trovava che quegli esercizi, i movimenti lenti e silenziosi nella penombra, fossero strani e ossessivi, a volte inquietanti; li sognava perfino.

Quella mattina, un uomo seduto accanto a lei la fissò mentre prendeva posto sulla stuoia. Il gruppo eseguiva la prima parte del rituale, ma l’uomo continuò a fissarla, ammiccando, gesticolando, sorridendole. Nessuno si comportava così. Seccata e imbarazzata, durante una posa da tenere a lungo, Sutty riuscì a lanciare un’occhiata a quell’individuo e si rese conto che era ebete.

Quando il gruppo iniziò una serie di movimenti che lei non conosceva ancora bene, osservò gli altri e cercò di imitarli come meglio poteva. I suoi errori e le sue omissioni turbarono il vicino, che cercò di mostrarle ripetutamente quando e come muoversi, mimando, con gesti esagerati. Quando gli altri si alzarono, Sutty rimase seduta, il che era sempre consentito, ma il povero ebete parve sconvolto. Gesticolò. "Su! Su!", la invitò muto, muovendo le labbra. E indicò verso l’alto. Infine, sussurrando: «Su… così… capito?» fece un passo nell’aria. Portò l’altro piede sulla scala invisibile, e poi salì un altro gradino nello stesso modo. Se ne stava in piedi scalzo a mezzo metro dal pavimento, e guardava Sutty dall’alto, sorridendole ansioso e invitandola con un gesto a raggiungerlo. Era in piedi a mezz’aria.

Odiedin, un cinquantenne agile e snello, con un pezzo di tessuto blu attorno al collo, gli si avvicinò. Tutti gli altri continuarono a eseguire il dondolio laborioso che ricordava l’ondeggiamento di una foresta di alghe. Odiedin mormorò: «Vieni giù, Uki». Allungò una mano, afferrò quella di Uki e gli fece scendere i due gradini inesistenti, gli batté con affetto sulla spalla e si allontanò. L’ebete si unì alla figurazione, oscillando e girando con impeccabile grazia e vigore. A quanto pareva, aveva dimenticato Sutty.

Al termine della seduta, Sutty non ebbe il coraggio di rivolgere a Odiedin alcuna domanda. Cosa doveva chiedergli? "Hai visto quello che ho visto io? E io l’ho visto davvero?" Sarebbe stato stupido. Non poteva essere successo, quindi lui senza dubbio si sarebbe limitato a rispondere alla sua domanda con una domanda.

O forse Sutty non gli chiese nulla perché temeva che il maz le rispondesse semplicemente: "Sì".

Se un mimo poteva trasformare l’aria in una scala, se un fachiro poteva arrampicarsi su una corda appesa all’aria, forse un povero ebete poteva trasformare l’aria in un gradino. Se la forza spirituale poteva muovere le montagne, forse poteva pure creare una scala. Stato di trance. Suggestione ipnotica o ipnagogica.

Sutty descrisse brevemente l’episodio negli appunti quotidiani, senza commenti. Mentre parlava al noter, si convinse che nella sala c’era davvero una specie di predellino che lei non aveva visto nella penombra, sì, un blocco di legno, forse una cassa, di colore nero. Certo che c’era qualcosa, là. Sutty fece una pausa, ma non aggiunse altro. Vedeva il blocco o la cassa, adesso. Ma non l’aveva visto, allora.

Spesso, però, rivide nella mente quei due piedi nudi, callosi, muscolosi, che salivano la montagna assente. Si chiese cosa si provasse a camminare sull’aria, che sensazione avvertissero le piante dei piedi. Un senso di fresco? Di elasticità?

In seguito, prestò più attenzione ai vecchi testi e alle vecchie storie che parlavano di camminare sul vento, cavalcare le nuvole, viaggiare tra le stelle, distruggere i nemici lontani con fulmini e saette. Simili imprese erano sempre attribuite a eroi e maz saggi vissuti in luoghi remoti tanto tempo prima, anche se molte di quelle imprese erano ormai comuni e abituali grazie alle moderne tecnologie. Sutty riteneva comunque che fossero mitiche, metaforiche, da non prendere alla lettera. Non giunse ad alcuna spiegazione.

