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Terens aveva lasciato la panetteria di Khorov dieci ore prima che tra Junz e l’Assistente si svolgesse il colloquio sopra riferito. Appena sentì un rumore lontano di passi pesanti, si rincantucciò in un vicolo polveroso (nemmeno le piogge notturne di Florina riuscivano a penetrare entro le fosche regioni nascoste sotto la legacemento). Alcune luci guizzarono, passarono e scomparvero a cento metri di distanza.

I pattugliatori seguitarono a marciare innanzi e indietro tutta la notte. Bastava che marciassero. Il terrore della loro presenza era sufficiente a mantenere l’ordine, senza ulteriori spiegamenti di forze.

Terens avanzava speditamente, lieve come un fantasma, e ogni volta che la sua faccia s’illuminava nel passare sotto una feritoia della legacemento sovrastante, non sapeva trattenersi dall’alzare la testa. Attraverso quanti cambiamenti era giunto nel corso della sua vita all’attuale considerazione dei Signori di Sark! Quando era bambino, i Signori erano per lui super-uomini aureolati di una vaga luce mistica, straordinariamente buoni, i quali dimoravano in un paradiso che si chiamava Sark e badavano con paziente e amorosa cura al benessere degli stupidi uomini e delle sciocche donne di Florina.

A dieci anni aveva scritto un saggio scolastico su quella ch’egli immaginava dovesse essere la vita su Sark. Era stato un componimento di pura fantasia, concepito al solo scopo di fare sfoggio delle proprie capacità stilistiche e letterarie. Il maestro ne era rimasto molto soddisfatto e alla fine dell’anno, mentre gli altri ragazzi continuavano nei loro corsi normali di lettura, scrittura e morale, egli era stato promosso a una classe speciale in cui gli avevano insegnato aritmetica, galattografia e storia sarkita. All’età di sedici anni lo avevano mandato su Sark.

Era atterrato su quel paradiso ed era stato affidato a un vecchio floriniano il quale aveva provveduto per prima cosa a farlo lavare e vestire decentemente. Era stato poi condotto in un grande edificio, e, strada facendo, il suo anziano mentore si era inchinato fino a terra davanti a una figura che passava.

«Mettiti in ginocchio!» aveva borbottato, irosamente, il vecchio al giovane Terens.

Terens aveva ubbidito, poi aveva chiesto confuso: «Chi era?»

«Un Signore, zoticone ignorante che non sei altro.»

«Un Signore, quello?»

Si era fermato istupidito, e il vecchio aveva dovuto trascinarlo via quasi di peso. Era la prima volta che Terens vedeva un Signore. Non era alto sei metri come lui si era immaginato, era un uomo come tutti gli altri. Qualcosa in lui era cambiato, e per sempre.

Aveva studiato per dieci anni, e quando non studiava, non mangiava e non dormiva, gli insegnavano a rendersi utile in mille piccoli modi. Gli insegnarono a recapitare messaggi e a vuotare i cesti della carta straccia, a inchinarsi sino a terra quando passava un Signore e a voltare rispettosamente la faccia contro il muro quando passava la Dama di un Signore.

Per altri cinque anni aveva lavorato nella Burocrazia Statale, con continui spostamenti da un impiego all’altro allo scopo di sottoporre le sue capacità alle prove più svariate.

Terens aveva meditato a lungo. Era uomo di poche parole, di modi corretti, ma i suoi pensieri non avevano freno. Odiava i Signori, in parte perché non erano alti sei metri, in parte perché non aveva il diritto di guardare le loro donne, e in parte infine perché ne aveva serviti diversi, a capo chino, e aveva scoperto che nonostante tutta la loro arroganza erano esseri sciocchi.

Ma quale alternativa trovare a un simile stato di schiavitù? Sarebbe stato sciocco e inutile favorire Trantor per liberarsi da Sark. Un padrone vale l’altro. E allora? Non c’era dunque speranza?

Ed ecco che a un tratto si era presentato tutto un complesso di circostanze che gli aveva posto nelle mani una insospettata risposta nella persona del povero essere insignificante che era stato un tempo uno Spazio-Analista e che era a conoscenza di un’oscura minaccia che metteva a repentaglio la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne di Florina.

Mentre rimuginava questi pensieri, Terens era giunto nei campi, dove la pioggia notturna stava cessando e su cui le stelle già scintillavano umide tra le nuvole. Aspirò profondamente l’odore del kyrt, tesoro e al tempo stesso maledizione di Florina.

