10 agosto 1976
Si spinse lentamente verso l’esterno. Ogni contrazione lo faceva avanzare di un po’ sul bordo della ringhiera. Torse i polsi, avvolgendoli stretti nell’asciugamano. Non voleva lasciarsi nessuna via d’uscita, sapendo che il suo corpo l’avrebbe cercata, che avrebbe istintivamente tentato di liberarsi.
I suoi talloni rimbalzavano ritmicamente contro le sbarre della ringhiera su cui era seduto. Il cavo da traino blu che aveva trovato in garage gli causava prurito al collo. Sorrise tra sé. Grattarsi, anche se avesse potuto farlo, sarebbe stato stupido. Come disinfettare la pelle con un batuffolo di cotone prima di un’iniezione letale.
Chiuse gli occhi, piegò in avanti la testa e lasciò che fosse il suo peso a spingerlo oltre la ringhiera.
Il contraccolpo sembrò tremendo, ma in realtà non era stato neppure abbastanza forte da spezzargli l’osso del collo. Non aveva avuto tempo di fare i calcoli, peso per altezza, eccetera. E anche se l’avesse avuto, non era certo che avrebbe saputo farli bene. Ricordava di aver letto da qualche parte che i boia professionisti erano in grado di determinare con precisione la lunghezza di corda necessaria semplicemente stringendo la mano al condannato.
«Piacere di conoscerla, tre metri e mezzo, direi…»
Digrignò i denti per il dolore alla schiena. Il bordo della ringhiera gli aveva strappato un lembo di pelle, mentre scivolava già.
Sentì il sangue caldo colargli sul mento e capì di essersi morso la lingua. Sentiva l’odore di olio da motori della corda.
Pensò alla donna stesa sul letto, a meno di tre metri da lui.
Sarebbe stato bello se fosse stata lei a trovarlo. Poter vedere la sua faccia, la sua bocca bugiarda spalancata, mentre allungava una mano per fermare le oscillazioni del suo corpo. Sarebbe stato perfetto, ma naturalmente lui non avrebbe assistito alla scena. Né lei l’avrebbe vissuta.
Sarebbe stato qualcun altro a trovarli entrambi.
Chissà cosa avrebbero pensato gli inquirenti. Cosa avrebbero scritto i giornali. I loro nomi sarebbero stati sussurrati in certi uffici e in certi salotti. Il nome di lui, il nome che le aveva dato sposandola, sarebbe echeggiato tra le pareti di un’aula di tribunale, come era già successo in passato, trascinato nel fango che lei aveva allargato a macchia d’olio davanti a sé. Stavolta, però, loro due sarebbero stati assenti, mentre gli altri parlavano della tragedia, delle loro menti disturbate. Era difficile, in quel momento, pensarla diversamente. Lui appeso lì, in attesa di morire, e lei poco più in là, morta già da mezz’ora, con il sangue che inzuppava la moquette color fungo della camera da letto.
Lei aveva disturbato la mente di entrambi. Quello che aveva avuto se l’era cercato.
Mezz’ora prima, le sue mani tese per proteggersi.
Otto mesi prima, le sue mani tese, le gambe aperte sul pavimento di quel magazzino.
Se l’era cercata…
Ebbe un conato e sputò sangue. Sentiva un’ombra in procinto di scendere e la vita, grazie a Dio, in procinto di abbandonarlo. Quanto tempo era passato? Due minuti? Cinque? Spinse i piedi verso il basso, augurandosi che il suo peso portasse a compimento in fretta il lavoro.
Udì un rumore, come un cigolio, e un mormorio di stupore. Aprì gli occhi.
Dava le spalle alla porta ed era voltato verso le scale. Provò a girarsi con un colpo di reni. Quando ci riuscì, ormai vicinissimo alla morte, si trovò a fissare, attraverso le pupille iniettate di sangue, i limpidi occhi castani di un bambino.
Il suo look era rovinato dalle scarpe da jogging.
L’uomo con i capelli tagliati a spazzola e il labbro superiore imperlato di sudore indossava un elegante abito blu, senza dubbio acquistato per l’occasione, ma ne aveva guastato l’effetto con quelle Nike Air, che stridevano sul pavimento della palestra ogni volta che lui spostava nervosamente i piedi sotto il tavolo.
«Mi dispiace» disse. «Mi dispiace tanto, davvero.»
Di fronte a lui erano seduti due anziani coniugi. L’uomo aveva la schiena dritta come un palo e gli occhi chiari dallo sguardo fisso. La donna che gli stava accanto gli teneva la mano. I suoi occhi, a differenza di quelli del marito, guardavano dappertutto, tranne che verso l’uomo con l’abito blu. L’ultima volta che lei lo aveva visto così da vicino era stata quando lui li aveva legati entrambi, dopo essersi introdotto in casa loro.
Il mento accuratamente rasato di Darren Ellis iniziò a tremare. La sua voce si fece incerta. «Se c’è una cosa qualunque che posso fare per farmi perdonare, la farò» disse.
«Non c’è» ribatté il vecchio.
«Non posso tornare indietro nel tempo, ma mi rendo conto di aver commesso un’azione orribile. So quello che avete passato.»
La donna cominciò a piangere.
«Come puoi saperlo?» disse il vecchio.
Darren Ellis cominciò a piangere a sua volta.
Nell’ultima fila, dove le sedie erano addossate alle spalliere della palestra, sedeva un uomo dall’aspetto robusto, che indossava una giacca di pelle nera. Aveva una quarantina d’anni, gli occhi scuri e i capelli più grigi su un lato della testa che sull’altro. Sembrava a disagio e un po’ confuso. Si voltò verso l’uomo seduto accanto a lui.
«Tutte balle» disse Thorne.
L’ispettore capo Russell Brigstocke lo fissò, severo. Un poliziotto rosso di capelli, seduto un paio di file più avanti, li zittì. Un sostenitore di Ellis, evidentemente.
«Balle» ripeté Thorne.
Di solito, a quell’ora del lunedì mattina, la palestra del Peel Centre era piena di allievi poliziotti scalpitanti. Tuttavia, poiché era l’unico spazio abbastanza grande in cui tenere quell’“Incontro per una giustizia riparatrice”, i giovani aspiranti agenti erano andati a fare le loro flessioni da un’altra parte. Il pavimento della palestra era coperto da un telo verde plastificato e da una cinquantina di sedie, su cui erano seduti i sostenitori sia del criminale, sia delle vittime. C’erano anche alcuni funzionari, invitati perché potessero aggiornarsi su quell’ultima iniziativa.
Becke House, l’edificio in cui Thorne e Brigstocke avevano i loro uffici, faceva parte dello stesso complesso. Mezz’ora prima, mentre percorrevano il breve tratto che li separava dalla palestra, Thorne non aveva fatto altro che lamentarsi.
«Se si tratta solo di un invito, perché non posso declinarlo?»
«Piantala» l’aveva zittito Brigstocke. Erano in ritardo e lui camminava in fretta, cercando di non versare il caffè bollente dal bicchiere di plastica che aveva in mano.
Thorne lo seguiva a un passo o due di distanza. «Oh, accidenti, ho dimenticato il biglietto d’invito. Forse non mi lasceranno entrare.»
Brigstocke era rimasto indifferente alla battuta.
«E se non sono abbastanza elegante? Forse è obbligatorio l’abito scuro…»
«Non ti sto ascoltando, Tom…»
Thorne aveva scosso la testa, sferrando un calcio a un ciottolo, come un ragazzino imbronciato. «Sto solo cercando di capire. Quello schifoso animale lega un’anziana coppia con un filo elettrico, dà un paio di calci al vecchio rompendogli… quante costole?»
«Tre…»
«Tre, grazie. Piscia sulla moquette, si frega tutti i loro risparmi, e ora noi corriamo a vedere quanto gli è dispiaciuto d’averlo fatto?»
«Hanno usato questo sistema in Australia e i risultati sono stati ottimi. Il tasso di recidività è sceso parecchio.»
«In pratica, si tratta di una bella riunione prima della sentenza e, se tutti sono d’accordo che il criminale è davvero pentito, la condanna sarà più mite. Giusto?»
Brigstocke aveva bevuto un ultimo sorso di caffè bollente e aveva gettato il bicchiere ancora mezzo pieno in un bidone. «Non è così semplice.»
Giugno era iniziato da più di una settimana, ma l’aria non aveva ancora avuto il tempo di riscaldarsi.
Thorne aveva affondato le mani nelle tasche della giacca di pelle. «No, ma è semplicistica la mente di chi ha avuto questa bella pensata.»
Nella palestra, il pubblico vide Darren Ellis abbassare le mani strette a pugno con cui si era coperto il volto, rivelando occhi rossi e umidi. Thorne osservò i presenti in sala. Alcuni scuotevano la testa con aria triste. Altri prendevano appunti. In prima fila, gli avvocati di Ellis si passavano fogli di carta.
«Se dicessi che anch’io mi sono sentito una vittima, ridereste di me?» chiese Darren.
Il vecchio lo fissò con calma prima di rispondere. «No, ma ti spaccherei volentieri i denti.»
«Le cose non sono sempre così chiare» disse Darren.
Il vecchio si piegò verso di lui attraverso il tavolo. «Ti dirò io che cosa è chiaro.» Gettò una rapida occhiata alla moglie. «Lei non dorme più dalla notte in cui sei entrato in casa nostra. Bagna il letto…» La sua voce divenne un sussurro «…ed è diventata così magra…»
Qualcosa a metà tra un singhiozzo e un sospiro echeggiò nella palestra, quando Darren si prese di nuovo il viso tra le mani e diede libero sfogo alle emozioni. Un avvocato si alzò in piedi. Un ispettore anziano si avvicinò al tavolo.
Thorne si chinò verso Brigstocke e disse, a voce non troppo bassa: «È bravissimo. Dove ha studiato, all’Accademia di arte drammatica?». Stavolta, tra le facce che si girarono a fissarlo con disapprovazione, c’erano quelle di molti superiori.
Dieci minuti dopo, erano tutti nell’atrio, fuori dalla palestra. Acqua minerale, biscotti e molte chiacchiere a bassa voce.
«Mi tocca anche scrivere un rapporto su questo evento» mugugnò Brigstocke.
Thorne rivolse un cenno di saluto a due membri della Squadra 6. «Meglio che sia toccato a te, piuttosto che a me.»
«Sto cercando il termine giusto per descrivere l’atteggiamento di alcuni membri del mio gruppo. Non collaborativo? Insolente? Hai qualche idea?»
«Questa è una delle messinscene più stupide cui abbia mai assistito. Non riesco a credere che tutta questa gente l’abbia presa sul serio e non me ne frega niente dei risultati ottenuti in Australia. Anzi, no, “stupido” non è l’aggettivo giusto. È stata una cosa oscena. Tutti quei deficienti intenti a studiare le espressioni sulla faccia di un bastardo. Quante lacrime? Quanto erano grosse? Quanta vergogna ha mostrato?» Thorne bevve un sorso d’acqua, lo tenne in bocca per qualche secondo, poi lo inghiottì. «Hai visto la faccia di quella donna, eh? L’hai vista?»
Il telefono cellulare di Brigstocke squillò. Lui si affrettò a rispondere, ma Thorne non smise di parlare. «Giustizia riparatrice! Per chi? Per quel vecchio e per quello scheletro ambulante di sua moglie?»
Brigstocke scosse la testa irritato e gli voltò le spalle.
Thorne appoggiò il bicchiere sul davanzale di una finestra. Vide un gruppo di persone emergere da una porta dall’altra parte dell’atrio e si diresse rapidamente verso di loro, facendosi strada a spintoni tra la folla.
Darren Ellis si era tolto giacca e cravatta. Era in manette, fiancheggiato da due ispettori.
«Bella esibizione, Darren» disse Thorne. Sollevò le mani e iniziò ad applaudire.
Ellis lo fissò, aprendo e chiudendo la bocca con un’espressione di disagio che, quella sì, appariva spontanea. Lanciò un’occhiata ai suoi accompagnatori, in cerca d’aiuto.
Thorne sorrise. «Non ci hai concesso il bis. Si dice che sia meglio finire sempre con una canzone…»
L’ispettore alla sinistra di Ellis, un tipo inagrissimo con il colletto della giacca bianco di forfora, fece del suo meglio per assumere un aspetto duro. «Va’ al diavolo, Thorne.»
Prima di avere la possibilità di controbattere, Thorne notò Russell Brigstocke che si dirigeva a passi lunghi verso di lui e smise di prestare attenzione ai due ispettori che, nel frattempo, stavano pilotando Ellis nella direzione opposta. L’espressione sulla faccia del suo ispettore capo gli fece venire un nodo allo stomaco.
«Se vuoi fare un po’ di giustizia riparatrice, ecco la tua occasione» disse.
Sull’insegna c’era scritto “hotel”, ma Thorne sapeva che certe definizioni, nelle zone più malfamate di Londra, non andavano prese troppo alla lettera. Se insegne del genere avessero detto il vero, molti uomini d’affari sarebbero rimasti seduti invano dentro presunte “saune”, in attesa di lavoretti di mano che nessuno avrebbe mai fatto loro.
Su quell’insegna avrebbe dovuto esserci scritto “buco merdoso”.
Era un posto che sarebbe stato lusinghiero definire spartano. La moquette marrone lisa lasciava intravedere in molti punti la sottostante base di gomma verde. Una pianta morta da tempo giaceva sul davanzale, coperta di polvere. Thorne scostò le sudicie tende arancioni e si affacciò sul traffico che dalla stazione di Paddington si spingeva lentamente verso Marylebone Road. Erano quasi le undici e sembrava ancora l’ora di punta.
Poi si girò verso la stanza. Sulla porta, l’agente speciale Dave Holland chiacchierava con un agente in uniforme, in attesa, proprio come Thorne, del segnale per entrare e cominciare a scavare nel fango.
In vari punti della stanza, tre tecnici della scientifica si muovevano carponi, raccogliendo indizi in buste di plastica e attaccando cartellini, in cerca del capello, della fibra tessile in grado di incastrare l’assassino. Una condanna a vita nascosta in un granello di polvere. La verità nella spazzatura.
Phil Hendricks, il patologo, era appoggiato al muro, intento a borbottare qualcosa nel nuovo registratore di cui era tanto orgoglioso. Alzò gli occhi a fissare Thorne, con uno sguardo che poneva le solite domande: «Siamo di nuovo in pista?». «Quando le cose diventeranno un po’ meno complicate?» «Non sarebbe meglio gettare la spugna e passare il resto della vita seduti su una panchina?». Thorne, che non aveva risposte per quei quesiti inespressi, distolse lo sguardo. Nell’angolo di fronte, un quarto tecnico della scientifica, con una testa pelata che, unita alla tuta sterile, gli conferiva l’aspetto di un gigantesco neonato, spargeva polvere per rilevare le impronte sui rubinetti del lavandino in plastica marrone.
Si trattava di un buco merdoso con qualche optional, questo sì.
In tutto c’erano sette persone in quella stanza. Otto, contando il cadavere.
Lo sguardo di Thorne si posò, riluttante, sul corpo pallido dell’uomo. Era nudo sul materasso, sul quale le macchie di sangue si confondevano con altre di origine meno evidente. Era prono, con le ginocchia sotto il petto e il sedere all’aria. Le mani erano legate da una cintura di pelle marrone e protese in avanti. La testa, coperta da un cappuccio nero, era affondata nel materasso.
Thorne osservò Phil Hendricks avvicinarsi al letto, sollevare la testa del cadavere e sfilare il cappuccio. Vide le spalle dell’amico irrigidirsi per un istante. Poi la testa del morto ricadde sul materasso. Un tecnico della scientifica si avvicinò e infilò il cappuccio in una busta di plastica.
Thorne si spostò in modo da poter vedere bene la faccia del morto.
Occhi chiusi, naso piccolo e all’insù. Sulle guance, minuscole macchie di sangue. La bocca era una maschera di sangue coagulato con le labbra a brandelli irretite da fili di saliva secca. I denti irregolari avevano profondamente inciso il labbro inferiore, nel momento in cui il cappio si era stretto intorno al collo.
Quell’uomo poteva avere sì e no quarant’anni, ma era solo una supposizione. Da qualche parte, sopra le loro teste, un boiler smise di fare rumore. Soffocando uno sbadiglio, Thorne alzò gli occhi verso le ragnatele che decoravano il soffitto. Si chiese se gli altri ospiti dell’hotel si sarebbero preoccupati ancora dell’acqua calda quando fossero venuti a sapere ciò che era accaduto nella stanza 6. Fece un passo verso il letto. Hendricks parlò senza voltarsi.
«A parte il fatto che è morto, non so un cazzo, perciò non chiedermi nulla, chiaro?»
«Oh, non c’è male, Phil, grazie per esserti informato sulla mia salute. E tu come stai?»
«Non vorrai farmi credere di essere venuto qui solo per uno scambio di convenevoli?»
«Cosa c’è di male? Sto solo cercando di rendere le cose un po’ più facili.»
Hendricks evitò di controbattere.
Thorne si chinò per grattarsi la caviglia attraverso la tuta sterile. «Phil…»
«Te l’ho detto, non so niente. Guardati intorno da solo. Il modo in cui è morto sembra ovvio, ma non lo è poi tanto. Ci sono… altre cose.»
«Va bene, vediamo.»
Hendricks indietreggiò appena e fece un cenno a un tecnico della scientifica, il quale si avvicinò con una piccola scatola in mano. Si inginocchiò davanti al letto e l’aprì, rivelando una serie di strumenti lucenti. Prese un bisturi e si chinò sul collo della vittima.
Thorne lo vide premere un dito guantato tra il cappio e il collo. La corda sembrava una di quelle che si usano per stendere il bucato, facilmente acquistabili in qualunque ferramenta. Plastica blu liscia. Era penetrata in profondità nel collo dell’uomo. Il tecnico della scientifica la tagliò con il bisturi, facendo attenzione a preservare il nodo. Era la procedura, naturalmente. Logica e terribile.
Forse avrebbero avuto bisogno di mettere quel nodo a confronto con altri.
Thorne gettò un’occhiata a Dave Holland, il quale inarcò le sopracciglia e sollevò le palme delle mani. «Cosa succede? Quanto ci vorrà?» Thorne si strinse nelle spalle. Era lì da oltre un’ora. Lui e Holland avevano controllato la stanza, prendendo appunti, raccogliendo indizi, facendosi un’idea dell’accaduto. Adesso era il turno dei tecnici e Thorne scalpitava. Se avesse potuto ammettere con franchezza che tanta impazienza era dovuta al desiderio di dare inizio al processo che avrebbe assicurato alla giustizia l’assassino di quell’uomo, si sarebbe sentito meglio. Ma, in realtà, voleva solo fare il più rapidamente possibile ciò che andava fatto e uscire da quella stanza.
Voleva togliersi quella tuta di plastica, salire in macchina e allontanarsi in fretta.
Ma, per onestà verso se stesso, doveva confessare che solo una parte di lui voleva andarsene. L’altra parte, quella che conosceva e sapeva valutare le differenze tra una scena del delitto e l’altra, era in piena attività. Thorne aveva visto vittime di amanti gelosi e di mariti andati fuori di testa. Aveva visto corpi di rivali in affari e di informatori della polizia. Ed era in grado di riconoscere quando ciò che si trovava davanti era fuori dall’ordinario.
Quella era l’opera di un assassino spinto da un movente particolare, spettacolare.
La stanza puzzava di odio e di rabbia, ma anche di orgoglio.
Hendricks, come leggendogli nel pensiero, disse, con un mezzo sorriso: «Ancora cinque minuti, va bene? Non resta molto da fare».
Thorne annuì. L’uomo sul letto, la sua posizione… Era quella di chi sta rendendo omaggio a qualcuno. Se non fosse stato per la cintura, per il livido infossato intorno al collo, per il sangue rappreso sulla parte posteriore delle cosce pallide, si sarebbe potuto dire che era in preghiera. E forse, alla fine, aveva pregato davvero.
In quella stanza faceva caldo. Thorne si sfregò un occhio e sentì una goccia di sudore scendergli lungo il petto, deviando poi all’altezza del ventre prominente.
In strada, un automobilista esasperato suonava il clacson a tutto spiano.
Thorne non si era reso conto di aver chiuso gli occhi e, quando li aprì di scatto sentendo squillare un telefono, per pochi istanti meravigliosi pensò di essersi appena svegliato da un brutto sogno.
Si voltò, un po’ disorientato, e vide Holland in piedi davanti al comodino. Il telefono bianco era un modello degli anni Settanta, con la tastiera crepata e la cornetta sbilenca sulla forcella. Thorne adesso era completamente sveglio. Quella chiamata era per loro? Era qualcuno della polizia? Oppure un addetto della reception, che non sapeva dell’accaduto e aveva passato una telefonata dall’esterno? Se fosse stato così, si sarebbe trattato di un vero colpo di fortuna.
Thorne si avvicinò al telefono. Tutti gli altri rimasero immobili a fissarlo.
I vestiti del morto (ammesso che fossero i suoi) erano sparsi sul pavimento. Pantaloni e mutande accanto alla sedia. La camicia appallottolata. Una scarpa sotto il letto, vicino alla testiera. La giacca in poliestere, appesa allo schienale di una sedia accanto al letto, non conteneva effetti personali. Niente portafoglio, biglietti dell’autobus, vecchie fotografie. Nulla che potesse aiutare a identificare la vittima.
Thorne non sapeva se dal telefono fossero già state rilevate le impronte, ma non c’era tempo per controllare. Così afferrò una busta di plastica che il tizio calvo della scientifica gli porgeva e ci infilò dentro la mano. Fece un cenno per chiedere silenzio, ma non ce n’era bisogno. Trasse un profondo respiro e sollevò la cornetta.
«Pronto?»
«Oh… salve.» Una voce di donna.
Thorne incrociò lo sguardo di Holland. «Con chi desidera parlare?» Teneva il microfono a qualche centimetro dall’orecchio, perciò non riuscì a udire bene la risposta. «Mi scusi, la linea è disturbata, potrebbe parlare più forte?»
«Va bene così?»
«Perfetto. Allora, con chi desidera parlare?» chiese Thorne di nuovo, con tono indifferente.
«Oh, ecco… non lo so, in realtà…»
Thorne fissò di nuovo Holland e scosse la testa. Merda, non sarebbe stato facile. «Con chi parlo?»
«Prego?»
«Chi è lei?»
Ci fu una breve pausa prima della risposta. La voce si era fatta appena più tesa. Tranquilla, comunque, e ricercata. «Ascolti, non vorrei sembrarle scortese, ma qualcuno da lì mi ha chiamato. E io non ho particolarmente voglia di lasciare il mio…»
«Sono l’ispettore Thorne, dell’Unità per i Reati Gravi…»
Un’altra pausa. Poi: «Credevo di aver chiamato un hotel…».
«Infatti, è così. Ora può dirmi il suo nome?» Thorne guardò di nuovo Holland, che aspettava con il taccuino aperto e la penna in mano, e mimò uno sbuffo.
«Lei potrebbe essere chiunque» obiettò la donna.
«Ascolti, se questo può servire a tranquillizzarla, la richiamo. Anzi, le darò un numero che lei potrà chiamare per controllare. Chieda dell’ispettore capo Russell Brigstocke. E le darò anche il mio cellulare…»
«A cosa mi serve il suo cellulare, se ha detto che mi richiamerà lei?»
Quella conversazione cominciava a diventare grottesca. A Thorne sembrò di cogliere una nota divertita, forse anche un po’ seduttiva, nella voce della donna. Il che non sarebbe stato affatto sgradevole, in una mattina del genere, ma non era dell’umore giusto.
«Signora, il telefono da cui le parlo si trova in una stanza d’hotel in cui è avvenuto un delitto e io devo sapere il motivo della sua chiamata.»
Sembrò che la donna avesse afferrato il messaggio. Con voce un po’ spaventata, rispose alla richiesta.
«Stamattina, appena arrivata al lavoro, ho controllato i messaggi sulla segreteria. Questo era il primo. L’uomo che ha chiamato ha lasciato il nome dell’hotel e il numero della stanza per la consegna…»
“L’uomo che ha chiamato”: si trattava del morto?
«Che cosa diceva il messaggio?»
«Era un’ordinazione. Ma a un’ora un po’ assurda. Per questo prima ero diffidente. Pensavo che potesse trattarsi dello stupido scherzo di qualche ragazzino.»
«Quell’uomo le ha lasciato il suo nome?»
«No, e questo è uno dei motivi per cui ho telefonato. Volevo un nominativo e un numero di carta di credito. Non faccio consegne in contrassegno.»
«Cosa intende dire quando parla di “un’ora un po’ assurda”?»
«L’ordinazione è stata fatta alle tre e dieci del mattino. La mia è una di quelle segreterie telefoniche che registrano l’ora precisa di ogni messaggio.»
Thorne abbassò la cornetta, premendosela contro il petto, e guardò Hendricks. «Conosco l’ora della morte. Scommetto dieci sterline che è stato al massimo mezz’ora prima o dopo…»
«Pronto?»
Thorne si portò di nuovo il ricevitore all’orecchio. «Mi scusi, stavo parlando con un collega. Le chiedo di mettere da parte la cassetta della sua segreteria telefonica, signora…»
«Eve Bloom.»
«Ha parlato di un’ordinazione, giusto?»
«Ah, non gliel’ho detto? Sono una fioraia. E lui ha ordinato dei fiori. Ecco perché ero un po’ spaventata…»
«Non capisco. Spaventata perché?»
«Ecco, un’ordinazione del genere in piena notte…»
«Può dirmi esattamente cosa diceva il messaggio?»
«Attenda in linea…»
«No, aspetti…»
Ma la donna si era già allontanata. Pochi secondi dopo, Thorne udì il clic di un bottone e il rumore del nastro che si riavvolgeva. Una pausa, poi il tonfo della cornetta appoggiata accanto alla segreteria. «Eccolo» gridò la donna.
Un sibilo e il messaggio partì. Nessun accento identificabile, nessuna emozione. A Thorne sembrava che l’uomo ce la mettesse tutta per sembrare impassibile, lasciando tuttavia trapelare una nota divertita nella voce. La voce dell’uomo che, con ogni probabilità, era responsabile di quel cadavere legato e insanguinato che giaceva sul letto.
Il messaggio iniziava in modo molto semplice: «Vorrei ordinare una corona funebre…».
3 dicembre 1975
Avanzò lentamente fin quasi a toccare con il paraurti la porta del garage. Poi tirò il freno a mano e spense il motore. Afferrò la valigetta appoggiata sul sedile del passeggero, scese dall’auto e chiuse la portiera con un colpo d’anca.
Non erano ancora le sei ed era già buio. E freddo. Avrebbe dovuto cominciare a mettersi il cappotto, la mattina.
Mentre camminava verso la porta di casa iniziò a fischiettare di nuovo quella canzonetta che non riusciva a togliersi dalla testa. La trasmettevano alla radio ogni cinque minuti, tutti i giorni. E poi, che cavolo era un “silhouetto”? E che c’entrava il fandango? E per di più era lunghissima. Le canzonette non avrebbero dovuto essere brevi?
Si chiuse la porta alle spalle e si fermò un attimo, aspettandosi di sentire l’odore della cena. Gli piaceva quel momento della giornata, quando poteva far finta di essere un personaggio di un programma televisivo. In piedi sulla soglia, immaginava di essere da qualche parte in America e non in quel merdoso quartiere di periferia. Immaginava di essere un manager atletico, con una moglie perfetta che lo aspettava con l’arrosto nel forno e un drink già pronto per lui. Un Martini, o qualcosa del genere.
Era un divertimento non solo suo, ma di entrambi. Uno sciocco rituale. Lui la chiamava dall’ingresso e lei rispondeva. Poi si sedevano e mangiavano pancake surgelati, o uno di quei piatti al curry precotti con dentro troppa uva passa.
«Cara, sono a casa…»
Nessuna risposta. E nessun odore di cibo.
