13

Le luci del porto presero a brillare uniformemente a mano a mano che il crepuscolo s’inoltrava.

Markis Genro si fermò appena varcata l’entrata principale e non parve affatto impressionato dal gigantesco ferro di cavallo con le sue trentasei rimesse e le sue cinque fosse di decollo. Tutto ciò faceva parte di lui, come faceva parte del resto di qualsiasi crocierista provetto.

Mormorò: «Tutto normale come al solito!» Un socio del comitato nautico, in costume da crociera, con un unico simbolo discreto sull’unico bottone della tunica a indicare la sua appartenenza al comitato, si era mosso rapidamente innanzi per andare incontro a Genro, evitando studiatamente di apparire frettoloso.

«E perché non dovrebbe essere tutto normale come al solito?»

«Salve, Doty. Temevo soltanto che col chiasso che stanno facendo qualcuno avesse avuto la brillante idea di ordinare la chiusura dei porti. Ma grazie a Sark, fortunatamente, non ci hanno pensato.»

Il socio del comitato si fece improvvisamente serio. «Può darsi che si arrivi anche a questo.»

«Può darsi.» Genro lanciò un’occhiata distratta alle navi nascoste sotto il riparo delle tettoie. «Saranno due mesi che non vengo al 9, credo. Ci sono delle barche nuove, per caso?»

«No. Veramente sì: c’è la “Freccia di Fuoco”, di Hjordesse.»

Genro scosse il capo. «La conosco. Una porcheria tutta cromo e nient’altro. Mi sento venir meno al pensiero che dovrò finire per progettarne una io, se vorrò avere una barca che mi piaccia sul serio.»

«Hai intenzione di vendere il “Cometa V”?»

«Già. Ti spiace se vado a dare un’occhiata in giro?»

«Ma ti pare? Fa’ pure.»

Genro si diede a curiosare lentamente, con la sigaretta semispenta pendente da un angolo della bocca.

Alla rimessa 26 il suo interesse si ravvivò di colpo. Si sporse al di là della bassa barriera e disse: «Signore?»

Il Signore che gli comparve davanti non era gran che di aspetto. Prima di tutto non si trovava in costume da crociera, secondariamente aveva la barba lunga e portava in testa una mozzetta di pessimo gusto e calcata sulla fronte in modo estremamente inelegante.

Genro disse: «Mi chiamo Markis Genro. È sua quella barca, Signore?»

«Sì.» Il monosillabo fu pronunciato con voce bassa, tesa.

Genro disse: «Le dispiace lasciarmi entrare?» L’altro esitò, quindi si trasse in disparte, cedendo il passo a Genro.

Questi chiese. «Che motori ha, Signore?»

«Perché me lo chiede?»

Genro rispose: «Per essere schietto ha l’intenzione di acquistare una nuova nave.»

«E questa le interesserebbe?»

«Non lo so. Certo, se il prezzo non è troppo alto, mi sembra che possa andare. Comunque, le seccherebbe lasciarmi dare un’occhiata ai comandi e ai motori?»

«No, certo. Ecco qui il mio brevetto di pilota.»

Genro vi diede un’occhiata esperta e gli riconsegnò il documento dicendo: «Lei è Deamone?»

Il Signore annuì. «Entri pure, se le fa piacere.»

«Grazie. Vuole farmi strada?»

Il Signore tornò a frugarsi in tasca, e ne trasse un mazzo di chiavi. «Dopo di lei, prego.»

Genro prese il mazzo e fece scorrere le varie chiavi in cerca di quella che recava impresso in codice l’indicazione “stampo nave.” L’altro non fece alcun tentativo per aiutarlo.

Infine disse: «È questa, vero?»

Si diresse lungo la breve rampa che portava al balcone della camera di decompressione e studiò attentamente la nervatura sottile che correva sulla destra della camera. «Non vedo… oh, eccola» e si spostò sull’altro lato.