Non si faceva illusioni. Non era più un Borgomastro, non era nemmeno un contadino floriniano libero: era un criminale, un fuggiasco costretto a nascondersi.

Ciononostante si sentiva pieno d’orgoglio, e di disprezzo per i Signori. Nelle ultime ventiquattr’ore aveva tenuto in pugno un’arma incredibilmente pericolosa per Sark.

Ne era sicuro.

Ed ecco che adesso Rik era caduto nelle mani di un individuo il quale si spacciava per patriota floriniano ma era in effetti un agente di Trantor.

Terens si sentì invadere da una collera amara, sconfinata. Certamente quel Fornaio era una spia trantoriana. Lo aveva capito sin dal primo momento. Chi altri tra gli abitanti della Città Bassa poteva disporre del capitale per costruire finti forni a radar?

Ai limiti dell’orizzonte apparve un tenue chiarore. Avrebbe atteso l’alba. Certo a quell’ora i vari posti di pattuglia dovevano già avere ricevuto i suoi dati segnaletici, ma sarebbero trascorsi vari minuti prima che la sua immagine venisse registrata.

E durante quei pochi minuti egli sarebbe stato ancora un Borgomastro. Ciò gli avrebbe dato il tempo di mettere in atto un piano che persino in quell’istante non osava formulare a se stesso.


Dieci ore dopo il suo colloquio con l’Assistente, Junz tornò da Ludigan Abel.

L’Ambasciatore accolse lo scienziato con la consueta apparente cordialità e tuttavia con una ben definita e sconcertante sensazione di imbarazzo. Al loro primo incontro (verificatosi tanto tempo prima: era trascorso quasi un Anno Unitario) non aveva prestato ascolto al racconto fattogli dal suo interlocutore come a cosa personale. Il suo solo pensiero era stato: “Potrà questo aiutare Trantor?”.

Trantor! Era sempre il suo primo pensiero, ma al tempo stesso egli non era un imbecille che adorava supinamente un gruppo di stelle o il giallo emblema dell’Astronave e del Sole, distintivo delle forze armate trantoriane.

Però era un fanatico assertore della pace, soprattutto adesso che incominciava a invecchiare e gli piaceva godersi il suo buon bicchiere di vino, l’atmosfera che lo circondava, satura di dolci misure di profumi, il sonno pomeridiano, la tranquilla attesa della morte. Così immaginava che tutti gli uomini dovessero sentire; eppure tutti gli uomini indistintamente erano soggetti a guerre e distruzioni continue.

Per porre termine al malgoverno della forza non restava che un’unica soluzione, la forza stessa.

Abel aveva appeso nel proprio studio una carta di Trantor. Era un ovoide cristallino chiaro in cui la lente galattica era stata tracciata tridimensionalmente. Le sue stelle erano puntolini di bianca polvere diamantifera, le sue nebulae erano chiazze di luce o di cupa nebbia, e nelle sue profondità centrali vi era stata la Repubblica Trantoriana.

Non “era” ma “era stata”. Cinquecento anni prima infatti la Repubblica Trantoriana era stata composta di cinque mondi soltanto.

Ma si trattava di una carta storica, e mostrava la Repubblica a quello stadio, soltanto quando il quadrante era messo sullo zero. Bastava farlo avanzare di una tacca e la Galassia vi sarebbe apparsa com’era diventata cinquant’anni più tardi, mentre un fascio di stelle si sarebbe arrossato intorno al cerchio di Trantor.

Movendo il quadrante per dieci volte successive mezzo millennio sarebbe trascorso e il rosso si sarebbe allargato come una gran macchia di sangue finché più di metà della Galassia sarebbe stata assorbita da quella pozza vermiglia.

Adesso Trantor si trovava sull’orlo di una nuova trasformazione; da Impero Trantoriano stava per divenire Impero Galattico e allora quell’immensa macchia rossa avrebbe inghiottito tutte le stelle e sarebbe finalmente regnata la pace universale… la “Pax Trantorica”.

Questo voleva Abel.

Abel non era favorevole a Trantor, ma alla conclusione totale che Trantor rappresentava. Perciò la domanda: Come potrà questo aiutare la pace galattica? si trasformava naturalmente nell’altra: Come potrà questo aiutare Trantor?