Lasciò la ventiquattrore accanto al tavolino del corridoio e si diresse nel soggiorno. Probabilmente lei non aveva avuto il tempo di cucinare. Doveva essere uscita dal lavoro alle tre passate, con ancora la spesa da fare. Mancavano tre settimane a Natale e c’era un sacco di regali da comprare…
L’espressione nei suoi occhi lo fece fermare di botto.
Era seduta sul divano, con una vestaglia blu. Aveva le gambe piegate sotto di sé e i capelli bagnati.
«Stai bene, amore?»
La moglie non rispose. Mentre lui si avvicinava, gli si impigliò la scarpa in qualcosa. Abbassò lo sguardo e vide il vestito.
«Ma cosa ci fa questo…?»
Lo raccolse e rise, in attesa di una reazione. Voi, tenendolo davanti a sé, vide lo strappo e ci infilò dentro le dita.
«Cristo, ma cosa gli hai fatto? Era un vestito da quindici sterline…»
Lei alzò gli occhi all’improvviso, fissandolo come se fosse impazzito. Cercando di non farsi scoprire, lui ispezionò la stanza con lo sguardo, alla ricerca di una bottiglia vuota, sforzandosi di mantenere il sorriso sul volto.
«Sei andata al lavoro, oggi, cara?»
Lei emise un gemito sommesso.
«E sei passata dalla scuola a prendere…?»
Lei annuì con forza e i capelli bagnati le ricaddero sul viso. Lui udì un rumore dal piano di sopra, lo schianto di un’auto giocattolo o di una pila di mattoncini da costruzione, e annuì a propria volta, sollevato.
«Senti, è meglio che…»
S’interruppe di colpo e fece un passo indietro quando lei si alzò all’improvviso, con gli occhi umidi e spalancati, e si piegò come se gli stesse facendo l’inchino.
Lui pronunciò il suo nome.
La moglie afferrò l’orlo della vestaglia blu e se la tirò sopra la vita, mostrandogli i segni rossi e i lividi blu tra le gambe…
Thorne perse la scommessa con Phil Hendricks.
Rispose al telefono, più o meno quattro ore dopo il ritrovamento del cadavere, e immediatamente lanciò il sandwich mangiato a metà in direzione del cestino, mancandolo di mezzo metro. Ingoiò in fretta il boccone che stava masticando, sapendo che di lì a poco gli sarebbe passato l’appetito.
Hendricks chiamava dall’obitorio di Westminster. «Piuttosto veloce» disse, in tono ciarliero. «Devi ammettere che…»
«Perché riesci sempre a chiamarmi quando sto mangiando? Non potevi aspettare ancora un po’?»
«Niente da fare, soprattutto quando c’è di mezzo una scommessa. Sei pronto? Secondo me è morto verso le due e mezzo del mattino.»
«Balle.» Thorne guardò fuori dalla finestra una fila di bassi edifici grigi dall’altro lato dell’M1. Non capiva bene se era il vetro a essere sporco, o se Hendon fosse proprio così. «Sarà meglio che la notizia valga il mio biglietto da dieci sterline. Prosegui.»
«Cosa preferisci? Gergo medico, linguaggio per non iniziati, o patologia semplificata per poliziotti scemi?»
«Quello che hai appena detto ti costerà metà della scommessa. Forza, sputa il rospo.»
Hendricks parlava di morti e dintorni con molta meno passione di quella che dimostrava per la squadra dell’Arsenal. Essere di Manchester e non fare il tifo per il Manchester United non era certo l’unica sua sfida alle convenzioni. C’erano i vestiti, in varie gradazioni di nero, la testa rasata, l’assurda quantità di orecchini. E i misteriosi piercing, uno per ogni nuovo ragazzo…
Hendricks parlava in modo spassionato, pratico, ma Thorne sapeva quanto gli importavano i morti. Con quanta attenzione ascoltava ciò che avevano da dirgli i cadaveri.
«Asfissia dovuta a strangolamento per mezzo di un cappio» disse Hendricks. «Inoltre, penso che sia stato ucciso sul pavimento. La moquette gli ha lasciato dei segni sulle ginocchia. L’assassino deve averlo messo in posa sul letto soltanto dopo.»
«Ah.»
«Purtroppo, non sono in grado di dirti se lo abbia strangolato prima, dopo o durante l’atto di sodomia.»
«Mi stai dicendo che neppure tu sei perfetto?»
«So una cosa: chiunque sia stato, ha un radioso futuro nella pornografia gay. Il nostro assassino è davvero ben dotato. Ha provocato un bel po’ di danni, laggiù…»
Thorne capì di aver fatto bene a gettare via il sandwich. Aveva perso il conto delle conversazioni di quel genere avute con Hendricks, negli anni. La sua mente ci si era abituata, ma lo stomaco le trovava ancora vomitevoli. Thorne le definiva “la dieta H”.
«Ci sono secrezioni?»
«Mi dispiace, ci ha fregati. L’unica cosa che ho trovato sono state tracce del lubrificante spermicida che rivestiva il preservativo. Un tipo prudente, in tutti i sensi…»
Thorne sospirò. «Dov’è Holland? È ancora lì insieme a te?»
«Scherzi? Ha tagliato la corda quasi subito. Perché hai mandato lui, a proposito? Mi ha rattristato molto che tu non sia venuto di persona a vedermi lavorare…»
Le loro conversazioni, dopo il ritrovamento di un cadavere, finivano sempre con una nota leggera. Calcio, prese in giro reciproche, qualunque cosa.
«L’agente speciale Holland non ti ha ancora visto lavorare sul serio, Phil» disse Thorne. «Gli fai venire i brividi e io ho voluto dargli la possibilità di abituarsi un po’ alla cosa.»
Hendricks rise. «Certo…»
“Certo” pensò Thorne. Sapeva benissimo che a bisturi e tavoli operatori non ci si abituava mai. Si poteva solo fingere.
In piedi nella sala di pronto intervento, mentre si preparava a parlare alla squadra, Thorne, come accadeva spesso in quelle occasioni, si sentiva un insegnante temuto, ma non amato. Il tipico professore di educazione fisica leggermente psicotico. Quelle trenta persone davanti a lui, detective, agenti in uniforme, civili e personale ausiliario, erano diverse tra loro proprio come gli scolari di una qualunque classe.
C’erano quelli che sembravano ascoltare attentamente, ma che più tardi avrebbero dovuto chiedere ai colleghi di spiegare loro ciò che dovevano fare, e c’erano quelli che annuivano vigorosamente e ponevano domande pertinenti, ma covavano il segreto intento di fare il meno possibile una volta arrivato il momento di agire. C’erano i bulli e le vittime, i secchioni e gli idioti.
Il Servizio di Polizia Metropolitana. Con l’enfasi sul termine “servizio”, per comunicare un’idea di efficienza e attenzione verso il cittadino. Thorne sapeva bene che quasi tutte le persone in quella stanza, a cominciare da lui, si erano sentite molto più a loro agio all’epoca in cui venivano chiamate semplicemente Forza di Polizia.
Una forza con cui fare i conti.
Erano passati quattro giorni dalla sua conversazione telefonica con Hendricks e, se il patologo era stato rapido, la squadra di medicina legale aveva battuto ogni record di velocità. Settantadue ore per i risultati dell’esame del DNA erano davvero un record, specialmente perché la scena del delitto era un vero incubo desossiribonucleico. Erano stati trovati capelli, peli e campioni di pelle di oltre una dozzina di individui, maschi e femmine. Più cani, gatti e almeno altri due animali non ancora identificati.
Eppure, incredibilmente, erano riusciti a far combaciare i dati.
Questo non significava affatto che fossero più vicini a prendere l’assassino, naturalmente, ma adesso almeno conoscevano l’identità della vittima. Il DNA del morto era già schedato, e per ottime ragioni.
Thorne si schiarì la voce e ottenne un po’ di silenzio. «Douglas Andrew Remfry, di anni trentasei, è uscito dalla prigione di Derby dieci giorni fa, dopo aver scontato sette dei dodici anni a cui era stato condannato per violenza sessuale ai danni di tre giovani donne. Stiamo ricostruendo accuratamente tutti i suoi movimenti da allora, ma sembra che non abbia fatto altro che spostarsi tra il pub, il botteghino delle scommesse e la casa di New Cross dove viveva con la madre e il di lei…» Thorne lanciò un’occhiata a Russell Brigstocke, il quale alzò tre dita «…terzo marito. Oggi stesso forse sapremo qualcosa di più sui movimenti di Remfry. Gli agenti Holland e Stone sono sul posto con un mandato di perquisizione. La signora Remfry non si è mostrata troppo disposta a collaborare…»
Un allievo poliziotto in prima fila scosse la testa, con una smorfia di disgusto per una persona che non conosceva neppure. Thorne gli rivolse un’occhiata dura. «Quella donna ha appena perso un figlio» disse e lasciò che le sue parole indugiassero nell’aria per qualche secondo, prima di proseguire. «Se dobbiamo credere alla proprietaria dell’hotel, Remfry ha affittato la stanza di persona. Non ha sentito il bisogno di lasciare un nome, ma ha pagato in contanti senza discutere. Noi dobbiamo scoprire perché. Perché era tanto ansioso di andare in quell’hotel? Chi doveva incontrare?»
Thorne non poté evitare di sorridere, ricordando il colloquio con l’ineffabile proprietaria dell’hotel, una bionda dai capelli tinti con la faccia da pugile e una voce da sessanta sigarette al giorno.
«E chi paga per il cambio delle lenzuola?» aveva chiesto. «E per rimpiazzare i cuscini e il copriletto che quel pazzo si è portato via? Tutto cotone al cento per cento, mica roba da quattro soldi…» Thorne aveva annuito, fingendo di prendere nota. «E le macchie sul materasso? Dove prendo i soldi per far ripulire tutto?»
«Vedrò di trovarle un modulo di reclamo da riempire» aveva detto Thorne, pensando: “Col cazzo che te lo trovo, vecchia vacca…”.
Lo stesso allievo poliziotto di prima alzò un dito. Thorne annuì.
«Stiamo controllando i suoi trascorsi in prigione, signore? Forse Remfry ha preso qualcuno dal lato sbagliato, mentre era a Derby…»
«È stato lui a prenderlo dal lato sbagliato!» esclamò un agente baffuto seduto in fondo a sinistra. Era uno che Thorne non conosceva, arrivato lì da qualche altra squadra per fare numero. Il suo commento suscitò qualche risata. Thorne fece un sorriso tirato.
«Stiamo controllando anche quello. Le preferenze sessuali di Remfry erano sicuramente per le donne, prima che finisse in galera…»
«Alcuni ci prendono gusto mentre sono dentro…»
Stavolta la risata del pubblico fu un po’ forzata. Thorne aspettò che tornasse il silenzio per riprendere il controllo della situazione.
«A molti di voi toccherà il compito di rintracciare i sospetti più probabili che abbiamo al momento…»
L’allievo della prima fila annuì con aria saputa. Un secchione, convinto che quella fosse una conversazione, non un briefing. «I parenti maschi delle donne violentate da Remfry.»
«Esatto» disse Thorne. «Mariti, fidanzati, fratelli. Anche i padri, volendo. Vanno rintracciati, interrogati e scartati. Con un po’ di fortuna, potremmo eliminarli tutti eccetto uno. L’ispettrice Kitson ha stilato un elenco e si occuperà di assegnare a ciascuno di voi le mansioni che gli spettano.» Thorne appoggiò sulla sedia gli appunti e prese la giacca che aveva appeso allo schienale. Quasi finito. «Bene, questo è tutto. I reati di Remfry erano particolarmente sgradevoli. Probabilmente qualcuno ha pensato che non avesse pagato abbastanza…»
L’agente con i baffi da attore porno sorrise e disse qualcosa a un collega seduto davanti a lui. Thorne si infilò la giacca e strinse gli occhi. «Che cosa?»
All’improvviso, il suo tono era proprio quello di un insegnante che chiede a uno studente di sputare la gomma.
E l’agente la sputò. «Ho detto che secondo me chi ha ucciso Remfry ha fatto un favore alla società. Quel bastardo se lo meritava.»
Non era certo il primo commento del genere che Thorne avesse udito. Fissò l’uomo, chiedendosi se fosse il caso di fargli abbassare la cresta. Sapeva che avrebbe dovuto fare un discorsetto sul lavoro dei poliziotti, sulla necessità di essere imparziali, sul fatto che la vittima aveva già pagato il suo debito e che la vita di un uomo vale né più né meno di quella di un altro.
Ma decise di lasciar perdere.
Dave Holland preferiva sempre lavorare con un superiore, o, quando ne aveva la possibilità, con un sottoposto. Con un pari grado, le cose non erano mai molto chiare.
Era semplice. In quanto agente, lui obbediva a tutti i gradi da sergente in su, mentre pretendeva obbedienza da allievi poliziotti e sottoposti. Con un altro agente scelto come lui, tutto dipendeva dalla personalità del soggetto in questione.
Con Andy Stone, per esempio, Holland si sentiva sempre in soggezione senza sapere perché, e la cosa lo infastidiva. Finora era andato tutto bene, ma Stone gli sembrava un po’ troppo arrogante. Aveva un atteggiamento disinvolto e sfacciatamente sicuro di sé, che sfoggiava con le donne e con i superiori. Era atletico e di bell’aspetto, con i capelli neri tagliati corti e gli occhi azzurri e, secondo Holland, era perfettamente consapevole dell’effetto che produceva sulle persone. Una cosa era certa: vestiva in modo impeccabile e, vicino a lui, Holland si sentiva una specie di boy scout imbranato. Holland piaceva abbastanza alle donne, ma scatenava in loro soprattutto l’istinto materno. Di sicuro, non era lo stesso effetto che Andy Stone aveva sul gentil sesso.
Stone, inoltre, tendeva a mostrarsi sfrontato nei confronti dei superiori, un giochetto che poteva diventare rischioso quando c’era di mezzo Tom Thorne. Holland conosceva bene i difetti dell’ispettore. Si era trovato spesso a fare le spese del suo brutto carattere e in più di un’occasione era finito nei pasticci insieme a lui.
Eppure, nonostante tutto, ricevere l’approvazione di Thorne era il massimo della gratificazione per lui.
Era nella squadra da più tempo di Andy Stone e pensava che questo avrebbe dovuto contare qualcosa. Ma, a quanto pareva, non era così. Fu Stone a guidare l’operazione, quando si presentarono, quella mattina presto, alla porta di Mary Remfry, con un mandato di perquisizione in mano.
«Buongiorno, signora Remfry.» La voce di Stone suonava curiosamente lieve per un uomo così imponente. «Abbiamo un mandato e…»
Lei voltò loro le spalle senza dire una parola e si allontanò lungo il corridoio, lasciando aperta la porta. Da qualche parte, nell’appartamento, c’era un cane che latrava.
Stone e Holland entrarono e si fermarono ai piedi delle scale, dividendosi le stanze da perquisire. Stone si diresse verso il soggiorno, dove, attraverso la porta semiaperta, si vedeva un uomo dai capelli grigi, seduto in poltrona a guardare Kilroy. Prima di entrare Stone sussurrò a Holland, accennando con il capo verso la cucina dove era sparita la signora Remfry: «Credi che sia andata a prepararci il tè?».
No, di sicuro.
Holland trovava strano che ci fosse bisogno di un mandato per perquisire la casa della vittima di un omicidio. Ma, come aveva detto Stone, Remfry era pur sempre un ex carcerato e l’atteggiamento della madre non aveva lasciato loro altra scelta. Non si trattava solo del dolore per la morte del figlio. La donna era furiosa per le implicazioni della linea d’indagine che era stato necessario seguire, considerate le modalità e le circostanze della morte di suo figlio, ma che lei non aveva voluto assolutamente accettare.
«Dougie è sempre stato un donnaiolo» aveva dichiarato. «Un vero donnaiolo.»
Un concetto sul quale tornò anche ora, apparendo all’improvviso sulla porta della stanza da letto del figlio che Holland stava perquisendo metodicamente. Mary Remfry, cinquantacinque anni circa, in camicia da notte e cardigan, osservava il lavoro dell’agente, ma senza troppa attenzione. La sua mente era concentrata su ciò che desiderava mettere in chiaro.
«Dougie amava le donne e loro amavano lui. Questa è la pura realtà.»
Holland procedeva con discrezione, cosa che avrebbe fatto anche se la donna non fosse stata lì a guardarlo. In quella circostanza, comunque, si sforzò di essere ancora più attento, mentre frugava con la mano guantata nei cassetti della biancheria intima, nelle federe dei cuscini e nella trapunta. A quanto pareva, nel breve periodo trascorso fuori dalla prigione Remfry non aveva comprato molta roba nuova, visto che la stanza era piena di vestiti risalenti a prima della condanna e perfino ai tempi della scuola…
«Non è mai stato a corto di ragazze» continuò la madre. «Appena è tornato a casa, loro hanno cominciato a ronzargli intorno, a telefonargli. Mi ascolta?»
Holland si voltò a metà, mentre tirava fuori da sotto il letto una pila di riviste pornografiche.
«Vede?» disse Mary Remfry, indicandole. «Niente uomini, in quelle riviste.» Aveva un tono orgoglioso, come se stesse mostrando un diploma di laurea o l’attestato di conferimento del premio Nobel.
Holland si sentì avvampare, mentre sfogliava vari numeri di «Fiesta», «Escort» e «Razzie», e voltò le spalle alla donna.
Le riviste risalivano tutte agli anni Ottanta, prima che Dougie venisse rinchiuso per anni in un carcere di Sua Maestà, con altri seicentocinquanta uomini.
Holland le spinse di nuovo sotto il letto, da dove poi estrasse una borsa di plastica marrone, ripiegata più volte.
L’aprì e un pacco di buste legate con un elastico cadde sulla moquette.
Appena vide l’indirizzo, scritto a macchina sulla prima, Holland provò un piccolo brivido di eccitazione. Forse quelle lettere non significavano nulla, ma erano certamente più interessanti dei mucchi di vecchi calzini e di riviste porno che aveva trovato finora.
«Andy!»
Mary Remfry si strinse nel cardigan e si avvicinò all’agente. «Che cos’ha trovato?»
Holland udì i passi di Stone sulle scale. Sfilò l’elastico che teneva fermo il pacco, aprì la prima busta e tirò fuori la lettera.
«Allora possiamo eliminare definitivamente l’eventualità di un’asfissia autoerotica?» L’ispettore capo Russell Brigstocke, un po’ imbarazzato, abbracciò con un’occhiata circolare Thorne, Phil Hendricks e l’ispettore Yvonne Kitson.
«Ecco, io non sono sicuro di poter eliminare alcunché» disse Thorne. «Ma direi che il prefisso “auto” indica qualcosa che uno fa da solo.»
«Sai che cosa intendevo dire, saputello…»
«In quella stanza non è accaduto nulla di erotico» intervenne Hendricks.
Brigstocke annuì. «Nessuna possibilità che si sia trattato di un gioco perverso finito male?» Thorne represse un sorriso e Brigstocke se ne accorse. «Che c’è?» Thorne non disse nulla. «Ascolta, sto solo facendo le domande…»
«…che Jesmond ti ha detto di fare» finì Thorne, il quale non faceva nulla per mascherare la sua opinione sul loro sovrintendente. Secondo lui, Jesmond era uscito direttamente da uno di quei corsi che sfornavano automi dotati di astuzia politica, capacità organizzativa, faccia fotogenica, propensione alle domande stupide, buona comprensione delle realtà economiche e, in quel caso specifico, avversione verso chiunque si chiamasse Thorne.
«Sono domande a cui è necessario rispondere» ribatté Brigstocke. «Allora, può essersi trattato di un gioco sessuale, sì o no?»
Thorne trovava difficile credere che persone come Trevor Jesmond avessero mai fatto le cose che lui, Brigstocke o qualunque altro poliziotto avevano fatto almeno una volta nella vita. Non riusciva a immaginarselo mentre sedava una rissa, gonfiava un rimborso spese o si frapponeva tra un coltello e il corpo al quale era destinato.
Non se lo immaginava neppure nell’atto di dire a una madre che il suo unico figlio era stato sodomizzato e strangolato in una sudicia stanza d’hotel.
«Non si è trattato di un gioco» disse Thorne.
Brigstocke guardò Hendricks e Kitson, poi sospirò. «Presumo che le vostre espressioni di malcelato disprezzo significhino che siete d’accordo con l’ispettore Thorne. Dico bene?» Si aggiustò gli occhiali sul naso e si passò una mano tra i folti capelli neri che costituivano il suo più grande motivo di orgoglio. Il ciuffo era meno definito del solito e presentava qualche spruzzata di grigio. Nonostante il suo aspetto vagamente ridicolo, in realtà Brigstocke era uno degli uomini più duri con cui Thorne avesse mai lavorato.
Thorne, Brigstocke, Kitson, e il civile Hendricks. Loro quattro, più Holland e Stone, erano il nucleo della Squadra 3 dell’Unità per i Reati Gravi, divisione Ovest. Quello era il gruppo che prendeva le decisioni, definiva le linee d’azione e conduceva le indagini, con l’approvazione dei superiori e, a volte, anche senza.
La Squadra 3 era attiva da molto tempo e si occupava dei casi ordinari, ma soprattutto di quelli che non avevano nulla di ordinario e che costituivano la sua vera specialità.
«Allora» disse Brigstocke. «I nostri uomini sono tutti in giro a caccia di parenti maschi delle vittime di Remfry. Questa è ancora la pista preferita da tutti?»
Cenno d’assenso dei presenti.
«Comunque non significa che sia quella giusta» osservò Thorne. C’erano molte cose che non quadravano con l’idea della vendetta. Non riusciva a immaginarsi una rabbia covata per tanti anni, fino a diventare la furia letale che si era scatenata in quella stanza d’hotel. C’era qualcosa di teatrale in ciò che lui aveva visto su quel materasso. «L’assassino deve averlo messo in posa» aveva detto Hendricks.
E Thorne non riusciva ancora a spiegarsi bene quella telefonata alle tre del mattino. Non riusciva a credere che il messaggio sulla segreteria telefonica fosse una svista dell’assassino, perciò l’unica conclusione possibile era che lui voleva che la polizia sentisse la sua voce. Era come se si fosse presentato…
«Vale la pena verificare la fondatezza dell’ipotesi emersa durante il briefing, e cioè che Remfry fosse diventato frocio in prigione?» chiese Yvonne Kitson.
Thorne lanciò una rapida occhiata a Hendricks. Il patologo gay aveva deciso di ignorare il termine usato da Kitson, oppure non gliene fregava davvero nulla.
«Sì» rispose Thorne. «Qualunque cosa possa essergli successa mentre era dentro, prima era sicuramente eterosessuale. Non dimentichiamo che ha stuprato tre donne.»
«Lo stupro è una questione non di sesso, ma di esibizione di potere» puntualizzò Yvonne Kitson.
Yvonne Kitson, insieme con Andy Stone, era entrata in squadra per sostituire un collega che Thorne aveva perso in circostanze che cercava ogni giorno di dimenticare. Lo consolava soltanto il pensiero che il responsabile di quella morte stava scontando tre ergastoli nel carcere di Belmarsh.
Thorne fissò Hendricks. «Lasciando perdere Remfry, siamo sicuri che l’assassino sia gay?»
Hendricks non ebbe un attimo di esitazione. «Assolutamente no. Come ha detto Yvonne, lo stupro non ha nulla a che fare con il sesso. Forse lui vuole farci credere di essere gay. O forse lo è davvero. Ma noi dobbiamo comunque considerare altre possibilità.»
«Gay o non gay,» disse Yvonne Kitson «Remfry potrebbe essere stato messo in trappola da qualche ex compagno di galera, qualcuno animato da un forte rancore nei suoi confronti…»
Brigstocke si schiarì la voce. L’imbarazzo che gli provocava quella discussione era palpabile. «Ma l’inculata…»
«Inculata?» ripeté Hendricks, abbandonando l’accento di Manchester per assumere un tono da gentleman oltraggiato. «L’inculata!?»
Brigstocke arrossì. «La sodomia, allora. O il rapporto anale, se preferite. Com’è possibile fare una cosa del genere, se non si è omosessuali?»
Hendricks si strinse nelle spalle. «Chiudi gli occhi e pensi a Claudia Schiffer…»
«Io penserei a Kylie» disse Thorne.
Yvonne Kitson scosse la testa sorridendo. «Vecchio sporcaccione.»
Brigstocke non era convinto. Rivolse a Thorne uno sguardo duro. «Sii serio, Tom. Questo potrebbe essere importante. Tu, per esempio, ce la faresti davvero?»
«Dipenderebbe molto dalla mia determinazione a uccidere.»
Il silenzio scese nella stanza. Thorne decise di romperlo prima che diventasse troppo pesante. «Remfry è andato in quell’hotel di sua spontanea volontà. Ha prenotato la stanza di persona. Quindi sapeva, o pensava di sapere, in quale situazione si stava mettendo.»
«E qualunque cosa fosse,» aggiunse Hendricks «sembra che sia durata un bel po’.»
«Già» convenne Kitson. Sfogliò le fotocopie del referto dell’autopsia stilato da Hendricks. «Nessuna ferita da difesa, nessuna traccia di tessuti sotto le unghie…»
Il telefono sulla scrivania squillò. Thorne era il più vicino.
«Ispettore Thorne. Sì, Dave…»
Gli altri rimasero in attesa mentre Thorne ascoltava la voce all’altro capo del filo. Brigstocke sussurrò a Yvonne Kitson: «Perché cazzo Remfry sarà andato in quell’hotel?».
Thorne annuì. Grugnì, tolse con i denti il cappuccio a una penna, poi lo rimise a posto. Sorrise, disse a Holland di muovere il culo e chiuse la comunicazione.
Quindi rispose alla domanda di Brigstocke.
4 dicembre 1975
Erano seduti nella Maxi, davanti a casa. Lei aveva tenuto duro per tutta la mattina, durante i momenti peggiori: le domande personali, l’intrusione… Voi, quando il peggio sembrava essere passato, aveva iniziato a piangere, passando attraverso le porte che lui le teneva aperte, fuori dal commissariato di polizia, sugli scalini che portavano in strada erano risuonati i suoi passi e i suoi singhiozzi incontrollabili.
In macchina, il pianto si era a poco a poco trasformato in una furia cieca, che esplodeva in attacchi di violenza. Lui aveva tenuto le mani strette sul volante, mentre lei lo colpiva sulle spalle e sulle braccia. I suoi occhi non avevano mai lasciato l’asfalto, mentre lei gli urlava contro parole che lui credeva non conoscesse neppure. Aveva guidato con prudenza, come sempre, nel traffico della pausa pranzo lungo le strade gelate, assorbendo dalla moglie tutto il dolore e la rabbia che riusciva a sopportare.
Adesso erano seduti in macchina, entrambi troppo scossi per scendere. Guardavano fisso davanti a sé, senza osare lanciare neppure un’occhiata verso la casa. La casa. Il posto in cui, la sera prima, lei gli aveva raccontato ogni cosa. Le stanze in cui avevano pianto e gridato. Il luogo in cui tutto era cambiato.
La casa in cui non si sarebbero mai più sentiti a casa.
Senza girare la testa, lei parlò con rabbia. «Perché non mi hai portato alla polizia ieri sera? Perché mi hai fatto aspettare fino a ora?»
Il motore era spento, l’auto era ferma, ma le sue mani non lasciavano il volante. E, mentre lo stringeva ancora più forte, i guanti di pelle scricchiolavano. «Non volevi ascoltare! Non volevi ascoltare nulla!»
«E cosa ti aspettavi? Cristo, non sapevo neppure come mi chiamavo. Non sapevo cosa facevo. Non mi sarei nemmeno mai fatta la doccia…»
Il giorno prima lei era troppo sconvolta per pensare con chiarezza, ovviamente. Lui aveva cercato di spiegarlo alla poliziotta, al commissariato, ma lei aveva scrollato le spalle e aveva lanciato un’occhiata alla collega, continuando a prendere i vestiti, a mano a mano che la moglie se li toglieva, e a infilarli in una borsa di plastica.