Lentamente, silenziosamente, la camera si spalancò, e Genro avanzò nelle tenebre. Non appena l’uscio si chiuse alle loro spalle la luce rossa della camera di decompressione si illuminò automaticamente. L’uscio interno si aprì e mentre entravano nella nave propriamente detta una successione di luci bianche si accese lungo lo scafo.


Dopo qualche istante che erano nell’interno della nave Terens disse: «È quasi ora di cena. Non vuole prendere qualcosa?»

L’altro lo degnò appena di un’occhiata: «Forse più tardi. Grazie.»

Terens non insistette”. Lasciò che si aggirasse per la nave, e personalmente si dedicò pieno di riconoscenza alla carne in scatola e alla frutta avvolta in cellite che trovò nella

dispensa.

Quando tornò da Genro, si sentiva assai più padrone di se stesso.

Genro disse: «Le dispiacerebbe se provassi un po’ come funziona questo panfilo?»

«Niente affatto. Lo sa manovrare?» domandò Terens.

«Credo di sì» replicò l’altro con un lieve sorriso. «Credo di saper manovrare qualsiasi modello normale. Comunque, mi sono preso la libertà di chiamare la torre di controllo e mi hanno messo a disposizione una fossa di decollo. Ecco la mia licenza di pilotaggio, nel caso volesse darci un’occhiata prima che si parta.»

Terens scosse appena il documento che Genro gli tendeva, e disse: «I comandi sono suoi.»

La nave rotolò fuori della rimessa come una balena aerotrasportata, con movimenti lenti, maestosi, mentre il suo scafo diamagnetizzato sfiorava da una distanza di 6 centimetri l’argilla liscia e fortemente compressa del campo.

Terens seguiva con grande attenzione le manovre di Genro, che maneggiava i comandi con precisione impeccabile. Sotto il suo tocco la nave stava diventando una cosa viva.

La copertura in duralite della fossa di decollo scivolò entro il proprio loculo, rivelando la rivestitura neutrizzata, profonda cento metri, destinata a ricevere le prime spinte di energia dei motori iperatomici.

Genro scambiò misteriosi segnali con la torre di controllo, infine disse: «Fra dieci secondi si parte.»

Poi Terens si sentì diventare più pesante, come se una forza spaventosa lo premesse contro il sedile. La paura s’impadronì di lui.

Riuscì tuttavia a mormorare: «Come funziona?»

Genro sembrava insensibile all’accelerazione. Rispose con voce quasi normale: «Abbastanza bene.»

Terens si arrovesciò sullo schienale della poltrona; il tessuto di kyrt che lo ricopriva era tutto bagnato di freddo sudore.

«Non c’è male» disse Genro. «La tiene bene questa barchetta, Deamone. È piccola ma ha i suoi pregi.»

Terens rispose cautamente: «Vuole provarne la velocità e la capacità di salto? Io non ho niente in contrario.»

Genro annuì: «Benissimo. Dove andiamo? Se provassimo…» s’interruppe, quindi riprese: «Perché non andiamo a Sark?»

Il respiro di Terens si fece un poco più affannoso. Se lo era quasi aspettato. Cominciava a credere di trovarsi in un mondo fatato. Il destino forzava le sue mosse, anche senza che egli vi ponesse minimamente mano! Su Sark si trovava Rik con i suoi rinascenti ricordi. La partita non era ancora completamente perduta.

Disse, quasi senza riflettere: «Perché no, Genro?»

«Qual è il suo tempo migliore nel tratto Sark-Florina?» domandò Genro.

«Niente di speciale» disse Terens. «La solita media.»

«Più di sei ore, immagino?»

«Normalmente si.»

«Le dispiace se provo a coprirlo in cinque ore?»

«Tutt’altro» disse Terens.


Occorrevano ore per raggiungere un punto sufficientemente lontano dalla distorsione di massa stellare del tessuto spaziale che rendesse possibile il salto attraverso l’iperspazio.

