Parte Terza NULLA DI MALE

Il grugnito, che sembrava salirgli dalle profondità del corpo, denotava sforzo e immenso appagamento. Proveniva dalle viscere e si fondeva con l’alito caldo che filtrava attraverso i suoi denti irregolari. In sottofondo a quei rumori animaleschi, il contrappunto della carne calda che sbatte contro la carne fredda, un colpo dopo l’altro.

Senza aumentare la velocità. Senza dare nessun segno che la cosa potesse finire presto.

Prendendosi il piacere.

Infliggendo il dolore.

Come era potuto accadere? L’ingenuità e la fiducia erano stati il complemento perfetto dell’odio e della frustrazione. Era successo in un attimo. Quanto tempo era passato? Quindici minuti? Trenta?

Inutile lottare. Prima o poi finirà. Deve finire. Inutile anche pensare a cosa accadrà dopo. Forse un sorriso timido, delle scuse e una sigaretta. Magari un tentativo di spiegazione: «Io credevo… Mi avevi fatto capire che…».

Bastardo. Bastardo. Bastardo.

Finché…

Occhi che non sopportano di restare aperti si chiudono. Si presenta una nuova immagine. Piccola e sfocata, all’inizio, racchiusa in un cerchio di luce alla fine di un tunnel.

Ora i grugniti e i colpi si allontanano e l’immagine si fa sempre più vicina e chiara.

Più nitida di quanto sia mai stata. Più vivida nei colori: il rosso bagnato sulla camicia bianca; il blu cobalto della corda intorno al collo, come un serpente esotico. I suoni e gli odori del corpo, assordanti e pungenti.

E l’orrore di vedere il proprio dolore indescrivibile riflesso in quegli occhi.

Poi, alla fine, il distacco. La sensazione di qualcosa che lotta per liberarsi e alla fine fugge via da quel corpo che ondeggia lentamente appeso a una corda oliata.

CAPITOLO 17

Era una storia terribile di vite spezzate.

Una settimana dopo la visita di Carol Chamberlain, Thorne si stava dirigendo verso Braintree su un’auto sostitutiva fornitagli dalla compagnia di assicurazioni, una Laguna che in quel momento era guidata da Holland. Il silenzio che li accompagnava durante il viaggio era particolarmente pesante. Thorne sperava solo che i pensieri di Holland fossero meno cupi dei suoi.

Una storia terribile…

Jane Foley era stata violentata da Alan Franklin. Thorne ne era convinto, ma se l’abuso non era stato provato allora, difficilmente la verità sarebbe venuta a galla adesso, a distanza di oltre venticinque anni. Ciò di cui nessuno dubitava, allora come adesso, erano gli atti brutali compiuti dal marito di Jane, Dennis, ai danni della moglie e di se stesso, il 10 agosto 1976.

Thorne probabilmente non avrebbe mai saputo per certo cos’era accaduto in quella casa, tra quelle due persone. Ma sapeva che avrebbe trascorso molto tempo a immaginare quei momenti: il terrore di Jane Foley vedendo il marito avvicinarsi a lei; il senso di colpa e l’angoscia di un uomo che ha appena commesso un omicidio e che, con le mani ancora sporche di sangue, fa un cappio con un cavo da traino e se lo stringe intorno al collo.

E, poi, c’era la cosa peggiore di tutte: i due bambini che trovano i corpi dei genitori e non capiscono…

Thorne ebbe un piccolo soprassalto, quando Holland batté il palmo delle mani sul volante. Aprendo gli occhi, vide che il traffico si muoveva lentissimo. Era così da quando avevano lasciato l’M11. Non avrebbe dovuto esserci un ingorgo, di sabato mattina, eppure c’era.

«Merda» disse Holland. Era la prima parola che pronunciava da più di un’ora.

Oltre che dal pensiero di ciò che era accaduto tra Jane e Dennis Foley, Thorne era tormentato anche da una riflessione parimenti amara e triste: aveva sbagliato tutto.

Si trovava nel più grande casino che gli fosse mai capitato e, per dirlo lui, doveva proprio essere enorme…

Carol Chamberlain pensava che gli uomini che nel 1996 si erano occupati del caso Franklin non avessero controllato il suo nome nell’ufficio del Registro Generale. Ciò avrebbe rivelato il suo coinvolgimento nel caso dello stupro di Jane Foley vent’anni prima.

In realtà, era un fatto documentato che quegli uomini avevano telefonato all’ufficio del Registro Generale. Quello che, invece, non era documentato e che Thorne poteva solo supporre, era che l’impiegato idiota all’altro capo del filo avesse semplicemente saltato il nome di Franklin. Con un occhio al registro e l’altro al cruciverba, era passato al nominativo successivo. Un errore che era costato parecchio.

Ma l’errore di Thorne era costato ancora di più.

Avrebbe dovuto controllare il nome di Jane Foley e non l’aveva fatto. A voler essere precisi, non sarebbe stato compito suo, ma per lui non faceva differenza. Quella responsabilità gli pesava addosso. Non aveva mai chiesto se su quel nome fosse stato fatto un controllo all’ufficio del Registro; la cosa non gli era sembrata importante.

Perché avrebbero dovuto controllare? Jane Foley non era forse il nome fittizio di una donna fittizia…? Jane Foley era una creatura di fantasia.

Thorne sapeva perfettamente che se lui, o chiunque altro, avesse effettuato quel controllo dopo l’omicidio di Remfry, Ian Welch forse non sarebbe stato ucciso. E, come lui, Howard Anthony Southern.

Il traffico riprese a scorrere. Holland innestò la seconda con uno scatto nervoso. «Quello che mi fa incazzare è che sono sempre gli incidenti più stupidi a causare gli ingorghi.»

Il corpo della terza vittima era stato ritrovato in un hotel di Roehampton più o meno alla stessa ora in cui quella donna della Squadra dei Ripescati era entrata nell’ufficio di Thorne con le sue importantissime informazioni. E poiché lei si trovava ancora lì quando era arrivata la telefonata, Thorne l’aveva invitata ad accompagnarlo sulla scena del delitto. Gli era sembrato il minimo che potesse fare.

In quella stanza d’hotel, tra i tecnici della scientifica, il patologo e un cadavere straziato, Carol Chamberlain gli era sembrata felice come un bambino in una fabbrica di dolci.

Nei giorni successivi, l’indagine si era divisa in due filoni distinti. Da un lato, l’esame della vita della vittima e la valutazione del cambiamento avvenuto nel modus operandi dell’assassino. Dall’altro, la nuova pista aperta da Carol Chamberlain e adesso seguita da Thorne e dai suoi fedelissimi.

Holland svoltò in una strada fiancheggiata da tristi case anni Sessanta. Quando lui e Thorne scesero dall’auto con aria condizionata, la strada sembrò loro una sauna. Fecero una smorfia infilandosi la giacca.

Mentre si dirigevano verso la casa di Peter Foley, Thorne pensò a come le piste d’indagine avessero la curiosa abitudine di nascondersi, quando le si cercava.


Il fratello minore di Dennis Foley, l’unico parente che fossero riusciti a rintracciare, era ben lontano dall’essere un ospite perfetto.

Thorne e Holland sedevano a disagio su due poltrone di velluto macchiate, zuppi di sudore perché nessuno li aveva invitati a togliersi la giacca. Sul divano di fronte a loro, Peter Foley in calzoncini e camicia hawaiana aperta teneva in mano una lattina di birra gelata, che tra un sorso e l’altro si passava sul petto magro.

«Allora, lei ha undici anni meno di Dennis, è così?»

Foley ingollò un sorso di birra. «Già. Sono nato per sbaglio.»

«Quindi all’epoca del fatto lei frequentava ancora la scuola.»

«No. Dovreste almeno preoccuparvi di controllare bene le date. Nel ’76 io avevo ventidue anni e avevo lasciato l’università l’anno prima.» Il suo accento dell’Essex era marcato, la voce acuta e un po’ affannosa.

«E cosa faceva?» chiese Thorne.

«Vagabondavo qua e là. Ero un punk. Per un periodo ho anche dato una mano nei tour dei Clash…»

Anche Thorne era stato un punk, benché avesse sei anni meno di Foley.

L’uomo seduto di fronte a lui non aveva più l’aria di uno che ascoltasse quella musica. Era magro, ma aveva le braccia muscolose. Probabilmente ci aveva dato dentro con i pesi, per far risaltare meglio i tatuaggi gotici. I capelli grigi erano legati in un codino e la barba rada terminava in un pizzetto a punta. Dal suo aspetto, e dalle copie della rivista «Kerrang!» sul tavolino, era facile supporre che Foley fosse uno stagionato fan dell’heavy metal.

«Cosa crede sia successo a Jane?» chiese Thorne.

Foley si alzò un attimo per estrarre un pacchetto di Marlboro dalla tasca dei calzoncini e tornò a sprofondare nel divano. «Intende dire quando Den…?»

«No, prima, con Franklin.»

«Quel bastardo l’ha violentata.» Non c’era traccia di dubbio nella sua voce. Si accese una sigaretta. «E sarebbe finito in galera, se non fosse stato per voi…»

Holland aprì la bocca per ribattere, ma Thorne lo precedette. «Che cosa intende dire?» Ovviamente sapeva benissimo che cosa intendeva Foley ed era d’accordo con lui. All’epoca la polizia non era famosa per la sensibilità con cui trattava le vittime di violenza sessuale.

«Legga gli atti del processo. Le cose che hanno detto di Jane, in tribunale. L’hanno dipinta come una troia. Soprattutto quel poliziotto, che parlava del suo modo di vestire…»

«Lo so» disse Thorne. «A quell’epoca i reati sessuali non venivano presi molto sul serio. Anch’io sono certo che Jane sia stata violentata.»

Foley tirò una boccata dalla sigaretta, bevve un sorso di birra e annuì, fissando Thorne come se lo stesse rivalutando.

Thorne lanciò un’occhiata a Holland. Bisognava dare una piccola spinta al colloquio. Di solito non seguivano uno schema fisso negli interrogatori e non c’era una rigida suddivisione di ruoli tra loro due, anche se il compito di prendere appunti scritti era sempre di Holland.

«Sapeva che Alan Franklin è morto?» chiese Holland. «È accaduto nel 1996.»

Thorne studiò il viso di Foley, per valutarne la reazione. Vide una momentanea sorpresa e poi un’autentica gioia.

«Ottimo» disse Foley. «Spero che abbia sofferto molto.»

«È stato assassinato.»

«Ancora meglio. A chi devo spedire il biglietto di ringraziamento?»

Thorne si alzò in piedi e iniziò a girare per la stanza. Foley era un po’ troppo a suo agio. Thorne non lo considerava un possibile sospettato, almeno per il momento, ma preferiva sempre tenere un po’ sulla corda le persone che interrogava.

«Perché Dennis ha ucciso Jane, secondo lei?»

Foley lo fissò, bevve l’ultimo sorso di birra e schiacciò la lattina. «E che cosa ne so, io?»

«Suo fratello credeva a ciò che Jane aveva dichiarato al processo?»

«Non…»

«Deve almeno averci pensato su, no?»

«Den pensava un sacco di cose.»

«Pensava che sua moglie fosse una troia?»

«Ovviamente no, cazzo.»

«Ma forse, dopo il fatto, hanno cominciato ad avere problemi a letto…»

Foley si piegò in avanti all’improvviso, lasciando cadere a terra la lattina vuota. «Jane è diventata molto strana, dopo il fatto. Ha avuto un esaurimento nervoso. Ha smesso di uscire di casa, di parlare, di fare qualunque cosa. Era amica di una ragazza con cui io avevo una storia, all’epoca. Prima uscivamo tutti insieme, ma dopo il processo… anzi, dopo la violenza, non più. Jane non ci stava più con la testa. Den cercava di fingere che fosse tutto a posto, ma intanto accumulava rabbia repressa. Faceva sempre così. E quando Franklin è uscito da quel tribunale come Nelson Mandela, porca puttana, come se fosse lui la vittima…»

Foley tornò ad appoggiarsi allo schienale del divano e cominciò a giocherellare con la mezza dozzina di anelli d’argento che portava alla mano sinistra.

«Sentite, io non so cosa pensasse Den. All’epoca diceva una quantità di cose assurde, ma è comprensibile che avesse dei dubbi. Il compito degli avvocati è proprio quello di far nascere dubbi nella giuria, no? E ci sono riusciti in pieno. La gente in genere tende a fidarsi dei poliziotti, a credere a quello che dicono…»

Foley lanciò un’occhiata a Holland, poi tornò a fissare Thorne. Per la prima volta, dimostrava in pieno la sua età. Thorne notò sul suo viso i segni dell’uso di droghe pesanti.

«Qualcosa dentro di lui si è spezzato» disse Foley, a bassa voce.

Senza un motivo preciso, Thorne si chinò a raccogliere la lattina di birra dal pavimento e l’appoggiò su un ripiano di vetro e acciaio accanto al televisore. Poi si rivolse di nuovo a Foley.

«Che cosa ne è stato dei figli?»

«Come…?»

«Mark e Sarah, i suoi nipoti. Che cosa è accaduto loro?»

«Intende dire dopo che hanno trovato…?»

«No, dopo ancora. Dove sono finiti?»

«In un istituto. La polizia li ha portati via, poi sono intervenuti i servizi sociali… I ragazzi hanno ricevuto assistenza psicologica. Soprattutto il maschio, che all’epoca doveva avere otto o nove anni.»