Ma il suo atteggiamento era cambiato. Adesso sapeva di essersi ancora lasciata sfuggire il nocciolo della questione… un equivoco grossolano e assoluto di cui non si era accorta.

Una narrazione non era una spiegazione.

"Non riescono a vedere la foresta perché si perdono a osservare gli alberi, non colgono l’insieme perché badano ai particolari, i pedanti, i sapientoni" le ringhiò nella mente zio Hurree. "Poesia, ragazza, poesia. Leggi il Mahabharata. È tutto là dentro."

«Maz Elyed» chiese Sutty, «cos’è che fai?»

«Racconto, yoz Sutty.»

«Sì. Ma le storie, tutte le cose che racconti, cosa fanno?»

«Raccontano il mondo.»

«Perché, maz?»

«È quello che fa la gente, yoz. Il motivo per cui siamo qui.»

Maz Elyed, come molti maz, parlava a bassa voce e in modo piuttosto incerto, interrompendosi, ricominciando quando si aveva l’impressione che avesse terminato. Il silenzio faceva parte di tutto ciò che diceva.

Era piccola, zoppa, e molto rugosa. La sua famiglia possedeva un negozietto di ferramenta nel quartiere più povero della cittadina, un quartiere dove molte case non erano fatte di pietra e di legno, ma erano tende o iurte di feltro e tela rattoppate con pezzi di plastica, erette su piattaforme di argilla battuta. I nipoti e i pronipoti abbondavano nel negozio di ferramenta. Un bisnipote piccolissimo girellava traballando nella bottega, e sembrava che lo scopo della sua vita fosse mangiare viti e rondelle. Una vecchia fotografia 2D di Elyed con la compagna Oni era appesa alla parete dietro il banco: Oni Elyed alta e con lo sguardo sognante, Elyed Oni piccina, vispa, bellissima. Trent’anni prima, erano state arrestate per devianza sessuale e per avere insegnato ideologia marcia e corrotta. Le avevano mandate in un campo di rieducazione sulla costa occidentale. Oni era morta là. Elyed era tornata dopo dieci anni, zoppa, senza denti: persi per le percosse o per lo scorbuto, lei non l’aveva mai rivelato. Non parlava di sé, o della compagna, o della vecchiaia, o delle proprie faccende. I suoi giorni trascorrevano in una continuità rituale ininterrotta che comprendeva tutte le necessità e le funzioni corporali, preparare e consumare i pasti, dormire, insegnare, ma soprattutto leggere e narrare, una sommessa e incessante ripetizione dei testi che aveva appreso durante tutta la vita.

All’inizio, a Sutty era parso che Elyed fosse una creatura misteriosa, che non aveva nulla di umano, indifferente e inaccessibile come una nuvola, una santa domestica che viveva interamente all’interno del sistema rituale, una specie di automa che recitava senza emozione, senza personalità. Aveva avuto paura di lei. Temeva che quella donna che incarnava appieno il sistema, che lo viveva in modo totale, la costringesse ad ammettere che si trattava di un sistema isterico, ossessivo, assolutistico, mentre lei, detestando e temendo tutte quelle caratteristiche, si augurava che non fosse così. Ma ascoltando le narrazioni di Elyed, Sutty percepiva una mente disciplinata, razionale, anche se parlava di cose irragionevoli.

Elyed usava spesso quella parola, "irragionevole", in senso letterale: ciò che non può essere compreso dalla ragione. Una volta, quando Sutty stava cercando di trovare un filo logico tra svariate narrazioni, Elyed disse: «Quello che facciamo è irragionevole, yoz».

«Ma una ragione c’è.»

«Probabilmente.»