Il guaio era che in tale circostanza egli si trovava a brancolare nel buio più assoluto. Per Junz la soluzione era evidentemente semplicissima: Trantor doveva difendere l’U.S.I. e punire Sark.

Certo questa sarebbe stata una gran bella cosa, purché si potesse dimostrare che Sark aveva torto. Ma in ogni caso Trantor non poteva compiere mosse avventate. Tutta la Galassia capiva che Trantor aspettava solo il momento opportuno per trasformarsi in un dominio galattico e vi era ancora la possibilità che quel poco che restava di pianeti non trantoriani si unisse per impedirlo. Perciò Trantor non doveva assolutamente arrischiare una sola mossa incauta in quello stadio finale del gioco.

Abel era stupito dalla collera ostinata del libairiano. Gli aveva domandato una volta: «Ma perché le interessa tanto la sorte di quell’individuo?»

Junz aveva aggrottato la fronte e gli aveva risposto: «Perché in fondo a tutta questa faccenda si nascondono i rapporti che legano Sark a Florina. Io intendo denunciare tali rapporti e spezzarli.»

E pensare che Junz non era neppure di Florina!

Abel gli aveva chiesto: «Che cos’è Florina per lei?»

Dopo una lunga esitazione, Junz aveva risposto: «Sento, con i suoi abitanti, un’affinità di razza.»

«Ma lei è libairiano; o perlomeno, questa è la mia impressione.»

«Infatti, ma in questo consiste appunto l’affinità. Noi siamo i due estremi in una Galassia di medi.»

«I due estremi? Non capisco.»

Junz aveva detto: «Sì, i due estremi rispetto alla pigmentazione della pelle. I floriniani sono eccezionalmente pallidi, noi siamo eccezionalmente bruni. Ciò ha un significato, ci lega gli uni agli altri, ci offre un elemento comune. Io ho la sensazione che i nostri antenati debbano avere subito vicissitudini analoghe, a causa di questa loro diversità, e suppongo persino che siano stati esclusi dalla maggioranza sociale.»

Sotto lo sguardo stupefatto di Abel, Junz si era inceppato e aveva taciuto: poi quell’argomento non era più stato toccato.


E adesso, dopo un anno, senza preavviso, proprio nel momento in cui si sarebbe aspettato che quel maledetto affare “dovesse finire in niente, e quando già Junz manifestava dei segni d’indebolito zelo, ecco che la bomba era scoppiata. Si trovava a dover affrontare, ora, un Junz ben diverso la cui collera non era riservata a Sark soltanto, ma si riversava ugualmente sul capo di Abel.

«Non è già che io mi risenta del fatto che mi abbia messo i suoi agenti alle calcagna» gli stava dicendo lo scienziato. «Ammetto che lei debba essere cauto e che non possa fidarsi di niente e di nessuno. Sin qui tutto bene. Ma perché non sono stato informato, non appena il nostro uomo è stato individuato?»

Abel lisciò con la mano la stoffa delicata della poltrona in cui era seduto. «Le cose sono sempre talmente complicate! Avevo disposto in modo che qualsiasi rapporto su un ricercatore non autorizzato di dati spazio-analitici fosse consegnato oltre che a lei anche a un mio determinato agente. Avevo persino creduto che lei avesse bisogno di protezione. Ma su Florina…»

Junz lo interruppe in tono ironico: «Già! Come siamo stati sciocchi a non considerare questa ipotesi. Abbiamo speso quasi un anno a dimostrare che era impossibile rintracciarlo su Sark. Perciò doveva essere su Florina, e noi invece tale possibilità non la abbiamo neppure presa in considerazione. Adesso però l’abbiamo in pugno, o meglio, l’ha in pugno lei, e spero che avrà sistemato le cose in maniera che io possa vederlo…»

Abel evitò una risposta diretta. Chiese, invece: «Dunque le hanno detto che quel Khorov sarebbe un agente di Trantor?»

«E non lo è forse? Perché mi avrebbero mentito? O sono male informati?»

«Non le hanno mentito né sono male informati. Quell’uomo è effettivamente nostro agente da circa un decennio, e mi secca molto di apprendere che gli altri lo sapessero. Ma non si stupisce che le abbiano detto così chiaro e tondo che quell’uomo è uno dei nostri? Io dico che l’hanno informata sulla vera identità di Khorov per beffarsi di me e di lei. Sapevano che questa loro consapevolezza non poteva più né aiutarli né danneggiarli, dal momento che da dodici ore io so che loro erano ormai a conoscenza del fatto che Khorov era uno dei nostri uomini.»