«Ne aveva sette. E la sorella cinque.»

«Ah.»

«E allora?»

«Allora sono stati dati in affido.»

«Capisco.»

«Non c’era altro da fare. Dei nonni era viva solo la madre di Jane e non stava bene. La mia ragazza e io abbiamo chiesto che i bambini venissero affidati a noi, ma ci hanno risposto che eravamo troppo giovani. Io avevo solo ventidue anni…»

«E ovviamente c’era il fatto che suo fratello aveva appena spaccato la testa alla moglie con una lampada da tavolo…»

«Io ho chiesto di tenerli. Volevo tenerli…»

«Ed è rimasto in contatto con loro?»

«Sì, certo.»

«Li vede spesso?»

«Ora non più. Hanno cambiato casa diverse volte e alla fine ci siamo persi di vista.»

«Ha nomi e indirizzi delle famiglie che li hanno ricevuti in affido? Ha detto che hanno cambiato casa varie volte. Sono passati da una famiglia all’altra?»

«Credo di sì.»

«E non ha i loro recapiti?»

«Non più. In passato sì. Sa com’è, i biglietti di auguri per Natale, i compleanni…»

«E poi, a un tratto, è finito tutto.»

«Cose che succedono, che ci vuol fare…»

«Quindi lei non ha idea di dove vivano ora Mark e Sarah?»

Foley sbatté le palpebre, poi rise, sorpreso. «Sta cercando di dirmi che non lo sapete neppure voi?»

«Abbiamo rintracciato tutti i Mark Foley, le Sarah Foley e le Sarah che prima di sposarsi si chiamavano Foley. Nessuno di loro ricorda di aver visto il padre appeso per il collo a un cavo da traino, o la madre in una pozza di sangue con il cranio fracassato. Magari io sono un po’ vecchio stile, ma continuo a credere che una cosa del genere sia difficile da dimenticare.»

Foley scosse la testa. «Non posso aiutarvi. E comunque, anche se potessi, sarebbe contro i miei principi.»

Thorne guardò Holland. Era ora di andare.

«Prima di quella storia, Jane e Den erano una coppia normale» disse Foley. «Lavoro, casa, macchina e due bambini. E stavano bene insieme. Sono certo che alla fine sarebbero riusciti a lasciarsi alle spalle ciò che quel bastardo aveva fatto a Jane. Ma quello che è accaduto dopo, in tribunale e anche per strada, è qualcosa che lascia il segno. Ed è stata tutta colpa vostra.»

Foley parlava di un fatto avvenuto molto tempo prima, di errori cui non era più possibile rimediare e di poliziotti ormai in pensione.

Ma con il dito indicava Thorne.

CAPITOLO 18

A Thorne piaceva bere vino costoso, ma, soprattutto, birra economica. Come quella che aveva attirato la sua attenzione in una rivendita di alcolici: la stessa che aveva visto in mano a Peter Foley…

Un altro sabato in cui era rincasato dopo le dieci di sera. Eve probabilmente era ancora sveglia e lui avrebbe potuto chiamarla, ma aveva preferito non farlo. Nelle ultime due settimane si erano visti solo una volta. E, anche se si sentivano spesso al telefono, Thorne aveva notato che tra loro cominciava a insinuarsi un po’ di tensione, per il fatto che lui si trincerava spesso dietro la scusa del superlavoro.

Nei rapporti con le donne Thorne era molto pigro. Era sempre stato così, fin dai tempi della scuola. Gli piaceva seguire uno schema collaudato e diffidava dei cambiamenti. Alla fine, Jan aveva provveduto da sola a dare una svolta alla propria vita, con il suo professore di scrittura creativa…

Era successo perché lui amava l’inerzia e adesso con Eve stava accadendo la stessa cosa.

Tanto per cominciare, c’era la questione del letto. Sdraiato sul divano su cui avrebbe dormito anche quella notte, Thorne pensò a com’era assurdo che non fosse ancora riuscito a comprare un materasso nuovo. L’appuntamento che aveva con Eve la settimana prima era stato annullato, per ovvie ragioni. Thorne aveva scherzato al telefono, dicendo che scassinatori e assassini sembravano far di tutto per ostacolarli, ma in realtà riteneva quelle dilazioni… opportune.

Una parte di lui, una parte odiosa che lui accettava con riluttanza, si chiedeva quanto sarebbe durato il suo interesse per Eve una volta che l’avesse portata a letto. Ma non era quello il vero problema. Alla fin fine, c’era solo la sua maledetta pigrizia…

Dalle casse dello stereo nuovo si diffondeva la voce triste di Johnny Cash che interpretava Highway Patrolman di Springsteen. Thorne pensò che se c’era una voce in grado di esprimere l’amore e la sofferenza, l’odio e la gioia dei legami familiari, quella era proprio la voce di Cash.

Elvis miagolò per attirare la sua attenzione. Thorne si chinò, appoggiando la birra sulla moquette, e prese in grembo la gatta.

Spesso tutto si riconduceva alla famiglia…

Pensò a Sarah e Mark Foley, la cui famiglia all’improvviso era andata in pezzi, lasciandoli soli. A una generazione di distanza, quei due erano diventati introvabili. Poteva essere solo perché erano stati loro a volerlo.

Mark Foley, ora un uomo sulla trentina, era stato un bambino traumatizzato, bisognoso di assistenza psicologica. L’orrore che aveva vissuto poteva essersi trasformato in odio, dentro di lui, una volta diventato adulto? Poteva aver aspettato vent’anni per uccidere l’uomo che aveva violentato sua madre, l’uomo che lui riteneva responsabile di ciò che era accaduto ai suoi genitori? In quel momento Mark Foley era il loro principale sospettato, ma che cos’era successo tra il 1996, anno dell’omicidio di Franklin, e l’attuale ondata di delitti? Qual era la scintilla che aveva provocato l’incendio?

Thorne era sempre stato convinto che la chiave del caso fosse lo stupro. Non aveva, forse, cercato di spiegarlo anche a Hendricks? L’elemento della violenza negli omicidi di Remfry, Welch e Southern gli era sempre sembrato significativo. Ancor più significativo dell’omicidio stesso. E ora sapeva perché, anche se non aveva ancora ricostruito tutti i nessi.

E poi l’atteggiamento di tutti coloro che erano coinvolti nell’indagine era così ambiguo… Le vittime erano uomini di cui quasi nessuno avrebbe sentito la mancanza.

Secondo me chi ha ucciso Remfry ha fatto un favore alla società…

Saranno in molti a chiedersi se non dovremmo ringraziarlo…

In fondo non fa a pezzi vecchiette indifese, no?

Thorne avvertiva anche in se stesso un’ambiguità latente, che gli impediva di essere del tutto in disaccordo con simili opinioni. Eppure, doveva continuare a credere che l’omicidio fosse di per sé una cosa sbagliata.

C’erano casi in cui la scelta era facile. Odiare l’assassino, amare la vittima. Thorne non avrebbe mai dimenticato i mesi passati a dare la caccia a un uomo che uccideva le donne cercando di farle andare in coma, di trasformarle in cadaveri viventi. O il caso dei due assassini che uccidevano in coppia: l’uno perché era psicopatico e l’altro perché aveva ricevuto l’ordine di farlo.

Ma c’erano anche casi in cui una scelta tanto netta non era possibile. La moglie esasperata che uccideva il marito violento. Il rapinatore ucciso per aver tradito i compagni. Lo spacciatore accoltellato da un rivale…

E poi c’era quell’ultimo caso…

Quando Thorne si alzò in piedi, Elvis saltò a terra e si avviò verso la cucina, facendo le fusa. Thorne le andò dietro, buttò nella spazzatura le lattine vuote e rimase a fissare l’interno del frigorifero per mezzo minuto.

Quindi, andò in camera da letto e prese coperta e cuscino dall’armadio.

Detestava gli stupratori e detestava gli assassini. E cercare di decidere quale delle due categorie disprezzava di più era uno sforzo inutile.


Le risate di Eve e Denise si erano fatte più rumorose e il loro linguaggio più colorito, dopo che avevano finito la pizza e stappato la seconda bottiglia di vino rosso.

«Mandalo a farsi fottere, se non è interessato» suggerì Denise.

Eve fissò il bicchiere pieno. «Il fatto è che io gli piaccio. Lo so.»

«Ne sei proprio sicura?»

Eve finì il suo vino, poi si alzò e cominciò a raccogliere i cartoni della pizza. «Quello di cui non sono sicura è che cos’ha in mente. Penso che non lo sappia neppure lui.»

Denise afferrò un pezzo di crosta di pizza prima che Eve sparecchiasse del tutto la tavola. «Forse è uno schizofrenico, come quei matti a cui dà la caccia.»

«Già.»

«Parla del suo lavoro con te? Del caso a cui sta lavorando?»

Eve stava comprimendo i cartoni per farli entrare nel bidone della spazzatura. «No, non mi dice nulla.»

«Oh, andiamo, qualcosa dovrà pur dirti…»

«Una volta, un paio di settimane fa, abbiamo parlato un po’ di questo serial killer che sta cercando di catturare. Abbiamo quasi litigato e da allora ha evitato qualunque riferimento al suo lavoro.»

«Tranne quando gli serve come scusa…»

«Forse sono io a essere un po’ paranoica…»

Denise si versò nel bicchiere ciò che restava del vino e sollevò la bottiglia vuota con aria trionfante. Il campanello suonò.

«Dev’essere Ben» disse Denise. «Oggi ha dovuto lavorare fino a tardi, per finire un montaggio.» Ingollò una lunga sorsata di vino e uscì di corsa dalla cucina.

Eve sentì il rumore dei suoi piedi sulle scale, il cigolio del portone, i gemiti soffocati quando i due si abbracciarono sulla soglia…

Decise che, prima che loro salissero, sarebbe andata in camera sua. Avrebbe letto un po’, cercando di non pensare troppo a Tom Thorne. Si affacciò in cima alle scale e annunciò: «Vado a dormire! Ci vediamo domattina!».

L’ultima cosa che voleva era stare lì a guardarli mentre si accarezzavano.


Il sole entrava a fiotti da due grandi finestre in fondo alla stanza, ma la luce era fredda e metallica, come in una sala per le autopsie.

Una luce bianca accecante, ma Thorne sapeva perfettamente che era notte.

Indossava un pigiama e, sopra il pigiama, la giacca di pelle marrone. Si muoveva rapidamente in giro per la stanza, al ritmo di una melodia che conosceva, ma che non riusciva a identificare.

I tre letti di metallo erano equidistanti tra loro e ben allineati. Erano simili a brande da ospedale, ma più grandi e confortevoli. Su ciascuno, oltre a uno spesso cuscino e a un lenzuolo pulito, c’era un cadavere.

Thorne si avvicinava al primo letto, stringeva le mani intorno al metallo freddo e fissava Douglas Remfry. Il sedere per aria, la faccia premuta contro il lenzuolo. Cominciava a scuotere il letto, gridando, pieno di disprezzo per quell’uomo e per ciò che aveva fatto.

«Avanti, alzati, pigro bastardo. Ci sono un sacco di donne che non vedono l’ora di essere violentate. Alzati e va’ a cercarle…»

Con le scosse del letto, la pelle iniziava a staccarsi dal cadavere, scivolandogli di dosso come un vestito sporco e mettendo a nudo le ossa.

Thorne rideva, indicando ciò che rimaneva del violentatore. «Cristo, pigrone, vuoi alzarti o no?»

Si avvicinava al secondo letto e faceva cadere la pelle anche dal cadavere di Ian Welch, prendendolo in giro.

Non provava nulla per quegli uomini morti. Per quei pezzi di carne…

Davanti al cadavere di Howard Southern, Thorne si accorgeva che il letto vibrava da solo, mentre qualcosa passava rumorosamente sotto il pavimento. Un’ombra velava la luce che entrava dalle finestre e Thorne alzava lo sguardo. Osservava il movimento, avanti e indietro, finché l’odore gli colpiva le narici.

Rideva di nuovo, vedendo ciò che quei cadaveri erano diventati. Ciò che probabilmente erano sempre stati. Tre merde, ciascuna nel centro esatto del letto. Probabilmente a farle era stato il cadavere appeso al soffitto.

Thorne si svegliò e il sogno si dileguò, lasciandogli solo una serie di emozioni: disprezzo, rabbia e vergogna.

Erano le due e mezzo del mattino.

Quando anche le sensazioni furono svanite, rimasero solo i pensieri. Thorne pensava a una donna e alla violenza che aveva subito. Ormai era morta da quasi trent’anni, così come il suo assassino, ma non faceva differenza.

In Jane Foley, Thorne aveva finalmente trovato una vittima di cui poteva importargli qualcosa.

CAPITOLO 19

Era lunedì mattina. Erano passate sette settimane dal giorno in cui era stato trovato il cadavere di Douglas Remfry e più di venticinque anni dal giorno in cui Jane Foley era stata uccisa dal marito, dopo aver subito uno stupro e un processo umiliante. Thorne cercava ancora un collegamento tra i due omicidi e sperava che la donna seduta davanti a lui potesse aiutarlo.

Thorne sapeva che l’Essex, a dispetto delle barzellette sul quoziente d’intelligenza e le abitudini sessuali delle sue donne, era pieno di sorprese. Tuttavia, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di vedere a Colchester, ex capitale della Britannia romana, era un municipio che sembrava una villetta di campagna.