«Quello che non capisco è lo schema. La collocazione, l’importanza delle cose nello schema. Ieri stavi raccontando la storia di Iaman e Deberren, ma non l’hai finita, e oggi hai letto la descrizione delle foglie degli alberi del boschetto della Montagna d’Oro. Non capisco che collegamento ci sia tra le due cose. O certi argomenti sono adatti a certi giorni? O le mie domande sono semplicemente stupide?»

«No» disse Elyed, e rise, una risatina sdentata. «Mi stanco a ricordare. Così leggo. Non ha importanza. Sono tutte foglie dell’albero»

«Allora… qualunque cosa… qualunque cosa si trovi nei libri è ugualmente importante?»

Elyed rifletté. «No» disse. «Sì.» Trasse un respiro tremulo. Si stancava presto quando non poteva affidarsi alla consuetudine degli atti e del linguaggio rituali, ma non congedava mai Sutty, non eludeva mai le sue domande. «È tutto quello che abbiamo. Capisci? È così che abbiamo il mondo. Senza la narrazione, non abbiamo nulla. Il momento passa come l’acqua del fiume. Noi cadremmo e ruzzoleremmo e saremmo inermi se cercassimo di vivere nel momento. Saremmo come un bambino. Un bambino può farlo, ma noi saremmo travolti. La nostra mente ha bisogno di raccontare, ha bisogno della narrazione. Per trattenere. Il passato è passato, e nel futuro non c’è nulla da afferrare. Il futuro non è ancora nulla. Nessuno può vivere nel futuro, no? Quindi, quello che abbiamo sono le parole che dicono cos’è successo e cosa succede. Quello che è stato e quello che è.»

«Memoria?» fece Sutty. «Storia?»

Elyed annuì, dubbiosa, non soddisfatta di quei termini. Rimase seduta a riflettere un po’, e infine disse: «Noi non siamo fuori dal mondo, yoz. Lo sai? Noi siamo il mondo. Siamo la sua lingua. Così noi viviamo e il mondo vive. Capisci? Se non diciamo le parole, cosa c’è nel nostro mondo?».

Stava tremando, piccoli spasmi delle mani e della bocca che cercava di nascondere. Sutty la ringraziò col gesto della montagna e del cuore, si scusò per averla affaticata con la conversazione. Elyed la tranquillizzò con la tipica risatina tutta gengive scure. «Oh, yoz, io tiro avanti grazie alle parole. Proprio come il mondo» disse.

Sutty si allontanò, pensierosa. Tutta quella insistenza sul linguaggio. Si ritornava sempre alle parole. Come i greci col loro Logos, il Verbo Ebraico che era Dio. Ma in questo caso si trattava di parole. Non del Logos, del Verbo, ma di parole. Non una, ma molte, moltissime… Nessuno creava il mondo, governava il mondo, diceva al mondo di esistere. Il mondo esisteva. E gli esseri umani ne facevano un mondo umano raccontandolo? Raccontando cosa esisteva al mondo e cosa accadeva? Qualsiasi cosa, ogni cosa… storie di eroi, carte celesti, canzoni d’amore, elenchi delle forme delle foglie… Per un attimo, Sutty pensò di aver capito.

Andò con quella comprensione parziale da maz Ottiar Uming, un’interlocutrice meno ostica di Elyed, perché voleva provare a tradurre in parole il concetto. Ma Ottiar era impegnata in un canto rituale, così Sutty si rivolse a Uming, e, chissà perché, il suo ragionamento si fece tortuoso e pedante. Non riuscì a esprimere quanto aveva intuito.