«Ma in che modo?»

«Nel modo più inequivocabile possibile. Dodici ore fa Matt Khorov, agente di Trantor, è stato ucciso da un appartenente alla Pattuglia Floriniana. I due floriniani che sino a quel momento erano rimasti in suo potere, una donna, e l’uomo che, con tutta probabilità, è lo spazialista che lei cerca, sono scomparsi, si sono volatilizzati. Molto probabilmente a quest’ora sono nelle mani dei Signori.»

Junz scattò in piedi.

«Ufficialmente io non posso far niente» disse Abel, calmissimo. «Il morto era floriniano, e gli scomparsi, sino a quando noi non saremo in grado di dimostrare il contrario, sono floriniani. Perciò, come vede, siamo stati giocati bellamente.»

Rik vide uccidere il Fornaio, lo vide afflosciarsi senza un grido, vide il suo petto infossarsi e trasformarsi in un ammasso fumante sotto la carica silenziosa dell’inceneratore. Per un attimo quell’avvenimento annullò i progressi compiuti dalla sua mente in quelle ultime ore di sonno. Il pattugliatore si era buttato su di lui, scavalcando uomini e donne urlanti, come se fossero stati un viscido mare di fango attraverso il quale fosse costretto a sguazzare e a dibattersi per non affondare. Rik e Lona vennero trascinati via dalla corrente tra mulinelli e risucchi, tremando di paura, mentre incominciavano ad aleggiare sulle loro teste le macchine dei pattugliatori volanti. Valona si trascinava Rik quasi di peso, cercando di sospingerlo verso la periferia della Città.

Quel mattino Rik si era svegliato nel grigiore di un’alba che non poteva vedere, dalla stanza priva di finestre in cui aveva dormito. Giacque così per lunghi minuti, analizzando la propria mente. Durante la notte qualcosa in lui si era cicatrizzato, si era saldato insieme ricostituendosi. Quel momento era incominciato due giorni prima quando si era messo a “ricordare”. Il processo era continuato durante tutta la giornata precedente. Il viaggio alla Città Alta, la visita alla biblioteca, l’assalto al pattugliatore, la fuga che ne era seguita, l’incontro con il Fornaio, tutto questo aveva agito su di lui come un fermento.

Finalmente si voltò e disse: «Lona…»

La ragazza si svegliò di colpo, rizzandosi su un gomito, e volse lo sguardo verso di lui.

«Rik?»

«Sono qui, Lona.»

«Ti senti bene?»

«Certamente.» Non riusciva a contenere la propria emozione. «Mi sento benissimo, Lona. Ascolta! Comincio a ricordare sempre di più. Ero su una nave, e so esattamente…»

Una luce penetrò nella stanza e con essa la massiccia figura del Fornaio. Rik lo squadrò ammiccando e per un attimo ne fu impressionato.

Le grosse labbra del Fornaio si allargarono in un ampio sorriso.

«Vi siete svegliati presto.»

Nessuno dei due rispose.

Il Fornaio disse: «Tanto meglio, perché oggi dovete far fagotto.»

Valona si sentiva la gola arsa. Mormorò: «Non ci consegnerà ai pattugliatori, vero?»

«Non ai pattugliatori» disse. «Ho informato le persone competenti, e sarete più che al sicuro.»

Uscì, e quando rientrò poco dopo aveva con sé viveri, vestiti, e due bacinelle d’acqua. I vestiti erano nuovi e di foggia totalmente sconosciuta.

Stette a osservarli mentre mangiavano, quindi disse: «Vi darò nomi nuovi e una personalità diversa. Mi dovete ascoltare attentamente, perché bisogna che non dimentichiate nulla. Voi non siete floriniani, mi capite? Siete fratello e sorella, e provenite dal pianeta Wotex. Siete stati in visita su Florina…»

Proseguì per un pezzo così, fornendo particolari, rivolgendo domande, ascoltando le loro risposte.

Rik era felice di poter dimostrare l’elasticità della sua memoria, la sua facilità di apprendere, ma gli occhi di Valona erano carichi di preoccupazione.