L’ufficio del Servizio Affidi e Adozioni era un po’ malmesso, certo, ma comunque stupefacente. E lo stupore era evidente sul volto di Thorne, mentre la direttrice faceva accomodare lui e Holland in una stanza con pannelli di quercia alle pareti, travi a vista e soffitto decorato.

«In origine questa era la rimessa. So che sembra carina, ma, credetemi, lavorarci dentro è tutta un’altra storia.» Joanne Lesser era una trentenne nera dalla pelle non troppo scura, alta e forse un po’ troppo magra per i gusti di Thorne. Le sopracciglia folte incorniciavano un viso che pareva severo, finché non si apriva in un sorriso. In quei momenti era facile immaginarsela mentre rideva per una barzelletta spinta, dopo qualche bicchiere di troppo bevuto a un party natalizio.

«L’edificio praticamente cade a pezzi» disse Joanne. «I pavimenti non devono essere gravati di pesi eccessivi, gli schedari possono essere appoggiati solo contro certe pareti e nulla è in piano. Se non state attenti, potreste scivolare con la vostra sedia all’altro capo dell’ufficio.»

Thorne e Holland fecero un sorriso di cortesia, evitando i commenti, e la donna si strinse nelle spalle. L’unico rumore nella stanza era quello di un vecchio ventilatore di metallo che sembrava anch’esso un pezzo di antiquariato. A un’estremità della scrivania, sopra un computer polveroso era allineato un intero esercito di pupazzetti, rigidi e morbidi.

«Lei ha già parlato al telefono con l’ispettore capo Brigstocke» disse Thorne, alzando la voce per sovrastare il rumore del ventilatore. «Mark e Sarah Foley?»

Joanne Lesser prese un foglio dalla scrivania e lo fissò in silenzio.

«1976…» aggiunse Holland, incoraggiante.

«Bene, come potete certo immaginare, si tratta di un caso che non è affatto semplice» disse la donna, con un sorriso. «Tutto ciò che posso dirvi con un minimo di certezza è che chi ha ricevuto in affido quei due ragazzi non è più iscritto nei nostri registri come affidatario ancora attivo.»

Holland si strinse nelle spalle. «Sarebbe stato sperare troppo…»

«Già» ribadì Thorne, anche se in realtà ci aveva sperato.

«Stiamo parlando di più di venticinque anni fa» disse Joanne Lesser. «È possibile che le persone che si sono prese cura di loro siano ancora attive, ma in un’altra regione.»

«E come possiamo controllare?» chiese Thorne.

«Non ne ho idea. In ogni modo è un’eventualità remota… La mia era solo una riflessione ad alta voce…»

Thorne sentiva che stava per venirgli l’emicrania. Si avvicinò con la sedia alla scrivania e indicò il ventilatore. «Mi scusi, potrebbe…»

La direttrice allungò una mano verso l’interruttore e lo spense.

«Grazie» disse Thorne. «Cercheremo di fare in fretta. Perché prima ha usato l’espressione “con un minimo di certezza?”»

«Perché gli unici file a cui ho accesso da qui sono quelli che riguardano le persone ancora iscritte come affidatane attive.»

«I vecchi file sono su qualche altro computer?»

Lei sbuffò. «Qui abbiamo iniziato a scrivere a macchina meno di dieci anni fa e ci sono ancora un sacco di documenti manoscritti. L’edificio in cui ci troviamo non è l’unico relitto del passato…»

Thorne sbatté le palpebre. La sua solita fortuna: dover ricorrere all’aiuto di un’istituzione che lavorava con sistemi ancora più antiquati di quelli della polizia.

«Ma ci saranno pure documenti, scritti in una qualunque forma, che permettono di risalire a quegli anni, no?»

«Suppongo di sì. Dio sa in che stato li troverete, sempre che riusciate a trovarli. Si tratterà sicuramente di poche pagine scarabocchiate a mano trent’anni fa. Ah, però alcuni sono stati microfilmati, se non sbaglio…»

«Quindi, esistono?» chiese Thorne, cercando di non sembrare troppo impaziente.

«Dovrebbero esistere…»

«E si trovano da qualche parte?»

«Sì, a Chelmsford, nel palazzo del consiglio di contea. La legge dice che dobbiamo conservarli.»

«Legge sulla protezione dei dati personali» mormorò Holland.

«Esatto. Chiunque abbia usufruito dei nostri servizi ha diritto di vedere i documenti che lo riguardano. Ci sono persone che vengono qui, a quaranta o cinquant’anni, in cerca di particolari su coloro che li hanno avuti in affido quando erano bambini.»

«Come mai aspettano tanto?» chiese Holland.

«Forse a distanza di anni riescono meglio ad apprezzare lo sforzo delle famiglie affidatane. Da bambini, l’affido è più che altro un trauma.»

Thorne pensò a Mark e Sarah Foley. La loro vita di bambini in affido non poteva certo essere stata più traumatica dell’esperienza che avevano vissuto nella famiglia d’origine.

«E cosa dite alle persone che vengono qui a cercare quelle informazioni?»

«Auguriamo loro buona fortuna.» Joanne Lesser sollevò l’orlo della camicetta tra l’indice e il pollice e lo scosse, poi si soffiò un po’ d’aria nella scollatura. «I documenti esistono, ma chissà dove sono. Come ho detto, dovrebbero trovarsi a Chelmsford, ma riuscire a metterci le mani sopra è tutt’altra faccenda.»

La donna fece un sorriso che voleva dire “Non posso farci nulla” e Thorne ricordò un momento simile, quando lui e Holland erano seduti nell’ufficio di Tracy Lenahan, nella prigione di Derby, alcuni omicidi prima…

«So che parliamo di cose accadute molto tempo fa» disse. «E ho capito che il sistema di schedatura non funziona nel modo migliore. Ma deve pur esserci un archivio centrale…»

«Ah, mi scusi, credevo di avervelo detto. Il motivo per cui abbiamo solo i file degli affidatali attivi è che ogni volta che l’ufficio viene trasferito in una nuova sede, i vecchi file o i vecchi schedari vengono abbandonati. Ora, in teoria, qualcuno dovrebbe preoccuparsi di portarli a Chelmsford e di archiviarli da qualche parte. Ma la verità è che i documenti spesso restano chiusi per anni in qualche scatolone, vanno perduti…»

«E perché avvengono questi cambiamenti di sede?»

«Gli uffici municipali sono intercambiabili. Domani qualcuno potrebbe decidere che questo deve essere il nuovo quartier generale della Nettezza Urbana o di qualcos’altro. Oppure che non vale la pena di rinnovare il contratto d’affitto di questo edificio, che da qui a un paio d’anni potrebbe trasformarsi in un albergo.»

«Capisco. E il suo ufficio ha cambiato sede spesso?»

«Guardi, io faccio questo lavoro da dieci anni, e abbiamo già cambiato sede tre… no, quattro volte, da quando sono stata assunta.» Thorne dovette fare uno sforzo per non imprecare o per non sferrare un calcio alla scrivania. «Ma il peggio è,» continuò Joanne Lesser «che molti documenti sono andati distrutti un paio di anni fa, quando una parte dell’archivio ha subito una inondazione…»

Thorne e Holland si scambiarono un’occhiata. Stavano beccando tutti i semafori rossi.

«Avete fatto un controllo nelle scuole?» chiese Joanne Lesser. «Forse con i dati scolastici avrete maggior fortuna.»

Holland abbassò gli occhi sul suo taccuino. «I due bambini hanno frequentato le elementari e le medie, poi, dal 1984 in poi, non ci sono più dati che li riguardano.»

Joanne Lesser rimase un attimo pensierosa. «Siete sicuri che siano ancora vivi?»

«Non siamo sicuri di nulla» rispose Thorne. L’idea che Mark e Sarah Foley potessero essere morti era stata presa in considerazione, anche se solo incidentalmente. Qualcuno aveva perfino suggerito che la morte di Dennis Foley fosse in realtà un omicidio mascherato da suicidio. Ma una breve occhiata ai dossier del caso e al referto dell’autopsia di Dennis aveva fatto scartare quell’ipotesi.

«So che ormai ci stiamo arrampicando sugli specchi,» disse Holland «ma non è per caso rimasto qualche impiegato che era già in servizio nel 1976?»

«No, mi dispiace. Il personale viene trasferito più o meno con la stessa frequenza degli uffici.»

«Un po’ come i calciatori» commentò Holland.

«Con una certa differenza nella retribuzione…»

Thorne pensò che il sorriso che la donna rivolse a Holland era completamente diverso da quello che aveva riservato a lui.

Si spostò sulla sedia, facendo sì che lo sguardo di Holland si staccasse da Joanne Lesser per indirizzarsi su di lui.

Era ora di andare.

«Va bene, allora. Grazie di tutto…»

«Perché vi state dando tanta pena per trovarli?»

Holland ripose il taccuino. «Mi dispiace, non possiamo…»

«Sono stati dati in affido dopo la morte dei genitori» intervenne Thorne. Tanto, che importanza aveva ormai? «Il padre ha ucciso la madre e poi si è suicidato. Sono stati i bambini a trovare i cadaveri.» La donna lo fissava a bocca aperta. «E pensiamo che quegli eventi siano connessi con una serie di delitti su cui stiamo indagando ora.»

«Una serie?» disse Joanne Lesser, come se si trattasse di una parola magica.

«Già.»

«E Mark e Sarah Foley c’entrano qualcosa?»

Thorne si accorse dal rossore alla base del collo e dalla voce più acuta di Joanne Lesser che la storia l’aveva eccitata.

Allora si alzò e si infilò la giacca di pelle. «Ascolti, Joanne, manderemo qualcuno a Chelmsford in cerca di quei documenti. Le saremmo davvero grati se potesse dare a quella persona tutto l’aiuto possibile.»

Lei spinse indietro la sedia e si alzò a propria volta. «Non c’è bisogno che mandiate nessuno. Me ne occuperò io. È vero, ho parecchio da fare qui, ma troverò il tempo.» Il rossore cominciava a salire lungo il collo. «E credo che farò prima da sola. Voglio dire, senza nessuno tra i piedi…»

Thorne rifletté un attimo su quella proposta. L’impresa sembrava così disperata che forse non valeva la pena di sprecare un agente. «Grazie» disse, alla fine.

Sulla porta, mentre Holland dava un biglietto da visita a Joanne Lesser e si annotava il suo numero di telefono, Thorne fissò i poster alla parete. Un’immagine catturò la sua attenzione: una bambina e un bambino, mano nella mano, con lo sguardo supplichevole. Erano più piccoli di Mark e Sarah Foley all’epoca del fatto ed erano quasi certamente due modelli, ma Thorne non riusciva a staccare lo sguardo dai loro volti…

Si irrigidì sentendo sul braccio la mano della donna.

«È strano,» disse lei «come alcune persone possano sfuggirci così, vero?»

Thorne annuì, pensando che alcune persone erano molto più sfuggenti di altre.


Mentre tornavano in macchina verso il centro della cittadina, Holland non fece che parlare di Joanne Lesser. Secondo lui era il tipo di donna dall’apparenza tranquilla, che poi, una volta a casa, si infilava nella vasca da bagno e, mentre in una mano teneva un libro giallo pieno di dettagli raccapriccianti, con l’altra mano…

Thorne non gli prestava molta attenzione. Era come se avesse le orecchie imbottite di ovatta.

«Forse cercare di rintracciarli tramite le famiglie che li hanno avuti in affido è una perdita di tempo» disse Holland, a un certo punto. «Li troveremo in un altro modo.»

Thorne rispose con un grugnito. Probabilmente Holland aveva ragione, ma lui aveva contato su un risultato migliore.

Holland si diresse verso l’autostrada, uscendo dalla cittadina lungo la strada che seguiva il tracciato delle mura romane.

Passarono davanti all’antica porta della città, attraverso la quale un giorno era entrato l’imperatore Claudio, in groppa a un elefante.

«Scommetto che Miss Marple Lesser sta già frugando tra quei documenti» disse Holland. «Che ne pensa, capo?»

Thorne gli rivolse un sorriso tirato. Pensava solo che un’altra pista in apparenza promettente stava per sparire nel nulla.


La fetta di pane nella mano di Peter Foley era macchiata di salsa. Foley si guardò le dita ancora un po’ sporche e graffiate, dopo una mattinata passata a sistemare la moto.

Ripulì il piatto e sollevò la tazza di tè, appoggiandosi al tavolo di plastica.

Guardando fuori dalla vetrata della caffetteria, ripensò alla sua famiglia. Ai morti e agli scomparsi.

Vagabondavo qua e là…

Era quello che aveva risposto a quei bastardi di poliziotti, quando gli avevano chiesto cosa faceva all’epoca della morte del fratello. Ed era quello che più o meno aveva continuato a fare. Tenersi un lavoro gli riusciva difficile. Aveva sviluppato la tendenza a prendere le cose nel modo sbagliato, a reagire male a un commento o a uno sguardo strano. Non era sicuro che fosse per colpa di ciò che era accaduto. Magari era destinato fin da ragazzo a diventare un perdente con tendenze violente, ma era comunque piacevole avere una scusa da usare come giustificazione.

Qualcuno a cui dare la colpa.