Mentre lei e il maz si sforzavano di capirsi, Uming Ottiar manifestò dell’acredine, un tipo di reazione che Sutty non aveva mai notato in quegli insegnanti pacati. Malgrado la difficoltà a parlare, Uming era un abile oratore, e iniziò abbastanza tranquillo: «Gli animali non hanno linguaggio. Hanno la loro natura. Capisci? Loro conoscono la via, sanno dove andare e in che modo, seguendo la loro natura. Ma noi siamo animali senza natura. Eh? Ammali senza natura! Questo è strano! Noi siamo molto strani! Dobbiamo parlare di come fare e cosa fare, pensarci, studiare, imparare. Capito? Siamo nati per essere ragionevoli, quindi siamo nati ignoranti. Chiaro? Se nessuno ci insegna le parole, i pensieri, rimaniamo ignoranti. Se nessuno mostra a un bambino piccolo, di due o tre anni, in che modo cercare la via, i segni lungo il sentiero, i punti di riferimento, il bambino si smarrisce sulla montagna, no? E di notte muore, di freddo. Così…» Uming dondolò un po’ il corpo.

Maz Ottiar, dall’altra parte della stanzetta, batté sul tamburo, mormorando una lunga cronaca di tempi antichi a un ascoltatore solitario, un decenne assonnato.

Maz Uming si dondolò e corrugò la fronte. «Così, senza la narrazione, le rocce e le piante e gli animali vanno avanti benissimo. Ma le persone, no. Le persone vagano smarrite. Non distinguono una montagna dal riflesso della montagna in una pozzanghera. Non distinguono un sentiero da un dirupo. Si fanno male. Si arrabbiano e si fanno male a vicenda, o lo fanno alle altre cose. Fanno male agli animali perché sono in collera. Litigano e si imbrogliano a vicenda. Vogliono troppo. Trascurano le cose. Le coltivazioni non vengono seminate. Ne vengono seminate troppe. I fiumi si sporcano di merda. La terra si sporca di veleno. La gente mangia cibo avvelenato. Tutto è confuso. Tutti stanno male. Nessuno si prende cura della gente malata, delle cose malate. Ma questo è grave, gravissimo, no? Perché badare alle cose è il nostro compito, no? Badare alle cose, badare a noi stessi. Chi altro dovrebbe farlo? Gli alberi? I fiumi? Gli animali? Quelli fanno solo ciò che sono. Ma noi siamo qui, e dobbiamo imparare in che modo starci, come fare le cose, come mandare avanti le cose nel modo giusto. Il resto del mondo sa il fatto suo. Conosce l’Uno e la Miriade, l’Albero e le Foglie. Noi sappiamo soltanto come imparare. Come studiare, come ascoltare, come parlare, come narrare. Se non raccontiamo il mondo, noi non conosciamo il mondo. Ci perdiamo nel mondo, moriamo. Ma dobbiamo raccontarlo bene, in modo veritiero. Chiaro? Dobbiamo prenderci cura di esso e raccontarlo com’è davvero. Ecco cos’è andato storto. Laggiù, laggiù nella regione di Dovza, quando hanno cominciato a raccontare bugie. Quei falsi maz, quei grandi munan, quei maz tirannici. Dicevano alla gente che solo loro conoscevano la verità, che solo loro potevano parlare, e tutti dovevano ripetere le loro bugie. Traditori, usurai! Ingannare la gente per denaro! Arricchirsi con le bugie, tiranneggiare la gente! Non c’è da meravigliarsi se il mondo ha smesso di funzionare! Non c’è da meravigliarsi se la polizia ha preso il potere!»

Il vecchio era rosso in volto, e agitava la mano sana come se stringesse un bastone. Sua moglie si alzò, gli si avvicinò e gli diede il tamburo e la bacchetta, senza interrompere la cantilena della narrazione. Uming si morse un labbro, scosse il capo, si irritò un po’, batté il tamburo piuttosto forte, e proseguì la narrazione.

«Mi dispiace» si scusò Sutty con Ottiar, mentre la vecchia l’accompagnava alla porta. «Non intendevo turbare maz Uming.»

«Oh, non è nulla» disse Ottiar. «Sono cose successe prima che io/noi nascessimo. Giù, nella regione di Dovza.»

«Non facevate parte di Dovza, quassù?»

«Siamo per la maggior parte rangma, qui. La mia/nostra gente parlava tutta il rangma. I nonni non sapevano quasi nulla di dovzano finché non è arrivata la polizia dell’Azienda e ha costretto tutti a parlarlo. Loro lo detestavano! Lo parlavano col peggior accento possibile!»