«Non avresti dovuto farti la doccia, ragazza mia» aveva detto la poliziotta. «Saresti dovuta venire subito qui, dopo il fatto…»
Il motore era spento da meno di un minuto, ma in macchina già si gelava. Lui sentiva il calore delle lacrime che gli scendevano sul viso, fino ai baffi. «Hai detto che volevi lavarti, toglierti di dosso ciò che ti aveva fatto. Io ho detto che lo capivo, ma che non era una buona idea. Tu non mi ascoltavi neppure…»
Era rimasto paralizzato, in piedi nel soggiorno, dopo che lei glielo aveva detto. Poi erano seguiti minuti e ore terribili. Lei non voleva lasciarsi abbracciare, non voleva che lui telefonasse a nessuno. Non voleva che andasse a casa di quel bastardo per prenderlo a calci in mezzo alle gambe.
Lui guardò l’orologio. Si chiese se la polizia avrebbe prelevato Franklin al lavoro, o avrebbe aspettato che tornasse a casa.
Doveva telefonare in ufficio, per avvisare che quel giorno non si sarebbe presentato. Doveva chiamare la scuola, per controllare che fosse tutto a posto, che le spiegazioni della sera prima sul motivo per cui la mamma era tanto agitata fossero state credute…
«Cosa voleva dire quella donna?» disse lei, all’improvviso. «La poliziotta. Quando ha chiesto se mi mettevo sempre vestiti così carini per andare al lavoro?» Iniziò a dondolare piano avanti e indietro sul sedile, con le mani tra le gambe.
La neve cadeva a fiocchi pesanti, coprendo rapidamente il cofano e il parabrezza. A lui non venne neppure in mente di azionare il tergicristalli.
Quando si ritrovarono a parlarne, più tardi, Thorne e Holland ammisero entrambi di sentirsi attratti dal vicedirettore del carcere di Derby. Ciò che nessuno dei due disse apertamente, tuttavia, era il fatto che quella donna aveva solleticato la loro fantasia non solo perché era carina, ma anche, e forse soprattutto, perché dirigeva una prigione.
«Ha fatto certamente un ottimo lavoro» disse Tracy Lenahan appoggiando il foglio sulla scrivania. Si trattava della fotocopia di una delle oltre venti lettere che Remfry aveva ricevuto in carcere e che Holland aveva trovato a casa sua, sotto il letto.
Lettere scritte da un assassino, che si spacciava per una donna di ventotto anni di nome Jane Foley.
Thorne e Holland si erano già fatti spiegare la procedura con cui veniva smistata la posta dei detenuti. In media ne arrivavano cinque sacchi al giorno. Le lettere venivano portate da due, a volte tre, secondini nell’ufficio del censore. La macchina a raggi X era stata eliminata dall’attuale direttore, ma i cani antidroga erano ancora utilizzati e le lettere venivano aperte per ispezionare l’interno delle buste. Gli addetti al controllo non leggevano la posta e non la mostravano a nessuno, a meno che non ci fosse un motivo importante per farlo.
«Ha fatto un ottimo lavoro spacciandosi per una donna: è questo che intende dire?» chiese Thorne. Lui aveva trovato quelle lettere molto convincenti e Yvonne Kitson era stata della stessa opinione, ma ora gli interessava il parere della direttrice.
«Sì, ma dev’essere stato anche più astuto. Ho già visto lettere simili, in passato. Lettere autentiche, intendo. Vi stupirebbe sapere quanta posta di questo genere arriva a tipi come Remfry. Il tono è lo stesso che troviamo qui: strano, un po’ folle…»
«Qualcosa di simile a un bisogno emotivo» suggerì Holland.
Tracy Lenahan annuì. «Esatto. Questa Jane si presenta come una preda, come una donna sexy in cerca di divertimento…»
«Una donna sexy sposata» aggiunse Thorne. La finta Jane Foley era opportunamente legata a un finto marito molto geloso, motivo per cui Remfry non poteva rispondere alle sue lettere.
Tracy Lenahan lesse di nuovo alcune righe della lettera e annuì. «Ci sono molte allusioni dirette, ma in fondo si percepisce una vena di tristezza.»
«Come se fosse disperata» aggiunse Thorne. «Una donna così disperata da ridursi a scrivere lettere del genere a uno stupratore in galera.»
Holland sbuffò. «Mi gira la testa. Un uomo che finge di essere una donna, che finge di essere una donna diversa…»
Tracy Lenahan mise giù la lettera. «Ma tutto a un livello molto sottile. Come ho detto, è maledettamente in gamba.» Thorne non aveva bisogno di sentirselo dire da lei. Aveva studiato ogni singola lettera di “Jane Foley”, e sapeva perfettamente che l’uomo che le aveva scritte era in gamba. Ed era anche calcolatore e molto paziente.
Tracy Lenahan prese la fotografia. «E questa è la ciliegina sulla torta…»
Thorne rimase colpito dalla scelta di quella metafora, ma non disse nulla. Sul muro dietro la scrivania c’era, come da regolamento, il ritratto della regina, con la consueta espressione di chi ha appena fiutato un odore sgradevole. Alla sinistra di Sua Maestà c’erano una serie di fotografie aeree della prigione e un paio di grandi paesaggi a olio.
Thorne non si intendeva affatto di pittura, ma quei quadri avevano tutta l’aria di essere antichi. Tracy Lenahan alzò gli occhi e, seguendo la direzione del suo sguardo, spiegò: «Quelli si trovano qui fin dall’apertura del carcere, nel 1853. Erano appesi in sala visite, fino a sei mesi fa. Poi, un giorno, un detenuto condannato per ricettazione di oggetti antichi li ha visti ed è impallidito. Abbiamo scoperto che valgono almeno dodicimila sterline ciascuno…».
Sorrise e riportò lo sguardo sulla foto in bianco e nero che aveva tra le mani. Thorne, invece, fissò la cornice d’argento sulla scrivania. Dalla posizione in cui si trovava non riusciva a vedere la foto che conteneva, ma si immaginò un marito atletico, un militare, forse, o magari addirittura un poliziotto, e un bambino sorridente dalla pelle olivastra. Poi guardò la donna dietro la scrivania. Occhi scuri, capelli neri lunghi fino alle spalle, alta, seno prosperoso. E straordinariamente giovane: doveva avere meno di trent’anni. Era evidente che quella donna appariva regolarmente nelle fantasie erotiche degli uomini che teneva rinchiusi lì dentro.
Thorne lanciò un’occhiata a Holland e represse un sorriso constatando come l’agente si sforzasse di non arrossire, mentre aspettava che Tracy Lenahan finisse di osservare la foto di “Jane Foley”. Era l’immagine di una donna in ginocchio, con la testa china e coperta da un cappuccio. La penombra nascondeva quasi tutto, lasciando però intravedere seni generosi, un ciuffo di pelo pubico e una cintura di pelle intorno ai polsi.
Holland, prima, si era dichiarato sorpreso che le foto non fossero state confiscate, soprattutto perché il reato di Remfry era lo stupro. Un’immagine del genere era sicuramente un rischio a Fraggle Rock, o “roccia friabile”, il nomignolo con cui molti poliziotti indicavano l’ala riservata ai “prigionieri vulnerabili”. Tracy Lenahan aveva avuto un leggero scatto udendo quel termine del gergo carcerario, poi aveva spiegato loro quella che chiamava la “regola della terza pagina”. Materiale del genere era ammesso a discrezione del censore. Le foto di bambini erano ovviamente vietate in quell’ala del carcere, mentre le foto di donne analoghe a quelle che si potevano vedere sulla terza pagina dei giornali scandalistici venivano esaminate dal secondino addetto al controllo, magari commentate e rimesse nella busta.
«Cristo!» aveva esclamato Holland. «La terza pagina deve avere ormai raggiunto livelli di vera arte…»
Tracy Lenahan mise la foto sulla scrivania, sfiorandone il bordo con un’unghia laccata di rosso. «Anche la scelta dell’immagine con cui agganciare uno come Remfry è una prova di astuzia. Questa foto è il sogno erotico di uno stupratore. Dovunque l’assassino l’abbia presa, è perfetta.» Deglutì, si schiarì la voce e aggiunse: «Remfry era un uomo che si eccitava con giochi di sottomissione».
Thorne e Holland si scambiarono un’occhiata. Non l’avevano detto a Tracy Lenahan, ma erano quasi certi che l’assassino non avesse semplicemente comprato quella foto da qualche parte. La donna nuda indossava un cappuccio identico a quello che Phil Hendricks aveva sfilato dal cadavere di Douglas Remfry.
«Abbiamo un’altra mezza dozzina di immagini simili» disse Thorne. «Sono state tutte spedite con le lettere più recenti. E più la lettera si avvicina alla data di uscita di Remfry, più le immagini si fanno esplicite.»
Tracy Lenahan annuì. «Per far aumentare l’eccitazione…»
«Quando è uscito di qui, Remfry doveva ormai sbavare» commentò Holland.
La vicedirettrice prese la foto con la mano sinistra e la lettera con la destra. «Il vostro assassino è sensibile sia al modo di pensare di una donna di questo tipo, sia a ciò che può eccitare l’uomo a cui scrive.»
Thorne non disse nulla. Tracy Lenahan gli sembrava stranamente impressionata.
«Sensibile come un gay, forse» azzardò Holland.
Thorne si limitò a stringersi nelle spalle.
Erano tornati di nuovo a quel punto. Per quanto ammettesse che quell’ipotesi era plausibile, lo irritava il fatto che l’indagine sembrasse incentrata sulle preferenze sessuali dell’assassino. Naturalmente, il fatto che la vittima fosse stata sodomizzata era significativo. Lo stupratore era stato stuprato e Thorne era sicuro che quello fosse un punto cruciale per capire il movente dell’omicidio. Ma era molto meno sicuro del fatto che fosse importante sapere con chi l’assassino scegliesse di andare a letto.
Holland si spinse in avanti sulla sedia, fissando Tracy Lenahan. «Si tratta di una possibilità che ovviamente dobbiamo considerare» disse. «Il fatto, cioè, che Remfry sia stato ucciso da qualcuno che ha conosciuto in carcere. Qualcuno con cui possa aver avuto un rapporto sessuale non consensuale…»
La donna gli restituì lo sguardo, aspettando la domanda e senza fare il minimo sforzo per facilitare il compito a Holland. «È possibile, secondo lei, che Remfry abbia violentato un altro prigioniero?» chiese infine l’agente. «O che sia stato lui stesso violentato?»
Tracy Lenahan si appoggiò allo schienale della sedia. Un’ombra passeggera le attraversò il viso, ma si dileguò nell’istante in cui lei batté con forza le mani e scosse la testa, prorompendo in una risata che a Thorne sembrò un po’ forzata.
«Credo che lei abbia visto troppi film ambientati in prigioni americane, agente. Qui c’è un bel campionario di loschi figuri e naturalmente tra i prigionieri a volte si instaurano rapporti, ma, per quanto ne so, nessuno viene violentato se si china a raccogliere il sapone sotto la doccia.»
Thorne non riuscì a evitare di sorridere. Sorrise anche Holland, ma Thorne notò la pelle tesa intorno alla bocca e il rossore sopra il colletto. «Per quanto ne sa?» disse Holland. «Significa che la cosa è possibile?»
«Due settimane fa, nelle cucine, a un detenuto è stato amputato un orecchio con il coperchio di una lattina di pesche sciroppate. Se non sbaglio la causa della lite era il punteggio di una partita di ping-pong.» Tracy Lenahan sorrise, fredda e sexy. «Tutto è possibile.»
Thorne si alzò in piedi, allontanandosi dalla scrivania. «Supponiamo che l’uomo che cerchiamo non sia un ex detenuto. In tal caso, ci si chiede: come ha ottenuto le informazioni? Come ha trovato Remfry? Come è riuscito a scoprire dove lo stupratore stava scontando la sua pena e quando era previsto il suo rilascio, con sufficiente anticipo per preparare tutto questo?»
Tracy Lenahan si girò verso il computer nell’angolo della scrivania e premette un tasto. «Avrebbe dovuto consultare il nostro database.» Pigiò altri tasti, fissando il monitor. «Questo è il LIDS, il Database Locale dei Detenuti, che contiene tutte le informazioni sui nostri carcerati. È possibile inviare dati ad altre prigioni, se necessario, ma non credo che…»
Thorne osservò il più vicino dei due paesaggi. Pennellate dense e scure sulla tela. Gli sembrava che rappresentasse qualche luogo nella regione dei laghi. «Che cosa mi dice del database nazionale?»
«È l’IIS, il Sistema Informatico di Raccolta dati dei Detenuti. Lì c’è tutto. Luogo di detenzione, particolari relativi al reato commesso, residenza legale del detenuto, data di rilascio prevista.» Alzò lo sguardo e fissò Thorne. «Ma è comunque necessario immettere un nome, per avere i dati.»
«Chi ha accesso a quel database?» chiese Holland. «Lei, per esempio?»
«No.»
«Il direttore? Un funzionario di polizia delegato?»
La donna sorrise, scuotendo la testa con decisione. «Il sistema si trova solo nel quartier generale. E l’accesso è molto limitato, per ovvie ragioni…»
Ringraziamenti e saluti non portarono via troppo tempo. Thorne pensava che non fosse il caso di perdersi in convenevoli in quel luogo, circondati com’erano da detenuti. Anche se non ne aveva visti molti in giro, era consapevole della loro presenza dappertutto. Un’eco distante, una pesantezza, un calore emanato da più di seicento uomini, che si trovavano lì grazie a poliziotti come lui.
Ogni volta che entrava in una prigione e attraversava quei corridoi dai muri verdi, giallini o bianco panna, Thorne si lasciava dietro mentalmente una scia di sassolini. Voleva sempre essere sicuro di ritrovare la via più breve verso l’uscita.
Durante il ritorno in macchina verso la M1, Holland rimase immerso nella lettura di un opuscolo che aveva preso uscendo dal carcere. Thorne preferiva altri metodi di ricerca.
Inserì nello stereo dell’auto Johnny Cash at San Quentin.
Alle prime note di Wanted man, Holland alzò lo sguardo, rimase in ascolto per qualche secondo, scosse la testa e tornò alla sua lettura di fatti e cifre.
Una volta Thorne aveva provato a spiegargli che la vera musica country non aveva nulla a che fare con cani smarriti e cristalli di rocca. Era stato durante una lunga notte di Guinness e biliardo, mentre Phil Hendricks, con il suo fidanzato del momento, non si stancava di interromperlo con frecciate ironiche. Thorne aveva cercato di trasmettere a Holland la bellezza della voce di George Jones, la nota cattiva in quella di Merle Haggard e il rombo profondo di Cash, il padre nero di tutti gli altri. Dopo varie pinte, diceva a chiunque avesse voglia di ascoltarlo che Hank WiHiams era un genio torturato, il Kurt Cobain della sua epoca, e forse aveva addirittura cantato Your cheating heart poco prima dell’ora di chiusura. Ricordava abbastanza poco di quella serata, ma lo sguardo assente di Holland, quello sì, gli era rimasto impresso…
«Merda!» esclamò Holland. «Un carcerato costa allo stato venticinquemila sterline all’anno. Non è un po’ troppo?»
Thorne non era in grado di rispondere. Quella cifra era il doppio di quanto molti lavoratori guadagnavano in un anno, ma se si pensava alla retribuzione del personale carcerario, alla manutenzione degli edifici…
«Non credo che quei soldi vengano spesi per comprare il caviale ai detenuti» osservò. «No, ma mi sembra tanto lo stesso…» Dentro l’auto si scoppiava di caldo. La Mondeo era troppo vecchia per avere l’aria condizionata, e il sistema di ventilazione, che Thorne aveva fatto riparare già due volte, riusciva a mandare nell’abitacolo soltanto aria calda. Thorne aprì un finestrino, ma mezzo minuto dopo lo richiuse. Il fresco che ne veniva era poco e il rumore troppo.
Holland alzò di nuovo gli occhi dal suo opuscolo. «Pensa che sia giusto che abbiano dei lussi, lì dentro? Tipo la televisione in cella, le playstation che alcuni di loro possiedono…?»
Thorne abbassò un po’ il volume e si concentrò su un cartello sul ciglio della strada. Si stavano avvicinando allo svincolo Milton Keynes. Londra distava ancora una settantina di chilometri. Si rese conto, e non per la prima volta, che malgrado passasse la vita a mandare delinquenti in galera, non si era mai preoccupato molto di quel che accadeva loro dietro le sbarre. La sua idea era che la perdita della libertà fosse già di per sé un castigo sufficiente. Oltre a ciò, non sapeva bene cosa pensare in proposito.
Frenò leggermente e imboccò lo svincolo. Senza alcuna fretta.
Thorne era d’accordo che assassini, violentatori e pedofili andassero tolti dalla circolazione. E mandarli in galera era compito suo e di quelli come lui. A quel punto, dopo che quei criminali erano stati assicurati alla giustizia, diventava compito di altri ragionare sulla linea di confine tra castigo e riabilitazione. Sentiva istintivamente che le carceri non dovevano diventare dei centri vacanze. Sorrise tra sé a quel pensiero. Cominciava a usare espressioni da conservatore incallito. Cristo, un televisore non cambiava nulla. Che guardassero pure le partite di calcio, se volevano!
Purtroppo, era appena riuscito a chiarirsi cosa voleva rispondere a Holland, quando lui cambiò argomento.
«Porca puttana» disse, alzando ancora una volta lo sguardo dall’opuscolo. «Il sessanta per cento delle reti in uso sui campi da gioco inglesi è fabbricato da carcerati. Spero che quelle del White Hart Lane le abbiano rinforzate bene, visti tutti i gol che gli Spur beccano dalle altre squadre.»
«Già…»
«Senta questa. Le fattorie annesse alle carceri producono dieci milioni di litri di latte all’anno. Davvero stupefacente.»
Thorne aveva smesso di ascoltarlo. Sentiva solo il fruscio della strada sotto le ruote e pensava alla fotografia. Rivedendo l’immagine di quella donna nuda e incappucciata, la finta Jane Foley, avvertì un certo fremito nella zona inguinale.
Dovunque l’abbia presa…
Improvvisamente, seppe dove avrebbe potuto trovare la risposta, ammesso che ce ne fosse una. La donna in quella foto non si chiamava certo Jane Foley, ma senz’altro aveva un nome e lui conosceva la persona giusta a cui provare a chiederlo.
Quando tornò ad ascoltare Holland, scoprì che gli stava facendo un’altra domanda.
«…stiano proprio così male? Pensa che le prigioni di adesso siano migliori di quelle del…?»
«1969» disse Thorne. Johnny Cash in quel momento stava cantando la canzone dedicata al penitenziario di San Quentin, in cui diceva di odiare ogni palmo di quel luogo. I carcerati urlavano e applaudivano a ogni insulto mordace, a ogni invito a radere al suolo la prigione.
«Allora?» chiese di nuovo Holland, agitando l’opuscolo. «Le prigioni adesso sono migliori di quelle di allora, secondo lei?»
Nella mente di Thorne apparve il viso dell’uomo rinchiuso a Belmarsh e qualcosa dentro di lui s’indurì.
«Spero proprio di no.»
Poco dopo le sei, Eve Bloom chiuse il negozio a doppia mandata, fece pochi passi fino a un portone rosso scuro e fu a casa.
Era stata una buona idea affittare quell’appartamento così vicino al negozio. Non era molto costoso, ma lei sarebbe stata disposta a pagare anche di più per il piacere di potersi alzare all’ultimo minuto. Ogni secondo passato a letto era prezioso per chi, come lei, molte mattine doveva essere già sveglia e vestita a ore impossibili per andare al mercato dei fiori di Covent Garden a fare le sue ordinazioni e a litigare con i grossisti, mentre la maggior parte delle persone era ancora beatamente addormentata.
Le piaceva quel periodo dell’anno, quelle poche settimane estive in cui non era costretta a scegliere tra lavorare con sciarpa e guanti di lana, oppure rovinare i fiori con il riscaldamento centralizzato. Le piaceva chiudere quando c’era ancora luce. Contribuiva a renderle meno faticose le levatacce del mattino e dava a quel paio di ore tra la fine del giorno e l’inizio della sera un vago sentore di eccitazione, di possibilità, di attesa.
Chiuse la porta d’ingresso e salì le scale di legno che portavano al suo appartamento. Denise le aveva passate con la levigatrice e rimesse a nuovo in un weekend, mentre lei si era assunta la responsabilità di imbiancare le pareti. La maggior parte dei lavori domestici venivano spartiti in modo abbastanza equo tra loro due. C’erano, talvolta, momenti di freddezza e imbarazzo, a causa di uno yogurt sparito dal frigo o di un vestito preso in prestito senza permesso, ma in genere andavano d’accordo. Denise poteva essere un po’ eccessiva nel suo desiderio di controllare la vita degli altri, ma Eve, dal canto suo, sentiva la necessità di essere controllata ogni tanto. Era piuttosto disorganizzata e provava una piacevole sensazione al pensiero che qualcuno si occupasse di lei, anche se Den era spesso un po’ troppo protettiva. Quanto alla sua fissazione di fare sempre una lista delle cose mancanti, poteva risultare noiosa, ma faceva sì che il frigorifero fosse sempre pieno e la carta igienica non mancasse mai.
Eve appoggiò la borsa sul tavolo di cucina e attaccò la presa del bollitore dell’acqua. «Ehi, Hollins, vecchia ciabatta, vuoi un tè?» Ma ancor prima di terminare la frase, si ricordò che Denise, dopo il lavoro, sarebbe andata direttamente al pub vicino al suo ufficio, dove aveva appuntamento con Ben. L’aveva chiamata in negozio all’ora di pranzo per dirglielo e per invitarla a unirsi a loro, se ne avesse avuta voglia.
Eve andò in camera per mettersi una maglietta pulita, mentre aspettava che l’acqua bollisse. No, sarebbe rimasta a casa a istupidirsi davanti alla tivù con una bottiglia di vino bianco fresco. Non aveva voglia di cambiarsi e uscire. Fuori l’aria era calda e umida, il pub sarebbe stato fumoso e pieno di rumore e a lei sarebbe toccato reggere il moccolo a Denise e Ben, sempre intenti a sbaciucchiarsi…
In mutandine e reggiseno, si rimirò nello specchio dietro la porta della camera, mettendosi in posa. Sorrise ripensando al poliziotto che aveva risposto al telefono la settimana prima. Era impossibile farsi un’idea di come fosse soltanto dalla voce, ovviamente, ma lei ci aveva provato comunque e ciò che aveva immaginato non le era dispiaciuto affatto. Era abbastanza sicura, delitto o non delitto, che lui avesse flirtato un po’ con lei, al telefono. E sapeva per certo di averlo corrisposto. O era stata lei a iniziare?
Indossò una maglietta bianca e tornò in cucina a preparare il tè.
Avevano mandato un’auto in negozio, il giorno dopo quella telefonata, per ritirare la cassetta della segreteria telefonica. Lei aveva detto che sarebbe stata feEce di portarla di persona alla centrale di polizia, ma ovviamente loro avevano fretta di averla.
Mentre apriva le finestre dell’appartamento per cambiare l’aria, Eve cercava di decidere se una settimana di intervallo fosse abbastanza e, inoltre, se fosse meglio presentarsi in centrale senza preavviso, oppure telefonare prima. Non voleva sembrare invadente, ma aveva tutto il diritto di informarsi su ciò che stava succedendo, visto che era coinvolta nella vicenda, ed era naturale che fosse curiosa dopo la storia della telefonata. Informarsi sugli sviluppi dell’indagine era ciò che qualunque cittadino avrebbe fatto al suo posto.
Tutt’a un tratto, si rese conto che, mentre si spostava da una stanza all’altra, aveva lasciato la tazza di tè da qualche parte, ma non si ricordava più dove. “Chi se ne frega” pensò. Invece, si ricordava perfettamente dove fosse il vino.
Aprendo la bottiglia, si domandò se l’ispettore Thorne fosse uno di quegli strani tipi che si spaventano se una donna mostra interesse per loro.
Forse sarebbe stato meglio aspettare un altro paio di giorni.
Era una serata caldissima. Elvis, la gatta con disturbi emotivi, era inquieta. Seguiva Thorne da una stanza all’altra, miagolando lamentosamente. Thorne sudava, benché indossasse solo una camicia hawaiana aperta e un paio di calzoncini che aveva comprato in occasione della sua ultima breve frequentazione della palestra del quartiere. Mangiò un toast al formaggio, poi si accomodò sul divano a guardare un film. Abbassò il volume al minimo e rimase a osservare le immagini con la radio accesa in sottofondo. Sfogliò il numero di «Time Out» della settimana prima, mettendosi a cercare la band con il nome più ridicolo. Alla fine, poco prima di mezzanotte, esaurì le cose da fare e sentì di non poter più rimandare: prese il telefono e compose il numero di suo padre.
Era tardi, ma non importava. L’orologio interno di suo padre era una delle tante cose che avevano smesso di funzionare.
In un certo senso, il fatto che gli fosse stato diagnosticato il morbo di Alzheimer era stato un sollievo. Le sue eccentricità ora si chiamavano sintomi e Thorne poteva focalizzare l’attenzione su qualcosa di preciso. Si irritava ancora per le barzellette orrende e i commenti privi di senso del padre, ma non si sentiva più a disagio come prima. Ora tutto era cambiato, compreso il senso di colpa, che si era trasformato in una specie di rabbia: una malattia di cui soffrivano entrambi, padre e figlio, e che a volte li costringeva a scambiarsi i ruoli.
Ora su Thorne gravava anche un peso finanziario non sempre facile da reggere, ma al quale si stava abituando. Per quanto suo padre Jim fosse in ottima forma fisica per i suoi settantun anni, aveva comunque bisogno di una badante che lo assistesse in casa tutti i giorni e la sua pensione minima non bastava a coprire neppure in parte quelle spese. La zia Eileen, la sorella alla quale il vecchio non era mai stato molto legato, veniva da Brighton una volta alla settimana e teneva Thorne informato delle condizioni del padre.
Lui gliene era grato, anche se gli sembrava un costume molto britannico questo riunirsi delle famiglie quando ormai è troppo tardi.
«Papà…»
«Oh, grazie a Dio. C’è una cosa che mi sta facendo impazzire: chi è stato il primo Doctor Who? Avanti, dimmelo, perché ci sto perdendo la testa.»
«Non si chiamava Patrick Qualcosa? Capelli neri…»
«Troughton è stato il secondo, prima di Pertwee. Oh, merda, che confusione! Speravo che tu lo sapessi.»
«Guarda in quell’enciclopedia della televisione che ti ho regalato.»
«Eileen ha riordinato la casa e chissà dove l’ha messa. Chi altro potrebbe saperlo?»
Thorne cominciò a rilassarsi. Il padre stava bene. «Papà, dobbiamo iniziare a pensare al matrimonio.»
«Quale matrimonio?»
«Quello di Trevor, il figlio di Eileen. Tuo nipote.»
Suo padre fece un respiro profondo che, a causa della raucedine, suonò come un basso ruggito. «È una testa di cazzo. Lo era già quando si è sposato la prima volta e non vedo perché dovrei andare a vedere una testa di cazzo che si sposa per la seconda volta.»
Thorne doveva ammettere che il padre, al di là del suo linguaggio prosaico, non aveva tutti i torti.
«Hai promesso a Eileen che ci saresti andato.»
Ci fu un profondo sospiro, un colpo di tosse catarrosa e poi il silenzio. Thorne pensò che forse il padre aveva appoggiato la cornetta da qualche parte e si era allontanato.
«Papà…?»
«Manca ancora un sacco di tempo, no?»
«È la settimana prossima. Sabato prossimo, per la precisione. Eileen deve avertene parlato di sicuro. Parla solo di quello.»
«Dovrò mettermi un abito scuro?»
«Puoi metterti quello blu. È leggero. Così non avrai caldo.»