Avrebbe dovuto cambiare aria. Andarsene. C’era sempre qualcuno che voleva dire la sua, o un paio di giovani mamme che si sussurravano qualcosa, tenendo d’occhio i bambini. C’era sempre un fottuto impiccione che si preoccupava di raccontare la storia della sua famiglia a tutte le donne con cui lui si metteva. La gente aveva la memoria lunga. Ma lui ce l’aveva ancora più lunga…

Ricordava la discussione che aveva avuto con Den, un paio di giorni prima del fatto. Era passato a trovarlo e gli aveva chiesto come mai, se era tutto a posto, nessuno aveva più visto in giro Jane da un pezzo. E Den, tremante di rabbia, gli aveva detto di farsi gli affari suoi. Lo aveva accusato di volersi scopare Jane, anzi, aveva suggerito che forse lo aveva già fatto, alle sue spalle. Peter ricordava come si era sentito in colpa, dopo. Perché Jane gli piaceva davvero. Gli era sempre piaciuta.

Ricordava anche le facce dei bambini l’ultima volta che li aveva visti, prima che quella puttana dei servizi sociali se li portasse via. Sarah era tranquilla, probabilmente non aveva neppure capito bene ciò che stava succedendo. Ma il viso di Mark, premuto contro il lunotto posteriore dell’auto, era rigato di lacrime e muco.

Peter si alzò, prese il foglietto della consumazione e si avviò alla cassa per pagare il conto.

Pensò ai suoi nipoti, sperando che fossero insieme, in qualche posto lontano, dove nessuno potesse mai trovarli e rovinare loro la vita.

Il pomeriggio avanzava. Peter sarebbe tornato a casa, a stendersi un po’ sul letto. E la sera avrebbe messo su della musica e avrebbe cominciato a bere. Una lattina dietro l’altra, fino ad annegare il rumore che aveva nella testa e a udire soltanto il frastuono heavy metal che riempiva la stanza.


Di ritorno a Becke House, Thorne riferì a Brigstocke e a Yvonne Kitson i risultati del viaggio a Colchester. Parlarono anche degli sviluppi dell’altro filone di indagine. L’omicidio di Southern aveva molte analogie con i due precedenti: la causa della morte; la scena del crimine; la corona di fiori, ordinata di persona a un fioraio aperto ventiquattr’ore e recapitata fin sulla porta della stanza, ma poi lasciata cadere a terra dopo uno sguardo alle condizioni in cui si trovava il destinatario dell’omaggio.

Ma c’erano anche parecchie differenze. E nuove piste da esplorare.

Southern era uscito di prigione più di dieci anni prima. Non era stato scelto nello stesso modo delle altre vittime e anche l’approccio era stato diverso. A differenza di quanto era accaduto con Remfry e Welch, in quel caso sarebbe stato necessario passare in rassegna la vita della vittima, per scoprire come e quando l’assassino aveva deciso di entrare a farne parte. Erano già stati effettuati centinaia di interrogatori e ce n’erano in programma parecchi altri. Praticamente la polizia stava interrogando chiunque avesse mai avuto contatti con Southern: colleghi di lavoro, amici del bar, gente che frequentava la sua palestra, la ragazza con la quale aveva rotto da poco.

Quasi tutte quelle persone ignoravano che Howard Southern fosse stato in galera. E anche nei casi in cui lui l’aveva rivelato, perché in certi ambienti un soggiorno in carcere serviva a guadagnarsi rispetto, molto probabilmente aveva omesso di specificare il motivo della condanna.

Purtroppo, però, qualcuno era riuscito a scoprirlo e per questo Southern era stato ammazzato.

Nel suo ufficio, Thorne si mise a smistare la posta. Come sempre, era quasi tutta spazzatura. Circolari inutili, comunicati stampa, statistiche, annunci di nuove iniziative. Sfogliò rapidamente la newsletter della Federazione di Polizia, soffermandosi su un articolo che parlava di una squadra di poliziotti che aveva fischiettato alcune canzoni nell’ambito di uno show televisivo. Ora la registrazione di quelle melodie veniva trasmessa per le strade e dentro i centri commerciali delle zone più a rischio, come deterrente per la microcriminalità.

Quando Thorne ebbe finito di ridere, controllò la segreteria telefonica. Joanne Lesser aveva chiamato per dire che l’indomani avrebbe iniziato il suo lavoro di ricerca. Sembrava che una parte dei documenti fossero stati trasferiti in un nuovo magazzino fuori Chelmsford. C’era un messaggio di Chris Barratt, del commissariato di Kentish Town. E nessun messaggio di Eve…

Thorne prese il telefono, meravigliandosi della fitta di delusione che ciò gli aveva provocato. E, mentre componeva un numero, si meravigliò anche della sua incredibile capacità di mandare sempre tutto a puttane.

«Era ora» disse, appena udì la voce all’altro capo del filo.

«Calmati» rispose Barratt. «Non lo abbiamo ancora preso. Ma sappiamo chi è. Lo becchiamo domani mattina presto.»

«Come lo avete trovato?»

«Hai tempo per una storia divertente?»

«Spara…»

«Aveva già venduto lo stereo» raccontò Barratt. «Forse subito dopo il furto. Ma poi ha avuto un problema…»

«Quale?»

«I tuoi gusti musicali.»

«Eh?»

«Quel povero coglione ha finito per farsi notare, perché ha passato le ultime quattro settimane cercando di piazzare la tua collezione di CD.»

«Che cosa?» esclamò Thorne, seccato per quell’insulto.

Ormai Barratt non cercava più di nascondere l’ilarità. «Era disposto anche a pagare perché qualcuno se la prendesse. L’ha portata in tutti i mercati e i negozi di roba di seconda mano di Londra…»

«Ridi pure, Chris. A me basta riaverla indietro.»

«Senti, quando l’avrai riavuta, metti qualche CD bene in vista davanti alla finestra: sarà un ottimo deterrente…»

«Non ti ascolto nemmeno. Chiamami quando avrete preso quello stronzo, va bene?»

«Certo.»

«E voglio cinque minuti…»

«Non c’è problema, io sono qui tutto il giorno.»

«Non con te, spiritoso. Con lui…»

CAPITOLO 20

Aveva assistito allo show televisivo di un comico che raccontava che le donne erano capaci di pensare e fare una quantità di cose allo stesso tempo, mentre gli uomini riuscivano a farne al massimo due: masturbarsi con una mano e manovrare il mouse con l’altra.

Quella battuta lo aveva fatto ridere. E rise ripensandoci ora, mentre lavorava e nello stesso tempo pianificava il prossimo omicidio.

La capacità di fare contemporaneamente più cose era una caratteristica peculiare e, anche se lui trovava di gran lunga più eccitante la sua attività illegale, provava piacere anche in quella legale. Naturalmente, non avrebbe potuto svolgere l’una senza l’altra.

Il prossimo omicidio…

Non sapeva ancora con sicurezza se sarebbe stato anche l’ultimo, ma probabilmente sì. Sarebbe stato un bel modo di chiudere.

Un omicidio diverso dagli altri, più simbolico, ma di certo non meno piacevole.

Bisognava ancora decidere la data, ma quello era l’ultimo particolare. La vittima era già stata scelta da settimane. Anzi, praticamente si era scelta da sola.

Quando si dice “trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato”…


Thorne pensò all’“Incontro per una giustizia riparatrice” al quale aveva assistito diverse settimane prima. Si ricordò di Darren Ellis e dello stridore delle sue scarpe da jogging sul pavimento della palestra.

Davanti a lui, nella sala interrogatori del commissariato di Kentish Town, era seduto un ragazzo di forse diciassette anni. Noel Mullen rubava auto su commissione, mentre i ladruncoli della sua età rubavano penne e sacchetti di noccioline al supermercato. All’epoca in cui i suoi coetanei cominciavano a palpare il sedere alle ragazze, Noel aveva già sviluppato una discreta dipendenza dalla droga e acquisito un’altrettanto discreta reputazione presso i poliziotti della parte nordoccidentale di Londra. Nel riformatorio che in passato aveva accolto entrambi i suoi fratelli maggiori, doveva esserci una stanza già pronta per lui.

Nonostante tutto, aveva ancora una faccia da bambino bisognoso della mamma.

«Perché hai cagato sul mio letto?» chiese Thorne.

Il ragazzo faceva del suo meglio per mostrarsi annoiato, ma uno scatto del collo e un leggero tremore delle dita tradivano la sua inquietudine. Thorne si chiese quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che si era fatto. Forse, non essendo riuscito a vendere i suoi CD, aveva dovuto rinunciare a qualche dose…

«Avanti, Noel…»

«Dove vuole arrivare? Metterà una buona parola per me in tribunale?»

«Puoi scordartelo.»

«Allora perché dovrei parlare con lei?»

Thorne incrociò le braccia sul petto. «Senti, ragazzino. Passi per il furto con scasso, dopotutto è il tuo lavoro. Passi anche qualche atto di vandalismo, mentre cerchi qualcosa che valga la pena rubare. E non parlo solo di rubare ai ricchi, no. Perché non rubare a quei poveracci che vivono nel tuo quartiere, quel quartiere che tu hai reso ancora peggiore pisciando negli ascensori, o lasciando aghi usati nel giardino pubblico? Sfonda la porta del tuo vicino di casa e fregagli la tivù in bianco e nero. È pur sempre qualcosa. Fregagli tutto, lo schermo panoramico, il lettore DVD, tanto è roba a noleggio, e non è colpa tua se quel coglione non è assicurato…»

«Cristo, ne ha ancora per molto?»

«Fallo e non pensarci. Vedi una cosa e te la prendi, perché importa solo quanto puoi ricavarne. Fallo e non provare nulla…»

«Sta perdendo il suo tem…»

«E non provare nulla. Poi vedi un po’ quello che provi quando, un giorno, uno dei tuoi amici che ha bisogno di contanti entra in casa di tua madre e si mette a frugare nei suoi cassetti. E magari il tuo amico ha gusti particolari, magari è un po’ fatto… E tua madre in quel momento si trova a letto…»

«L’ho fatta perché lei è un poliziotto.»

Thorne si fermò, trasse un respiro e attese.

«La merda sul letto… l’ho fatta per quello.»

«Come facevi a sapere che sono un poliziotto?» chiese Thorne.

«Non lo sapevo. L’ho scoperto dopo. C’era una foto caduta dietro le casse dello stereo. Era lei, con l’uniforme.»

Mullen incrociò le braccia sul petto, come Thorne aveva fatto poco prima, e lo guardò come se fosse un televisore o un videoregistratore, cercando di immaginare quanto potesse valere. «Aveva i capelli più scuri, nella foto» aggiunse. «E non era così grasso.»

Thorne annuì. Ricordava quella foto e anzi si era chiesto spesso dove fosse finita. Non era certo la sua immagine migliore, ma la reazione di Mullen, vedendola, era stata un po’ esagerata.

«Quindi tu hai dato un’occhiata alla foto e hai deciso di usare il mio letto come cesso. È così?»

Mullen sogghignò, scoprendo i denti macchiati. Adesso cominciava a divertirsi. «Sì, più o meno.»

«Brutto stronzo, pezzo di merda…»

Il movimento improvviso di Thorne e il rumore della sedia che strisciava sul pavimento fecero sobbalzare Mullen, che però riprese subito il controllo di sé.

«Senta… non era nulla di personale.»

«E non sarà nulla di personale quando io verrò qui, ti sbatterò per terra e ti cagherò in bocca. In fondo, io sono un poliziotto e tu sei uno scassinatore, giusto, Noel? Ci sono certe cose che dobbiamo fare…»

Nello sguardo di Mullen c’era pietà più che noia. «Lei non mi farà nulla.»

Infatti, oltre a minacciarlo per cercare di sentirsi un po’ meglio, Thorne non poteva fare proprio nulla. Si domandò se il vecchio seduto di fronte a Darren Ellis si fosse sentito inutile come si sentiva lui in quel momento.

«Sei pentito, Noel?»

«Cosa?»

«Ti ho chiesto se sei pentito.»

«Certo. Sono pentito di essermi fatto beccare.»

Il sorriso di Thorne fu sincero. Perlomeno Mullen si comportava da delinquente. Forse, quando si fosse trovato di fronte alla prospettiva di vari anni di prigione, avrebbe imparato anche lui i trucchi di Darren Ellis. Per il momento, c’era qualcosa di rassicurante nella sua risposta. Per un attimo Thorne sentì che quel ragazzo gli piaceva, quasi.

L’attimo passò. Thorne rimase a fissare Mullen negli occhi, finché lui scattò in piedi e cominciò a tempestare la porta di pugni.


Stone rispose al telefono, poi tese il ricevitore a Holland. «È per te.»

Mentre Holland si avvicinava, Stone copri il microfono con una mano, e sussurrò: «Ha una voce sexy…».

Holland non fece commenti. Aveva imparato a sopportare l’arroganza di Stone, ma gli ammiccamenti e le alzate di spalle lo innervosivano ancora, anche se doveva ammettere che in quel periodo si innervosiva facilmente.

«Agente Holland.»

«Sono Joanne Lesser.»

«Oh, salve, Joanne.» Stone mimò il nome con le labbra e Holland gli mostrò il dito medio.

«Non ci sono novità riguardo a quei documenti. Ieri ho lasciato un messaggio, spiegando che alcuni sono stati spostati in un altro magazzino.»

«Ah, non l’ho ricevuto, ma…»

«Ci sto ancora lavorando, ma non è per questo che ho chiamato. Ho trovato qualcos’altro.»

«Mi dica…» Holland cominciò a giocherellare con una penna.

«Una collega qui dice che le vecchie schede informative si trovano proprio nella nostra cantina. Proverò a recuperarle, sperando che non siano marcite del tutto.»