Ottiar le rivolse un sorriso allegro. Sutty ricambiò il sorriso, ma s’incamminò lungo la stradina in discesa immersa in profondi pensieri. L’invettiva di Uming contro i "maz tirannici" si riferiva a prima che l’Azienda dovzana governasse il mondo, a prima dell’"arrivo della polizia", forse a prima che arrivassero gli Osservatori dell’Ekumene. Mentre il maz parlava, Sutty si era resa conto che delle centinaia di storie e racconti che aveva sentito nelle narrazioni, nessuna riguardava avvenimenti dovzani, o avvenimenti degli ultimi cinque o sei decenni, se non fatti strettamente locali. Non aveva mai sentito un maz parlare dell’arrivo degli extraplanetari, dell’ascesa dello Stato Azienda, o di qualche evento pubblico degli ultimi settant’anni o più.

«Iziezi» chiese quella sera, «chi erano i maz tirannici?»

Stava aiutando Iziezi a pelare una varietà di fungo appena spuntata sulle colline ai margini dei cumuli di neve che stavano sciogliendosi. Si chiamava "demyedi", "primo di primavera", sapeva di neve, ed era ottimo per bilanciare i germogli piccanti di banam e il grasso sostanzioso del pesce, mantenendo così fluida la linfa e tranquillo il cuore. Qualunque cosa le fosse sfuggita e avesse frainteso in quel mondo, Sutty aveva almeno imparato quando, perché e come cucinarsi il cibo.

«Oh, è stato molto tempo fa» rispose Iziezi. «Quando hanno cominciato a tiranneggiare tutti, là a Dovza.»

«Cent’anni fa?»

«Forse tanto tempo fa, sì.»

«Chi è "la polizia"?»

«Oh, sai, quelli in divisa blu e marrone.»

«Solo loro?»

«Be’, immagino che chiamiamo "polizia" tutta quella gente. Di laggiù. I dovzani… Prima arrestavano i maz tiranni. Poi hanno cominciato ad arrestare tutti i maz. Quando hanno mandato quassù dei soldati ad arrestare la gente negli umyazu, abbiamo cominciato a chiamarli "la polizia". E chiamiamo "polizia" anche gli skuyen. O diciamo che "lavorano per la polizia".»

«Gli skuyen?»

«Quelli che denunciano alle divise blu e marrone le cose illegali. Libri, narrazioni, qualsiasi cosa… Per soldi. O per odio.» La voce gentile di Iziezi cambiò, pronunciando le ultime parole. La sua faccia si era chiusa nell’abituale espressione di sofferenza.

Libri, narrazioni, qualsiasi cosa. Quello che si cucinava. Con chi si faceva l’amore. Come scrivevi la parola albero. Qualunque cosa.

Non c’era da meravigliarsi se il sistema era incoerente, frammentario. Non c’era da meravigliarsi se il mondo di Uming aveva smesso di funzionare. Era un miracolo che di quel mondo rimanesse ancora qualcosa.

Come se le intuizioni di Sutty l’avessero evocato dal nulla, la mattina seguente il Controllore le passò accanto per strada. Non la guardò.

Alcuni giorni dopo, Sutty andò a trovare maz Sotyu Ang. Il negozio era chiuso. Non era mai stato chiuso, prima. Sutty chiese a un vicino che stava spazzando il gradino d’ingresso se Sotyu avrebbe riaperto presto. «Credo che il produttore-consumatore sia via» rispose vago l’uomo.

Maz Elyed le aveva prestato un bellissimo libro antico… prestato o donato, Sutty non ne era sicura. «Tienilo, è al sicuro con te» le aveva detto. Era un’antica antologia di poesie delle Isole Orientali, un tesoro inesauribile. Sutty era impegnatissima a studiarla e trasferirla nel noter. Passarono parecchi giorni prima che pensasse di nuovo di andare a trovare il vecchio amico, il Fecondatore. S’incamminò lungo la salita ripida di ardesia che brillava abbagliante al sole. La primavera arrivava tardi ma veloce in quelle colline pedemontane della grande catena. L’aria era uno sfolgorio di luce. Sutty passò davanti al negozio senza riconoscerlo.