«Ma è un abito di lana, quello blu. Ci cuocerò dentro, in quello blu.»
Questa volta fu Thorne a fare un respiro profondo, pensando: “Fa’ come cazzo ti pare”. «Ascolta, passerò a prenderti, dormiremo lì e…»
«Non ho nessuna intenzione di salire su quella trappola mortale che tu chiami automobile.»
«Prenderò un’auto a noleggio, va bene? Vedrai, ci divertiremo. Allora?»
Thorne udì il rumore di un oggetto metallico con cui il padre probabilmente giocherellava. Ultimamente gli era venuta la mania di comprare radio di seconda mano. Le smontava e poi gettava via i pezzi.
«Papà, siamo d’accordo? Possiamo discutere dei particolari più avanti, se vuoi.»
«Tom?»
«Sì?»
Nel silenzio che seguì a Thorne sembrò di udire il rumore dei pensieri che si perdevano per strada, scivolavano in una fessura e sparivano nelle tenebre. Alla fine l’ingranaggio ricominciò a girare, come un film che riprende la giusta velocità dopo un fermo immagine.
«Scopri chi è stato il primo Doctor Who. Lo farai, figliolo?»
Thorne deglutì. «Chiedo un po’ in giro e domani ti chiamo, okay?»
«Grazie…»
«E ascolta, papà, tira fuori dall’armadio l’abito blu. Sono sicuro che non sia di lana.»
«Oh, merda, non mi avevi detto che avrei dovuto indossare un abito…»
22 dicembre 1975
Si trovavano entrambi in cucina. I pochi metri che li separavano erano una distanza infinita. Solo tre giorni a Natale. Dalla radio sul davanzale le canzoni tradizionali provvedevano a riempire il silenzio. Classici stagionali di Elvis e di Sinatra, mescolati con pezzi natalizi più recenti degli Slade e dei Wizzard. Quell’orrenda canzone dei Queen era il pezzo più trasmesso quel Natale. Lui già la detestava di per sé e ora sapeva che non avrebbe mai più potuto ascoltarla senza pensare a lei. Al suo corpo, prima e dopo. All’espressione che doveva aver avuto sul viso, a Franklin che la spingeva a terra in mezzo alle scatole di cartone…
Ora lei stava lavando i piatti e gli dava le spalle. Lui sedeva al tavolo e leggeva il «Daily Mirror». Le notizie, la schiuma del detersivo, il deejay assurdamente allegro… Cose da guardare e ascoltare mentre, separatamente, ognuno dei due pensava a ciò che era accaduto al commissariato quella mattina. Al poliziotto nella sala interrogatori, che strizzava l’occhio all’agente donna, poi si chinava sulla scrivania e si metteva a urlare.
Lui pensava al viso del poliziotto. Al suo sorriso che era come uno schiaffo.
Lei pensava all’odore dell’uomo.
«Bene» aveva detto il poliziotto. «Ripetiamo tutto da capo.» E dopo l’aveva ridetto. Ancora. E ancora. Scuotendo la testa con indulgenza, quando lei alla fine era scoppiata in lacrime, e facendo cenno all’agente donna di avvicinarsi con un fazzoletto.
Un paio di minuti, un bicchiere d’acqua, poi avevano ricominciato.
Il sergente camminava su e già per la stanza, come se in tanti anni di pratica non avesse mai imparato la differenza tra vittima e criminale.
Lui non aveva fatto né detto alcunché. Avrebbe voluto farlo, ma si era convinto che fosse meglio evitarlo. Era rimasto seduto a guardare e ad ascoltare sua moglie che piangeva, pensando a cose stupide, tipo come mai, con il freddo che faceva, lui era infagottato nel suo cappotto più pesante, mentre quel bastardo di sergente era in maniche di camicia. E sudava, perfino, sotto le ascelle.
Ora alla radio c’era un coro…
Si alzò e si diresse lentamente verso il lavello, fermandosi dietro di lei. Sentì la moglie irrigidirsi.
«Devi dimenticare quello che ha detto il sergente, capito? Faceva soltanto il suo lavoro. Voleva essere certo che tutto fosse davvero accaduto come hai detto tu. Sa che al processo sarà molto peggio. Sa quanto possono essere duri gli avvocati della difesa. E credo che abbia voluto prepararci, con l’idea che, ripetendo tante volte il racconto adesso, in tribunale sarà più facile.» La testa di lei era immobile. Le mani invece si muovevano dentro la bacinella di plastica bianca.
«Sai cosa ti dico?» disse lui. «Lasciamo passare il Natale, poi per Capodanno potremmo andarcene via per un po’. Cercare di recuperare l’equilibrio…»
Lei sussurrò qualcosa che lui non capì.
«Puoi ripetere, amore?»
«Il dopobarba di quel poliziotto» disse lei. «All’inizio ho pensato che fosse lo stesso di Franklin. Credevo di vomitare. Era così forte…»
Iniziò a urlare non appena lui le sfiorò la nuca e urlò ancor più forte quando si voltò di scatto e lo colpì sul naso con la tazza che aveva in mano.
Poi urlò per ciò che aveva fatto e lo abbracciò e caddero insieme sul linoleum, scivoloso di sangue e detersivo.
Nel frattempo, voci di bambini cantavano di vischio e agrifoglio.
All’epoca in cui Peel Centre era un centro di addestramento per cadetti, Becke House era un dormitorio. A volte Thorne aveva ancora la sensazione, girando un angolo, o aprendo la porta di un ufficio, di sentire un odore di sudore e nostalgia di casa.
Non c’era da stupirsi, quindi, che circa un mese prima la notizia che sarebbero state apportate delle migliorie avesse elettrizzato tutti. In realtà, si era trattato soltanto di un aumento del budget per le spese di cancelleria, di una nuova macchina per il caffè e di un altro cubicolo senz’aria di cui Brigstocke si era immediatamente appropriato.
Ora c’erano tre uffici nello stretto corridoio che partiva dalla sala di pronto intervento più grande.
Quello nuovo era di Brigstocke, quello accanto era condiviso da Thorne e Yvonne Kitson, mentre nel più piccolo Stone e Holland si contendevano il cestino della carta straccia e l’unica sedia provvista di un cuscino.
Thorne detestava Becke House. Quel posto lo deprimeva e gli toglieva ogni energia, anche quella per odiarlo nel modo appropriato. Aveva sentito parlare di una “sindrome dell’edificio malato” e si era convinto che la malattia di quel posto fosse terminale.
Aveva passato la mattina seduto alla scrivania, a sudare come un maiale e a leggere tutti i documenti relativi al caso. Aveva letto il referto dell’autopsia, il rapporto del medico legale e perfino quello che lui stesso aveva scritto dopo la visita al carcere di Derby. Aveva letto gli appunti di Holland sulla perquisizione in casa di Remfry, i colloqui con i parenti delle donne che aveva violentato e le dichiarazioni rilasciate da alcuni suoi compagni di cella di tre prigioni diverse.
Una quantità di carta e una sola pista promettente. Un ex compagno di cella di Remfry aveva menzionato un detenuto di nome Gribbin, con cui Remfry aveva detto di aver litigato quando erano entrambi in attesa di giudizio a Brixton. Gribbin era stato rilasciato sulla parola quattro mesi prima di Remfry, ma si era sottratto al regime di libertà vigilata e al momento era ricercato…
Quando Thorne ebbe finito di leggere, si mise a farsi vento con una cartelletta vuota, fissando le misteriose bruciature sul rivestimento in polistirolo del soffitto. Poi rilesse tutto di nuovo.
Entrò Yvonne Kitson. Thorne alzò gli occhi, appoggiò i fogli sulla scrivania e guardò fuori dalla finestra aperta.
«Sto meditando di buttarmi di sotto» disse. «Il suicidio mi sembra un’opzione attraente. Se non altro, durante la caduta dovrei sentire un po’ di fresco.»
Lei rise. «Siamo soltanto al terzo piano. Dov’è il ventilatore?»
«Se l’è preso Brigstocke.»
«Tipico.» L’ispettrice Kitson si sedette su una sedia contro la parete e infilò una mano in una grossa borsa. Quando tirò fuori il suo contenitore della Tupperware, Thorne rise.
«È mercoledì, quindi deve essere al tonno.»
Lei aprì il contenitore e ne estrasse un sandwich. «All’insalata di tonno, per la precisione. Mio marito oggi si è sbilanciato e ci ha messo dentro una foglia di lattuga.»
Thorne si appoggiò allo schienale della sedia, battendosi sul braccio con un righello di plastica. «Come fai, Yvonne?»
Lei lo fissò a bocca piena. «Come faccio cosa?»
Sempre con il righello in mano, Thorne allargò le braccia. «Questo. Tutto questo. E, in più, tre figli da crescere…»
«Anche l’ispettore capo ha dei figli.»
«Sì, ed è nel casino più totale, come tutti noi. Tu, invece, sembri farcela senza neppure sudare. Lavoro, casa, bambini, cani, e anche il pranzo preparato.» Tese il righello verso di lei, come fosse un microfono. «Ci dica, ispettrice Kitson, qual è il suo segreto?»
Lei si schiarì la voce, stando al gioco. «Talento naturale, un marito che crede a tutto ciò che dico e un’organizzazione ferrea. Inoltre, non mi porto mai il lavoro a casa. Altre domande?»
Thorne scosse la testa e appoggiò il righello sulla scrivania.
«Bene, vado a prendere una tazza di tè. Vuoi venire anche tu?»
Percorsero il corridoio, superando le porte degli altri uffici, verso la sala di pronto intervento.
«Parlavo sul serio, prima» disse Thorne. «Tu mi stupisci, a volte.»
Nessuno nella squadra conosceva Yvonne Kitson da molto tempo, ma a parte qualche commento occasionale da parte di colleghi maschi più anziani e meno efficienti, non era mai stato detto nulla di male su di lei.
Tuttavia, l’avrebbe mandata su tutte le furie il fatto di scoprire che molti colleghi, compreso Thorne, trovavano in lei un tratto piacevolmente materno. Era qualcosa legato al suo stile più che al suo aspetto. Aveva trentatré anni, capelli biondo cenere, era piuttosto bella, non vestiva mai in modo appariscente. Aveva un carattere nient’affatto spigoloso, faceva bene il suo lavoro e non sembrava mai turbata. Si capiva subito che era destinata a una rapida carriera.
Yvonne Kitson si chinò per prendere il bicchiere di tè dal distributore automatico e lo passò a Thorne. «Anch’io parlavo sul serio, quando ho detto che non porto mai il lavoro a casa.» Poi inserì altri spiccioli nella macchina. «Non potrei neppure se volessi, non c’è abbastanza spazio…»
Tutte le finestre della sala di pronto intervento erano aperte. Dalle scrivanie e dagli schedari volavano pezzi di carta.
Thorne sorseggiò il tè, ascoltando il fruscio dei fogli e i grugniti di quelli che dovevano chinarsi a raccoglierli, e pensò a quanto era diverso da quella donna. Lui si portava il lavoro dappertutto, non solo a casa. Tanto si trattava di una casa vuota. Aveva divorziato dalla moglie Jan cinque anni prima, dopo che lei aveva preso una sbandata per un professore di scrittura creativa. Da allora Thorne aveva avuto un paio di avventure, ma nulla di serio.
Yvonne Kitson infilò il bicchiere di plastica bollente in un altro bicchiere vuoto e soffiò sul tè. «A proposito, è una mia impressione, o davvero nel caso Remfry non abbiamo fatto passi avanti?»
Thorne vide Russell Brigstocke che, dal lato opposto della sala, gli faceva cenno di raggiungerlo nel suo ufficio. «No, non è una tua impressione…» rispose alla collega, mentre si avviava.
Quando Russell Brigstocke era davvero incazzato, aveva una faccia capace di far cagliare il latte. Quando invece cercava di apparire serio, c’era sempre qualcosa di melodrammatico nella sua espressione, un modo di atteggiare la testa e le labbra che strappava sempre un sorriso a Thorne.
«Allora, come siamo messi, Tom?»
Thorne cercò invano di non sorridere. Poi pensò che fosse meglio dargli una risposta più ottimista di quella data a Yvonne Kitson. «Nulla di conclusivo, ma andiamo avanti, signore.» Ci voleva sempre il “signore”, quando Brigstocke aveva quella faccia. «Abbiamo rintracciato la maggior parte dei parenti maschi delle vittime. È una pista non molto interessante, finora, ma potremmo anche avere fortuna. Abbiamo interrogato gli ex compagni di cella di Remfry e la storia su quel Gribbin sembra promettente.»
Brigstocke annuì. «Anche secondo me. Se qualcuno mi avesse quasi staccato il naso con un morso, sarei anch’io ansioso di pareggiare i conti.»
«Remfry sosteneva di essere stato lui a farlo. Forse era solo una vanteria. In ogni modo, non siamo ancora riusciti a trovare Gribbin.»
«Che altro?»
Thorne alzò le mani. «Questo è tutto, per il momento. Appena il comandante Jeffries ci farà sapere qualcosa, potremo cominciare a controllare l’IIS.»
«Jeffries si è già fatto sentire» comunicò Brigstocke. «Ma non eccitarti troppo…»
Stephen Jeffries era un funzionario di polizia di alto rango che lavorava come consigliere ufficiale per il Servizio Carcerario di Sua Maestà e quindi aveva il suo ufficio nel quartier generale del Servizio, un edificio pretenzioso dalle parti di Millbank da cui si potevano vedere gli uffici dell’MI6 dall’altra parte del fiume.
Jeffries aveva indagato con discrezione per verificare la possibilità di una fuga di dati dall’IIS. Se era da lì che l’assassino aveva preso le sue informazioni, parecchie persone avrebbero voluto sapere come ci era riuscito.
«Secondo il parere provvisorio del comandante Jeffries, è improbabile che questa linea di indagine si riveli fruttuosa.»
«Chiedo scusa, ma non ho portato il dizionario di burocratese…»
«Non fare lo scemo, Tom.»
Thorne si strinse nelle spalle. Sembrava che Jeffries provenisse dallo stesso posto che aveva prodotto il sovrintendente Trevor Jesmond. «Sono tutt’orecchi.»
Brigstocke gettò un’occhiata al foglio che aveva sulla scrivania, leggendo rapidamente ad alta voce. «“Le persone che hanno accesso al sistema lavorano all’interno dell’edificio del quartier generale, nonché nei dodici uffici regionali di Londra, Yorkshire, Midlands, eccetera eccetera…”»
Thorne gemette. «Stiamo parlando di centinaia di persone…»
«Migliaia. Controllarle tutti richiederebbe una quantità di uomini di cui non disporremo mai.»
Thorne annuì. «Quindi, anche se la linea d’indagine dovesse rivelarsi fruttuosa, i frutti non si vedrebbero molto in fretta.» Prese il bicchiere di plastica vuoto che si trovava sulla scrivania di Brigstocke, si voltò e mirò al cestino della carta straccia.
«Già» disse Brigstocke.
Thorne mancò il bersaglio di quasi mezzo metro. Tornò a voltarsi verso l’ispettore capo. «E se si trattasse di un hacker?»
«Porca miseria, qualche migliaio di sospetti è già abbastanza, perché vuoi farli diventare milioni?»
«Non lo voglio affatto, ma se il sistema non è sicuro…»
«Se quel sistema non è sicuro, parecchie persone riceveranno un bel calcio nel culo. L’IIS contiene informazioni dettagliate su tutti i prigionieri del paese, terroristi compresi. Se dovessimo scoprire che qualcuno è riuscito a penetrare nel database, per qualunque motivo… Cristo, il caso di Douglas Remfry arriverebbe in parlamento.»
«Ma stanno controllando, comunque?»
«Per quel che ne so…»
«Hanno dei programmi che li avvisano se qualcuno si è introdotto nel sistema, giusto? Come una specie di allarme.»
«Non chiederlo a me» disse Brigstocke. «Io a malapena sono capace di mandare un’e-mail.»
Fino a poco tempo prima, anche Thorne si trovava nella stessa situazione, ma poi si era messo d’impegno ed era finalmente riuscito a familiarizzare con la moderna tecnologia. Aveva perfino acquistato un computer per casa, anche se per il momento non l’aveva usato molto.
«Quindi, da una parte abbiamo la scarsità di risorse umane e dall’altra un delicato problema a livello politico. Il comandante Jeffries ha qualche suggerimento su quel che possiamo fare?»
Brigstocke si tolse gli occhiali, asciugò il sudore dalla montatura con un fazzoletto e se li rimise. «No, ma ce l’ho io. Secondo me ci sono altri modi in cui l’assassino può avere ottenuto le informazioni che cercava su Remfry.»
«Continua…»
«Per esempio, potrebbe averle ottenute dalla famiglia. Trova il nome della madre sull’elenco telefonico, la chiama e le dice di essere un vecchio amico del figlio, che vorrebbe andare a trovarlo in prigione…» Thorne annuì. Era possibile. «Una volta scoperto in quale carcere si trova Remfry e quando è previsto il suo rilascio, comincia a mandare le lettere…»
«E scopre tutto solo con una telefonata alla madre di Remfry?»
«La madre di Remfry… o forse un membro dello staff della prigione. Quel che voglio dire è che ci sono altre piste che potremmo seguire.»
«Qual è il movente, Russell? È la domanda importante cui non abbiamo ancora risposto. Perché Remfry è stato ucciso?»
Brigstocke sbuffò, spingendosi indietro sulla sedia. «E che ne so! Comunque varrebbe la pena di fare un’altra chiacchierata con la signora Remfry…»
Qualcosa, in ciò che Brigstocke aveva detto, aveva fatto accelerare le pulsazioni di Thorne. Appena un secondo… come il viso di qualcuno in sogno, come un oggetto noto visto da un’angolazione insolita… sparito prima che lui potesse riconoscerlo per ciò che era.
Thorne stava ancora cercando di risolvere quel dilemma, quando disse: «Sto seguendo anche un’altra pista. Qualcosa che ha a che fare con quelle foto».
Brigstocke si chinò in avanti, inarcando un sopracciglio.
«Ti terrò al corrente, se scopro qualcosa» disse Thorne. Guardò l’orologio. «Cazzo, sono in ritardo…»
Il cellulare di Holland squillò proprio mentre lui attraversava la strada per andare a farsi la solita pinta prima di pranzo. Andy Stone lo fissò con la stessa espressione con cui erano soliti guardarlo gli altri colleghi, quando notavano la sua faccia all’apparire della parola “casa” sul display del cellulare.
«Merda» disse Holland.
Stone fece qualche passo verso la porta del pub, poi si fermò. «Ne ordino una anche per te, Dave?»
Holland premette il bottone per rispondere e si portò il cellulare all’orecchio. In quel momento incrociò lo sguardo di Stone e gli fece segno di no con la testa.
Sophie stava ancora piangendo, quando venti minuti dopo lui entrò in casa.
«Cosa c’è?» chiese, passandole un braccio intorno alle spalle e conoscendo in anticipo la risposta.
«Nulla. Mi dispiace, so che non avrei dovuto chiamarti…» Le parole gli si infilarono nel colletto insieme alle lacrime di lei.
«È tutto a posto, non preoccuparti. Ascolta, ho solo un quarto d’ora, ma possiamo mangiare qualcosa insieme. Tornerò al lavoro quando ti sentirai più calma.»
Mancavano meno di tre mesi al parto. Era facile imputare agli ormoni quegli sbalzi di umore settimanali, ma Holland sapeva che c’era anche dell’altro. Sapeva che Sophie aveva paura. Paura della scelta che lui avrebbe fatto tra lei e il lavoro. Paura che lui si sentisse costretto da lei a fare quella scelta. Paura che il bambino non bastasse a convincerlo a scegliere lei.
Holland sapeva tutto questo perché anche lui aveva paura. Più di lei.
Si sedettero sul divano e rimasero abbracciati finché Sophie si fu calmata. Holland le parlò a bassa voce, sentendo il contatto con la sua pancia dura, in cui cresceva il bambino, e tenendo d’occhio lo scorrere dei minuti sul display del videoregistratore di fronte a loro.
«Thorne.»
«Buongiorno, sono Eve Bloom.»
Lui ci mise qualche secondo a ricordare dove aveva già sentito quel nome e quella voce. «Oh, buongiorno. Mi scusi, ero distratto. Pensavo già al pranzo.»
«Ho chiamato nel momento sbagliato? Se è così…»
«No, no, va benissimo. Che cosa posso fare per lei?»
«Oh, ecco… volevo sapere come stavano andando le indagini. È una cosa stupida, visto che non ho la più pallida idea di cosa stiate cercando, ma… ero curiosa di sapere se la cassetta che avete prelevato dal mio negozio vi ha aiutati in qualche modo a risolvere il caso.»
Thorne ricordava la nota divertita nella voce della donna. E stavolta fu contento di sentirla.
«Capisco, ma io avrei dovuto trovarmi in un posto già dieci minuti fa…»
«Non c’è alcun problema, non intendevo disturbarla adesso…»
«Come?»
«Vogliamo pranzare insieme, sabato? Lei potrà farmi qualche insulsa domanda sulle segreterie telefoniche e, con la scusa che io sto ancora collaborando con la polizia nelle indagini, mettere tutto in rimborso spese. Va bene a mezzogiorno e mezzo?»
Thorne chiuse la comunicazione pochi minuti dopo, proprio mentre Yvonne Kitson entrava in ufficio. «Come mai quel sorriso?» gli chiese l’ispettrice.
«Se lo scordi, signor Thorne. Non ho nessuna intenzione di mangiare zampe d’anatra.»
Il fatto che Dennis Bethell fosse grasso come un maiale e avesse una voce da ragazzina del coro, faceva sembrare un po’ ridicola ogni cosa che diceva.
Il ristorante era stata un’idea di Thorne. L’ultima volta si erano visti in un pub e la voce di Dennis, come spesso accadeva, aveva attirato non poco l’attenzione. Un pranzo in un posto tranquillo era sembrato a Thorne un’idea migliore, anche perché quel ristorante nel cuore di Chinatown era la sua passione. Si chiamava New Moon e serviva il miglior dim sum della città. Thorne amava il rituale quasi più del cibo. Si divertiva a vedere quelle vecchie donne dall’aspetto scontroso che spingevano carrelli avanti e indietro e gli piaceva fermarle, chiedere loro di sollevare il coperchio dei vassoi e poi scegliere cosa mangiare.
Thorne aveva dovuto spiegare questo sistema a Bethell, il quale, quando lui era arrivato nel locale con venti minuti di ritardo, se ne stava seduto in un angolo con lo sguardo confuso. Non aveva certo faticato a riconoscerlo. Bethell era alto un metro e novanta e aveva un fisico da lottatore, i capelli ossigenati e induriti dal gel e una quantità di gioielli d’oro. In un ristorante in cui la clientela era quasi tutta cinese saltava decisamente all’occhio. Quel giorno indossava pantaloni mimetici e una maglietta blu con la scritta «Bitch».
«Vada per la zuppa di pinna di pescecane e tutto il resto. Ma le zampe d’anatra, no. Che orrore…»
«Rilassati, Kodak» disse Thorne, sorridendo alla vecchia cinese che stava sollevando un altro coperchio di bambù. «Ordino io per te.»
Mentre mangiavano, chiacchierarono per un po’ del più e del meno. Thorne voleva mettere il suo uomo a proprio agio, ma anche godersi il viavai del ristorante.
A un certo punto, dopo essersi infilato in bocca un gambero pastellato, spinse attraverso il tavolo la foto di Jane Foley. Bethell si pulì le dita dalla salsa di soia e la prese in mano.
«Notevole» disse. «Davvero notevole.»
Thorne sapeva che si riferiva alla qualità della foto e non alla modella. Da pornografo incallito qual era, le donne nude non gli facevano più un grande effetto.
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta» disse Thorne.
«Già, davvero ben fatta. Chi l’ha scattata?»
«A dire il vero, Kodak, pensavo che se c’è qualcuno in grado di scoprirlo, quello sei tu.»
Continuarono a chiacchierare. Bethell raccontò che gli affari andavano a meraviglia. All’inizio si era sentito minacciato dalla pornografia via Internet, ma ora la sua attività prosperava come non mai. Le foto delle sue serie intitolate Barnyard, del 1983, venivano scaricate continuamente. Il nome di Bethell era diventato quasi leggendario tra gli appassionati di pornografia in Rete.
Le riviste porno di alta qualità di Dennis Bethell facevano arrapare gli uomini fin dagli anni in cui Thorne era appena entrato in polizia. Dal soft all’hard più spinto, Bethell esprimeva il suo genio in tutto ciò che implicava obiettivi e capezzoli. Era innocuo e si era rivelato una fonte affidabile per anni. A Thorne sembrava un eccentrico da vaudeville, con quel fisico da lottatore, l’assurdo taglio di capelli e lo slogan “Niente bambini!”.
Bethell fissò con attenzione la foto, la spostò sotto la luce per esaminarla meglio e disse: «Sì, forse…».
«“Sì, forse” non è abbastanza, Kodak.» Thorne alzò un dito per attirare l’attenzione della donna dietro il bancone del bar, poi sollevò la bottiglia vuota di Tsing Tao, ordinandone un’altra.
«Non è tanto semplice» disse Bethell. «Oggi c’è un gran mercato di roba professionale fatta in modo da sembrare opera di dilettanti. Come se uno avesse scattato una foto erotica alla sua ragazza, capisce cosa voglio dire? E ciò vale soprattutto per roba come questa.»
«Come questa in che senso?»
«Sadomaso. Manette, fruste e catene. Feticismo.»
Bethell sollevò di nuovo la foto che Thorne aveva fissato ormai centinaia di volte. Era stata scattata dall’alto. La donna aveva le mani legate dietro la schiena e il cappuccio stretto intorno al collo.
«Tu fai mai roba del genere?» chiese Thorne.
Bethell stava masticando una polpetta di granchio. Inghiottì il boccone e rispose con diffidenza, come se la domanda mirasse a fregarlo. «Sì… ne ho fatta parecchia. La mia è meglio di questa, però.»
«Naturalmente. Senti, se questo è un lavoro professionale, tu saresti in grado di scoprire chi ne è l’autore?»
«Potrei chiedere in giro, suppongo, ma…»
«Vale la pena di cercare il posto dove è stata sviluppata la pellicola?»
«No, è una perdita di tempo. Se non è un perfetto idiota, il tizio ha fatto tutto da solo. Macchina digitale, foto scaricata direttamente sul computer. Facilissimo…»
«Scopri quello che puoi, allora. Voglio sapere chi è la modella e chi ha pagato per la foto.»
Bethell fece una faccia sofferente. «Oh, cerchi di capire, signor Thorne. Qualche informazione va bene, ma quel che mi chiede significa mettersi a fare il poliziotto al posto suo.»
La cameriera che stava portando la birra di Thorne fece un sorriso sprezzante all’udire lo squittio lamentoso di Bethell e si allontanò in fretta. Per fortuna lui non se ne accorse.
«Che cosa c’è di male, Kodak? Un giorno potresti voler cambiare lavoro. La polizia è sempre alla ricerca di giovani brillanti come te…»
«Lei a volte riesce a essere un vero stronzo, signor Thorne.»
Thorne si chinò verso di lui, puntandogli contro le bacchette. «Già, e tanto per dartene una prova, se non farai un lavoro come si deve con questa foto, farò irruzione nel tuo laboratorio, prenderò l’obiettivo più grosso che hai e te lo ficcherò su per il culo, così potrai fotografarti l’intestino. Ora passami i gamberi, per favore.»
Bethell rimase in silenzio per alcuni minuti, imbronciato. Poi prese la foto e se la infilò in una tasca dei pantaloni.
«Dovresti provare una di queste zampe d’anatra, Kodak» disse Thorne. «Sai che aiutano a nuotare più veloci?»
Bethell spalancò gli occhi. «Vuole prendermi in giro, signor Thorne?»