«E crede che ci saranno anche quelle di Mark e Sarah Foley?»

«Non vedo perché no, anche se probabilmente non contengono molte informazioni. Si tratta di semplici cartoncini, mentre i dossier veri e propri sono pacchi di fogli alti dieci centimetri.»

«E cosa c’è scritto sulle schede?» Holland vide che Stone lo fissava, interessato.

«Oh, le informazioni principali» disse la donna. «Numero di protocollo, data di nascita, data dell’affido e nome della famiglia…»

Holland smise di giocherellare con la penna e scrisse: “nomi e date”. «Bel colpo, Joanne. Questo ci aiuterà parecchio.»

«Allora appena ho qualcosa di nuovo richiamo, va bene?»

«Meglio mandare un’e-mail» disse Holland. «È più sicuro.»

La ringraziò di nuovo per il suo aiuto e poté quasi sentirla arrossire.

«Sembra interessante» disse Stone, quando Holland riagganciò.

«Già. A quanto pare, può procurarci un elenco delle famiglie affidatarie dei ragazzi. Le date di affido…»

«E continuerà anche a cercare i dossier completi?» chiese Stone, pensieroso.

«Credo che a questo punto sia impossibile fermarla, ma probabilmente nomi e date sono tutto ciò che ci serve.»

«Fammi sapere quando li avrai» disse Stone. «Ti darò una mano a controllarli.»

Holland si stirò. «Non credo che sarà un lavoro lungo. Dovrei farcela da solo.»

«Fa’ come ti pare.» Stone tornò con lo sguardo al suo monitor e iniziò a scrivere.

Holland sapeva di essere stato meschino, soprattutto perché in realtà non considerava affatto utile quella linea d’indagine. Thorne ci si era fissato e perciò lui avrebbe fatto il possibile per collaborare, ma non poteva fare a meno di ritenere che fosse solo una perdita di tempo. Non riusciva a capire in che modo il fatto di scoprire dove erano finiti Mark e Sarah Foley venticinque anni prima li avrebbe aiutati a scoprire dove si trovavano adesso.


Thorne uscì dalla stazione della metropolitana su Kentish Town Road e si diresse verso casa, passando vicino al commissariato dove circa dodici ore prima aveva incontrato Noel Mullen.

Ripensò alle parole del ragazzo: Sono pentito di essermi fatto beccare. E si chiese se un giorno sarebbe riuscito a far provare il pentimento all’assassino di Remfry, Welch, Southern e Charlie Dodd.

Thorne si fermò, indeciso, davanti all’ingresso del Bengal Lancer. Il suo cellulare mandò il segnale di un messaggio sulla segreteria. Thorne lo ascoltò e chiamò Eve. Dopo i saluti, le scuse furono le prime cose che disse.

«Per che cosa ti scusi?»

«Per molte cose. Ma soprattutto per non averti chiamata.»

«So che hai avuto da fare.»

Il padrone del ristorante, che conosceva Thorne, lo vide da dietro la vetrata e gli fece segno di entrare. Thorne rispose con un cenno di saluto e indicò il cellulare.

«Dove sei?» chiese Eve.

«Vicino a casa. Stavo pensando a come risolvere il problema della cena.»

«Giornata pesante?»

Thorne rise. «Ho voglia di mandare al diavolo tutto e mettermi a fare il fioraio.»

«Bloom Thorne. Suona bene.»

«Ma forse è meglio di no. Non so se riuscirei a sopportare le levatacce.»

«Pigro bastardo…»

E le visioni, i suoni, gli odori del sogno gli tornarono in mente. Thorne rabbrividì, benché fosse una sera calda.

«Tom?»

«Scusa.» Sbatté le palpebre per scacciare quelle immagini. «Nel messaggio che mi hai lasciato hai detto qualcosa riguardo a sabato.»

«So che probabilmente lavorerai fino a tardi…»

«No, per una volta credo di no. Sono libero per quasi tutto il giorno. A meno che non salti fuori qualcosa di molto importante.» Una riunione urgente, una nuova pista, un altro cadavere. «Perciò, dimmi pure.»

«Niente di stratosferico. È il compleanno di Denise, perciò lei, Ben e io passeremo la serata al pub. Se ne hai voglia, puoi unirti a noi.»

«Un appuntamento a quattro?»

«Be’, ho pensato che forse preferivi così. Una serata tranquilla, senza pressioni…»

«Pressioni?»

«Sai, ho l’impressione che tu faccia un passo avanti e due indietro.»

«Ah, scusa.»

Ci fu un silenzio. Thorne vide il padrone del ristorante alzare le mani e sentì Eve spostare il ricevitore da un orecchio all’altro.

«No, scusami tu» disse Eve. «Non volevo parlarne al telefono. Beviamo qualcosa insieme, sabato, e ripartiamo da lì.»

«Ottimo. E avrò anche qualcosa da farti vedere, allora.»

Thorne udì con piacere la sua risata e immaginò lo spazio tra gli incisivi. «Basta pensare sconcezze» disse Eve. «E vai a mangiare qualcosa.»

Thorne era ancora indeciso su cosa fare. In frigorifero aveva un po’ di roba che avrebbe potuto mangiare. Che avrebbe dovuto mangiare…

Il profumo del cibo indiano era troppo invitante per resistere. Spinse la porta del ristorante ed entrò. Il padrone aveva già stappato una bottiglia di Kingfisher.

CAPITOLO 21

«Per chi fai il tifo, oggi, Dave?»

Holland alzò gli occhi sul sorriso del sergente Sam Karim. «Prego…?»

«Parlo della Charity Shield. Chi vorresti che vincesse la supercoppa d’Inghilterra?»

Holland annuì. La tradizionale partita alla vigilia della stagione.

«Qualunque squadra, tranne il Manchester United» rispose.

«Rispetto la tua opinione, ma vinceremo lo stesso.»

«Non ti capisco, Sam. Tu sei di Hounslow, no?»

Karim si allontanò, sempre con il sorriso sulle labbra. «Sei solo invidioso…»

Holland prese il telefono e compose un numero. In realtà il calcio non gli interessava affatto. Praticamente tutto ciò che sapeva in proposito poteva riassumersi nella conversazione che aveva appena avuto.

La linea era ancora occupata. Riagganciò e tornò a sfogliare i suoi appunti. Da quando aveva ricevuto l’e-mail di Joanne Lesser, il giorno prima, non aveva fatto altro che lavorare a quella lista di nomi. Ma era una fatica improba, benché lui si fosse vantato con Stone di poter fare tutto da solo. Mettersi in contatto con le persone, infatti, era di per sé complicato, anche se loro non facevano nulla per renderlo tale.

I due ragazzi Foley avevano trascorso i primi sei mesi dopo la morte dei genitori in affido temporaneo. Quindi, nel gennaio del 1977, avevano cominciato il loro pellegrinaggio tra una serie di famiglie per periodi di affido più lunghi. Holland doveva ancora parlare con due di esse, ma dalle informazioni che aveva raccolto era già emerso uno schema ricorrente. In quasi tutti i casi, i bambini si erano adattati in fretta, ma poi erano diventati sempre più chiusi e difficili, soprattutto nelle famiglie in cui c’erano già altri bambini. I genitori affidatari li avevano giudicati problematici, ma avevano anche dichiarato di considerare il loro atteggiamento comprensibile, alla luce di quello che avevano passato. Mark e Sarah erano bravi bambini, ma si erano isolati, passando sempre più tempo da soli ed escludendo tutti coloro che li circondavano.

Era tutto molto interessante, ma Holland non credeva che quelle informazioni si sarebbero rivelate utili. Forse, parlando con l’ultima famiglia, sarebbe venuto fuori qualcosa di più concreto. Brigstocke voleva alcune foto dei bambini da elaborare al computer, invecchiando i volti, per poi farli vedere in giro. Non era una cattiva idea: Holland aspettava proprio quel giorno il ritorno da Majorca dei coniugi Noble, i quali avevano tenuto con loro i due ragazzi fino all’inizio del 1984. Era probabile che avessero le foto più recenti dei Foley.

Holland riprovò a fare il numero dei Lloyd, l’altra famiglia con cui non aveva ancora parlato. La linea era sempre occupata. Appena mise giù, il telefono squillò.

Era Thorne.

«Ti va di venire a bere qualcosa, stasera?» chiese.

«Perché no?» Appena lo ebbe detto, Holland si sentì subito in colpa. Sapeva che avrebbe dovuto prima parlarne con Sophie, soprattutto perché era sabato. E sapeva che probabilmente lei avrebbe sorriso dicendo che non le importava. «Dove andiamo?»

«In un locale di Hackney» disse Thorne.

Holland si vide mentre prendeva la giacca per uscire, senza guardare le lacrime che iniziavano a spuntare negli occhi di Sophie. Udì il suono della porta che si chiudeva e il rumore di ogni passo che avrebbe fatto scendendo le scale lo colpì come un pugno sotto la cintura.

«A che ora?» chiese.

«Intorno alle otto. Passo io a prenderti.»

«Cosa? Da Kentish Town a Elephant e poi di nuovo indietro fino a Hackney? È un giro lunghissimo…»

«Non c’è problema.»

«No, prendo la metropolitana fino a Bethnal Green, e da lì vado a piedi.»

«Passo da te volentieri, Dave…»

«Come si chiama il locale? Ci vediamo lì.»

«Sarò sotto casa tua alle otto e mezzo, Dave» disse Thorne, in un tono che non ammetteva replica.


Thorne aveva suonato il campanello e poi era tornato indietro per assumere la posa giusta. Quando Holland uscì dal suo appartamento, lo trovò appoggiato alla macchina, con un largo sorriso da modello degli anni Sessanta un po’ malandato.

«Allora i soldi dell’assicurazione sono arrivati, finalmente» disse Holland.

«Non ancora, ma arriveranno. Nel frattempo, ho chiesto un piccolo finanziamento in banca.» Holland restò a fissare l’auto con le mani in tasca e un’aria incerta. «È una BMW» sottolineò Thorne, nel caso Holland non l’avesse notato.

«Una vecchia BMW.»

«Un classico. Una CSi tre litri. Sono macchine da collezione, ormai.»

«È gialla.»

«Più precisamente, “giallo pulsar”.»

Holland girò lentamente intorno all’auto, come se stesse esaminando un cadavere appena scoperto. Thorne indicò l’interno. «Sedili in pelle…»

Holland fissò la targa. «“P”? Ma quando…?»

«Nel portabagagli c’è uno stereo automatico che tiene dieci CD…»

«Di che anno è?»

Thorne sapeva che non c’era modo di far suonare bene quella data. «Millenovecentosettantacinque.»

Holland rise. «Cristo, ha quasi la mia età.»

«Ha solo settantottomila chilometri…»

«Capo, lei è impazzito. Ha fatto almeno controllare che non ci sia ruggine?»

«Sì, ho dato un’occhiata e sembra proprio che sia tutto a posto.»

«Sotto, intendo. L’ha fatta mettere su un ponte?»

«Quattro anni fa le hanno rifatto il motore e il tizio dell’officina mi ha detto che da allora ha fatto solo quindicimila chilometri.»

«Quanto l’ha pagata?»

«La frizione è praticamente nuova. O era la scatola del cambio? Be’, una delle due, insomma.»

«Cinquemila?» Thorne non disse nulla. «Cristo, non le daranno mai una cifra del genere per la Mondeo.»

«È un regalo che mi sono fatto, va bene? Non ho altro per cui spendere soldi.»

«Ma non sa nulla di macchine d’epoca. Avrebbe potuto comprarne una quasi nuova, per la stessa cifra. E questa con il passare del tempo le costerà una fortuna.»

«Ma è bellissima, non credi?» Thorne prese da una tasca un fazzoletto di carta e iniziò a pulire il simbolo sul cofano.

Holland aprì la portiera. «La bellezza non conta, quando ti trovi seduto sull’asfalto.»

Thorne si sedette al volante, scuro in volto. «Avrei fatto meglio a non invitarti, miserabile guastafeste.»

«Sto solo cercando di essere pratico. Cosa succede se ci lascia a piedi mentre siamo diretti sul luogo di un delitto?»

«La prossima volta,» disse Thorne, girandosi verso Holland «chiederò a Trevor Jesmond se gli va di venire a bere qualcosa con me.»


Un’ora dopo, l’umore di Thorne era migliorato notevolmente. Una volta fatte le presentazioni, Eve e gli altri erano corsi fuori a vedere la macchina e tutti l’avevano trovata bellissima. Ma Holland cercava alleati e, poco dopo, mentre le ragazze erano andate a prendere da bere, si rivolse a Ben Jameson. «Tu, al posto suo, non avresti comprato qualcosa di più recente?»

«Io credo che sia un’ottima auto» rispose Ben. «Anch’io ho una BMW.»

Thorne sollevò la sua bottiglia in direzione di Jameson e rivolse a Holland un sorriso sarcastico. «Tom dice che sei un regista.» «Faccio video aziendali, più che altro.» «Se hai una BMW, deve andarti abbastanza bene…»

«Non mi lamento, ma vorrei tanto riuscire a far decollare un mio progetto…»

«Non deve essere semplice, immagino.»

«È solo questione di soldi. Devo farmi affidare più lavori da clienti come la Sony o la Deutsche Bank.»

«A che cosa stai lavorando, adesso?»

Jameson bevve un sorso dalla sua bottiglia di Budvar. «Oh, una cosa appassionante. Un concerto di beneficenza e alcuni spot per la QVC.»