Terens non riusciva a tenere gli occhi aperti. Quella era praticamente la terza notte che passava in bianco e la tensione che aveva subito durante tutte quelle lunghe ore rendeva il suo stato di sonnolenza peggiore di una tortura.

Genro gli lanciò un’occhiata di sfuggita: «Perché non va a riposare un po’?»

Terens costrinse i muscoli facciali a una disperata mimica di attività, e disse: «Oh, non ho sonno.»

Tuttavia sbadigliò, e sorrise per scusarsi. Il crocierista tornò ai propri strumenti, e gli occhi di Terens s’imbambolarono di nuovo.

I sedili di un astropanfilo erano confortevoli per necessità, dovendo difendere il passeggero contro le varie accelerazioni. Anche un uomo non particolarmente stanco finiva con l’addormentarvisi facilmente. Terens, che in quel momento avrebbe dormito anche su un letto di chiodi, non si accorse neppure di aver varcato completamente la linea di confine tra la coscienza e l’oblio.

Dormì per ore intiere, di un sonno profondo e senza sogni, come mai gli era capitato in vita sua.

Non si mosse, non diede alcun segno di vita se non per un respirare leggero e uniforme, anche quando lo zucchetto gli venne tolto dal capo.

Si svegliò lentamente, pesantemente. Per lunghi minuti non si rese neppure conto di dove si trovasse. Gli pareva di essere nella sua casetta di Borgomastro. La realtà che lo circondava tornò entro la sua coscienza solo per stadi successivi. Infine sorrise a Genro, tuttora seduto ai comandi, e mormorò: «Ho l’impressione di aver dormito.»

«Ha dormito e come! Ecco Sark.» Cosi dicendo Genro indicò nel visischermo una grossa fetta bianca.

«Quando atterreremo?»

«Tra un’ora circa.»

Terens frattanto si era sufficientemente ridestato per avvertire un sottile mutamento nell’atteggiamento dell’altro, e fu con un senso di orrore che si accorse che l’oggetto grigio-acciaio che Genro stringeva in una mano era la canna sottile di un fucile atomico.

«Che cosa le viene in mente…» cominciò Terens balzando in piedi.

«Siedi» replicò Genro calmo. Nell’altra mano teneva lo zucchetto. «Tu sei un indigeno.»

Terens tacque, allibito.

L’altro proseguì: «Avevo capito che eri un indigeno ancora prima di salire a bordo della nave del povero Deamone.»

Terens si sentiva la bocca arida e gli occhi brucianti. Fissava inebetito la sottile canna mortale e ne attendeva la vampata improvvisa, silenziosa.

Genro sembrava non aver fretta. Impugnava saldamente il fucile e le sue parole erano lente e precise.

«Il tuo errore principale, Borgomastro, è stato di credere che ti sarebbe riuscito di tenere in scacco indefinitamente una forza di polizia organizzata. Comunque ti sarebbe sempre andata molto meglio se non avessi avuto la malaugurata idea di scegliere come vittima il disgraziato Deamone.»

«Io non l’ho scelto affatto» mormorò Terens.

«E allora chiamala scalogna. Alstare Deamone, circa dodici ore fa, si trovava nel Parco Cittadino in attesa di sua moglie. L’aspettava in quel luogo per una ragione puramente sentimentale. Era lì che si erano incontrati la prima volta, e li tornavano a incontrarsi a ogni anniversario di quel primo incontro. Naturalmente Deamone non si era reso conto che il relativo isolamento del luogo poteva renderlo facile vittima di un eventuale assassino. Ma chi avrebbe mai pensato a una tale possibilità nella Città Alta? Se le cose si fossero svolte normalmente il delitto avrebbe potuto restare celato per molti giorni. Viceversa la moglie di Deamone giunse sul teatro del crimine mezz’ora dopo che questo era stato commesso. Il fatto di non aver trovato ad attenderla il marito la stupì poiché egli non era tipo, spiegò, da andarsene seccato per un suo lieve ritardo. Per questo le venne in mente che potesse essere entrato ad attenderla nella “loro” grotta. Che impressione fa, Borgomastro, uccidere un uomo a sangue freddo, lasciandolo ritrovare dalla propria moglie proprio nel luogo che era stato per entrambi il più ricco di felici memorie?»