La sua inquietudine non sfuggì al Fornaio. Disse, rivolto alla ragazza: «Se mi darai anche la più piccola noia manderò via solo lui, e tu resterai qui.»

Le forti mani di Valona si contrassero spasmodicamente: «Non le darò nessuna noia.»

La mattina era già inoltrata quando il Fornaio si alzò in piedi e disse: «Andiamo!»

Il suo ultimo gesto fu quello di riporre nelle tasche delle loro giacche piccoli fogli neri di pergamoide morbida.

Intorno a loro si raccolsero alcuni passanti che presero a fissarli a bocca aperta gesticolando e chiamandosi l’un l’altro. Erano per la maggior parte bambini, donne dirette al mercato, vagabondi stracciati e sornioni. Il Fornaio sembrava ignorarli.

Ed ecco che, mentre si trovavano a soli cento metri dalla panetteria, la folla che li circondava cominciò a scomporsi agitatamente, e Rik riconobbe la divisa nero-argentea di un pattugliatore.

Poi era accaduta la cosa terribile. L’arma si era puntata vomitando la sua energia mortale, ed era cominciata una fuga forsennata.

Vennero a trovarsi nello squallore di un quartiere periferico della Città.

Rik gemette: «Non ce la faccio più a correre.»

«Ma dobbiamo correre.»

«No. Ascoltami.» La paura stava scomparendo. Disse: «Perché non proseguiamo e non facciamo quel che il Fornaio ci ha detto di fare?»

Valona replicò: «Come fai a sapere che cosa voleva che facessimo?»

«Dovevamo fingere di essere di un altro mondo e ci ha dato questi» disse Rik, in preda a una viva emozione, e aggiunse: «È un passaporto.»

«Che cosa vuol dire?»

«Una cosa che serve per andarcene di qui.» Ne era certo. La parola “passaporto” gli era venuta in mente all’improvviso, così. «Non capisci? Voleva che noi lasciassimo Florina su una nave. Obbediamogli.»

«No. Non possiamo, Rik, non possiamo. L’hanno ucciso!»

Ma Rik sentiva l’urgenza del momento. Prosegui quasi balbettando: «Ma è la cosa migliore che ci resti da fare. Non se lo aspettano, da noi. Ma noi non andremo sulla nave dove lui avrebbe voluto farci salire, perché quella sarà certamente sorvegliata. Però potremmo salire su un’altra, su una nave qualsiasi.»

Una nave. Una nave qualsiasi. Quelle parole gli rintronavano nelle orecchie come altrettanti colpi di maglio.

«Ti prego, Lona!»

«E va bene! Se proprio lo vuoi. So dove si trova l’astroporto. Da ragazza ci sono andata diverse volte nei giorni di riposo a osservare da lontano le navi che partivano.»

Si rimisero a camminare e ai limiti della coscienza di Rik batteva ora soltanto una lieve, vaga inquietudine, un ricordo non del passato lontano bensì di quello immediato, qualcosa che avrebbe dovuto ricordare e che non riusciva, non riusciva in alcun modo ad afferrare.

Il floriniano addetto alla custodia del cancello d’ingresso era molto emozionato, quel giorno. Gli erano giunte le voci più assurde di assalti contro pattugliatori e di fughe audacissime, verificatisi la sera innanzi, ma quella mattina le voci si erano ancora ingrandite e si parlava addirittura di pattugliatori uccisi.

Non si occupò quasi neppure della coppia che gli stava davanti, evidentemente a disagio e tutta sudata negli abiti di foggia esotica che li distingueva immediatamente come forestieri. La donna gli stava mostrando un passaporto.

«Qual è la nostra nave?» domandò la donna con voce sommessa.

«La troverete al posto di ancoraggio N. 17, signora» dise. «Vi auguro una piacevole traversata per Wotex.»

Solo molte ore più tardi si sarebbe reso conto di aver commesso un errore madornale.

Rik disse: «Lona!» Quindi, l’afferrò per un braccio e le sussurrò: «Quella! La stanno aerando. Si aerano sempre le navi passeggeri, prima di una traversata, per toglierne l’odore che vi si è accumulato di ossigeno in scatola, usato e riusato più volte.»

Valona lo guardò sorpresa. «Come lo sai?» chiese.

Rik si sentì a un tratto molto fiero di sé. «Lo so, ecco tutto. Vedi, in questo momento non ci deve essere nessuno a bordo perché non ci si sta comodi, con la corrente che tira.»