Welch era in attesa sulla soglia, quando Caldicott apparve dalla parte opposta del pianerottolo con il carrello della posta. Mentre si avvicinava lentamente, fermandosi davanti a ogni porta, Welch vide che il suo viso non era guarito bene. Un lato, dalla bocca alla fronte, era lucido come se fosse sudato e aveva un colore lattiginoso. Un reticolo di rughe bianche risaltava contro il rosso vivo di ciò che restava delle sue labbra.
Il carrello si fece un po’ più vicino. Caldicott sorrideva. La consegna della posta era un momento piacevole per lui, soprattutto dopo le settimane trascorse in ospedale. Un paio di stronzi dell’ala B lo avevano beccato nella lavanderia. Non avrebbero dovuto trovarsi lì, ma qualcuno aveva chiuso un occhio, lasciando una porta aperta.
Una delle donne di Caldicott era una ragazzina di quattordici anni. Caldicott aveva giurato a Welch che pensava che fosse più grande e che la carne tenera non gli piaceva. Di sicuro Welch poteva capirlo, aveva detto con voce lamentosa. Anche lui doveva essersi trovato in una situazione analoga. Insomma, certe adolescenti, di questi tempi, sembravano tutto tranne che ragazzine. Welch aveva detto che infatti lo capiva. Anche lui si era trovato in situazioni analoghe e ringraziava la sua buona stella che la ragazza per cui era finito in galera avesse già compiuto sedici anni, anche se da poco. Caldicott doveva aver detto la stessa cosa a quegli animali della lavanderia. Sicuramente li aveva supplicati, ma quelli erano uomini che badavano solo ai fatti concreti, senza curarsi di ciò che uno come Caldicott credeva o pensava.
Uno di loro l’aveva preso per i coglioni, mentre l’altro aveva vuotato l’asciugatrice, sistemando il bucato nel secchio di plastica rossa. Poi, mentre Caldicott gridava e nessuno lo sentiva, gli avevano infilato la testa nel cestello, premendogli la faccia contro il metallo bollente…
Caldicott consegnò a Welch una lettera, con un sorriso che gli tendeva la pelle sopra gli incisivi giallastri. Welch la prese, pensando che quel poveretto sembrava un fantasma, e si ritirò rapidamente dietro la porta.
La busta era stata aperta, ovviamente, ma a lui ormai della privacy non importava più nulla da un pezzo. Aveva solo pochi minuti per leggere la lettera in pace, da solo. L’ultima lettera che sarebbe stato costretto a leggere in una cella soffocante, ammorbata dalla puzza di merda del suo compagno.
C’era un’altra foto. Era la prima cosa che aveva cercato e aveva quasi lanciato un grido, quando ne aveva sentito lo spessore tra le pagine della lettera.
Welch la tirò fuori e se l’appoggiò sul petto, senza guardarla. Poi la sollevò lentamente, un po’ alla volta, emettendo un gemito soffocato quando la vide. Il cappuccio era scomparso, ma lei dava le spalle alla macchina fotografica e teneva la testa abbassata. I capelli corti erano a malapena visibili e il viso era nascosto. Era seduta sui talloni, con le mani legate dietro la schiena, le spalle leggermente in ombra e un bel culo rotondo…
La porta si aprì e Welch non fu più solo. Sollevò le ginocchia per nascondere l’erezione e si appoggiò la foto sul petto. Quando il suo compagno di cella si lasciò cadere sulla branda di fronte con un grugnito, Welch aveva gli occhi chiusi e ripassava mentalmente ogni dettaglio della nudità di Jane.
7 maggio 1976
«Signore e signori, forse la cosa vi sorprenderà, ma io vorrei concentrarmi per qualche minuto sulle prove fornite da un testimone chiamato dalla difesa.
Vi invito a considerare la dichiarazione resa dal sergente Derek Turnbull.
Si tratta di un poliziotto dal curriculum esemplare e credo che la sua testimonianza abbia un grande valore. Dovremmo prendere molto sul serio ciò che gli abbiamo sentito dire nel corso di questo processo.
Ricordate le sue parole…
Ricordate ciò che ha detto il sergente riguardo ai colloqui da lui avuti con la donna che accusa il mio cliente di stupro. Ha parlato di “confusione”, di “mancanza di concentrazione” da parte della donna. Io vi chiedo, allora, un incidente tanto drammatico non dovrebbe essere facile da ricordare? Non dovrebbe essersi impresso a fuoco nella memoria? Naturalmente sì. Eppure questa donna non sa dire con precisione l’ora in cui è avvenuto, non ha saputo descrivere in modo coerente come era vestito il mio cliente al momento della presunta violenza. Solo un sacco di chiacchiere irrilevanti su una lozione dopobarba…
Ricordate le parole del sergente Turnbull quando ha descritto i risultati dell’esame fisico. Non è stato trovato nulla sotto le unghie della donna, nulla che suggerisse una resistenza qualunque. Il sergente ha ripetuto alla corte la risposta della donna quando le è stata posta questa domanda: “Non ho potuto ribellarmi”.
Non ha potuto, o non ha voluto?
Ricordate anche cosa ha detto il sergente quando ha descritto le circostanze del primo colloquio, del primo esame fisico. Si è trattato di un esame “del tutto inutile”, per ripetere le sue parole, poiché ha avuto luogo il mattino successivo alla presunta violenza e dopo che la donna aveva fatto una doccia. Ricordate le parole della sua collega, quando ha descritto il vestito che vi è stato mostrato come Reperto A? “Troppo carino per essere indossato al lavoro”. Io metto insieme tutte queste cose, signore e signori, e il risultato è una versione completamente diversa di ciò che è accaduto in quel magazzino, lo scorso dicembre…
Quel vestito non potrebbe essere stato strappato durante un rapporto sessuale frenetico e consensuale, come ha dichiarato il mio cliente? I lividi non potrebbero essere dovuti semplicemente a una passione eccessiva? E quella doccia fatta per “lavare via” l’odore del mio cliente, non potrebbe aver avuto lo scopo di nascondere al marito la verità di quel rapporto extraconiugale?
Vi ho chiesto di ricordare le parole di un funzionario di polizia la cui testimonianza era intesa a danneggiare l’uomo che io qui rappresento. Invece, sicuramente senza volerlo, ha ottenuto il risultato opposto. Vi ho chiesto di considerare le sue parole e vedo che lo state facendo. Vedo dai vostri volti, signore e signori della giuria, che quelle parole hanno instillato in voi un dubbio legittimo. E se dubitate, com’è logico, della verità di ciò che questa donna sostiene, allora so che la vostra decisione, dopo che vi sarete ritirati a deliberare, sarà molto rapida.
La legge spiega chiaramente come regolarsi in caso di ragionevole dubbio. E poiché sono certo che si tratti proprio di questo, so che farete la cosa giusta e assolverete il mio cliente…»
Un’altra serata calda e umida. Nell’aria l’odore pesante di un temporale in arrivo. Brani di conversazione dei passanti entravano in soggiorno dalla finestra aperta.
Thorne aveva cenato in maglietta e calzoncini, con il sottofondo del frastuono di una festa dall’altra parte della strada. Non sapeva che cosa lo irritasse di più, se le urla e lo stereo ad altissimo volume, o il fatto che quegli sconosciuti si stessero divertendo tanto.
Elvis aveva ripulito il piatto leccandolo a dovere. Thorne aveva aperto una lattina di birra economica, cercando di ignorare la musica e le risate e aveva trascorso un paio d’ore a leggere. Una sera d’estate dedicata alla morte violenta.
Stava leggendo i rapporti basati sulle ricerche del CRIMINT, il database del Criminal Intelligence, in cerca di casi simili a quelli dell’omicidio di Remfry.
Holland e Stone avevano fatto un buon lavoro, consistito per lo più nel procedere per prove ed errori, restringendo le ricerche fino a trovare qualcosa di significativo. Avevano inserito parole chiave e confrontato i risultati con quelli di altre ricerche. Immettendo nel computer le parole “stupro” e “omicidio” erano venuti fuori alcuni casi in cui la vittima era di sesso maschile e i risultati erano stati sottoposti a un’ulteriore verifica incrociata con quelli ottenuti inserendo parole chiave più specifiche.
“Sodomia”. “Strangolamento”. “Cappio”. “Corda da bucato”.
Era emersa, così, una serie di omicidi insoluti che risaliva fino a cinque anni prima. Otto ragazzini brutalmente strangolati, i cadaveri abbandonati in boschi, cave di ghiaia o giardini pubblici. Un gruppo di pedofili troppo ben organizzati o troppo ben ammanicati. Imprendibili.
Un uomo assalito in casa sua. Legato con una corda da bucato, mentre la casa veniva saccheggiata, e poi picchiato a morte senza nessuna ragione apparente. Thorne pensò a Darren Ellis e ai due coniugi anziani che aveva legato e derubato.
Un catalogo di violenze sessuali e omicidi, molti dei quali ancora insoluti. I particolari più turpi ridotti a semplici dati in un archivio informatico dell’orrore. Una risorsa cui attingere nella speranza che gli orrori del passato servissero a gettare luce su quelli del presente.
Ma non quella volta.
Holland aveva, in realtà, scovato due casi di un certo interesse: un giovane di circa trent’anni, trovato nel bagagliaio di una macchina, nel 2002, violentato e strangolato con un laccio non rinvenuto. Un sessantenne assalito in un parcheggio e strangolato con una corda da bucato, nel 1996.
Entrambi i documenti erano stati esaminati attentamente e poi accantonati.
Thorne rimise i rapporti nella sua ventiquattrore e si affacciò alla finestra. Per una decina di minuti fissò la casa dove si teneva la festa, cercando senza successo di identificare la canzone che sentiva e di smettere di pensare a persone morte da anni, a un corpo che non era stato ancora sepolto e alla foto che aveva dato a Dennis Bethell.
Poi chiamò suo padre.
Dopo aver concluso la telefonata, di lì a venti, faticosi minuti, rimase in piedi con il telefono in mano, cercando di immaginare le sinapsi nel cervello del padre che si inceppavano, i pensieri che esplodevano in una cascata di scintille…
Poi queste immagini scomparvero lasciando il posto al nero del cappuccio che copriva la testa di una donna nuda e mascherava il terrore sul volto di un pallido cadavere con il sedere all’aria, sopra un materasso macchiato di sangue.
Thorne si spogliò completamente, andò in camera e si gettò sul letto. Restò per un po’ a fissare nella penombra il profilo del lampadario Ikea da una sterlina, rendendosi conto che era costato pochissimo anche perché era bruttissimo.
Il letto era duro come se fosse pieno di ghiaia.
Sentiva quel caso strisciargli addosso come un insetto, che risaliva con zampe appuntite la pellicola di sudore che gli velava il petto.
Thorne chiuse gli occhi, ricordando un momento felice su una collina coperta di felci. Ma non era sicuro che si trattasse di un ricordo. Se era accaduto davvero, i particolari si erano persi con il passare del tempo. Forse era il ricordo di un sogno o di una fantasia, o magari una scena di un film che aveva visto tanto tempo prima in cui si era identificato…
In quel ricordo, o qualunque cosa fosse, con lui c’erano sempre due persone. Un uomo e una donna, o forse un ragazzo e una ragazza. L’età di loro tre non era chiara, così come non lo era il rapporto che li univa, ma erano felici. Il luogo in cui si trovavano sembrava non essere importante. La geografia del posto era mutevole. A volte Thorne era sicuro che sotto di loro ci fosse un fiume, altre volte era una strada e il ronzio degli insetti diventava il rumore lontano del traffico.
Le uniche costanti erano le felci e la presenza di quelle due persone stese sull’erba a pochi metri da lui, la terra sotto di loro e il cielo sopra…
Sembrava che avessero mangiato qualcosa. Forse avevano fatto un picnic. Thorne si sentiva sazio, con le braccia aperte che si muovevano pigramente avanti e indietro tra le felci. Aveva il sorriso sulle labbra ed era scosso dai sussulti di una risata. Non sapeva chi o cosa li avesse fatti ridere tanto. Non era mai sicuro di nulla, se non dell’ineffabile, sconosciuta sensazione che nasceva in lui mentre ricordava. Mentre immaginava. Mentre era steso tra le felci.
I quando, i chi e i perché della sua presenza su quella collina erano così indistinti da poter essere totalmente inventati. Ma di tanto in tanto, nei momenti in cui, come adesso, si trovava immerso nella follia e nella violenza, gli sembrava un posto molto bello in cui andare.
Quando fuori iniziarono a cadere le prime grosse gocce di pioggia, Thorne affondò la testa nel cuscino e immaginò le fronde delle felci che gli accarezzavano il collo.
E quando i fari delle auto di passaggio illuminavano la stanza, Thorne sentiva il sole sul viso.
12 giugno 1976
Camminavano fianco a fianco nel centro commerciale, con i volti inespressivi, ciascuno con una borsa in mano. Una coppia che faceva shopping. Vedendoli, nessuno avrebbe potuto capire.
L’enormità dello spazio tra loro.
Il dolore che lo riempiva.
Quanto poco tempo restasse…
Toccavano oggetti nei negozi, li sollevavano per guardarli meglio, a volte facevano gli stessi commenti banali che avrebbero fatto sei mesi prima. «Questo starebbe bene in cucina.» «Quel colore ti dona.»
Entrarono come due sonnambuli in un negozio che vendeva articoli da regalo orrendi e inutili.
Dal giorno in cui si era concluso il processo, avevano continuato a ripetere i soliti gesti quotidiani. Mangiavano, uscivano a fare spese, mettevano in ordine i giocattoli, si sedevano sul divano a guardare la tivù. E i giorni passavano. L’unica novità era che lei non era più tornata al lavoro. Franklin invece era stato accolto a braccia aperte, e con tante scuse.
Fuori da un negozio, dentro un altro. Entrarono in un grande magazzino, evitando accuratamente il reparto cosmetici, dove si trovavano i profumi e, soprattutto, i dopobarba. A lei bastava sentire l’odore del Brut per avere i conati di vomito.
Erano quasi perfetti, come le vittime dell’Invasione degli ultracorpi. Erano un gioco di “scopri le differenze” impossibile da vincere. Il “prima” e il “dopo” erano, sotto ogni aspetto, identici, ma quello che loro avevano nella mente e nel cuore non era visibile, né immaginabile. Neppure da loro stessi.
Lei si era richiusa in se stessa e lui era diventato insopportabilmente gentile. In casa i loro corpi si muovevano normalmente, ma intanto i silenzi di lei e la falsa allegria di lui si inseguivano da una stanza all’altra. Intanto la follia e il sospetto crescevano e s’insinuavano ovunque.
È stata colpa mia…
Perché lei non ha lottato…?
Lui si mise a guardare cornici per foto, pensando al viso del presidente della giuria. Poco più in là, lei esaminava cartoline illustrate, rivedendo dita tozze che frugavano sotto il suo vestito, cercandole l’inguine. I loro sguardi si incrociarono, ma lei distolse gli occhi prima che lui potesse sorriderle.
Un attimo dopo, da dietro una vetrinetta emerse all’improvviso la moglie di Franklin e si trovò esattamente davanti a lei.
Lui fece un passo nella loro direzione, ma si fermò vedendo sua moglie allungare una mano verso quella donna che l’aveva fissata con disprezzo per tutto il processo. Vide la moglie di Franklin ignorare la mano, piegare indietro la testa e poi sputare in faccia a sua moglie.
Una donna lì vicino soffocò un grido, un’altra fece un passo indietro, urtando una caraffa di vetro, che finì per terra frantumandosi in mille pezzi.
Lui allora si fece avanti e sospinse la moglie in modo gentile, ma fermo verso l’uscita. Mentre lasciavano il centro commerciale, lei non distolse neppure un attimo gli occhi dalla donna che le aveva sputato in faccia. E non fece neppure il gesto di pulirsi il viso.
Non disse una parola mentre tornavano a casa, verso quella casa da cui non sarebbe più uscita.
Da Kentish Town, Thorne prese tutte le scorciatoie che conosceva fino a Highbury Corner, da dove si diresse a est lungo Balls Pond Road in direzione di Hackney.
Gettò una rapida occhiata allo stradario. La fioraia stava da qualche parte dietro Mare Street, a poca distanza dai London Fields, un parco pubblico isolato in una delle zone più depresse della città.
Un tempo pascolo di pecore e regno di borseggiatori, adesso era pieno di giovani registi e pubblicitari intraprendenti, seduti sulle panchine a sorseggiare bibite o intenti a portare a spasso i loro levrieri, facendo di tutto per sembrare convincenti nella loro eccentricità.
Thorne percorse strade affollate di gente dedita agli acquisti del sabato mattina. Strade rumorose di saluti e di grida di venditori del mercato. Strade in cui ogni cento metri Thorne riconosceva, dall’espressione di un viso o dalla mano affondata in una tasca, i segni di un genere di affari completamente diverso.
Lì, come in decine di altri quartieri, la criminalità comune era fuori controllo. La distruzione dei telefoni pubblici era una forma di interazione sociale e se uno se ne andava in giro con uno stereo portatile era un turista che non sapeva leggere una mappa stradale.
Adesso, i borseggiatori giravano in bande.
E così le autorità, nella loro infinita saggezza e con il desiderio di guadagnarsi l’approvazione della stampa, sceglievano zone come Hackney per inaugurare iniziative destinate a coinvolgere i giovani. Thorne aveva letto un rapporto su uno di quei programmi, in cui due giovani poliziotti avevano sostituito la divisa con felpe munite di cappuccio e si erano mescolati ai ragazzi in un centro ricreativo locale. Uno di loro aveva chiesto a un tredicenne membro di una banda cosa pensava di poter fare per evitare guai con la polizia. E il ragazzo aveva risposto, in tono nient’affatto ironico: «Userò un passamontagna».
Il negozio era piccolo, incassato tra la sede di una società di taxi e un fabbro. L’aspetto era piacevolmente antiquato, con una vetrina minimalista e l’insegna dipinta in lettere verdi a mo’ di rampicante, su uno sfondo panna.
L’interno era illuminato da candele con un sottofondo di musica classica a basso volume. Non c’era un solo fiore che Thorne conoscesse.
«Cerca qualcosa in particolare?» chiese, da dietro un piccolo bancone in legno, un uomo sulla trentina, con un libro in mano.
Thorne gli si avvicinò, sorridendo. «La gente non compra più crisantemi, rose, giunchiglie…?»
Una donna entrò da una porta sul retro portando un’enorme composizione floreale. Appena parlò, Thorne la riconobbe dalla voce. Sicura di sé, divertita. E fu subito chiaro che anche lei lo aveva riconosciuto.
«Bene, possiamo far arrivare su ordinazione quelle particolari specie, signor Thorne. Ma l’avverto, le costerà molto caro…»
Lui rise, esaminandola per alcuni secondi. E capì che lei stava facendo la stessa cosa con lui, anche se sembrava occupata con i fiori.
Era alta circa un metro e sessanta, o forse meno, e portava i capelli biondi fermati sulla nuca da una grossa molletta di legno. Sotto il grembiule marrone indossava jeans e una felpa. Aveva il viso lentigginoso e il sorriso rivelava uno spazio tra i due incisivi superiori.
Thorne ebbe subito voglia di vederla senza i jeans.
L’uomo dietro il bancone aveva preso in mano un block-notes. «Devo fare un ordine, Eve? Per i crisantemi e le altre cose?»
Lei posò la composizione floreale, si sfilò il grembiule da sopra la testa e sorrise. «No, Keith, lascia perdere.» Poi si voltò verso Thorne. «C’è una piccola sala da tè proprio dietro l’angolo. Servono un tè con gli scone da urlo. Cosa ne dice? Con una bella giornata come oggi, possiamo anche far finta di essere nel Devon, o in qualche posto del genere…»
Mentre si dirigevano verso la sala da tè, lei non smise un attimo di parlare. «Keith mi aiuta il sabato mattina. È bravissimo con i fiori ed è simpatico ai clienti. Il resto della settimana me la cavo da sola, ma il sabato devo preparare le composizioni per i matrimoni, sistemare le fatture, gli ordini e tutto il resto. Oggi, però, Keith può occuparsi del negozio da solo, mentre noi ci rimpinziamo. Non è un genio, povero caro, ma lavora come un matto per… be’, praticamente per niente, se devo essere sincera.»
«E che cosa fa Keith nel resto del tempo?» chiese Thorne. «Quando non è sfruttato da lei, voglio dire.»
Eve sorrise, stringendosi nelle spalle. «A dire la verità, non lo so di preciso. Credo che si occupi della madre. Forse è una donna ricca, perché lui non sembra mai a corto di denaro. Se lavora nel mio negozio non è certo per soldi, visto quello che lo pago. Dio, ho una tale voglia di una tazza di tè…»
Il locale in cui entrarono era terribilmente kitsch, con le tovaglie a quadretti, servizi di tazze art déco e radio di bachelite su scaffali e davanzali. Il tè arrivò quasi subito. Eve riempì la propria tazza di Earl Grey e quella di Thorne di monkey tea, poi spalmò una generosa dose di burro e marmellata su uno scone e sorrise.
«Ascolti, se vuole dire qualcosa, le conviene farlo mentre sono occupata a mangiare. So che tendo a parlare un po’ troppo…»
«L’uomo che ha lasciato quel messaggio sulla sua segreteria telefonica si è mai più fatto vivo?» Eve lo fissò, confusa. «Sono le domande che mi servono per giustificare questo incontro e mettere il pranzo nel rimborso spese, come ha suggerito lei» spiegò Thorne.
Eve si schiarì la voce. «No, signor ispettore. Purtroppo non ho mai più avuto notizie di quell’uomo.»
«Grazie. Se le viene in mente qualcos’altro su di lui, si farà viva, vero? Ed è inutile che le dica che preferiremmo che non lasciasse il paese…»
Lei rise, infilandosi in bocca l’ultimo pezzo di scone. Quando lo ebbe trangugiato, fissò Thorne negli occhi, riparandosi con una mano dal sole che entrava dalla vetrata. «Mi sembra di capire che non l’avete ancora preso. Ha ucciso qualcuno?»
Thorne deglutì. «Ecco, non credo di poter…»
«Sto solo facendo due più due, in realtà. So che è un uomo, perché ho sentito la sua voce, e lei mi ha detto di far parte dell’Unità per i Reati Gravi, perciò immagino che non lo stiate cercando perché non ha restituito i libri presi in prestito alla biblioteca del quartiere.»
Thorne si versò un’altra tazza di tè. «Sì, ha ucciso qualcuno. No, non l’abbiamo ancora preso.»
«E lo prenderete?»
Thorne versò del tè anche a lei.
«Perché quell’uomo ha scelto proprio me per ordinare una corona di fiori?» chiese Eve.
«Credo che abbia preso un nome a caso sulle Pagine Gialle» rispose Thorne. Ne avevano trovata una copia nel comodino. Era piena di impronte digitali, ma Thorne dubitava che ce ne fosse qualcuna dell’assassino.
«Sapevo che non avrei dovuto scegliere la pubblicità con il riquadro» disse lei, facendo una smorfia.
Benché Eve parlasse molto di più e molto più rapidamente di lui, nell’ora che seguì Thorne chiacchierò con lei più di quanto avesse fatto con chiunque da molto tempo. Era un pezzo che non si sentiva così a suo agio con una donna.
«Quando sarà il matrimonio?» chiese Eve, mentre una cameriera portava via i piatti. Thorne rimase sorpreso nel constatare quante cose si erano detti e con quale facilità erano passati a darsi del tu. «Tra una settimana precisa, il prossimo sabato. Cristo, preferirei salire sul patibolo…»
«Non vai d’accordo con tuo cugino?»
Thorne sorrise alla cameriera, che aveva appoggiato il conto sul tavolo. «Lo conosco appena. Se adesso entrasse qui probabilmente non lo riconoscerei neppure. È solo un dovere di famiglia, capisci…»
«Già. Puoi sceglierti gli amici, ma non i parenti…»
«I tuoi sono come i miei, allora?»
Lei spazzò via alcune briciole dalla tovaglia, facendole cadere per terra. «Tuo cugino ha la tua stessa età?»
«No, zia Eileen è molto più giovane di mio padre e Trevor dovrebbe avere una trentina d’anni, credo…»
«E tu?»
Thorne aprì il portafoglio e appoggiò quindici sterline sul tavolo. «Vuoi sapere quanti anni ho? Quarantadue. Anzi, quarantatré fra… Cristo, dieci giorni.»
Lei rimise a posto una ciocca di capelli che si era liberata dal fermaglio. «Non ti dirò che ne dimostri meno perché suona sempre falso, ma guardandoti direi che devono essere stati quarantatré anni interessanti.»
Thorne annuì. «Ti ringrazio, ma tanto perché tu lo sappia… non mi importa anche se suona falso.»
Lei sorrise, infilandosi un paio di occhiali da sole con la montatura oblunga. «Quaranta, allora. Forse trentanove.»
Thorne si alzò, prendendo la giacca di pelle dallo schienale della sedia. «Così va meglio.»
Una volta tornati nel negozio, si scambiarono i biglietti da visita, si strinsero la mano e si trattennero sulla soglia, un po’ imbarazzati. Thorne si guardò intorno. «Forse dovrei prendere una pianta, che ne dici?»
Eve si chinò e sollevò un vaso di metallo a forma di secchio in miniatura, da cui sporgeva una pianta che sembrava un cactus. «Ti piace questa?»
Thorne non ne era tanto sicuro. «Quanto ti devo?»
«Nulla. Considerala un regalo di compleanno anticipato.»
Lui la esaminò con attenzione. «Grazie.»
«È un’aloe vera.»
Thorne annuì. Notò che Keith li osservava da dietro il bancone. «Allora sarà perfetta per lo shampoo…»
«Le foglie contengono una sostanza ottima per rimarginare tagli e piccole ferite.»
Thorne fissò le spine che sporgevano dalle foglie lanceolate. «Sono certo che mi sarà utile, allora.»
Uscirono sul marciapiede e di nuovo avvertirono una punta di imbarazzo. Thorne notò uno scooter argenteo parcheggiato accanto al negozio. Era una Vespa ultimo modello. «È tua?»
Lei scosse la testa. «No, è di Keith.» Poi indicò un edificio dall’altra parte della strada. «Io abito lì.»
Thorne allora notò anche il furgone bianco dietro il quale aveva parcheggiato la sua Mondeo. Il nome del negozio era dipinto sulla fiancata con le stesse lettere verdi a mo’ di rampicante dell’insegna.
«Avrei potuto fare solo la fioraia, credo» disse lei. «Mi piace tutto ciò che sboccia.»
Thorne pensò ad altre cose che potevano sbocciare e che forse non le sarebbero piaciute, ma non disse nulla per non rovinare l’atmosfera. «Hai scelto l’attività giusta, allora» disse.
E pensò: “Lividi, tumori, macchie di sangue…”.
Per la quarta volta in un’ora, Welch si trovò a rispondere alle stesse stupide domande.
«Data di nascita?»
Forse le guardie si passavano l’un l’altra la lista. Neppure una di loro era riuscita a trovare qualcosa di più originale da chiedergli.
«Cognome della madre da nubile?»
Sempre le solite, vecchie domande, pensate per smascherare gli impostori. Era così da chissà quanti anni e ora meno che mai volevano correre rischi, dopo l’incidente di un paio di mesi prima. Due pakistani in una prigione nel nord del paese si erano scambiati il posto, il giorno del rilascio, e quei deficienti avevano fatto uscire l’uomo sbagliato. Parecchie guardie carcerarie si erano giocate la pensione, quel giorno, e il tamtam della prigione aveva diffuso la notizia ovunque, facendo scoppiare in una bella risata tutti i detenuti d’Inghilterra.
«Hai qualche tatuaggio?»
«Posso chiedere aiuto al pubblico?»
«Non fare il furbo, Welch, altrimenti ricominciamo tutto da capo.»
Welch sorrise e rispose alla domanda. Non aveva intenzione di fare sciocchezze, a quel punto del gioco. Ogni porta che oltrepassava, ogni serie di domande a cui rispondeva in modo corretto, ogni casella barrata sulla scheda lo avvicinavano sempre più all’uscita.