Terens si sentiva soffocare. Riuscì a balbettare, dilaniato tra la collera e l’abbattimento: «Voialtri sarkiti avete ammazzato milioni di floriniani. Donne. Bambini. Vi siete impinguati del nostro sangue. Questo panfilo…»

«Deamone non era responsabile dello stato di cose che ha trovato già instaurato al momento della propria nascita» disse Genro. «Se tu fossi nato sarkita che cosa avresti fatto? Avresti rinunciato ai tuoi beni e ti saresti messo a lavorare nei campi di kyrt?»

«Ebbene, spara, dunque» gridò Terens fuori di sé. «Che cosa aspetti?»

«Non c’è fretta. Voglio prima finire il mio racconto. La situazione era alquanto complessa. Eri un uomo disperato, eri armato, e se ti fossi visto in trappola ti saresti indubbiamente ucciso. Ora il suicidio tuo era una cosa che noi non volevamo. Hanno bisogno di te, su Sark, e ti vogliono in perfetta efficienza. Ho dovuto lottare parecchio per convincere il Ministero degli Interni che sarei riuscito a tenerti a bada da solo, trasportandoti su Sark senza chiasso e senza difficoltà. E devi ammettere che è precisamente quanto sto facendo. Per dire il vero mi sono chiesto a tutta prima se eri proprio tu il nostro uomo. Ho esitato e ti ho messo alla prova in vari modi. Ho finto di usare le chiavi della nave nel punto sbagliato. Nessun mezzo spaziale si è mai aperto sul lato destro della camera di decompressione. Si apre sempre invariabilmente sul lato sinistro. Ma tu non ti sei mostrato per nulla sorpreso del mio errore. Poi ti ho chiesto se la tua nave avesse mai compiuto il tragitto Sark-Florina in circa sei ore. Mi hai risposto di sì… che ciò ti era accaduto qualche volta, il che è davvero straordinario, poiché il tempo di primato sinora raggiunto supera le nove ore. Ho deciso allora in cuor mio che dovevi essere l’uomo che cercavamo.»

Terens non aveva mai distolto gli occhi dal fucile.

Genro disse: «Naturalmente io non devo ucciderti, anche se tu cercherai di assalirmi. Non posso ucciderti neppure per legittima difesa. Non credere però che questo ti metta in posizione di vantaggio. Se tenti anche soltanto una mossa ti faccio schizzar via una gamba.» Proseguì con dolcezza: «Lo sai perché ti dico tutto questo?»

Terens non rispose.

«Prima di tutto» disse Genro «mi piace vederti soffrire. Gli assassini mi fanno ribrezzo e detesto soprattutto gli indigeni che ammazzano i sarkiti. Mi è stato dato l’ordine di consegnarti vivo, ma nelle istruzioni che ho ricevuto non è contemplato che io debba renderti la traversata piacevole. Secondariamente è necessario che tu sia pienamente al corrente della situazione perché non appena saremo su Sark le prime mosse spetteranno a te.»

Terens lo guardò stupito. «Come?»

«Il Ministero degli Interni sa che tu sei in viaggio. L’ufficio regionale floriniano lo ha informato non appena questo mezzo si è staccato dall’atmosfera di Florina. Di ciò puoi essere sicuro. Ma ho detto che era per me di somma importanza convincere gli Interni che sarei riuscito a tenerti a bada da solo e il fatto che li abbia convinti cambia tutta quanta la situazione.»

«Non capisco» disse Terens al colmo dell’esaperazione.

Senza scomporsi Genro replicò: «Quando ho detto che ti volevano su Sark in perfetta efficienza non intendevo alludere agli Interni, ma a Trantor!»

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