Thorne prese una manciata di patatine da una confezione aperta sul tavolo. «Ah, allora sei tu il colpevole…»

Jameson alzò le mani. «Reo confesso.»

Holland rivolse a Thorne un sorriso sfottente. «Non credevo che fosse un fan delle televendite.»

«Seguo il calcio su Sky, ovviamente» disse Thorne. «Ma quando, a notte fonda, non ho nulla di meglio da fare, non mi dispiace guardare un attore fallito che cerca di vendermi un aspirapolvere.»

Rimasero in silenzio per un po’. Thorne lanciò un’occhiata alla sua auto, attraverso la vetrata. Holland annuì ascoltando la canzone dei Coldplay che in quel momento riempiva il locale e Jameson si voltò a vedere che cosa facevano Eve e Denise al bancone.

Thorne smise di fissare la sua nuova macchina e si guardò intorno. Era un pub-ristorante, nuovo, ma già affermato. Eve aveva detto che sul retro c’era una sala dove avrebbero potuto mangiare tranquilli, ma Thorne era contento di stare lì, con una birra belga in mano e olive e patatine davanti.

Erano seduti in un angolo, intorno a un tavolo circondato da sedie scompagnate.

Thorne si era accaparrato una poltrona un po’ sfondata ma comoda e stava cercando di tenerne libera una simile accanto alla sua per Eve.

L’interno del locale era poco affollato, perché la maggior parte della gente aveva preferito sedersi ai tavoli esterni, sul marciapiede. Non c’era l’aria condizionata, ma le pale dei ventilatori a soffitto ruotavano a tutta forza e la birra era fredda.

Thorne, grazie anche alla macchina nuova, si sentiva rilassato e contento come non gli accadeva da tempo.

Eve e Denise tornarono con altre birre e una bottiglia di vino e, poiché mentre aspettavano al bancone dovevano avere bevuto, si misero a prendere in giro Thorne, Holland e Jameson. I tre protestarono, ma in realtà si divertivano.

Parlarono di calcio, televisione e dei prezzi delle case. E, inevitabilmente, di lavoro.

«Dai, Dave» disse Denise. «Parlaci del pazzo che state braccando, quello che ha lasciato il messaggio sulla segreteria di Eve.»

«Den!» cercò di interromperla Eve. Si voltò verso Thorne. «Scusala…»

Thorne si strinse nelle spalle. «Non c’è problema.»

«È vero, è un pazzo» disse Holland. «E lo stiamo braccando. Il che vuol dire che non lo abbiamo ancora preso.»

«Sembra uno dalla psiche piuttosto contorta» intervenne Jameson. «Ma in un certo senso è affascinante.»

Denise si chinò verso Holland. «Ci sono persone così in giro, questo lo sappiamo tutti, ma l’idea di venire in contatto con lui, o con un suo simile, mi dà i brividi.»

«Non preoccuparti» la rassicurò Holland. «Non sei il suo tipo.»

«Lo so. Lui uccide solo uomini, no? Uomini che hanno fatto del male a delle donne.»

Seguì un silenzio imbarazzato, che Denise ruppe con disinvoltura. «La gente è sempre affascinata da cose del genere. Fanno accapponare la pelle, ma sono comunque più interessanti che starsene a fissare un computer…»

Thorne approfittò dell’occasione per fare una battuta in proposito. Gli altri fecero una risatina di cortesia, e poi Denise e Ben ripresero a parlare con Holland. Che lo facessero perché Holland piaceva loro davvero, o solo per non dargli l’impressione di essere lì a reggere il moccolo, a Thorne non interessava. L’importante era che così lui aveva la possibilità di parlare con Eve. Accostò la poltrona alla sua e si piegò verso di lei.

«È stata una bella idea» disse.

«Ma non ne eri sicuro, vero?» disse lei, indicando Holland con un cenno del capo. «Perciò ti sei portato i rinforzi.»

«Sei arrabbiata con me?»

«Un’ora fa lo ero. Adesso non più.»

Thorne allungò una mano verso la sua birra. «Volevo solo mostrargli la macchina…»

Eve lo fissò a lungo. Era chiaro che non gli credeva. «E a parte il tuo caso, che diventa sempre più complicato, che altro è successo?»

Thorne abbassò gli occhi, fece ondeggiare la birra nel bicchiere e rimase in silenzio.

«Credevo che ci tenessi. Me lo hai detto tu stesso.»

«È vero.»

«Ma sei strano. Anche la notte in cui mi hai riaccompagnata a casa eri strano. Ti comporti in modo strano fin da quando sei tornato da quel matrimonio…»

Thorne chinò la testa e abbassò la voce. «Ascolta, io tendo ad agitarmi quando una storia comincia a sembrarmi una cosa seria. Non so più quello che voglio e comincio a…»

«Seria? Ma se non abbiamo neppure ancora dormito insieme.»

«È proprio quello che voglio dire. Sembrava una cosa programmata, inevitabile… E così forse mi sono tirato un po’ indietro.»

«Tutte quelle storie sulla difficoltà di comprare un letto nuovo…»

«Già.»

Eve continuò a fissarlo finché Thorne non alzò gli occhi su di lei. «E ora, hai finalmente capito cosa vuoi?»

Sul viso di Thorne si allargò un sorriso. Infilò una mano tra lo schienale della poltrona e la schiena di Eve. «Sì, voglio andare in un hotel…»

Per un attimo Eve sembrò quasi sconvolta, poi sorrise anche lei. «Stanotte?»

«Perché no? Domani non lavori e io ho una bella macchina parcheggiata proprio qui fuori.»

Eve gettò un’occhiata a Denise e Ben, immersi in un’animata conversazione con Holland. «L’idea è fantastica, ma è il compleanno di Denise…»

«Fa’ finta che sia il mio.»

«Non so, non posso tagliare la corda così.»

«Non credo che le importerà.»

Eve strinse il braccio di Thorne. «Lasciami vedere che cosa posso fare…»


Un’ora dopo, fuori dal pub, Eve prese Thorne da parte. «Stanotte è meglio evitare» disse.

«Hai litigato con Denise?» In quel momento l’amica stava baciando Holland su entrambe le guance, mentre Ben Jameson aspettava in disparte, con le mani in tasca. Denise incrociò lo sguardo di Thorne e gli rivolse uno strano sorriso.

«Non mi sento in forma» rispose Eve. «Prima della tua proposta, mi ero già scolata una bottiglia di vino.»

Thorne sorrise. «Credimi, più sei ubriaca, meglio ti sembrerà.»

«Che ne dici del fine settimana? Potremmo passare un paio di giorni in qualche alberghetto sulla costa…» Si interruppe, vedendo la sua espressione. «Già, capisco…»

«Mi dispiace» disse Thorne. «Finché questo caso non sarà chiuso, non posso promettere nulla. Merda, un intero weekend di vacanza. È semplicemente impossibile.»

«Lo so, è stata un’idea stupida.»

«Niente affatto. Perché non facciamo una sera della prossima settimana? Sabato prossimo, per esempio, o anche prima…»

«Sabato prossimo va benissimo.»

«Allora d’accordo.» Si allontanarono di qualche passo lungo il marciapiede. «Eve, non è ancora troppo tardi. Ti porto in un bell’albergo, nel West End, colazione inclusa…»

Lei gli prese la testa tra le mani e lo attirò a sé. «Sabato…» gli sussurrò all’orecchio, prima di baciarlo sulla guancia.

Mentre stavano per separarsi, Thorne lanciò un’occhiata agli altri, che stavano ancora chiacchierando davanti all’ingresso del locale, e colse un’espressione di disgusto delinearsi sul volto di Ben. Quando si voltò, vide che Keith si stava avvicinando a passo svelto al gruppo, con una borsa di plastica in mano.

Thorne era troppo lontano per sentire cosa dicevano, ma vide Keith estrarre dalla borsa un pacchetto avvolto nella carta da regalo rossa. Denise lo aprì e parve deliziata alla vista di quella che sembrava una scatoletta ornamentale. Abbracciò Keith e poi si girò per mostrare il regalo a Holland e Jameson.

Keith, rosso in volto, guardò nella direzione di Eve, che si trovava ancora accanto a Thorne. Lei gli fece un cenno di saluto e si avviò verso di lui. Holland invece si avvicinò a Thorne e sembrò un po’ sorpreso quando l’ispettore gli appoggiò una mano sulla spalla, dicendo: «Ti accompagno a casa, Dave».

Holland si voltò a guardare Eve, che ormai aveva raggiunto i suoi amici. «Non c’è problema, sul serio. Posso prendere un taxi…»

«Non è necessario.»


Thorne prese la Whitechapel Road, diretto a sud verso Tower Bridge. Andava piano, per abituarsi alla nuova auto ma anche per godersi il piacere di guidarla. Mentre attraversavano l’intrico di sensi unici intorno ad Aldgate, ascoltavano Merle Haggard.

«Non ho capito bene cosa è successo, stasera» disse Holland.

«A volte Keith dà una mano a Eve in negozio. Credo sia un po’…»

«No, intendevo l’idea di invitarmi a reggere il moccolo.»

Thorne guardò nello specchietto retrovisore. «Volevo farti vedere la macchina.» Neppure lui credeva più a quella scusa.

«Va tutto bene con Eve?»

Thorne esitò. Parlare di argomenti come quello era insolito per loro ed era impossibile prevedere dove sarebbero potuti arrivare. Se Holland non avesse bevuto un paio di bicchieri di troppo, probabilmente non avrebbe fatto quella domanda. Anche nelle serate di svago, la differenza gerarchica tra loro non veniva meno e li induceva a mantenere le distanze.

Ma quella sera erano solo due amici che tornavano a casa e Thorne decise di rilassarsi.

«Ho paura di averla fottuta un bel po’, Dave.»

«Cosa?»

«No, non in quel senso… In realtà, noi due non abbiamo ancora mai…»

«Ah…»

«È una lunga storia, ma il nocciolo è che lei è convinta che io la stia prendendo in giro e ha ragione. Un momento sembra che io non possa più aspettare e il momento dopo mi sento sollevato se non succede niente.»

«Ma allora di cosa si tratta?» chiese Holland, dopo averci riflettuto sopra qualche secondo.

«Non lo so.»

Era la verità. E se Thorne stesso non aveva le idee chiare sui propri sentimenti, chissà cosa doveva aver pensato Eve. La loro sembrava una storia tra due adolescenti. Alti e bassi, segnali confusi…

Ma non c’era nulla di adolescenziale o di confuso nel film che Thorne cominciò a vedere nella propria mente.

Lui ed Eve nell’ascensore dell’albergo, diretti verso la loro stanza. Si baciavano, si toccavano, le bocche affamate e le mani impazienti.

Thorne strinse forte il volante. Udì chiaramente i respiri ansimanti, i gemiti, il suono del campanello quando la porta dell’ascensore si apriva e il fruscio della gonna di Eve mentre si avviavano verso la stanza quasi correndo.

Si vide inserire la chiave magnetica nella fessura ed entrare con lei. Ridevano e si abbracciavano, cercando a tastoni l’interruttore.

Ma c’era un cadavere sul letto. In ginocchio. Sanguinante. Con un collare di corda blu che gli mordeva il collo…

Thorne frenò bruscamente a un semaforo rosso e Holland fu costretto a tenersi in equilibrio aggrappandosi al cruscotto.

«Scusa» disse Thorne. «Devo ancora prenderci la mano.»

Rimasero in silenzio per un po’, finché davanti a loro apparve la Torre di Londra, illuminata dai riflettori, e iniziarono ad attraversare il ponte.

Thorne toccò il braccio di Holland e indicò il fiume. «È una vista bellissima, vero?»

Amava attraversare il Tamigi di notte. Il suo punto preferito era il ponte di Waterloo, da sud a nord, con il London Eye a sinistra e la cupola di St Paul che dominava la City, in lontananza. Ma attraversare qualunque ponte, in qualunque direzione, a quell’ora di notte, era una cosa che gli sollevava sempre il morale. Quella notte avevano a sinistra il Butler’ Wharf e a destra la nave Belfast, avvolta in una luce ambrata. La vista di scenari come quelli era ciò che Thorne avrebbe consigliato a chi aveva in animo di lasciare Londra.

«E con Sophie, come va?» chiese. «Siete pronti per il lieto evento?»

Holland fece un sorriso acido, come se stesse per vomitare da un momento all’altro. «Io me la faccio addosso dalla paura, in realtà.»

«Non ti biasimo, un figlio è una cosa seria. Io non ne ho, ma…»

«Non è solo il fatto di avere un bambino. È tutto ciò che succederà dopo…»

«Dal punto di vista del lavoro, intendi?»

«Mi sento come travolto dalla marea. Come se non avessi più il controllo di quello che sto facendo.» Thorne scosse la testa e fece per dire qualcosa, ma Holland continuò, animandosi e alzando la voce. «Sophie dice che quello che accadrà dopo dipende da me, ma intanto lei resterà con il piccolo e io sarò l’unico a portare a casa i soldi.»

«Lei preferirebbe che tu facessi un altro lavoro?»

«Sì, ma questo lo pensava anche prima di rimanere incinta. Il problema è che ora potrei essere io a convincermi che è il caso di cercarmi un altro lavoro, retribuito meglio.»