Non videro neppure un solo pattugliatore, mentre si avviavano lungo la rampa, con passi tremanti.

L’aria in movimento li investì mentre entravano nella stiva e il vestito di Valona si gonfiò tanto che lei dovette tenerlo stretto con le mani per impedire che la gonna volasse via.

«È sempre così?» domandò. Non era mai stata su una astronave, prima di allora, né mai aveva sognato di salirvi.

«No. Solo durante l’aerazione» disse Rik.

Avanzò gioiosamente lungo i corridoi di metallite dura, ispezionando con vivace impazienza le stanze vuote.

«Entra qui» disse. Era la cambusa. «Il cibo non ha molta importanza» aggiunse in fretta. «Possiamo anche stare senza mangiare per un po’ di tempo. È l’acqua che conta.»

Frugò tra vari oggetti ordinatamente allineati e ne trasse fuori un grosso recipiente accuratamente tappato. Si guardò intorno in cerca del rubinetto dell’acqua, mormorò tra i denti che sperava non si fossero dimenticati di riempire i serbatoi, quindi emise un sospiro di sollievo non appena intese il rumore delle pompe e l’uniforme gorgogliare del liquido.

«Prendi qualche altro recipiente, non troppi però. Bisogna che non si accorgano della nostra presenza.»

Trovò uno stanzino in cui erano riposti attrezzi antincendio, medicinali, apparati chirurgici da adoperarsi in caso di emergenza, e apparecchi di saldatura.

Disse, titubante: «Qui verranno soltanto in caso di pericolo. Hai paura, Lona?»

«Con te non avrò mai paura, Rik» rispose umilmente la ragazza. Due giorni prima, anzi, ancora dodici ore prima, era stato tutto il contrario. Ma a bordo di quella nave, per una trasformazione di personalità che Valona non osava neppure discutere, l’adulto era divenuto Rik, e lei la bambina.

La corrente cessò all’improvviso. Rik disse: «Tra poco saliranno a bordo, e poi saremo fuori, nello spazio.»

Se svegliandosi quel mattino all’alba Rik si era sentito un uomo, adesso gli pareva di essere un gigante. Era su una nave! Nuovi ricordi gli affioravano alla mente in un fluire ininterrotto.

La Nave! Se lo avessero messo a bordo di una nave subito, non avrebbe dovuto attendere tanto prima che le cellule bruciate del suo cervello potessero guarire e cicatrizzarsi.

Nell’oscurità dello stanzino, disse sottovoce a Valona: «Adesso non ti spaventare. Avvertirai una vibrazione e sentirai un rumore molto forte, ma saranno soltanto i motori, poi proverai un grande peso su di te. È l’accelerazione.»

Valona chiese: «Farà male?»

Rik disse: «Sarà molto scomodo, perché non abbiamo un dispositivo antiaccelerazione per controbattere la pressione, però durerà poco. Mettiti contro quella parete, e quando ti ci sentirai sospingere contro rilassati. Ecco, sta cominciando.»

Aveva scelto la parete giusta, e mentre il rombo dei motori, sotto la spinta iperatomica, si gonfiava, la gravità apparente si spostò, e quello che era stato un muro verticale parve divenire sempre più diagonale.

Valona diede un gemito, quindi si chiuse in un silenzio ansante. Avevano la gola arsa poiché le pareti del loro torace, non protette da cinghie e da ammortizzatori idraulici, lavoravano faticosamente per liberare i polmoni almeno di quel tanto necessario per inspirare un poco d’aria.

Rik riuscì a proferire a stento qualche parola, erano parole a caso, dette unicamente per far comprendere a Valona che lui le era vicino, e calmare la spaventosa paura dell’ignoto che certamente doveva averla invasa.

Disse: «C’è il salto, naturalmente, quando attraverseremo l’iperspazio tagliando via d’un colpo la maggior parte della distanza tra le stelle. Ma questo non ci darà alcun fastidio. Non te ne accorgerai neppure. Non è nulla in paragone a questo. Avvertirai solo un lieve tremito nelle viscere e poi tutto sarà finito.» Le parole gli uscivano smozzicate, una sillaba alla volta. Era una fatica sovrumana.

A poco a poco il peso che gravava i loro petti si sollevò e la catena invisibile che li teneva legati alla parete si allentò e cadde mandandoli a stramazzare anelanti contro il pavimento.