Disorientata, tornò indietro, e trovò il negozio. Era tutto bianco: imbiancato, una facciata spoglia. Tutte le scritte, i caratteri marcati, le vecchie parole… tutto scomparso. Ridotto al silenzio. Una nevicata bianca… La porta era socchiusa. Sutty guardò dentro. Il banco e le pareti di cassettini erano stati divelti. La stanza era vuota, sporca, saccheggiata. Sui muri, le parole vive, le parole che respiravano, erano state cancellate con pittura marrone.

L’albero-lampo biforcuto…

Il vicino del Fecondatore era uscito quando lei era passata. Stava ancora spazzando il gradino. Sutty fece per parlargli, poi si trattenne. Uno skuyen? Da cosa poteva capirlo?

Si avviò verso casa e poi, vedendo il fiume luccicare in basso, svoltò, seguì il fianco della collina e uscì dall’abitato, imboccò un sentiero che scendeva fino al fiume e lo costeggiava. Aveva percorso quel sentiero una volta, un giorno di tanto tempo addietro, all’inizio dell’autunno, quando aspettava che Tong Ov le dicesse di tornare nella metropoli.

Andò verso la sorgente, passando accanto a boschetti di arbusti che avevano messo le foglie nuove, e agli alberi stentati che crescevano lì, non lontano dal limite della vegetazione arborea. L’Ereha scorreva azzurro latteo, arricchito dalla prima acqua di scioglimento dei ghiacciai. Il ghiaccio scricchiolava nei solchi del sentiero, ma il sole era caldo sul capo e sulla schiena di Sutty. Aveva ancora la bocca secca per la sorpresa. E la gola le faceva male.

Tornare in città. Doveva tornare in città. Subito. Con i tre cristalli registrati e il noter pieno di materiale, pieno di poesia. Dare tutto a Tong Ov prima che il Controllore se ne impossessasse.

Non c’era modo di inviarlo. Doveva portarlo lei. Ma il viaggio doveva essere autorizzato. Oh, Rama! Dov’era il suo chip d’identità? Erano mesi che non lo metteva. Nessuno lì usava i chip d’identità, a meno che non si lavorasse per l’Azienda o non si dovesse andare in qualche ufficio. Era nella valigetta, nella sua stanza. Avrebbe dovuto usare il codice d’identità al telefono di Dock Street, mettersi in contatto con Tong Ov, chiedergli di farle avere un’autorizzazione per tornare in città. In aereo. Raggiungere Eltli col battello fluviale e prendere l’aereo là. Agire alla luce del sole, perché tutti sapessero, così non avrebbero potuto fermarla di nascosto, ingannarla in qualche modo. Confiscarle il materiale. Ridurla al silenzio… Dov’era maz Sotyu? Cosa gli stavano facendo? Era colpa sua?

Non poteva pensarci, adesso. Doveva cercare di salvare quello che aveva appreso da Sotyu. Sotyu e Ottiar e Uming e Odiedin e Elyed e Iziezi, la cara Iziezi. Non poteva pensare ad altro, adesso.

Fece dietrofront, ripercorse in fretta il sentiero lungo il fiume e tornò a Okzat-Ozkat, trovò il bracciale col chip d’identità nella valigetta in camera sua, andò in Dock Street e chiamò Tong Ov all’Ufficio Ekumenico di Dovza City.

Rispose la segretaria dovzana di Tong Ov, e disse altezzosa che Tong era in riunione. «Devo parlargli subito» insisté Sutty, e non fu sorpresa quando la segretaria rispose in tono mite che l’avrebbe chiamato.

Non appena sentì la voce di Tong Ov, Sutty disse in hainiano, e le parole le suonarono strane, aliene: «Inviato, è parecchio che non mi faccio viva, e ho pensato che fosse il caso di parlare un po’».