«Un lavoro più sicuro…»

Holland si voltò a fissarlo, duro. «Esatto» disse e tornò a guardare fuori, mentre oltrepassavano i saloni di concessionari d’auto di New Kent Road a quaranta all’ora. «Ho paura che finirò per scaricare il mio rancore sul bambino» aggiunse poi, appoggiando la testa al finestrino. «Per le scelte che potrebbe costringermi a fare…»

Thorne non disse nulla. Spinse un bottone dello stereo, facendo scorrere i brani del CD fino a trovare quello che voleva. Poi alzò il volume. «Ascolta questa» disse.

«Che cos’è?»

«Si intitola Mama tried. Parla di un uomo in galera…»

«Sempre la solita solfa.»

«Questa parla di crescere, di accettare le responsabilità, di fare le scelte giuste.»

Per un minuto o due Holland ascoltò la musica. Ormai erano già alla rotonda di Elephant Castle, poco lontano da casa sua. A un tratto scosse la testa e scoppiò a ridere.

«Crescere? Non sono io quello che si è comprato una macchina da crisi di mezza età.»


Thorne entrò in casa affamato. Mise tre fette di pane sul grill, mentre riawolgeva il nastro nel videoregistratore.

Era riuscito a evitare per tutto il giorno di sentire il risultato della partita e non vedeva l’ora di guardarsela in cassetta.

Dopo mezz’ora di noia, cominciò a chiedersi se ne fosse valsa la pena.

Erano più di dieci anni che gli Spur non giocavano nella Charity Shield, ma Thorne e suo padre erano andati a vedere le ultime partite. Il pareggio senza gol con l’Arsenal, nel ’91, e le consecutive dell’81 e dell’82.

La prima partita importante che aveva visto allo stadio era stata la Charity Shield del 1967. Il viaggio a Wembley era stato un regalo per il suo settimo compleanno, dopo che gli Spur avevano battuto il Chelsea 2 a 1, vincendo il campionato. Thorne ricordava ancora il ruggito della folla e il suo stupore nel vedere l’immensa distesa verde del campo, mentre il padre lo conduceva per mano verso i loro posti. E per tutti gli anni successivi, ogni volta che erano andati insieme a una partita, Thorne aveva provato un brivido di piacere alla vista del campo, mentre emergevano nel rumore e nella luce.

Chissà se suo padre aveva guardato la partita, quel giorno. In tal caso, avrebbe senz’altro avuto un’opinione precisa da comunicare a chiunque volesse sentirla.

Thorne lo chiamò e ascoltò per venti minuti una raffica di battute prive di senso.

CAPITOLO 22

Carol Chamberlain mise da parte il giornale, vedendo Thorne avvicinarsi al tavolo con i loro caffè.

«Non è piacevole» disse.

Thorne lanciò un’occhiata al titolo e tolse la schiuma dal suo caffè con il cucchiaino. «Non è un problema mio.»

Malgrado gli sforzi di Trevor Jesmond e dei suoi superiori, i mass media si erano appropriati della storia, dopo l’omicidio di Southern. Non era proprio la grancassa prevista da Brigstocke, ma facevano parecchio rumore. Un giornale aveva pubblicato una vignetta con tre cappucci neri, attraversati ciascuno da una croce rossa, sotto il titolo “Tre di meno”. Un altro aveva raccolto le testimonianze di varie vittime di violenza carnale e le aveva pubblicate con titoli come “Date una medaglia a quest’uomo”, o “L’unico stupratore buono è uno stupratore morto”.

Gli articoli del lunedì mattina includevano anche le proteste di varie organizzazioni per i diritti e la reintegrazione degli ex carcerati, le quali chiedevano a gran voce la cattura dell’assassino, accusando la polizia di non fare abbastanza. La sera prima, Thorne aveva assistito a un acceso dibattito a London Live tra i rappresentanti di organizzazioni di aiuto alle donne violentate e quelli dei gruppi per i diritti dei carcerati. Il vicequestore, fiancheggiato da una donna comandante dalla faccia terribile e da un Trevor Jesmond alquanto sudato, aveva ricordato a uno dei gruppi che le vittime degli omicidi erano state a loro volta violentate e assicurato all’altro che la polizia stava facendo tutto il possibile per risolvere il caso.

Thorne aveva spento la tivù più o meno quando Jesmond, con una faccia da coniglio abbagliato dai fari di un’auto, aveva iniziato a blaterare che due cose sbagliate non ne fanno una giusta, eccetera.

«I tuoi superiori potrebbero decidere che è un problema tuo» disse Chamberlain. Lei e Thorne erano passati a un più confidenziale “tu”.

Thorne sorrise. «Tu facevi così?»

«Ovviamente. Ho anche frequentato dei seminari, a Hendon, su come scaricare le patate bollenti.»

Erano seduti a un tavolino all’ombra, fuori dalla piccola caffetteria vegetariana nel parco di Highgate Woods. Era tutto un po’ troppo biologico e alla moda per i gusti di Thorne, ma Carol aveva voluto mangiare fuori e in fondo quel locale andava bene come qualunque altro.

E anche se ogni fetta di pane integrale costava una cifra assurda, il pranzo poteva finire nel rimborso spese.

Il caso “freddo” di Carol Chamberlain era diventato di nuovo “caldo” e le era stato tolto di mano. Lei non aveva avuto scelta ed era passata a lavorare a qualcos’altro. Ma Thorne sapeva quanto le dovevano e il minimo che poteva fare era tenerla aggiornata. Inoltre le piaceva parlare con lei. Dopo il loro primo incontro, nell’ufficio di Thorne, avevano già avuto diverse occasioni di discutere, di persona o al telefono, su vari argomenti. Si scambiavano pettegolezzi, idee, battute…

«Almeno la stampa per il momento non sa di Mark e Sarah Foley» disse Carol.

Thorne prese il giornale e lo girò, dando una rapida occhiata alle cronache calcistiche nell’ultima pagina. «È solo questione di tempo.»

«Potrebbe anche essere un bene, dopotutto.»

«In che senso?»

«Potrebbe essere un modo per trovarli.»

«O per spingerli a nascondersi ancora meglio.»

Finito il caffè e rifiutato il dolce, Carol Chamberlain si alzò in piedi. «Facciamo il percorso lungo per tornare alle nostre macchine» suggerì, battendosi una mano sulla pancia. «Una bella passeggiata è quello che ci vuole per digerire.»


«Ha chiesto di te, Dave» disse Karim, indicando a Holland la donna in attesa nella sala di pronto intervento. Stone si materializzò silenziosamente alle spalle di Holland e tutt’e due fissarono Joanne Lesser, seduta accanto alla finestra.

«Una fighetta nera» mormorò Stone.

Holland annuì, voltandosi verso di lui. «Razzista e sessista» disse. «È un bel primato anche per te, Andy.»

«Vaffanculo.»

«Sei suscettibile, eh?»

«Sul serio, è proprio carina. Sei fortunato.» Holland lo guardò in silenzio, e Stone continuò: «È evidente che le interessi. Prima ti chiama al telefono, poi viene qui di persona. Più chiaro di così…».

Si avviarono insieme a salutarla e Joanne Lesser si alzò in piedi sorridendo appena li vide. Holland era certo che l’idea di Stone fosse solo un parto della sua mente fissata sul sesso. Tuttavia, per ragioni che non erano solo quelle di servizio, sperava che Joanne Lesser avesse davvero qualcosa di importante da riferire.

Cinque minuti dopo erano seduti tutti e tre nell’ufficio di Holland e Stone, con i bicchieri di plastica appoggiati sul bordo delle scrivanie.

«Sono le date che mi disturbano» affermò Joanne Lesser.

«Le date di affido alle famiglie?» Holland cominciò a sfogliare i suoi appunti.

«Adesso le cose vanno diversamente, ma a quell’epoca si smetteva di occuparsi dei ragazzi dopo i sedici anni. Passata quell’età, non erano più considerati una responsabilità dei servizi sociali.»

«Capisco» commentò Holland, sempre sfogliando gli appunti.

«Ho controllato i dati sulle schede informative dei ragazzi Foley,» disse Joanne «e c’è qualcosa che non torna.»

«Che cosa?» chiese Stone.

«L’ultima visita di controllo risale al febbraio del 1984. Probabilmente una visita a domicilio, o almeno una telefonata.»

Holland aveva trovato la pagina che cercava. Fece scorrere il dito sulla lista, fermandosi alla data del 1984. «Il signore e la signora Noble» disse. Dovevano essere ormai tornati dalle vacanze. Holland aveva lasciato loro un messaggio, ma non era stato ancora richiamato.

Joanne Lesser si sporse in avanti sulla sedia, spostando lo sguardo da Stone a Holland mentre parlava. «Ho controllato anche la data di nascita dei ragazzi, tanto per essere sicura, ma il problema rimane.»

Holland confrontò le date sui suoi appunti. «Non erano abbastanza grandi» disse alla fine.

Lesser annuì, iniziando ad arrossire intorno al collo. Holland sentì che in realtà avrebbe dovuto essere lui ad arrossire: avrebbe dovuto notare quel particolare, e lo avrebbe notato senz’altro, se non avesse considerato quella pista una totale perdita di tempo. Avrebbe dovuto permettere a Stone di dargli una mano, quando gliel’aveva offerta. Ora Stone sicuramente si stava divertendo un mondo, vedendo un’addetta dei servizi sociali che indicava a Holland i collegamenti tra una serie di dati.

«1984?» intervenne Stone. «All’epoca i ragazzi avevano…»

«Quindici e tredici anni» rispose la donna. «Mark stava per compierne sedici, in realtà, e se si fosse trattato soltanto di lui non mi sarei posta il problema. Ma è impossibile che siano stati interrotti i controlli per una ragazzina di tredici anni. Perciò ho pensato che potesse essere un dettaglio importante…»

«Quali sono i motivi per cui di solito si interrompono i controlli su un affido?» chiese Holland.

«Solo due, credo. Se la famiglia cambia residenza, tutto dovrebbe essere trasferito a una diversa zona o addirittura a un diverso stato.»

«Credo sia questo il caso» disse Holland. Sfogliò di nuovo gli appunti, fino a trovare l’indirizzo attuale dei Noble. «Romford è abbastanza lontano per cadere sotto la competenza di un altro ufficio?»

Joanne Lesser annuì.

«Ma sappiamo da quanto vivono a Romford?» chiese Stone.

«No, devo controllare. Il 1984 è anche l’ultimo anno in cui esistono dati riguardanti Mark e Sarah Foley nelle scuole locali, perciò probabilmente si sono trasferiti in quell’anno.» Si voltò verso Joanne. «Lei ha parlato di due motivi. Uno è il trasferimento in un’altra zona. L’altro…»

«L’adozione.» Holland e Stone la fissarono senza capire. «Lo ripeto, adesso è tutto più rigoroso, ma a quell’epoca, una volta firmate le carte per l’adozione, la faccenda finiva lì. Non era più di nostra competenza.»

«Ho la sensazione che lei abbia già controllato anche questo…»

La donna si strinse nelle spalle. «Ho chiamato una amica all’ufficio Adozioni. I loro schedari sono un po’ meglio organizzati dei nostri. Se volete prendere un appunto…»

Holland non poté evitare di sorridere. Prese una penna dalla scrivania e disse: «Dica pure…».

«Irene e Roger Noble hanno adottato formalmente Mark e Sarah Foley il 12 febbraio 1984. Forse si sono trasferiti subito dopo, o forse no, ma quello è stato l’ultimo contatto che i due ragazzi hanno avuto con i servizi sociali dell’Essex.»

Holland scarabocchiò in fretta le informazioni. Stando ai dati in loro possesso, quello sembrava essere l’ultimo contatto che Mark e Sarah Foley avessero avuto con chiunque.


Fecero lentamente il giro del campo da cricket, verso il campo giochi per bambini. Il sentiero era ombreggiato da querce e carpini. Le scuole erano chiuse, quindi c’era parecchia gente in giro. La temperatura stava scendendo a mano a mano che il cielo si rannuvolava, ma qua e là c’erano sprazzi di blu, come lividi sulla carne gonfia.

«Mark Foley per me è il sospettato numero uno.»

«Anch’io sono di questo parere» disse Thorne. «Vorrei solo che riuscissimo a trovarlo.»

«Lo troverete. Non può restarsene nascosto per sempre.»

«Inoltre, manca ancora un movente.»

Carol Chamberlain gli rivolse uno sguardo di sorpresa un po’ teatrale. «Oh, ero convinta che fossi il tipo a cui non importa nulla del perché…»

«In senso stretto, la cosa non mi riguarda. Ma se può aiutarmi a prendere quell’uomo…»

«Continua.»

«Riesco a immaginare il movente dell’omicidio di Alan Franklin…»

«Già. Franklin è il responsabile di tutto. Praticamente è stato lui la causa della morte dei coniugi Foley. Ma se è così, Mark ha aspettato un bel po’, prima di vendicarsi.»

«L’attesa è una cosa che posso capire.»

Carol rise. «Forse è solo un pigro bastardo.»

Thorne pensava di essere pienamente qualificato per esprimere un parere in fatto di pigri bastardi. «Non credo» disse.

Si fermarono in mezzo al sentiero. «Stava ancora crescendo» disse Thorne. «E anche il suo odio cresceva insieme a lui. Magari ha aspettato che Franklin diventasse vecchio e debole, prima di aggredirlo in quel parcheggio.»

«Solo che poi non è finita lì…»

«No. Ma perché? Mark pareggia i conti, nessuno sospetta di lui. Torna senza problemi alla sua vita.»

«Qualunque essa sia…»

«Allora perché diavolo ricompare? Perché questi altri morti? Perché Remfry, Welch, Southern?»