Finalmente Valona domandò: «Ti sei fatto male, Rik?»

«Fatto male io?» Scoppiò a ridere. «Prima restavo su una nave per anni e anni, senza mai atterrare su un pianeta per mesi di fila.»

«Perché?» domandò Valona.

Lui le posò un braccio sulla spalla e Valona si appoggiò a lui silenziosamente, accettando senza discuterlo quel capovolgimento totale dei loro rapporti.

«Perché?» tornò a chiedere.

Rik non riusciva a ricordare perché, ma sapeva che era stato così: l’idea di atterrare su un pianeta gli ripugnava.

Disse: «Avevo un lavoro.»

«Sì» replicò Valona, «analizzavi il Nulla.»

«Proprio così.» Rik si sentì compiaciuto. «Proprio così. Sai che cosa significa?»

«No.»

«Vedi, tutta la materia dell’universo è costituita di cento sostanze diverse che noi chiamiamo elementi. Per esempio: elementi sono il ferro e il rame.»

«Io credevo che fossero metalli.»

«Lo sono, ma sono anche elementi, come elementi sono pure l’ossigeno, l’azoto, il carbonio e il palladio. Ma i più importanti di tutti sono l’idrogeno e l’elio, che sono anche i più semplici e i più comuni.»

«Io non ne ho mai sentito parlare» disse Valona con voce triste.

«Il novantacinque per cento dell’universo è idrogeno e quasi tutto il resto è elio. Persino lo spazio.»

«Mi fu spiegato una volta che lo spazio era un vuoto» disse Valona. «Mi dissero che questo significava che non c’era nulla. Era sbagliato?»

«Non completamente. Nello spazio non vi è quasi nulla. Però, capisci, io ero uno Spazio-Analista, il che significa che me ne andavo per lo spazio raccogliendovi le quantità estremamente piccole di elementi che vi si trovano e analizzandole. Vale a dire, studiavo quanto vi era d’idrogeno, quanto di elio e quanto di altri elementi diversi.»

«Perché?»

«Questo è alquanto complicato da spiegare. Vediamo un po’: devi sapere che la disposizione degli elementi nello spazio non è dappertutto la stessa. In alcune regioni vi è un po’ più d’elio del normale; in altre, più sodio del normale, e così via. Queste regioni di struttura analitica speciale serpeggiano nello spazio come correnti. Per questo le chiamano correnti spaziali. Ora è molto importante sapere la disposizione di queste correnti perché ciò potrebbe servire a spiegare come l’universo si sia creato e sviluppato.»

«E come si potrebbe spiegare questo?»

Rik esitò. «Nessuno lo sa con esattezza.» Tacque di colpo.

Valona s’irrigidì, e attese inquieta che lui continuasse, ma nella piccola stanza seguitò a regnare il più profondo silenzio.

«Rik! Che cos’hai, Rik?»

Sempre silenzio. Lei lo afferrò per le spalle e lo scosse. «Rik! Rik!»

Quella che rispose era la voce dell’antico Rik; una voce flebile, spaventata, vuota di ogni gioia e di ogni sicurezza.

«Lona. Abbiamo commesso uno sbaglio.»

«Quale sbaglio? Parla, Rik!»

Il ricordo della scena in cui il pattugliatore aveva fulminato il Fornaio gli era riapparso alla mente, straordinariamente nitido e chiaro, come se l’affluire di tante altre immagini avesse spinto di nuovo nel suo cervello anche quell’ultima memoria.

Disse: «Non dovevamo fuggire. Non dovremmo essere qui, su questa nave.»

Era stato assalito da un tremito incontrollabile, e Valona tentava inutilmente di asciugargli col dorso della mano il sudore che gli imperlava la fronte.

«Perché?» insistette Valona. «Perché?»

«Perché dovevamo sapere che se il Fornaio era disposto a condurci fuori in pieno giorno era certo di non aspettarsi alcuna interferenza da parte dei pattugliatori. Ricordi il pattugliatore che ha ucciso il Fornaio?»

«Sì.»

«Ricordi la sua faccia?»

«Non ho osato guardarlo.»

«Io sì, e l’ho trovata strana, ma sul momento non ho riflettuto. Lona, quello non era un pattugliatore, era il Borgomastro, Lona. Il Borgomastro vestito da pattugliatore!»

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