«Capisco» fece Tong, e aggiunse alcune altre cose insignificanti, mentre entrambi cercavano di trovare il modo di dire qualcosa di importante. Peccato che lui non conoscesse qualcuna delle lingue studiate da Sutty, e che lei non sapesse il chiffewariano. Purtroppo le uniche lingue che conoscevano tutti e due erano l’hainiano e il dovzano.

«Nulla in particolare da devolvere?» domandò Tong Ov.

«No, no, non proprio… Però mi piacerebbe portarti il materiale che ho raccolto» spiegò Sutty. «Solo appunti sulla vita quotidiana a Okzat-Ozkat.»

«Speravo di venirti a trovare lì, ma pare che la cosa sia controindicata, al momento» disse Tong. «Con una finestra grande appena per uno, naturalmente è un peccato chiudere le imposte. Ma so che ami molto Dovza City, e immagino che ti manchi. Inoltre sono certo che tu non abbia trovato nulla di particolarmente interessante, lì. Quindi, se il tuo lavoro è finito, torna pure in città a divertirti.»

Sutty annaspò e balbettò, e alla fine disse: «Be’, come sai, era prevedibile… Lo Stato Azienda è una cultura molto omogenea, molto potente e decisamente affermata. Quindi qui è tutto… sì, è tutto come lì in città, tutto molto simile. Ma forse dovrei fermarmi e finire i… finire i nastri prima di portarteli, eh? Non sono molto interessanti».

«Come sai, qua» disse Tong «i nostri ospiti ci mettono a disposizione informazioni di ogni tipo. E noi mettiamo a disposizione le nostre. Qui tutti ricevono un sacco di materiale nuovo, molto istruttivo e stimolante. Quindi quello che stai facendo lì non è poi così importante. Non preoccuparti. Naturalmente, io non sto affatto in pensiero per te. Non è il caso che stia in pensiero. Vero?»

«No, sì, certo che no» fece Sutty. «Davvero.»

Lasciò il posto telefonico mostrando il codice d’identità alla porta, e tornò in fretta alla locanda, a casa. Credeva di avere afferrato il discorso contorto di Tong, ma adesso lo ricordava già in modo molto confuso. Le pareva che Tong avesse cercato di dirle di rimanere lì, di non provare a portargli il materiale che aveva raccolto, perché avrebbe dovuto mostrarlo ai funzionari in città, e gliel’avrebbero confiscato, però non era sicura che avesse voluto dire proprio quello. Forse Tong intendeva dire davvero che il materiale non era poi così importante. O forse voleva informarla che non poteva assolutamente aiutarla.

Aiutando Iziezi a preparare la cena, Sutty ebbe la certezza di essersi fatta prendere dal panico, di avere commesso una sciocchezza chiamando Tong, attirando così l’attenzione su di sé, e sui suoi amici e informatori. Decise che doveva essere cauta, prudente, perciò non disse nulla del negozio profanato.

Iziezi conosceva maz Sotyu Ang da anni, ma neppure lei fece alcun accenno al Fecondatore. Si comportò come se non fosse accaduto nulla. Mostrò a Sutty come tagliare il numien fresco… sottile e in diagonale, perché se ne sprigionasse tutta la fragranza.

Era una delle sere in cui Elyed insegnava. Dopo che ebbe mangiato con Akidan e Iziezi, Sutty si accomiatò e percorse River Street, raggiungendo la parte povera della cittadina, il quartiere delle iurte, dove l’Azienda non aveva portato l’illuminazione elettrica e c’erano solo i bagliori fiochi delle lampade a olio nelle baracche e nelle tende. C’era freddo, però non era il freddo secco e tagliente dell’inverno. Era un freddo umido che sapeva di primavera, pieno di vita. Il cuore di Sutty era colmo di terrore, mentre si avvicinava al negozio di Elyed: temeva di trovarlo tutto imbiancato, sventrato, distrutto…

Il bisnipotino urlava a squarciagola perché qualcuno gli stava togliendo di mano un cacciavite, e i nipoti sorrisero a Sutty quando attraversò il negozio e andò nella stanza sul retro. Era in anticipo per l’ora d’insegnamento. Non c’era nessuno nella stanzetta, a parte la vecchia e un pronipote tranquillo che sistemava le sedie.