Rispose alle loro domande cretine e firmò tutto ciò che gli chiedevano di firmare. Prese la ricevuta del certificato di rilascio e del biglietto di viaggio. Gli restituirono i suoi effetti personali: il portafoglio consunto, l’orologio, l’anello di metallo giallo. Quei bastardi scrivevano sempre “metallo giallo”, mai “oro”, nel caso in cui l’avessero perso…
Poi un’altra porta, un’altra guardia e infine una parola soltanto: «Arrivederci».
Welch uscì e s’incamminò verso l’uscita. Procedeva lentamente, godendosi ogni passo. Di lì a poco avrebbe udito il rumore del pesante portone di metallo che si chiudeva alle sue spalle e avrebbe sentito il calore del giorno sul viso.
Avrebbe visto il sole, dello stesso colore del metallo giallo.
Un sabato sera davanti alla tivù, con birra e cena indiana da asporto era un piacere che Thorne e Hendricks si concedevano regolarmente. Per nove mesi all’anno c’erano le partite di calcio da vedere. Quella sera, invece, forse avrebbero guardato un film o qualcos’altro, visto che mancavano ancora diverse settimane all’inizio del campionato. O forse avrebbero ascoltato un po’ di musica e fatto due chiacchiere.
Erano quasi le nove e c’era ancora luce. Si allontanarono dal ristorante indiano lungo Kentish Town Road, diretti a casa di Thorne. Erano entrambi in jeans e maglietta e naturalmente i jeans di Thorne erano quelli che davano meno nell’occhio. Hendricks portava il sacchetto con le birre, mentre Thorne si era assunto la responsabilità del pollo al curry. Il Bengal Lancer effettuava consegne a domicilio, ma vista la bella serata i due amici avevano voluto fare una passeggiata. E poi c’era la prospettiva di una Kingfisher gelata mentre aspettavano le pietanze. L’odore speziato che veniva dalla cucina aveva stimolato loro l’appetito.
«Perché lo stupro?» chiese Thorne all’improvviso.
Hendricks annuì. «Bravo, bella mossa. Liberiamoci subito dei problemi di lavoro, così poi potremo rilassarci in pace.»
Thorne ignorò il sarcasmo. «Tutto il resto così ben progettato, così meticoloso. È uno che non corre rischi. Ha portato via lenzuola, federe e copriletto, pur avendo ucciso Remfry sul pavimento. Si è voluto assicurare di non lasciare nessuna traccia…»
«Non trovo strano che non voglia farsi beccare.»
«No, ma è stato tutto così… rituale, direi. E lo stupro mi sembra una nota stonata. Forse a un certo punto ha perso il controllo…»
«Non sono d’accordo. Non si tratta di una cosa che ha fatto in un attimo di follia. È stato attento, ha indossato un preservativo. Quindi non direi che aveva abbassato la guardia.»
C’erano decine di persone sul marciapiede fuori dal pub Grapevine. Ridevano, bevevano e si godevano la bella serata. Per aggirare la folla dovettero scendere in strada ed Hendricks rimase un passo indietro.
«Credi che la violenza sessuale non facesse parte del piano?» riprese, non appena fu di nuovo al fianco di Thorne. «Credi che abbia deciso di stuprare Remfry solo all’ultimo momento?»
«No, credo che avesse pianificato ogni cosa. È solo che lo stupro mi sembra…»
«Questo è stato più violento di altri, lo ammetto, ma uno stupro in generale non è mai una cosa delicata.»
Un vecchio che aspettava di attraversare la strada sulle strisce pedonali udì le loro ultime parole e, ignorando il segnale di via libera, rimase a fissarli mentre si allontanavano. Da un’auto in attesa davanti al passaggio pedonale venne un rabbioso colpo di clacson.
«Non so bene perché mi dia tanto fastidio» disse Thorne. «Si tratta di un’indagine per omicidio, eppure il fatto che il morto sia stato violentato mi sembra la cosa più importante.»
«Credi che l’assassino volesse dimostrare qualcosa?»
«Tu no?»
Hendricks annuì, stringendosi nelle spalle. Poi sollevò il sacchetto delle birre con una mano e ci mise sotto l’altra, per evitare che il peso eccessivo lo sfondasse.
«Il punto è,» proseguì Thorne «che l’idea del semplice rancore personale contro Remfry non mi convince.»
Superarono la paninoteca e la banca. Dalle finestre aperte di case e locali la musica si riversava in strada. Rap, blues, heavy metal… L’atmosfera che si respirava in giro per le vie era di grande relax. Il caldo faceva uno strano effetto ai londinesi, pensò Thorne. In metropolitana, durante l’ora di punta, l’umore peggiorava con il salire della temperatura. Ma più tardi, con il fresco serale e un drink in mano, tutto assumeva un aspetto completamente diverso…
Thorne fece un sorriso amaro. Sapeva che si trattava soltanto di una pausa. Più tardi ancora, con il buio e l’aumentare del tasso alcolico nel sangue, la colonna sonora notturna sarebbe diventata assai più familiare…
Sirene, urla, vetri rotti…
Come a conferma di questi pensieri, appena Thorne ed Hendricks ebbero oltrepassato una drogheria aperta fino a tardi, due ragazzi in piedi davanti all’ingresso cominciarono a darsi spinte. Poteva essere un gioco innocuo, oppure l’inizio di una rissa.
Thorne si fermò e tornò indietro.
«Ehi!»
Il più alto dei due si voltò e squadrò Thorne da capo a piedi, senza mollare la camicia blu del compagno. Doveva avere non più di quindici anni. «Che cazzo vuoi? Hai qualche problema?»
«Nessun problema» rispose Thorne.
Il ragazzo più basso si liberò dalla stretta e si voltò verso Thorne. «Ce l’avrai presto, se non ti togli dai coglioni…»
«Torna a casa» disse Thorne. «La tua mamma sarà preoccupata.»
Il ragazzo alto rise, ma l’amico no. Lanciò un’occhiata lungo la strada, poi sibilò: «Vuoi proprio che ti spacchi i denti?».
«Solo se vuoi che ti arresti.»
Stavolta i ragazzi risero entrambi. «E così saresti un fottuto poliziotto? Non ci credo.»
«Okay» disse Thorne. «Io non sono un poliziotto e voi siete due innocui furfantelli che si fanno gli affari loro. E sono certo che, se io fossi davvero un poliziotto, non troverei nulla di compromettente nelle vostre tasche.» Vide il ragazzo alto cercare di catturare con gli occhi lo sguardo dell’amico. «Tuttavia forse farei meglio a controllare, tanto per stare sicuro…»
Thorne si avvicinò, mentre Hendricks gli sussurrava all’orecchio: «Piantala, Tom, porca miseria».
Dalla drogheria uscì una ragazza appena più grande dei due. Offrì agli amici una lattina di Tennent’s Extra e ne aprì una per sé. «Che cosa succede?»
Il ragazzo con la camicia blu indicò Thorne. «Questo qui dice di essere un poliziotto e che ha intenzione di arrestarci.»
La ragazza bevve rumorosamente una sorsata di birra. «Non arresterà proprio nessuno» sentenziò, indicando il sacchetto che Thorne aveva in mano. «Di sicuro non vorrà che gli si raffreddi la sua fottuta cena.»
Gli altri risero. Hendricks posò una mano sulla spalla di Thorne, il quale depose con cura il sacchetto sul marciapiede. «Mi è passata la fame. Ora vuotate le tasche.»
«Ti diverti a rompere i coglioni, eh?» disse la ragazza. «Scommetto che ti è venuto duro.»
«Vuotate le tasche.»
I due ragazzi lo fissarono con freddezza. La loro amica bevve un altro sorso di birra. Thorne avanzò verso di loro. Il più basso, allora, fece un rapido scatto, spostandosi qualche metro più in là, poi si fermò. La ragazza si mosse più lentamente trascinando per una manica l’amico alto. Retrocedettero, senza smettere di fissare Thorne ed Hendricks.
A un tratto la ragazza gettò la lattina vuota in mezzo alla strada e gridò: «Froci fottuti!».
Thorne fece per inseguirli, ma Hendricks lo trattenne con forza per la spalla. «Lascia perdere.»
«No.»
«Dai, calmati.»
Thorne si liberò dalla stretta. «Piccoli bastardi…»
Hendricks gli si parò davanti, raccolse da terra il sacchetto di plastica e glielo tese. «Che cosa ti dà più fastidio, Tom? Il fatto che abbiano chiamato frocio me, o te?»
Senza rispondere, Thorne prese il sacchetto con la cena e riprese il cammino al fianco dell’amico. Svoltarono quasi subito a destra su Angler’s Lane, una via a senso unico che li avrebbe portati vicino casa di Thorne e che una volta era un piccolo affluente del Tamigi, mentre ora apparteneva ai cosiddetti “fiumi perduti” che scorrevano sotto la città. Lì, ai tempi della regina Vittoria, i ragazzi pescavano carpe e trote. Poi l’acqua era diventata così inquinata e maleodorante che tutti i pesci erano morti e il fiume era stato coperto e incanalato in un condotto di ferro. Camminando sopra quel fiume perduto, Thorne pensò che la puzza che sentiva doveva essere la stessa di un paio di secoli prima.
Poco dopo le dieci, Hendricks si era già addormentato sul divano e, con tutta probabilità, non si sarebbe mosso di lì fino al mattino. Thorne mise un po’ d’ordine, spense la tivù e andò a letto.
Al telefono di casa non rispose nessuno. Al cellulare, Eve rispose al primo squillo.
«Sono Thorne. Spero che non stessi già dormendo. Ho pensato che, visto che di domenica il negozio è chiuso, forse saresti stata sveglia…»
«Non preoccuparti, non c’è problema.»
Thorne si stese sul letto. Sembrava contenta di sentirlo. «Volevo ringraziarti» disse. «Oggi sono stato bene.»
«Anch’io. Vuoi che replichiamo?»
Durante il breve silenzio che seguì, Thorne fissò il brutto lampadario Ikea, mentre lei rideva piano. C’era un rumore di sottofondo che non riusciva a identificare. «Accidenti!» esclamò. «Non perdi tempo.»
«Che senso ha? Ci siamo visti per la prima volta poche ore fa e adesso mi stai chiamando, perciò mi sembra che anche tu sia alquanto interessato.»
«Certo…»
«Bene, allora, la domenica mattina è per dormire e in serata sono impegnata. Quanto ti interessa davvero vedermi? Su una scala da uno a dieci…»
«Ecco… direi… sette. Che te ne pare?»
«Sette va bene. Un po’ meno, e mi sarei sentita insultata. Un po’ di più, e avrei potuto pensare che sei un maniaco. Che ne dici di fare colazione insieme, lunedì? Conosco un ottimo…»
«Colazione?»
«Perché no? Possiamo vederci prima di andare al lavoro.»
«Va bene. Io comincio intorno alle nove, perciò…»
Eve rise. «Veramente mi riferivo a quando io comincio a lavorare, Thorne. Ci vediamo alle cinque e mezzo, al mercato dei fiori di Covent Garden…»
17 luglio 1976
Era passata più di mezz’ora da quando aveva udito quei rumori.
Grugniti, urla, vetri rotti.
Aveva sentito i passi della moglie dalla camera da letto al bagno, e ritorno.
Aveva trascorso quella mezz’ora cercando di trovare la forza di alzarsi dal divano per andare a vedere che cosa succedeva. Ma non si era mosso. Aveva bisogno di raccogliere più energia prima di avventurarsi di sopra.
Seduto davanti al televisore, si chiedeva quanto sarebbe durata. Il medico aveva detto che, se lei avesse continuato a prendere i tranquillanti, piano piano sarebbe tornata alla normalità, ma non sembrava che ciò stesse accadendo.
Nel frattempo, toccava a lui occuparsi di tutto. Tutto. Lei non era più in grado di fare nulla, neppure la spesa. Cristo, era passata più di una settimana dall’ultima volta che era scesa al piano di sotto.
Si avviò verso le scale, lento e rigido come un automa.
Ascoltare, osservare, sentire come tutto cadeva a pezzi. Al lavoro gli avevano concesso un’aspettativa, ma l’indennità di malattia non sarebbe durata a lungo, lei non guadagnava nulla e i debiti crescevano con la stessa rapidità dei sospetti. Come funghi, si annidavano in ogni angolo oscuro della loro vita, fin dal momento in cui il presidente della giuria si era alzato in piedi e si era schiarito la voce.
Entrò in camera da letto e vide il proprio riflesso frammentato e distorto nello specchio in frantumi. Gettò un’occhiata al letto, dove lei era una massa indistinta sotto le coperte.
Si voltò e uscì.
In bagno, scivolò su una chiazza di crema per il viso. Evitò una macchia gialla di profumo che sembrava piscio. Allontanò con un calcio i flaconi rotti sparsi un po’ ovunque.
Tutti quei cosmetici pensati per profumare e rendere gradevole l’aspetto gli diedero il voltastomaco, mescolati com’erano adesso sul pavimento e sulle pareti.
In preda a un conato, si avvicinò al lavandino. Lo trovò pieno di tutto ciò che prima era nell’armadietto. Fondotinta, rossetto, rimmel… spiaccicati sulla porcellana. Crema idratante che ostruiva lo scarico, come un rifiuto tossico.
Borotalco, shampoo, bagnoschiuma sparsi dappertutto. Lei aveva lanciato le saponette contro le pareti, lasciandovi impresse chiazze rosa e blu. ho specchio era crepato e sporco di smalto per unghie rosso sangue…
Aprì il rubinetto sopra quella melma profumata, spruzzandosi dell’acqua sul viso. Lanciò un’occhiata alle impronte di lei nel borotalco, alle ditate sulle macchie di crema per il corpo, alle sue tracce su tutto ciò che aveva cercato di eliminare.
Era stata benissimo finché non l’avevano scoperta. Finché la consapevolezza di ciò che aveva fatto era rimasta tra lei e Franklin. Ora il senso di colpa la divorava. La faceva impazzire. O forse anche quella era una finzione. A quel punto, non aveva più importanza.
Mezzo minuto dopo lui scese di nuovo le scale, pensando: “Ha mentito, ha mentito, ha mentito…”.
Lei. Gli aveva mentito.
A Thorne forse sarebbe passata la voglia di frequentare Eve Bloom, se lei si fosse rivelata una di quelle persone mattiniere, irritanti nel loro essere fresche e pimpanti a dispetto dell’ora antelucana. Fu contento, invece, di trovarla seduta in un angolo, con lo sguardo inespressivo e un bicchiere di plastica pieno di tè forte in mano. Probabilmente si sentiva di merda, proprio come lui.
Thorne cercò faticosamente di modellare le labbra in un sorriso. «E io che credevo di trovarti piena di gioia, intenta ad assorbire gli odori e i rumori e i colori di migliaia di fiori…»
Lei lo fissò con la fronte aggrottata. «Stronzate» bofonchiò.
Thorne si sfregò le braccia attraverso la giacca di pelle. Poteva anche essere l’estate più calda degli ultimi anni, ma a quell’ora del mattino l’aria era ancora decisamente frizzante.
«Il mestiere di fioraio sta perdendo il suo fascino, dunque?»
Lei bevve un sorso di tè. «Alcuni aspetti del mio lavoro mi stanno un po’ sulle palle, devo ammetterlo.»
Si fecero da parte per lasciar passare un carrello pieno di scatole lunghe e colorate. L’uomo che lo spingeva strizzò l’occhio a Eve e rise quando lei gli mostrò il dito medio. Poi lei si voltò verso Thorne. «Tu, invece, ami tutto del tuo lavoro?»
«No, non tutto. Farei volentieri a meno delle autopsie, degli accerchiamenti armati, o dei seminari per consolidare il lavoro di squadra… Ma nel complesso penso di amarlo.»
Vide apparire sul volto di Eve il primo accenno di un sorriso. Stava cominciando a divertirsi. «Lo ami, forse, ma secondo me non ne sei innamorato.»
«Esatto» annuì Thorne. «Ho qualche problema con gli impegni a lungo termine.»
Lei soffiò sul tè. «Maschio tipico» commentò, impassibile. Poi rise, scoprendo lo spazio tra gli incisivi che a Thorne piaceva tanto.
Passarono in rassegna metodicamente tutto il vasto mercato coperto, un settore dopo l’altro, lei davanti, lui un passo indietro, con in mano un bicchiere di tè scuro. Thorne stava a poco a poco tornando alla vita e si guardava intorno, facendo attenzione a tutto…
Le grida e i fischi di venditori e clienti, che echeggiavano in quel capannone gigantesco. Le banconote da venti e da cinquanta sterline contate in fretta. I facchini in giubbotto verde fluorescente che guidavano rumorosi carrelli da carico o spostavano scatoloni. I colori, la merce, le insegne, i berretti di pile e le giacche imbottite dei clienti… il tutto immerso nel bagliore ronzante di migliaia di lampade al neon, che pendevano dalle travi sopra le loro teste.
Eve Bloom, ovviamente, conosceva ogni palmo di quella superficie due volte più grande di un campo da calcio. Sapeva dove trovare ogni grossista, ogni specialista, dove comprare i vasi, dove i bulbi, dove le cianfrusaglie varie.
Thorne la osservava mentre faceva le ordinazioni, contrattava il prezzo e salutava i fornitori.
«Tutto bene, Evie?»
«Come va, dolcezza…?»
«Oh, eccoti qui! Ma dove ti eri nascosta?»
Thorne si rese conto che Eve, a dispetto di quanto gli aveva detto prima, amava anche quell’aspetto del suo lavoro. Il suo sorriso era immediato, il buonumore contagioso.
Mezz’ora dopo aveva finito e i facchini fecero a gara per portare i suoi acquisti fino al punto in cui era parcheggiato il furgone bianco con la scritta verde. Lei domandò a Thorne se quel giro al mercato gli fosse piaciuto e lui rispose di sì. Tuttavia, anche se era rimasto impressionato dalla competenza di Eve e dal suo entusiasmo, la sua mente sognava solo un sandwich alla pancetta…
Mezz’ora dopo, quel sogno divenne un’untuosa realtà, ed Eve gli fece compagnia, divorando salsicce, uova e patate con un appetito da camionista. Forse quella non era la sua colazione preferita, ma il locale non offriva alternative più salutari.
«Lo fai spesso?» chiese Thorne.
«Cosa, ostruirmi le arterie con questa roba o alzarmi quando è ancora buio?»
«Il mercato…»
«Solo una volta alla settimana, grazie a Dio. Alcuni fiorai ci vengono ogni due o tre giorni, ma io preferisco di gran lunga restarmene a letto.»
Thorne bevve un sorso di tè. Nelle due ore o poco più trascorse con Eve, aveva bevuto più tè che in un’intera settimana. Lo sentiva sciabordare nello stomaco, come acqua sporca sul fondo di un bidone.
«Quindi quello che hai comprato stamattina ti durerà per tutta la settimana?»
«Se fosse così, vorrebbe dire che gli affari vanno malissimo. No, il resto della roba mi arriva direttamente dall’Olanda. C’è un olandese pazzo con un grosso furgone che passa il venerdì e fa il giro di tutti i piccoli fiorai della parte orientale di Londra. Mi costa un po’ più che venire qui di persona, ma così posso dormire, perciò me ne frego.»
Eve infilò la mano nel suo zainetto di pelle, estraendone un pacchetto di Silk Cut. Lo tese a Thorne. «Ne vuoi una?»
«No, grazie.» Risposta non del tutto vera. Thorne aveva smesso di fumare quindici anni prima, ma gli capitava ancora di avere voglia di una sigaretta.
Lei accese e aspirò una lunga boccata, facendo scendere il fumo nei polmoni ed esalandolo lentamente, con un sospiro appagato. «Lunedì prossimo è il tuo compleanno, giusto?»
«Hai una buona memoria» si stupì Thorne. «La mia peggiora con il passare degli anni.» Fece una smorfia di finto dispiacere. «Grazie per avermi ricordato che sto invecchiando.»
Una scintilla gli si accese di colpo nella mente, ma si spense subito. C’era qualcosa che cercava di ricordare, qualcosa che sapeva essere importante per il caso Remfry. Qualcosa che aveva letto. O forse qualcosa che non aveva letto…
Tornò a guardare Eve, che gli aveva appena rivolto la parola. «Scusami, cosa…?»
Lei si chinò verso di lui. «Sarebbe un bel regalo di compleanno se riuscissi a risolvere il caso, eh?»
Thorne annuì lentamente e sorrise. «In realtà, avevo intenzione di comprarmi alcuni CD…»
Lei ruotò la punta della sigaretta contro il bordo del portacenere. «Non ti piace parlare del tuo lavoro, vero?»
Lui la fissò per qualche istante, prima di rispondere. «Ci sono cose di cui non posso parlare, soprattutto con te, che in qualche modo sei implicata nella faccenda. E ciò di cui, invece, posso parlare non è molto eccitante.»
«Credi che mi annoierei, come tu ti sei annoiato durante il giro che ti ho fatto fare al mercato?»
«Non mi sono affatto annoiato…»
«I criminali che interroghi mentono da schifo come fai tu?»
Thorne rise. «Magari!»
Eve schiacciò la sigaretta nel portacenere, si appoggiò allo schienale della sedia e disse: «Mi interessa. Quello che fai, voglio dire».
Lui si ricordò di come si era sentito quando avevano parlato in quella sala da tè. Era passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva parlato così con una donna. E ancora più tempo da quando aveva parlato del suo lavoro. «I casi di omicidio si raffreddano in fretta.»
«Perciò è importante catturare l’assassino al più presto?»
Thorne annuì. «Di solito, se c’è la possibilità di venire a capo della faccenda, il risultato si raggiunge nel giro di pochi giorni. E qui sono già passate due settimane…»
«Non si sa mai…»
«Purtroppo, invece, si sa.»
Lei spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «Devo andare in bagno. Ho bevuto troppo tè.»
Si allontanò e Thorne si mise a guardare fuori dalla vetrata fumosa. La caffetteria si trovava in una traversa tra Wandsworth Road e Nine Elms Lane. Dal suo tavolo, Thorne vedeva il traffico dell’ora di punta che scorreva lentamente sul ponte di Vauxhall. Decine di persone dirette a nord, verso Victoria e Piccadilly, o a sud, verso Camberwell o Clapham. Verso negozi, uffici o magazzini dove si sarebbero lamentate e avrebbero fatto le solite battute sul lunedì. Ma non avrebbero passato la giornata cercando inutilmente di catturare un assassino.
Ciò nonostante, Thorne non avrebbe voluto essere al loro posto.
Eve tornò proprio mentre stava passando il treno per Waterloo. «Ho dimenticato di chiedertelo. Come sta la pianta?» chiese, alzando la voce per sovrastare il rumore.
«La pianta?»
«L’aloe…»
A Thorne ritornò in mente la visione che lo aveva accolto quella mattina, quando era entrato nel soggiorno all’alba, con gli occhi ancora semichiusi per il sonno: Elvis, accucciata sul secchio di metallo in modo da non pungersi con le spine, lo aveva fissato prima di pisciare con gusto sui sassolini bianchi che coprivano la terra intorno alla pianta.
«Sta bene» disse. In quel momento il suo cellulare squillò.
«Dove sei?» Era Brigstocke. «Abbiamo beccato Gribbin…»
«Arrivo subito.»
«Dicendo “beccato”, intendo dire che sappiamo dove si trova. Dobbiamo ancora andare a prenderlo. Holland è davanti a casa tua…»
«Digli che sarò lì in meno di mezz’ora.»
«Ma dove cavolo sei, si può sapere?»
Thorne lanciò un’occhiata a Eve, che gli sorrise scrollando le spalle. «Sono andato a fare un po’ di jogging.»
Che aspetto ha un pedofilo?
Thorne sapeva che si trattava di una domanda stupida. Stupida perché non aveva risposta e perché era estremamente pericolosa.
Eppure, tanti erano convinti di saperlo e lo urlavano a gran voce.
Solo che arrivavano sempre troppo tardi.
Dopo che i bambini avevano già subito violenza. Dopo che l’uomo era stato catturato. Dopo che una sua foto confusa era apparsa sulle prime pagine dei giornali. Allora, e solo allora, tutto ciò che la gente aveva sempre creduto sembrava confermato. Ma certo! Ovviamente. Ecco l’aspetto che avevano quelli come lui. Lo si sapeva da sempre…
Se era così ovvio, se il male che quegli uomini commettevano era scritto sulle loro facce, perché i vicini non si erano mai accorti di nulla? Perché potevano passeggiare per strada indisturbati? Perché erano diventati maestri di scuola? Perché delle donne li avevano sposati, senza sospettare nulla per anni?
Perché, come Thorne sapeva fin troppo bene, i pedofili non avevano scritto in faccia un bel niente. Nessuno aveva la faccia da pedofilo. Oppure, tutti ce l’avevano.
Thorne, per esempio. O Brigstocke. Perfino Yvonne Kitson…
Ray Gribbin non aveva affatto l’aspetto del pedofilo come se lo immaginava la gente. Niente pelle foruncolosa, capelli unti, occhiali spessi. Niente sacchetto di caramelle in mano. Oltre al naso deformato che Douglas Remfry si era vantato di avergli causato, Gribbin aveva la testa rasata, gli occhi freddi e un sorriso che diceva: «Togliti dai coglioni». Era un pedofilo con la faccia da rapinatore di banche.
Qualunque fosse l’aspetto di un rapinatore di banche…
Thorne rimise la foto nel dossier e passò tutto l’incartamento a Stone e Holland, seduti sul sedile posteriore dell’auto. Stone fissò la foto. «Cristo, non è affatto come mi aspettavo» commentò.
Thorne non disse nulla, limitandosi a guardare fuori dal finestrino.
Brigstocke lampeggiò e accelerò non appena l’auto davanti a loro si spostò per lasciarli passare. «So cosa vuoi dire» disse. «Però ha la faccia di uno capace di portare rancore, no?»
Quello era indiscutibile. Thorne continuò a guardare i campi di grano lungo la M4 scorrere via a centoquaranta all’ora. Ruttò. La lettura di quel dossier gli aveva fatto venire un po’ di nausea.
Brigstocke dichiarò, in tono ufficiale: «Voglio che tutti voi abbiate già dato un’occhiata a quei documenti, quando arriveremo».
Thorne abbassò il finestrino di un centimetro. Brigstocke continuò: «È un’azione preparata un po’ alla svelta, ma non abbiamo avuto scelta. Cerchiamo, comunque, di fare tutto per bene, chiaro?».
Grugniti di assenso dal sedile posteriore. Thorne si limitò ad annuire. «Gribbin è un violento e, se la storia di Remfry è vera, quella dev’essere stata l’unica volta che ha avuto la peggio. È stato spesso fermato con un coltello in tasca, perciò non vogliamo correre rischi…»
Stone fece capolino nello spazio tra i sedili anteriori. «In quanti entreremo?»
«Probabilmente noi quattro, più un paio di agenti locali…»
Stone annuì e si rimise a leggere il dossier.
«Fate attenzione anche alla donna» disse Brigstocke. «Sandra Cook ha precedenti per droga, furto, prostituzione. Si è fatta tre mesi a Holloway per aver graffiato via mezza faccia a un agente.»
Holland si spinse in avanti sul sedile. In caso di frenata, avrebbe dato una bella testata a Brigstocke. «La donna che ci ha detto dove trovare Gribbin si chiama Patricia Cook, giusto?»
Stone gli lanciò un’occhiata. «La sorella di Sandra…»
Thorne inalò una boccata d’aria fresca e chiuse il finestrino.
«E come mai Patricia ha tradito l’uomo della sorella?» chiese Holland.
Brigstocke cercò gli occhi di Holland nello specchietto. «Questo è l’altro motivo per cui stamattina non vogliamo correre rischi. La violazione della libertà vigilata non è l’unico reato commesso da Gribbin negli ultimi tempi.»
«Merda.» Stone aveva finito di leggere. Allungò l’incartamento a Holland.