«Maz Elyed Oni, conosci maz Sotyu Ang… l’erborista… il suo negozio…» Sutty non riuscì a impedire che le parole le uscissero di bocca.

«Sì» fece la vecchia. «Sta con sua figlia.»

«Il negozio, l’erbario…»

«Quello non c’è più.»

«Ma…»

Le doleva la gola. Sutty si sforzò di tenere a freno lacrime di rabbia e di sdegno che volevano sgorgare, lì con quella vecchia che avrebbe potuto essere sua nonna, che era sua nonna.

«È stata colpa mia.»

«No» disse Elyed. «Tu non hai fatto nulla di male. Sotyu Ang non ha fatto nulla di male. Non c’è nessuna colpa. Le cose vanno male. Non è sempre possibile agire bene quando la situazione è difficile.»

Sutty rimase in silenzio. Si guardò intorno. Guardò la stanzetta alta, il tappeto rosso quasi nascosto da sedie e cuscini; tutto povero, pulito; un mazzo di fiori di carta infilato in un brutto vaso sul tavolo basso; il pronipote che disponeva con delicatezza i cuscini sul pavimento; la vecchia maz che si accomodava pian piano, a fatica, su un guanciale sottile vicino al tavolo. Sul tavolo, un libro. Vecchio, consunto, letto molte volte.

«Credo che forse sia successo il contrario, yoz Sutty. L’estate scorsa, Sotyu ci ha detto che pensava che un suo vicino avesse informato la polizia a proposito del suo erbario. Poi sei arrivata tu, e non è successo nulla.»

Sutty si sforzò di comprendere quanto aveva detto Elyed. «Io sarei stata una protezione per lui?»

«Credo di sì.»

«Perché non vogliono che io veda… quello che fanno? Ma allora perché adesso…?»

Elyed alzò le spalle fragili. «Quella gente non coltiva la pazienza» spiegò.

«Dunque, dovrei rimanere qui» disse lentamente Sutty, cercando di capire. «Pensavo fosse meglio per voi che io me ne andassi.»

«Penso che potresti andare sul Silong.»

La sua mente si annebbiò. «Sul Silong?»

«L’ultimo umyazu è là.»

Sutty non disse nulla, e dopo un po’ Elyed aggiunse scrupolosa: «L’ultimo, a quanto ne so. Forse ne è rimasto qualcun altro in Oriente, nelle Isole. Ma qui in Occidente, dicono che il Grembo del Silong sia l’ultimo. Moltissimi libri sono stati mandati là. Da parecchi anni. Dev’essere una grande biblioteca. Non come la Montagna d’Oro, non come l’Umyazu Rosso, non come Atangen. Ma quello che è stato salvato, perlopiù si trova là».

Guardò Sutty, la testa un po’ inclinata di lato, un vecchio uccellino dalla vista acuta. Aveva finito di accomodarsi pian piano sul cuscino, e adesso sistemò la pettorina di lana nera, e pareva un uccello che si lisciasse le piume. «Vuoi imparare la Narrazione, lo so. Dovresti andare là» disse. «Qui… c’è ben poco, qui. Pezzetti, frammenti. Quello che ho io, quello che ha qualche maz. Non molto. Sempre meno. Va’ sul Silong, figlia Sutty. Forse potrai trovare un compagno. Essere un maz. Eh?» La sua faccia s’increspò di colpo in un sorriso straordinario, sdentato, raggiante. Elyed sussultò leggermente, ridendo. «Va’ sul Silong…»

Stavano entrando altre persone. Elyed mise le mani in grembo e cominciò a salmodiare sommessa: «Il due dall’uno, l’uno dal due…».

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