Thorne si voltò a guardare Holland. «Ci sono tre persone in casa, Dave. Gribbin, Sandra Cook e la figlia undicenne di lei…»
Thorne tornò a fissare davanti a sé, sistemandosi la cintura di sicurezza. Sentiva il cuore battergli a ritmo accelerato. Trattenne il fiato quando un insetto si spiaccicò sul parabrezza, macchiandolo di sangue.
Era una strada cieca a forma di ferro di cavallo, in un complesso residenziale moderno. La casa che cercavano si trovava a una delle estremità.
Mentre il furgone accanto a loro procedeva lentamente lungo la strada, Thorne osservò i vari edifici, notando i particolari, le finlture personalizzate, i tentativi di rendere tutto più signorile. Le porte di colori diversi, le fioriere piene di gerani. I cartelli in legno che contrassegnavano le varie residenze: Gli olmi, I cardi… La maggior parte delle case e dei garage era vuota, perché gli occupanti erano al lavoro. Ma di tanto in tanto si scorgeva un movimento dietro una tenda. La vita in quel posto doveva essere quasi sempre così.
Era uno di quei complessi residenziali di periferia a metà tra l’urbano e il rurale, incuneato tra la M25 e i Chilterns, a una trentina di chilometri dal centro di Londra.
Per i residenti che facevano la spola con la città forse la vicinanza delle colline e di paesini dal nome pittoresco bastava a compensare il quotidiano stress dei viaggi autostradali, ma per i ragazzi era diverso.
L’aria salubre non era sufficiente a rendere il posto meno noioso, né i negozi di antiquariato servivano a trattenerli dal pisciare sui muri il venerdì sera o dal fare casino in centro…
Thorne vide una donna che lo fissava da una finestra al piano superiore di una casa. Notò la sua espressione allarmata e il suo quasi istantaneo dileguarsi, verosimilmente in direzione del telefono. Una reazione più che comprensibile. Infatti, quelli che sbirciavano da dietro le tende delle case su un lato della strada vedevano un furgone Ford Transit blu. Quelli (come la donna in questione) che sbirciavano dalle case sull’altro lato vedevano i quattro uomini in jeans, giubbotto e scarpe da jogging che camminavano nascosti dal furgone, muovendosi alla sua stessa velocità, rallentando quando rallentava, curvando quando iniziava la curva a ferro di cavallo.
A un tratto il furgone si fermò, il motore si spense e i quattro uomini rimasero immobili, in attesa.
Circa quattrocento metri più in là, all’altra estremità della strada, altri due furgoni della polizia avevano bloccato l’accesso. I vigili urbani facevano in modo che gli occupanti delle auto di passaggio non si fermassero a guardare a bocca aperta. E sei poliziotti in uniforme estiva facevano lo stesso con i pedoni.
Da dietro il Transit, Thorne udiva il rumore lontano di una strada a scorrimento veloce e quello monotono del traffico dall’altra parte del complesso residenziale. In qualche posto c’era una radio accesa. Thorne cercò di concentrarsi su ciò che il capo stava dicendo.
«Tutto chiaro?» chiese Brigstocke, fissando Thorne, Holland e Stone e ricevendo cenni d’assenso in risposta. Molto probabilmente sarebbe stata solo un’operazione di routine, ma un attimo di distrazione sarebbe bastato a trasformarla in un totale casino.
«Bene.»
Un secondo di silenzio, poi Brigstocke bussò sulla fiancata del furgone: due agenti ne balzarono fuori e si misero a correre verso la casa. Il più grosso dei due trasportava un ariete di metallo per sfondare la porta.
Thorne e gli altri uscirono allo scoperto: Brigstocke e Stone si diressero a sinistra, verso il retro della casa; Thorne e Holland, invece, seguirono i due diretti verso l’ingresso principale.
Grugniti, respiri affannosi, rumore di suole di gomma sull’asfalto e sull’erba e, di nuovo, il suono di quella radio accesa…
Thorne raggiunse gli agenti davanti alla porta, si acquattò a terra, pronto a scattare, e fece un cenno di assenso con la testa.
L’agente grosso strinse i denti e picchiò contro la porta con l’ariete.
«Polizia!»
Thorne udì delle grida provenire dall’interno della casa e dal retro. La porta non aveva ceduto. Cominciò a prenderla a calci, poi si spostò per permettere un altro colpo d’ariete. Stavolta la porta si spalancò e Thorne si precipitò dentro.
«Polizia! Chiunque sia in casa si faccia vedere. Ora!»
Dietro di sé, udì il rumore metallico dell’ariete che cadeva sul pavimento. Da qualche parte arrivò un tonfo e un urlo di donna.
“Una donna” pensò Thorne. “Non una bambina.”
«Chiunque sia in casa si faccia vedere!»
Davanti a lui c’era un lungo corridoio. Due, tre porte alla sua destra…
«Dentro!»
Con la coda dell’occhio scorse, sulla sinistra, l’ampia schiena dell’agente che correva su per le scale, diretto al piano superiore. All’estremità opposta del corridoio c’era la cucina affacciata sul retro. Holland gli saettò accanto e andò ad aprire la porta posteriore a Brigstocke e Stone.
Thorne iniziò a spalancare violentemente gli usci. Nella prima stanza, niente… Tornò nel corridoio e vide Brigstocke e Stone correre verso di lui. Dalla seconda stanza, un urlo…
«Qui!»
Thorne spinse da parte l’agente sulla soglia ed entrò. Era un piccolo soggiorno: un divano, una poltrona, un televisore a grande schermo ancora acceso e, sulla parete di fronte, un passaggio ad arco che immetteva in un’altra stanza. La sala da pranzo, probabilmente.
Gribbin era accanto alla poltrona, con le mani alzate e il viso impassibile. I suoi occhi fissavano alternativamente Thorne e la porta dalla quale uno degli agenti locali stava entrando con Sandra Cook. Lei diede uno spintone a Brigstocke e a Stone e per poco non riuscì a togliere di mezzo anche Holland. «Che cazzo volete?» urlò.
Thorne la ignorò e si rivolse a Gribbin. «Raymond Gribbin, sei in arresto per violazione della libertà vigilata, che…»
Si interruppe, fissando il passaggio ad arco. Una dopo l’altra, tutte le teste si voltarono a guardare la ragazzina che ne era emersa.
«Che cosa succede, Ray? Ho paura…»
Gribbin abbassò le mani, aprendo le braccia e facendo un passo verso la bambina. «Non devi preoccuparti, dolcezza…»
Tutto accadde in pochi secondi. Stone, dando prova di prontezza di riflessi e velocità, si buttò addosso a Gribbin prima che Thorne, Holland e Sandra Cook potessero fare una mossa per impedirglielo. «Non toccarla, bastardo!»
Gribbin stava per attirare a sé la bambina, quando fu costretto a voltarsi per difendersi. Afferrò Stone per il colletto, barcollando all’indietro e sbattendo contro il televisore. Stone si liberò dalla presa e colpì l’uomo con una testata in faccia. Soltanto allora tre paia di mani calarono su di lui e lo trascinarono via, mentre Gribbin cadeva in ginocchio e la bambina correva a rifugiarsi singhiozzando tra le braccia della madre.
Stone cercò di tenersi in piedi e di assicurare agli altri che si era calmato e che potevano togliergli le mani di dosso.
Thorne attraversò la stanza e si chinò su Gribbin.
L’uomo aveva la testa appoggiata contro il televisore, una mano stretta a pugno e l’altra sanguinante. Dallo schermo dietro di lui provennero un applauso e la voce di una presentatrice che invitava gli spettatori in studio a raccontare le loro vacanze da incubo.
Venti minuti dopo, sotto gli sguardi curiosi di tutti gli abitanti del complesso residenziale, Gribbin fu portato via, con un fazzoletto insanguinato premuto contro ciò che restava del suo naso.
All’ora del tè gli interrogatori preliminari erano finiti.
E anche se c’erano ancora alcuni controlli da fare, era chiaro, almeno per Thorne, che Gribbin non aveva nulla a che fare con l’omicidio di Douglas Remfry.
Il telefono squillò poco prima delle undici. E la voce poteva appartenere soltanto a una persona.
«Forse ha avuto fortuna, signor Thorne.»
«Ti ascolto, Kodak.»
«Non si ecciti troppo, perché in ogni caso dovremo aspettare alcuni giorni, ma la cosa sembra promettente. Si ricorda quando ho detto che mi sarebbe toccato fare il poliziotto al posto suo…?»
Thorne ascoltò.
Pareva davvero una buona pista, ma, dopo il fiasco con Gribbin, l’ottimismo era quasi completamente svanito.
Finita la telefonata, Thorne andò a stendersi a letto.
L’aria cominciava a rinfrescare.
Sotto di lui, le felci erano umide e, sopra, il cielo imbruniva.
3 agosto 1976
«Puzzi. Puzzi come la morte. Puzzi maledettamente…»
Gli occhi di lei erano vuoti. Nessun dispiacere per l’accusa, nessuna smentita, nessun segno di dolore per la posizione cui lui la costringeva, opprimendola con il suo peso sul letto.
Lui si sollevò, ritraendosi da lei. A un’estremità del letto c’era il vassoio con il cibo. Intatto.
«Sono stufo, cazzo!» esclamò. «Vuoi morire di fame? Fai pure. Ma non costringermi a cucinare per te inutilmente.»
Lei si sollevò sul cuscino e fissò lo sguardo su di lui, ma senza vederlo.
«Che cosa?» urlò lui. «Che cosa?»
La osservò per un minuto. Il suo viso era così inespressivo, che per lui era facile immaginare, creandola dal nulla, l’espressione che avrebbe dovuto avere in quel momento. Sguardo basso, labbra strette, mascelle serrate. L’espressione della vergogna.
Afferrò il piatto e lo gettò contro la parete sopra la sua testa. Lei non mosse un muscolo.
Sulla soglia, lui si voltò a fissarla in quegli occhi vitrei. I fagioli scivolavano lentamente lungo la parete alle sue spalle.
«In tribunale hanno cercato di dimostrare che tu sei stata violentata, sì, ma in fondo è stato un po’ come se te la fossi cercata. Il vestito e altre cose. Volevano dire che forse hai flirtato con lui. Ma non sapevano come fosse andata davvero. Io lo so. Sei stata tu a trascinarlo in quel fottuto magazzino e a chiedergli di farti tutto ciò che voleva…»
Chiudendo la porta della camera, udì la moglie che ripeteva in continuazione la stessa parola.
«Se… se… se…»
Lei non poteva sentirsi mentre lo diceva. Da molto tempo, l’urlo che le risuonava dentro la testa era tutto ciò che riusciva a sentire.
Thorne giunse in fondo a Charing Cross Road. Erano le undici del mattino e faceva un caldo pazzesco. Mentre imboccava Old Compton Street, si tolse la giacca e se la ripiegò sul braccio.
Soho era una zona difficile da definire. Bohémien o squallida? Caratteristica o semplicemente sporca? Probabilmente adesso era tutte quelle cose insieme. A quarant’anni e passa di distanza, i delinquenti che l’avevano tenuta in pugno negli anni Cinquanta e Sessanta erano diventati trendy. Grazie alla nuova ondata di film sui gangster inglesi, Billy Hill, Jack Spot e i loro uomini, con i loro vestiti impeccabili e i capelli imbrillantinati, si erano trasformati in icone. Ma erano stati loro, e i loro emuli degli anni Settanta, a spingere la gente del quartiere ad andarsene, a fermare il cuore di Soho.
Poi, soprattutto grazie al popolo gay, quel cuore aveva ripreso a battere. Adesso Soho era una delle poche zone della città in cui si respirava un’autentica atmosfera di comunità, che neppure l’attentato al pub Admiral Duncan di qualche anno prima era riuscito a guastare. Thorne non poteva dire di essersi sentito completamente a suo agio le poche volte che Phil Hendricks lo aveva portato a bere da quelle parti. Ma non poteva neppure negare che l’atmosfera fosse piacevole.
Superò Greek Street, Frith Street, il teatro Prince Edward e il Ronnie Scott’s. Fuori dalle caffetterie, giovani uomini sedevano ai tavolini, approfittando del caldo per mettere in mostra corpi muscolosi. Soho era ancora un ottimo posto dove mangiare e bere, ma adesso per ogni Bar Italia c’era uno Starbucks o un Costa Coffee. Per ogni rosticceria a gestione familiare, c’erano due Prêt-à-manger…
Improvvisamente Thorne si rese conto di avere fame. Non aveva il tempo di fermarsi a mangiare, ma sapeva che se avesse pranzato troppo tardi avrebbe potuto rovinarsi la cena ed era un rischio che non intendeva correre.
«Cenare insieme?» aveva detto Eve al telefono. «Perché no? Ormai abbiamo già pranzato e fatto colazione insieme…»
All’angolo di Dean Street c’era un negozio che vendeva feticci. Thorne si fermò a osservare la vetrina. Un manichino vestito di gomma, con un collare borchiato e una maschera antigas sul viso.
Quella vista gli ricordò le foto di Jane Foley e il motivo per cui si trovava lì.
Guardò l’orologio. Era in ritardo.
«Ha guardato bene quella foto?» gli aveva chiesto Bethell al telefono.
«In che senso?»
L’altro era evidentemente compiaciuto di sé. «Voglio dire, l’ha studiata…?»
«Senti, sono stanco e ho avuto una brutta giornata, perciò non farla tanto lunga.»
Ma Bethell aveva continuato. «L’ha fatta analizzare in un laboratorio? L’ha osservata con un ingranditore? L’ha scomposta in pixel…?»
«Questo è il dipartimento di polizia, Kodak. Non ho neppure un fottuto ventilatore nel mio ufficio…»
«Io invece ho buone apparecchiature. Bene, le ho usate per esaminare la foto e… tombola!»
«Cosa?»
«È stata scattata contro uno sfondo bianco, giusto? Il solito telo avvolgibile. Ora, c’è un piccolo segno sull’angolo in basso a destra che sembra una macchia, si ricorda?»
«No…»
Thorne svoltò a destra, e poi subito a sinistra in Brewer Street. Lì, più che in qualunque altra strada di Soho, era possibile vedere fianco a fianco il sordido e il sofisticato. Il sushi bar e il peepshow. La sala di massaggi shiatsu e un locale dove si praticavano massaggi di tutt’altro tipo…
Una bionda dall’aria annoiata lo invitò a entrare in un locale che prometteva “azione dal vivo”.
«Entra, amore, dai» gli disse. Thorne sorrise e scosse la testa. Lei fece una faccia come se non gliene importasse nulla. Che l’industria del sesso mirasse da sempre al profitto era risaputo, ma Thorne aveva conosciuto professioniste del settore capaci di mascherarlo ad arte. Aveva letto, poi, di una puttana leggendaria chiamata Miss Corbett, che lavorava in quelle strade nel XVIII secolo e faceva pagare agli uomini una ghinea extra per ogni centimetro che mancava al loro “albero della cuccagna” per raggiungere i ventidue da lei ritenuti soddisfacenti.
Adesso, comunque, non era più la buoncostume a percorrere quelle strade ogni notte, ma l’antidroga. I cani facevano un buon lavoro, ma secondo Thorne era una perdita di tempo.
Spreco di sforzi e di risorse, solo per inchiodare qualche drogato e magari un piccolo spacciatore, se si aveva un colpo di fortuna…
«Lei ripete spesso di aver bisogno di un colpo di fortuna, no?» gli aveva detto Bethell.
Thorne era sdraiato sul divano, con il ricevitore premuto contro l’orecchio e una mano intenta a grattare la pancia di Elvis. «Vuoi venire al punto, sì o no, Kodak?»
«Il punto è che stavolta ha avuto il suo colpo di fortuna, signor Thorne. Ho passato la foto allo scanner, l’ho trasferita sul mio computer e l’ho ingrandita parecchio. Si può fare qualunque cosa, se l’originale è di buona qualità.» La voce di Bethell si era fatta ancora più acuta per l’eccitazione. «Insomma, l’ho scomposta in pixel, ho zoomato su quella macchia e ho capito cos’era. L’ho riconosciuta.»
«Riconosciuta?»
«È una bruciatura sul telo dello sfondo. E l’ho riconosciuta perché ero lì quando si è prodotta. Stavo fotografando un gioco a tre, nove mesi fa, e una troia con in corpo qualche pasticca di troppo ha fatto cadere una lampada. Sarebbe potuto succedere un vero casino, ma per fortuna l’unico danno è stato quella bruciatura. E il taccagno che gestisce lo studio non si è mai preoccupato di cambiare il telo.»
Thorne si era messo a sedere sul divano e aveva ascoltato con attenzione. «Nome e indirizzo del taccagno sarebbero un’ottima informazione.»
«Charles Dodd. Charlie, in realtà, anche se a lui non piace. Vuole fare il fine, ma viene da Canvey Island.»
«Kodak…»
«Lo studio è sopra una pescheria, in Brewer Street.»
Thorne conosceva il posto. «Bene, ora ascolta…»
«Dovrà aspettare qualche giorno, signor Thorne. Dodd è in Europa. Ho controllato.»
Thorne si era messo a pensare ad alta velocità. Era una buona idea aspettare? Non sarebbe stato meglio ottenere un mandato e perquisire lo studio mentre Dodd era assente?
«Mi sembra di aver fatto un buon lavoro, signor Thorne» aveva detto Bethell. «Cosa ne pensa?»
«Voglio che mi chiami immediatamente, appena torna.»
Ora, tre giorni dopo quella conversazione, Thorne osservava Dennis Bethell che, sull’altro lato della via, sfogliava libri d’arte in una libreria nel cui seminterrato probabilmente era in vendita anche parecchio materiale “artistico” di sua produzione.
Mentre si accingeva ad attraversare la strada, Thorne fu urtato da un uomo che veniva da sinistra a passo svelto e, con una reazione tipicamente britannica, fu lui a chiedergli scusa.
L’altro grugnì, sollevò una mano e proseguì per la sua strada.
Bethell gli fece un segno da dentro la libreria. Thorne rispose con un cenno del capo e si avviò. Bethell mise giù un libro di nudi e lo seguì.
Welch ridacchiò mentre percorreva Wardour Street. Aveva imparato varie cose in prigione. Una era non scusarsi mai. Un’altra era come riconoscere un poliziotto a colpo d’occhio…
Da quando era stato rilasciato, camminava molto. L’ostello era deprimente, mentre fuori il tempo era meraviglioso e le donne che se ne andavano in giro mezze nude erano splendide. Arrapanti.
Lungo tutta la strada c’erano locandine di film esposte nelle vetrine dei negozi. A Welch piaceva andare al cinema. Ci era andato anche la sera prima di essere arrestato. The Blair Witch Project. Ricordava bene come lei gli si era stretta contro durante le scene raccapriccianti, come gli aveva tenuto stretto il ginocchio. Tutti segnali che lui aveva capito al volo. Ma più tardi quella troia aveva cambiato parere. Aveva cercato di prenderlo per il culo.
Quel modo di fare delle donne non finiva di stupirlo. Portavano un uomo allo spasimo, lo eccitavano fino a fargli quasi esplodere le palle e poi tutt’a un tratto dichiaravano che non ne avevano voglia, che era troppo presto, o altre stronzate del genere.
Lui, però, non ci aveva creduto. Aveva pensato che lei semplicemente non volesse dargli l’impressione di essere una puttana e che avesse solo bisogno di una piccola spinta…
Poi era rimasto a bocca aperta quando, il pomeriggio del giorno dopo, era andato ad aprire la porta e si era trovato davanti la polizia. E mentre gli prendevano le impronte digitali, non aveva fatto altro che scuotere la testa.
Il poliziotto maschio, il sergente, pensava che fosse tutta una perdita di tempo. Era evidente. Quando Welch aveva raccontato come si era comportata quella puttana al cinema, il sergente aveva annuito. Ma la sua collega gli era stata ostile fin dall’inizio. «Sei bravo a interpretare i segnali, eh?» aveva detto, accendendo il registratore portatile. «Allora dimmi cosa sto pensando in questo momento.»
«Che ti piacerebbe scopare con me, se non fossi lesbica?»
Si vide sorridere nel riflesso di una vetrina, ricordando la faccia che aveva fatto la donna. Ma il sorriso svanì quando ripensò all’espressione di quella stessa donna in tribunale, il giorno in cui era stato condannato.
Nella vetrina successiva c’era una locandina dell’ultimo film con Bruce Willis. Un missile, il sorriso insolente di Bruce e una bionda dalle tette rifatte. Forse sarebbe andato a vederlo la settimana dopo, quando finalmente sarebbe arrivato l’assegno del sussidio di disoccupazione. Per il momento era meglio risparmiare. I pochi soldi che aveva non sarebbero durati ancora a lungo, soprattutto perché l’indomani avrebbe dovuto spenderne buona parte per pagare l’hotel…
«Sei sicuro che ci sia?»
«C’è, signor Thorne. È tornato ieri dall’Olanda. Era andato a rifornirsi di materiale.»
Thorne annuì. I fiori non erano l’unica cosa che arrivava dall’Olanda…
Si trovavano di fronte alla pescheria. L’insegna al neon del Raymond Revue Bar illuminava di riflessi rossi e blu i salmoni, le aringhe e i rombi. Accanto al negozio, una stretta porta marrone.
Bethell affondò le mani nelle tasche dei pantaloni di pelle, spostando il peso da un piede all’altro. «Bene, ora è meglio che io me ne vada…»
Thorne tirò fuori il portafoglio, chiedendosi se i pantaloni così attillati di Bethel non avessero qualcosa a che fare con il suo modo di parlare in falsetto. Contò cinque banconote da dieci e gliele allungò. Bethell a sua volta gli passò una busta. «Le restituisco la foto…»
Thorne indietreggiò di un passo ed esaminò la busta in controluce. «Sarebbe meglio che io non vedessi mai questa immagine su Internet, okay?» disse.
Bethell fece una risatina stridula. «Non sapevo che visitasse quel tipo di siti.» Thorne si stava già avviando verso la porta marrone. «Senta, non farà il mio nome, vero?»
Thorne si voltò. «Come? Non posso entrare e dire: “Mi manda Dennis”?»
«No, davvero…»
«Tranquillo, Kodak. La tua reputazione resterà intatta.»
Thorne premette il sudicio bottone del citofono e fece un passo indietro. Guardò in alto, verso una tenda grigia che rimase immobile, e poi a destra, dritto nell’occhio nero di un brutto pesce nella vetrina della pescheria. Il negozio aveva un aspetto antiquato, ma i prezzi erano perfettamente aggiornati.
«Sì…?»
«Signor Dodd? Vorrei noleggiare il suo studio per qualche ora, possiamo parlarne con calma?»
Seguì un’attesa carica di sospetto, in cui Thorne si trovò a guardare di nuovo l’occhio del pesce.
Poi il portone si aprì.
Charlie Dodd lo aspettava in cima a un’angusta rampa di scale. Era un uomo sulla cinquantina, con le labbra sottili e il riporto. Sorrise, cercando di sembrare cordiale, ma di fatto gli sbarrò l’accesso.
Quando Thorne gli mostrò il distintivo, il sorriso diventò una smorfia. «Ha un mandato?»
«Non ne ho bisogno. È stato lei a farmi salire.»
«Ascolti, lei evidentemente non è uno dei ragazzi dell’ispettore capo Davey. È tutto a posto…»
Molte cose, a Soho, non erano cambiate affatto negli ultimi quarant’anni. Thorne prese nota mentalmente di quel nome, mentre superava Dodd e spingeva la porta di legno grezzo.
Dodd lo seguì all’interno. «Vuole almeno dirmi come si chiama?»
Lo studio non era più grande di una camera matrimoniale e il mobile principale era proprio un letto a due piazze.
Ma le analogie con una stanza da letto normale finivano lì. Le pareti erano dipinte di nero e luci di vario tipo pendevano da sbarre fissate al soffitto. Thorne pensò che l’assortimento di vibratori e costumi erotici che aveva davanti a sé si poteva trovare forse solo nelle camere da letto di alcuni importanti membri del parlamento.
Un uomo con una telecamera in spalla si voltò verso di loro. Dietro il letto, Thorne vide lo sfondo bianco con la bruciatura nell’angolo in basso a destra. Sul letto c’erano due ragazze magre. Una allungò una mano verso un pacchetto di sigarette sul pavimento. L’altra fissò Thorne con un’espressione assente.
«Cosa succede?» disse l’uomo con la telecamera.
Thorne sorrise. «Continui pure, non si preoccupi di me.»
Dodd fece un gesto con la mano per segnalare che era tutto a posto e poi si rivolse a Thorne. «Non stiamo facendo nulla di illegale, perciò perché non si toglie dai piedi?»
«E che mi dici della roba che hai appena portato dall’Olanda, Charlie?» Thorne lo prese per un braccio, spingendolo in un angolo. «Oh, scusa, so che preferisci essere chiamato Charles…»
Gli occhi acquosi di Dodd si strinsero, mentre la sua mente cercava di individuare l’autore della soffiata. «Cosa vuole?»
Thorne estrasse la foto dalla busta. «Questa foto è stata scattata qui» disse, tendendogliela. «Voglio soltanto sapere chi l’ha scattata. Niente di troppo difficile.»
Dodd scosse la testa. «No, non si tratta del mio studio.»
Thorne gli si avvicinò fino a sentirne l’odore di sudore e lozione per capelli. Indicò con un dito la macchia sulla foto, poi sollevò la testa di Dodd e la puntò verso la bruciatura sul telo bianco. «Guardala meglio, Charlie…»
Dodd tornò a osservare la foto.
L’uomo con la telecamera si era rimesso al lavoro e spiegava alle due ragazze le posizioni che dovevano assumere. Una delle due iniziò a gemere in modo teatrale, senza smettere di fumare e di fissare il soffitto, mentre la telecamera zoomava sulla testa dell’altra affondata tra le sue gambe.
«Se è stata fatta qui, allora è successo mentre io non c’ero» concluse Dodd, restituendo la foto a Thorne. Indicò il letto con un cenno del capo. «Per roba di routine come questa di solito sono qui, ma ci sono anche casi in cui i clienti preferiscono non avermi intorno a ficcare il naso. Capisce cosa voglio dire? Pagano bene per il noleggio dello studio, perciò…»
«Balle» tagliò corto Thorne, spingendogli la foto davanti al viso. «Vedi animali qui, Charlie? O bambini?»
Dodd allontanò il braccio di Thorne e scosse la testa.
«Questa non è roba forte, Charlie. E ce n’è tutta una serie, perciò fa’ lavorare la memoria.»
Dodd cominciava a mostrarsi agitato. Si passò le mani tra i capelli radi. «Io non c’ero, vuole capirlo? Me ne ricorderei, altrimenti. Ricordo ogni singolo scatto fatto in questo studio e, come ha detto lei, questa è una foto abbastanza innocua, perciò non avrei nessun motivo di mentire.»
Sul letto, la ragazza che fumava si chinò a spegnere la cicca in un portacenere. L’uomo con la telecamera si avvicinò ulteriormente. «Avanti» disse all’altra. «Ficcale la lingua nel culo.»
«Allora cerca di ricordare chi ti ha chiesto di toglierti dalle palle durante una seduta fotografica, negli ultimi sei mesi.»
«Cristo, ma lo sa quanta gente affitta questo posto?»
«Questo non è un cliente abituale. Probabilmente è venuto una volta sola.»
«Sì, ma…»
«Un uomo e una ragazza. Pensaci…»
L’uomo con la telecamera sferrò un calcio irritato al bordo del letto e si voltò. «Volete piantarla, voi due? Sto registrando in presa diretta, porca miseria!»
La ragazza che lavorava di lingua sollevò la testa e fissò Thorne. Le luci la facevano sembrare ancora più pallida, accentuando l’effetto della droga che aveva preso.
Dodd riprese a parlare e Thorne fu felice di poter distogliere lo sguardo.
«C’è stato un tizio, circa cinque mesi fa. È venuto una volta sola. Voleva lo studio per un paio d’ore. Di solito, anche quando chiedono che io me ne vada, mi trattengo qualche minuto per sistemare le luci, ma lui disse che avrebbe fatto tutto da solo, che sapeva usare le apparecchiature.»
«E la ragazza?»
«Non ho mai visto nessuna ragazza. Quell’uomo era solo.»
«Dammi un nome.»
Dodd sbuffò, irritato. «Ma certo, adesso controllo il registro. Anzi, magari chiedo alla mia segretaria di farlo. Ma che cazzo…»
Thorne fece un passo verso la porta. «Mettiti la giacca, Charlie. Ho bisogno di un identikit di quell’uomo e sarà bene che la tua memoria per le facce sia buona quanto quella che hai per culi e tette.»
«Mi dispiace, amico, ma non ci sarà nessun identikit. Il motivo per cui mi sono ricordato di lui è proprio che all’inizio l’avevo preso per un pony express, o qualcosa del genere. Era vestito di pelle dalla testa ai piedi e portava un casco dalla visiera scura…»
Thorne capì subito che Dodd diceva la verità. Sentiva come una forte pressione alla base della testa. Il suo colpo di fortuna che andava in malora.
«Devi averlo visto più di una volta, di sicuro.»
«Due volte. Quando è venuto a noleggiare lo studio e il giorno in cui ha scattato le foto.» Dodd cominciava ad assumere un’aria leggermente compiaciuta. «Ma tutte e due le volte aveva il casco in testa. Ricordo perfettamente come se ne stava lì sulle scale, tutto vestito in pelle come un fottuto killer, in attesa che io me ne andassi…»
Dall’altra parte della stanza, si udì il ronzio di un vibratore. L’uomo con la telecamera aveva ripreso a girare.
Thorne si voltò e spalancò la porta. Avrebbe raccolto in seguito la deposizione firmata di Dodd, per quello che valeva. Era andato a sbattere contro un altro muro. Un muro che gli sembrava solido e dipinto di nero proprio come quello del postaccio da cui era appena uscito.
Scese le scale a due gradini per volta, senza riuscire a scacciare l’immagine che gli si era fissata nella mente: il viso di quella ragazza sul letto quando aveva alzato lo sguardo su di lui, la bocca e il mento umidi e gli occhi neri e morti come quelli del pesce nella vetrina della pescheria.
10 agosto 1976
Era la prima volta da molto tempo che lei aveva una reazione di qualche tipo.
Lui non se lo aspettava e, in un certo senso, la cosa gli fece piacere.
Vedere la sua bocca aprirsi leggermente, i suoi occhi spalancarsi nell’osservare la mano di lui che si stringeva intorno alla base della lampada.
«Per favore» disse. «Per favore…»
Nei pochi istanti in cui tenne la lampada sollevata sopra la testa, lui pensò ai diversi significati che quell’espressione poteva avere, a seconda di come veniva pronunciata.
Per favore, non farlo.
Per favore, fallo.
Per favore, non smettere.
Per favore, fammi godere.
Per favore, per favore…
Mentre le abbatteva addosso la lampada con tutta la forza che aveva in corpo, pensò che quelle due parole fossero le più appropriate in vista della morte.
Se non altro, per come le aveva pronunciate ora, erano sincere.
A ogni colpo i suoi pensieri si facevano più chiari, meno annebbiati.
Finché, quando ormai lei era irriconoscibile, riuscì a ricordare dove aveva visto l’ultima volta il cavo da traino, nel garage.
Quel tremendo iato tra l’arrivo e il momento in cui cominciava ad accadere qualcosa…
Presto, fu loro spiegato, dai vassoi del buffet sarebbe stata tolta la pellicola trasparente e presto il deejay sarebbe partito con la musica. Fino a quel momento, al bar c’erano centocinquanta sterline di aperitivi già pagati, perciò tutti potevano farsene almeno un paio e brindare ancora una volta agli sposi, mentre aspettavano che avesse inizio il divertimento…
Purtroppo, al bar di quel club del rugby la gente era poca e il rumore non formava un confortante paravento dietro cui Thorne potesse nascondersi. Prese una pinta di birra amara per suo padre, una mezza di Guinness per sé e si rifugiò nell’angolo più appartato che riuscì a trovare. Si sedette e si sforzò di provare entusiasmo per le uova alla scozzese, il pasticcio di maiale e l’insalata di pasta. Sollevava il bicchiere alla salute di tutti coloro di cui incrociava lo sguardo e faceva del suo meglio per non sembrare annoiato, o, peggio ancora, triste.
Suo padre, invece, sembrava perfettamente a proprio agio. Seduto su una sedia accanto al bancone del bar, raccontava barzellette a una coppia di adolescenti, che sorridevano educati sorseggiando i loro drink. E informava ogni donna di passaggio che lui aveva la memoria di un pesce rosso, a causa di quella malattia dal nome strano… Come si chiamava? Lo aveva dimenticato. E chiedeva con una strizzata d’occhio di perdonarlo se era andato a letto con qualcuna di loro e ora non se ne ricordava.
Thorne era felice di vederlo così in forma, soprattutto dopo la telefonata del giorno prima, che aveva messo fine alla sua serata con Eve Bloom…
Il tavolo di pino naturale in cucina era apparecchiato per quattro, ma Thorne non aveva ancora incontrato gli altri due commensali. Eve, intenta ai fornelli, si girò verso di lui.
«Nel caso te lo stessi chiedendo, sono chiusi in camera.» Abbassò la voce fino a un sussurro. «Credo che abbiano litigato…»
Thorne stava versando il vino in due bicchieri. «Ah» disse, anche lui in un bisbiglio. «Una lite seria? Significa che ceneremo da soli?»
Eve si avvicinò al tavolo e prese il suo bicchiere di vino. «Non credo proprio. Ben non è il tipo da saltare la cena per una discussione. Alla salute.» Bevve un sorso e posò il bicchiere accanto ai fornelli, vicino a una serie di padelle di rame. Fece un cenno con il capo in direzione delle voci irritate che provenivano da qualche punto dell’appartamento. «E comunque a loro piace litigare. Sono liti un po’ violente, ma di solito durano poco.»
«Violente?» ripeté Thorne, in un tono che cercò di far sembrare casuale.
«Non nel senso che credi tu. Parecchie urla, oggetti buttati a terra… tutta roba infrangibile, però.»
Thorne la fissò. Eve gli voltava di nuovo la schiena, occupata con la cena. Aveva le spalle brune, che contrastavano piacevolmente con il color crema del suo top.
«Io invece sono di quelle che sopportano a lungo,» disse Eve «e poi esplodono tutto in un colpo.»
«Farò attenzione a non provocarti.»
«Non preoccuparti: se accadrà, te ne accorgerai di sicuro…»
Thorne si guardò intorno nella cucina. Un paio di locandine di film in bianco e nero incorniciate. Teiera, tostapane e frullatore in acciaio cromato. Un grande frigorifero dall’aria costosa.
Il negozio rendeva bene, evidentemente, anche se Thorne non sapeva quali oggetti fossero di Eve e quali della sua coinquilina. Quasi certamente la collezione di erbe in vasi di terracotta era un contributo di Eve, così come l’elenco di nomi latini (probabilmente di fiori da ordinare) scarabocchiati sull’enorme lavagna che occupava un’intera parete. Thorne notò con soddisfazione il proprio nome e numero di cellulare nell’angolo in basso a sinistra.
«E qual è il motivo della lite dei tuoi amici, se posso chiederlo? Nulla di serio, spero…»
Eve si voltò, leccandosi le dita. «Hai presente Keith, quello che mi dà una mano in negozio, il sabato? Be’, era qui quando Ben è arrivato. Ben è convinto che abbia una cotta per Denise e lei gli ha detto di non fare il cretino…»
Thorne ricordò il modo in cui Keith l’aveva guardato mentre parlava con Eve nel negozio. Probabilmente Denise non era l’unica persona per cui aveva una cotta…
«E tu cosa ne pensi?» chiese. «Di Keith e Denise…»
Si udì il cigolio di una porta e un attimo dopo entrò in cucina una donna snella e bionda. Era a piedi nudi e indossava un gilè da uomo e un paio di calzoncini mimetici. Si avvicinò a Eve da dietro e le diede un generoso pizzicotto sul sedere. «Cazzo, che odorino!»
Poi si voltò verso Thorne. Aveva i capelli più corti e più chiari di Eve e, per quanto magra, rivelava braccia e spalle ben definite. I lineamenti delicati del volto erano trasfigurati dall’enorme sorriso che si allargava da una guancia all’altra.
«Ciao, tu sei Tom, vero? Io sono Denise.» Attraversò la cucina, strinse la mano tesa di Thorne e si lasciò cadere su una sedia. «Preferisci Tom, Thomas, o cosa?» Prese la bottiglia di vino e se ne versò un bicchiere.
«Tom va bene.»
«Eve non fa altro che parlare di te, sai?» disse nel tono confidenziale di una vecchia amica. Thorne non sapeva che cosa replicare, così si limitò a bere un sorso di vino. «Tom qui, Tom là» continuò Denise. «Una cosa nauseante. Sono certa che l’unico motivo per cui ora ci dà risolutamente le spalle è che è rossa come un peperone.»
«Piantala, Den» disse Eve ridendo, senza voltarsi.
Denise tracannò un sorso di vino e rivolse a Thorne un altro dei suoi formidabili sorrisi. «Quindi stasera abbiamo a cena un cacciatore di assassini, in carne e ossa.»
Thorne aveva bisogno di rilassarsi, dopo la mattinata a Soho. E quella donna, evidentemente matta come un cavallo, era divertente.
«In questo momento, sono un cacciatore con il carniere vuoto…»
«Tutti abbiamo i nostri periodi difficili, Tom. Domani probabilmente ne prenderai un intero branco.»
«Me ne basterebbe uno solo…»
«Già» disse Denise, sollevando il bicchiere come per un brindisi. «Uno di quelli grossi.»
Thorne lanciò un’occhiata verso Eve e lei dovette sentirla, perché si voltò e sorrise. Thorne, allora, si rivolse a Denise. «E tu che lavoro fai?» “Attrice, poetessa, artista…” pensò, fissando il piccolo piercing a diamante che aveva nel naso.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Tecnico informatico. Una noia mortale.»
«Be’…»
«No, non dire niente. Ho già visto il tuo sguardo appannarsi. Ma come credi che mi senta, io, circondata tutto il giorno da fanatici del Signore degli anelli, che si scambiano battute su floppy e hard…»
Risero.
In quel momento un uomo, che secondo i calcoli di Thorne doveva essere Ben, entrò in cucina e Denise smise subito di ridere. L’uomo andò ad appoggiarsi contro il piano di lavoro accanto ai fornelli e cominciò a mordicchiarsi un’unghia. «Ciao» disse, rivolto a Thorne.
«Ciao. Tu sei Ben?»
Fu Denise a rispondere, mentre si versava dell’altro vino. «Già, lui è Ben» confermò, rivolgendo all’uomo un sorriso acido che lo ferì. Eve lanciò uno strofinaccio addosso all’amica. «Ora basta, voi due, piantatela!» Si allungò verso Ben e gli diede un bacio su una guancia. «Tra cinque minuti è pronto.»
Ben aprì il frigorifero, prese una lattina di birra e chiese a Thorne: «Ne vuoi una?».
Thorne sollevò il bicchiere di vino. «No, grazie.»
Ben andò a sedersi accanto a lui, passando alle spalle di Denise. Era alto e abbastanza atletico, aveva i capelli biondi ondulati, il pizzetto e le basette ben scolpite. Si vestiva come un quindicenne, ma doveva avere almeno trent’anni. «Ben Jameson» si presentò, tendendo la mano.
Thorne si presentò a propria volta, sentendosi un po’ fuori posto, con i suoi pantaloni lunghi e la polo.
«Ho una fame da lupo» disse Ben.
«Ottimo» ribatté Eve, portando i piatti in tavola. «Ho preparato un sacco di roba.»
Per circa mezzo minuto gli unici rumori furono quelli di piatti e posate e di sedie che si spostavano sul pavimento, mentre la cena veniva servita.
«Ha un magnifico aspetto» commentò Thorne.
Grugniti e cenni di assenso da parte di Denise e Ben, sorriso di Eve, poi silenzio. Thorne si voltò verso Ben. «Sei anche tu un tecnico informatico?»
«Come, scusa?»
«Mi chiedevo se tu e Denise vi foste conosciuti al lavoro…»
«Oh, no. Io sono un regista.»
«Hai fatto qualche film che posso aver visto?»
«Non credo, a meno che tu non sia un appassionato di video aziendali» intervenne Denise.
Thorne sentì che il suo piede premeva qualcosa, sotto il tavolo. Sperò che si trattasse del piede di Eve. Lei lo fissò…
«Eh, già, questo è ciò che faccio al momento» disse Ben, tamburellando con la forchetta contro il piatto. «Ma ho anche un mio progetto, che sto cercando di far decollare.»
Denise appoggiò una mano sopra la sua, interrompendo il tamburellare della forchetta. «Ma certo, caro» disse, in tono condiscendente. «Certo che hai un tuo progetto…»
«E tu, che mi dici, Den?» replicò Ben senza alzare gli occhi dal piatto. «È successo qualcosa di interessante, ultimamente, dalle tue parti? Qualche nuovo virus, o un hard disk che è saltato, lasciando tutti con il fiato sospeso…»
Thorne infilzò una forchettata di pasta e scambiò un’occhiata con Eve, che gli sorrise stringendosi nelle spalle. Denise e Ben evitavano di guardarsi. A quanto pareva, la lite era ufficialmente finita, ma entrambi avevano ancora intenzione di mettere a segno qualche punto.
«Adesso basta» disse Eve, incrociando le braccia. «O voi due vi scambiate subito il bacio della pace, o vi togliete dalle palle e ve ne tornate in camera. Potete sempre ordinarvi una pizza…»
Non appena Denise e Ben alzarono lo sguardo su Eve, che si sforzava di mantenersi seria, la tensione tra loro si sciolse e in men che non si dica erano l’uno nelle braccia dell’altro a scambiarsi baci e carezze. Si scusarono senza imbarazzo anche con Eve e con Thorne, il quale rimase colpito dalla solida amicizia che univa quei tre.
Sorrise, respingendo con un cenno della mano le loro scuse, e provò una punta d’invidia.
Quando squillò il suo cellulare, Denise si protese verso di lui, eccitata. «Potrebbe essere il primo assassino da mettere nel carniere, Tom.»
Thorne si irrigidì quando vide il nome che apparve sul display. Per un attimo pensò di alzarsi e andare in un’altra stanza per rispondere, fingendo che si trattasse davvero di una chiamata di lavoro. Poi decise di non essere troppo drammatico, si scusò e si mise in ascolto.
«È un disastro, Tom. Un vero disastro. Ho cercato di sistemare tutto per domani. Per il viaggio. E ho scoperto che c’è un problema con l’abito blu…»
Mentre Eve e i suoi amici fingevano di ignorarlo, Thorne ascoltò il padre passare dal panico all’isteria più completa in meno di un minuto. Quando cominciarono i singhiozzi, allontanò la sedia dal tavolo e si alzò, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento.
«Ascolta, papà, sarò lì domani mattina presto, non preoccuparti.» Si avvicinò alla finestra della cucina e fissò la luce del molo di Canary, che sembrava ammiccargli. Si domandò che cosa avrebbe dovuto fare.
Eve si alzò e gli si avvicinò, mettendogli una mano sul braccio.
«Va bene, papà» disse Thorne. «Passo un attimo da casa a prendere la mia roba, ritiro la macchina a noleggio e vengo subito da te.»
La puttana alla reception fissò Welch come se fosse un pezzo di merda attaccato alle scarpe di qualcuno. Come se quello fosse l’ingresso del Ritz…
«Ho prenotato per telefono un paio di giorni fa» disse Welch.
La ragazza fissò il monitor del computer con un sorrisetto di circostanza, falso e freddo. «Solo una notte, giusto?» chiese.
Welch ebbe voglia di darle un ceffone. «Sì, solo una notte. È compresa anche la colazione, vero?»
La ragazza non alzò neppure lo sguardo. «Sì, la colazione è inclusa nel prezzo.»
Welch si chiese cosa sarebbe successo se la mattina dopo fossero scesi in due. Ma preferì non chiederlo.
«Ci vorrà solo un attimo» disse la ragazza.
Mentre batteva sulla tastiera, Welch si guardò intorno. Piante di plastica e una moquette che doveva graffiare come ghiaia. Accanto al banco della reception c’era un cartello che diceva: “Il Greenwood Hotel dà il benvenuto alla Thompson Mouldings Ltd…”.
«Ecco fatto» disse la ragazza, spingendogli davanti un modulo. «Può riempire questo, per favore?»
Welch dovette fare uno sforzo per ricordarsi l’indirizzo dell’ostello.
«Ho bisogno anche della sua carta di credito. Non le sarà addebitato nulla, ma…»
«Non ce n’è bisogno, pago in contanti.» Welch firmò il modulo, estrasse dalla tasca un rotolo di banconote e iniziò a contarle. L’ostello era un posto fetido, ma il fatto di essere stato rilasciato come “persona priva di fissa dimora” aveva i suoi vantaggi. Il sussidio era il doppio del normale.
«Niente pagamenti anticipati» disse la ragazza. «Salderà il conto quando lascia la stanza.» Appoggiò una chiave sulla mazzetta di banconote e spinse il tutto verso di lui. «Stanza 313. E al terzo piano.»
Welch afferrò il denaro. «Lo so, porca puttana!» disse, cercando di non alzare troppo la voce. «Non sono scemo, capito?»
La ragazza arrossì e distolse lo sguardo.
Welch prese la borsa di plastica con dentro spazzolino, preservativi, mutande e calzini puliti. Gli restava abbastanza tempo per una birra al bar con il gruppo della Thompson Mouldings, ma ripensandoci preferì andare in camera a farsi una doccia. Voleva godersi ogni minuto di quella serata…
Sorridendo tra sé, si avviò verso l’ascensore.
C’erano cose che accadevano soltanto ai matrimoni. Una settantenne che ballava con un ragazzino in un angolo. Due ultraquarantenni che si gridavano commenti sul cibo, i vestiti e il servizio da una parte all’altra del tavolo, cercando di sovrastare la musica di Madonna, degli Oasis e di George Michael. Bambini che giocavano a scivolare sulla pista da ballo lucida, mentre i più piccoli strillavano o dormicchiavano malgrado il chiasso.
Parenti e amici si guardavano tra loro, con intenzioni diverse. Una scopata o una lite dipendevano da un’occhiata, o da una birra in più.
La coppia felice aveva dato inizio alle danze venti minuti prima, con La signora in rosso. Thorne non si era mosso dal suo angolo. Da lì poteva osservare la sala e tenere d’occhio il padre.
Quando si accorse che suo padre non era più seduto al bar, si alzò, ordinò un’altra Guinness e, aspettando che la schiuma nel bicchiere si riducesse, fece un giro per la sala.
Passò accanto a gente che conosceva solo di vista e a parecchi sconosciuti, con i volti accesi dai riflessi delle patetiche luci da discoteca rosse, verdi, blu. Poi lanciò un’occhiata alla propria destra, attraverso un passaggio ad arco che immetteva in una sala più piccola, e vide suo padre che camminava lungo il tavolo del buffet parlando da solo e accumulando su un piatto di carta una quantità di cibo che non avrebbe mangiato.
«Vacci piano, papà. Quante cosce di pollo può mangiare un uomo?»
«Fatti i cazzi tuoi.»
«È troppa roba. Metti una mano sotto il piatto…»
«Merda.»
Il piatto stracolmo si piegò, lasciando cadere il cibo. Come un materasso che cede sotto il peso di un cadavere…
Thorne provò un moto di irritazione verso il padre, verso quella situazione che lo costringeva a fargli da balia. Ma ciò che lo irritava di più, probabilmente, era il pensiero che, se fosse rimasto a casa, non avrebbe avuto nulla da fare. Tutte le piste che aveva seguito si erano rivelate vicoli ciechi e non ne erano emerse di nuove.
Si chinò per raccogliere il cibo dal pavimento, poi ci ripensò e lo spinse sotto il tavolo con il piede.
La stanza era enorme. O forse lo sembrava soltanto. Welch sapeva che il suo senso della prospettiva era ancora un po’ fuori fase. Cristo, poter defecare in solitudine gli sembrava un lusso…
Dovette fare uno sforzo per non correre in bagno a farsi una sega. Come aveva fatto quando Jane si era messa in contatto con lui all’ostello. Aveva preso una delle sue foto e si era masturbato a dovere. Non riusciva a credere alla sua fortuna.
Si era stupito che lei fosse riuscita a trovarlo, ma non se n’era preoccupato più di tanto. Anzi, ne era stato felice! Non avrebbe mai pensato che avrebbe avuto ancora sue notizie, una volta fuori. Credeva che fosse una di quelle troiette che si divertono a scrivere ai detenuti finché sono dentro, ma che spariscono all’improvviso non appena vengono rilasciati. Anzi, ne era tanto sicuro che aveva gettato via le lettere appena uscito di prigione. Aveva tenuto le foto, ovviamente. Quelle non le avrebbe gettate neppure morto.
Ne aveva una con sé perfino in quell’hotel. La tirò fuori. Dio, era proprio una splendida femmina. Chissà, forse quella sera avrebbe portato anche il cappuccio e le manette. La speranza di Welch era proprio che potessero ricreare la scena della foto. Aveva passato tanto tempo a cercare di immaginare come potesse essere la sua faccia sotto il cappuccio e ora che stava per vederla scoprì che in realtà non gliene importava nulla. Sapeva com’era il suo corpo, sapeva che lei glielo avrebbe concesso e questo gli bastava.
Fece un lungo sospiro. Guardò l’orologio. Si toccò l’inguine attraverso i pantaloni. Non sarebbe riuscito a resistere ancora a lungo, se lei non fosse arrivata…
Qualcuno bussò alla porta. Tre volte. Con tocco leggero.
Tornando verso il bar, dopo aver sistemato il padre in un posto dove non poteva fare troppi danni, Thorne fu bloccato da zia Eileen, che gli domandò se avesse voglia di fare due chiacchiere con un suo nipote che meditava di entrare in polizia. Thorne pensò che avrebbe preferito lavare un cadavere e tuttavia rispose: «Ma certo, con piacere», facendosi largo verso il bancone nella speranza di trovarvi ancora la sua Guinness.
Bevve una generosa sorsata di birra, mentre osservava uno scambio di sguardi incazzati tra un cugino e uno dei testimoni. Decise che, anche se si fossero presi a pugni in quel preciso istante, lui non avrebbe alzato un dito.
Si rese conto di essersi sbagliato nel pensare che cose del genere accadessero soltanto ai matrimoni. Accadevano anche ai funerali e in altre riunioni di famiglia. “Famiglia” era la parola chiave.
La rissa sarebbe scoppiata dopo. Nel parcheggio, probabilmente.
Era in occasioni come quelle, nascite, morti e matrimoni, che le correnti sotterranee salivano in superficie e cominciavano a ribollire tra la birra e il Bacardi. Sentimentalismo, aggressività, invidia, sospetto, avidità…
Quelle erano le emozioni riservate ai parenti e nascoste agli estranei. Anche se molti parenti erano come estranei tra loro.
Thorne vide un ragazzo sui sedici-diciassette anni che avanzava verso di lui: senz’altro il nipote in cerca di consigli. E improvvisamente si sentì dell’umore giusto per dargliene.
Avrebbe potuto cominciare con qualche dato statistico. Per esempio, lo scarso numero di omicidi commessi da persone che la vittima non conosceva e il numero molto più alto di quelli commessi da parenti della vittima. Avrebbe detto al ragazzo di non sorprendersi mai di ciò che le tensioni accumulate all’interno di una famiglia potevano scatenare. Gli avrebbe detto che le famiglie erano pericolose.
Che erano capaci di tutto.
Non appena l’uomo ebbe oltrepassato la soglia della stanza, Welch capì di essere nei guai.
Nei suoi occhi c’era uno sguardo che lui ben conosceva. Il tipo di sguardo che per anni aveva cercato di evitare, in prigione. Lo sguardo degli assassini e dei rapinatori a mano armata. La stessa espressione di disprezzo, di minaccia, che Caldicott doveva aver visto nella lavanderia, prima che gli cuocessero la faccia.
Welch pensò che forse avrebbe dovuto lottare di più, ma in realtà non c’era molto che potesse fare. La galera gli aveva indurito la mente, ma il corpo era diventato flaccido. Troppo tempo trascorso a leggere e troppo poco in palestra.
Nei suoi ultimi attimi di vita, Welch pensò che il dolore era molto peggiore quando non era possibile combatterlo, opporsi alla sua presenza…
L’urlo che aveva in gola si spezzò contro qualcosa che gli stringeva il collo e si trasformò in un sibilo strozzato. Neppure il suo corpo poteva fare nulla. Cercava istintivamente di ritrarsi, ma ogni movimento per sottrarsi a quei colpi furiosi faceva aumentare la pressione della corda intorno al collo e gli mozzava il respiro.
Welch spinse la testa verso il pavimento, sentendo la corda mordergli la carne e i suoi denti affondare dentro la lingua. Oppose resistenza alle mani che gli tiravano indietro il collo, contorcendosi in posizione fetale pochi secondi prima di morire.
“Sto morendo come un neonato” pensò, con gli occhi spalancati ma ciechi dentro il cappuccio, mentre una tenebra più soave e più scura cominciava ad avvolgerlo.
Thorne aveva appena messo a letto il padre e si trovava in corridoio, quando squillò il cellulare. Prima di rispondere entrò nella sua stanza e si chiuse la porta alle spalle.
«Sei ancora alzata?»
«Sì» rispose Eve. «Domani posso dormire fino a tardi. Allora, com’è stato il matrimonio?»
«Perfetto, direi. Discorsi insulsi, cibo di merda e una rissa.»
«Non intendevo la festa, ma proprio la cerimonia…»
«Ah, quella? Normale.»
Eve rise. Thorne si sedette sul letto, con il telefono incastrato tra mento e spalla, e cominciò a togliersi le scarpe. «Senti, mi dispiace molto per ieri sera…»
«Non essere sciocco. Come sta tuo padre?»
«È irritante, come sempre. Era così anche prima della malattia, del resto.» Thorne udiva in sottofondo il rumore del traffico: Eve doveva trovarsi fuori da qualche parte, ma si guardò bene dal chiederle dove. «Davvero, mi dispiace molto di essere scappato via così. Siete riusciti a mangiare tutto?»
«No, io…»
«Mi dispiace.»
«Va bene così. Sarebbe avanzata un sacco di roba comunque, avevo cucinato troppo. E poi Denise divora anche gli avanzi, quindi non preoccuparti.»
Thorne cominciò a sbottonarsi la camicia. «Ringrazia lei e Ben per l’intrattenimento.»
«Niente male, vero? Probabilmente li ho interrotti troppo presto. Ancora un minuto e uno dei due avrebbe gettato un bicchiere di vino in faccia all’altro.»
«Sarà per la prossima volta.»
Eve sbadigliò. «Scusa.»
«Ti lascio andare a dormire» disse Thorne. Se la immaginò sul sedile posteriore di un taxi, diretta al suo appartamento.
«Buonanotte, Tom. Dormi bene.»
Thorne si stese sul letto. «Senti, ti ricordi di quella scala da uno a dieci? Be’, penso che potrei salire a otto…»
Il cellulare di Thorne squillò di nuovo otto ore dopo, strappandolo a un sogno in cui cercava di salvare un uomo che stava morendo dissanguato. Ogni volta che tappava un buco con un dito, nel corpo dell’uomo se ne apriva un altro, in una scena alla Charlie Chaplin. E quando sembrava che avesse finalmente chiuso tutte le ferite, il sangue aveva cominciato a sgorgare da numerosi fori nel suo stesso corpo.
«Sarà meglio che lei torni subito a Londra, capo» disse la voce di Holland.
«Dimmi cos’è successo.»
«L’assassino ha ordinato un’altra corona di fiori…»