«Forse uccidere gli piace.»

«Sono certo che gli piaccia ora, ma non è questo il motivo per cui ha ricominciato. Dopo Franklin, deve essere accaduto qualcosa.»

«L’elemento della violenza sessuale è un punto cruciale, come hai sempre sostenuto. Forse è stato violentato anche lui.»

«Forse.» A Thorne sembrava di ritrovarsi su un terreno già esplorato. Avevano già considerato quella possibilità, quando credevano che l’assassino fosse un ex galeotto deciso a regolare vecchi conti. Certo, era possibile che Mark Foley fosse stato violentato, ma gli sembrava una spiegazione trita e ritrita, e comunque inutile.

Dietro di loro si udì un gran chiasso: alcuni ragazzi si erano messi a giocare nel campo da cricket e loro si fermarono a guardarli per qualche minuto. Quando riprese a parlare, Carol dovette accostarsi all’orecchio di Thorne, per farsi sentire al di sopra del rumore.

«Ricordo un verso di una poesia che ho studiato a scuola» disse. «“L’infanzia è il regno dove nessuno muore.”»

«Che poesia è?» chiese Thorne, mentre riprendevano a camminare.

«Non me lo ricordo. Si trovava in una di quelle raccolte antologiche che ti obbligano a studiare per forza…»

Quando ebbero raggiunto le loro auto, parcheggiate sulla via principale, Carol Chamberlain appoggiò una mano sul braccio di Thorne. «Dar libero sfogo alle idee è piacevole e utile, Tom. Ma ricorda che la risposta, se esiste, si trova nei dettagli, nei piccoli fatti che compongono lo schema di un caso.»

Thorne annuì, aprendo la portiera della BMW. Sapeva che c’erano delle risposte. E sapeva di averle già viste da qualche parte, di averle interpretate male e, quindi, di non poterle recuperare facilmente. Ormai si erano perse in mezzo a migliaia di fatti, rilevanti e irrilevanti, relativi al caso, alla crescente massa di stronzate che gli ingombrava la mente: parole, numeri, piccoli gesti, codici di accesso, l’espressione sul viso di un parente, la marca della scarpa dell’ospite di un albergo, il peso del fegato di un cadavere…

Thorne sapeva che la risposta era sepolta lì, da qualche parte, e questo lo disturbava. C’era anche un’altra cosa che lo infastidiva e ci pensò bene prima di menzionarla.

«A proposito di schema…»

«Sì?»

«Tra la seconda e la terza vittima lo schema è cambiato. L’omicidio di Welch e quello di Southern sono piuttosto diversi tra loro.»

«È logico. Ormai l’assassino immagina che i carcerati siano stati messi sull’avviso. Perciò ha dovuto organizzarsi diversamente.»

«E se dicessimo “sa”, invece di “immagina”?» disse Thorne. «Se lui sapesse tutto ciò che succede, perché si tratta di qualcuno vicino all’indagine? Abbiamo sempre ipotizzato che avesse accesso alle informazioni. Poi sono successe altre cose e l’idea è stata accantonata. Ma se fosse vero che l’assassino è uno di noi?»

Quando Thorne arrivò a Becke House, gli fu detto che era atteso nell’ufficio di Brigstocke. Holland stava riferendo a Yvonne Kitson e all’ispettore capo la scoperta di Joanne Lesser e la successiva conversazione telefonica da lui avuta con la signora Irene Noble. Thorne gli chiese di ricominciare e di ripetere tutto da capo per lui.

«È interessante il fatto che la data dell’adozione e quella del trasferimento siano così vicine tra loro» osservò Brigstocke.

«È ancora più interessante di quanto credessi. La prima cosa che la signora Noble mi ha chiesto, quando le ho detto che volevo parlarle di Mark e Sarah Foley, è stata se li avevamo trovati.»

«Come sapeva che li stavamo cercando?»

«No, signore, non intendeva quello» spiegò Holland. Sfogliò il suo taccuino e lesse: «“Li avete trovati, finalmente?”». Queste sono state le sue precise parole. Poi mi ha spiegato che i ragazzi sono scomparsi nel 1984…»

«Appena dopo l’adozione» disse Thorne.

«Già.» Brigstocke si alzò in piedi e fece il giro della scrivania. «E appena dopo che i Noble se n’erano andati da Colchester…»

Holland mise via il taccuino e si appoggiò allo schienale della sedia. «La signora Noble mi ha detto che c’è stata un’indagine ufficiale, all’epoca. I ragazzi sono stati dichiarati scomparsi e la polizia li ha cercati per settimane.»

«Hai controllato?» chiese Brigstocke.

«Sì, ma non c’è nulla. Ho controllato anche l’anno 1983, nel caso in cui la donna avesse confuso le date, ma non ho trovato niente. Nessun resoconto di una eventuale ricerca, nessuna denuncia riguardante ragazzi scomparsi. Niente a livello nazionale e neppure a livello locale.»

«Che impressione ti ha fatto la Noble, quando le hai parlato?» chiese Thorne.

«Era agitata.»

«Perché mentiva, secondo te?»

«No, non credo. Mi è sembrata sincera.»

«Che ne è del marito?»

«Roger Noble è morto di infarto nel 1990.»

Thorne rifletté su quelle informazioni per qualche secondo, poi si voltò verso Brigstocke. «Dobbiamo andare a parlare con questa donna» disse.

Brigstocke annuì. «Dove abita, Dave?»

«A Romford, ma viene a Londra domani. Pare che le piaccia fare shopping nel West End…»

Thorne fece una smorfia. «Ma davvero…»

«Ho preso appuntamento con lei alle dieci e mezza.»

Brigstocke si tolse gli occhiali, tirò fuori da una tasca dei pantaloni un fazzoletto di carta appallottolato e asciugò il sudore dalla montatura. «Ben fatto, Dave. Occupati di questo con il sergente Karim. Lui dovrà riassegnare le mansioni…»

«Sissignore.» Holland aprì la porta e uscì.

«Yvonne, vorresti occupartene anche tu, per favore? Potremmo aver maggior fortuna nel trovare Mark e Sarah Foley, adesso che sappiamo che hanno cambiato nome.»

Yvonne Kitson, che non aveva detto nulla, annuì e fece un passo verso la porta.

«Questa è davvero una buona notizia» disse Brigstocke. «Finalmente qualcosa di positivo da riferire al sovrintendente Jesmond.»

Thorne non riuscì a trattenersi. «Digli che l’ho visto in tivù, l’altra sera. È stato grande…»

Brigstocke non si prese neppure il disturbo di replicare. «Una pinta per festeggiare, più tardi?»

«Secondo me non c’è da festeggiare niente, ma ci sarò.»

«E tu, Yvonne?»

Yvonne Kitson scosse la testa. «Ho troppe cose da fare.» Si voltò e uscì. «Devo cambiare tutte le chiavi di ricerca da Foley a Noble…» disse, mentre si dirigeva verso la sala di pronto intervento.

Brigstocke guardò Thorne. «Ma cosa le è preso?»

«Non chiederlo a me.»

«Forse dovresti provare a parlarle…»

Il cellulare di Thorne squillò. Appena lesse il nome sul display, Thorne salutò Brigstocke, dicendogli che si sarebbero visti più tardi, e uscì nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.

«È ancora valido l’appuntamento per sabato?» gli chiese Eve.

«Spero di sì.»

«Bene. Ceniamo da qualche parte, poi andiamo a casa tua.»

«Perfetto. Ah… Sai, c’è una cosa che non ho ancora fatto…»

«Chi se ne frega. Hai un divano, no?»


Aveva del lavoro da fare. Dal punto di vista professionale e da quello del suo progetto personale. Non che considerasse gli omicidi una cosa personale, nel senso di qualcosa che riguardava il suo essere.

No, ciò che faceva a quegli animali nelle stanze d’hotel non era affatto personale. Lo aveva sempre negato e continuava a negarlo. Certo, gli piaceva farlo ed era felice quando metteva loro la corda al collo e tirava. Ma se fosse stato dipeso solo da lui, non sarebbe accaduto nulla.

Lui era soltanto un’arma.

Stranamente, sentiva di svolgere con maggiore partecipazione il suo lavoro quotidiano. Pagare un mutuo significava assumersi responsabilità precise, mentre l’altra cosa che faceva non gli arrecava alcun beneficio personale, anche se poi lui si sentiva coinvolto. Il lavoro recava sempre impresse le sue impronte, da qualche parte.

Rise e continuò a lavorare. Ultimamente c’era parecchio da fare e si stava davvero guadagnando lo stipendio. Ora aveva meno tempo per organizzare le altre cose, ma in realtà il più era fatto e non c’era bisogno di preoccuparsi.

A parte qualche dettaglio, l’ultimo omicidio era già organizzato.

CAPITOLO 23

Thorne non era convinto. «Non ho mai interrogato nessuno nello stesso posto dove compro i pantaloni.»

«C’è sempre una prima volta per tutto» disse Holland.

Portarono i caffè al tavolino dove Irene Noble li stava aspettando, circondata dai sacchetti degli acquisti appena effettuati. La caffetteria di Marks Spencer era un’innovazione recente, incuneata in un angolo del reparto di moda femminile e affollata di clienti che avevano iniziato presto la giornata, come Irene Noble.

Mentre si sedeva accanto a Holland, Thorne lanciò un’occhiata a tutte quelle donne che stavano facendo una breve pausa, prima di rituffarsi nello shopping frenetico. C’erano anche due o tre uomini dall’aria stanca, contenti di potersi sedere un attimo e di non dover esprimere pareri su qualcosa per alcuni minuti.

Irene Noble prese dalla borsetta una scatoletta di dolcificante e ne fece cadere una minuscola pastiglia nel suo caffellatte. Sollevò le sopracciglia, fissando Holland. «Probabilmente pensano che io sia sua madre» disse.

Era ancora una bella donna per i suoi sessanta — e passa — anni, pensò Thorne, anche se il tentativo di tenere lontana la vecchiaia era un po’ troppo evidente. I capelli troppo biondi, il rossetto rosso vivo troppo marcato sulle labbra. Doveva essere la fase di strenua lotta che precede quella della resa, quando lei avrebbe confessato la sua età a chiunque, avrebbe indossato sempre un camicione e non gliene sarebbe fregato più nulla di nulla…

«Ci parli di Mark e Sarah, signora Noble.»

Lei sorrise brevemente e bevve un sorso di caffellatte. «Roger diceva sempre che li avevamo persi nel trasloco. Come un servizio da tè, ha presente?» Vide l’espressione di Thorne e aggiunse: «Non lo diceva con cattiveria, ma con dolcezza. Era fatto cosi. Trovava sempre una battuta per farmi ridere quando mi veniva da piangere. Ho pianto molto, quando è successo…».

«Li avevate adottati da poco, giusto?»

«Sì. Era l’inizio del 1984. Erano con noi già da quattro anni. Avevamo avuto dei problemi, certo, ma poi tutto si era sistemato.»

Il suo tono era un po’ affettato. Thorne ricordava che anche sua madre lo usava, quando voleva esibire il meglio di sé a beneficio di medici, insegnanti, poliziotti…

«C’erano stati dei problemi anche con le famiglie che li avevano tenuti prima di voi, se non sbaglio…» disse Holland.

«Sì, e tutti li avevano abbandonati subito. Solo Roger e io tenemmo duro. Sapevamo che era un problema che dovevamo superare. Erano bambini disturbati e Dio sa se non avevano tutto il diritto di esserlo.»

«Di che tipo di problemi si trattava?» chiese Thorne.

«Comportamentali. Difficoltà di adattamento. Roger e io pensavamo di essere riusciti a fargliele superare, ma ovviamente ci sbagliavamo.» La donna prese un cucchiaino e fissò la tazza mentre girava il caffellatte. «Comportamentali» ripeté, come se fosse una diagnosi medica. Thorne gettò un’occhiata a Holland, il quale si strinse nelle spalle.

«Quindi avete deciso di adottarli?» La signora Noble annuì. «E loro come hanno reagito?»

Lei lo fissò come se avesse fatto una domanda molto stupida. «Avevano perso i genitori ed erano stati rifiutati da tutte le famiglie che li avevano avuti in affido. Sono stati felici quando hanno saputo che saremmo stati una vera famiglia. Roger e io avevamo sempre voluto dei figli. Con Mark e Sarah ci siamo forse risparmiati i pannolini e quant’altro, ma vi garantisco che le notti insonni non sono mancate…»

«Ne sono certo» la interruppe Thorne.

«…sia quando erano con noi, sia dopo che sono scomparsi…»

«Com’è successo?»

La donna spinse da parte la tazza, appoggiando sul tavolino le mani dalla pelle macchiata. «Il giorno del trasloco nella nuova casa era un sabato mattina. C’era il caos che potete bene immaginare. Scatole e scatoloni dappertutto, i facchini che scivolavano sulla neve che copriva la strada… Abbiamo detto ai ragazzi di sistemare laloro roba da soli eloro sono saliti al piano di sopra…»

«A litigare per chi dovesse avere la stanza più grande, immagino.»

«No, avevamo già deciso in anticipo quali sarebbero state le loro stanze.»

«E cosa è successo?»

«Avevano entrambi bisogno di uno spazio privato, capisce?»

«Cosa è successo, signora Noble?»

«Nessuno li ha sentiti andare via, nessuno li ha visti. Sono spariti come fantasmi…»

«Quando vi siete resi conto che se n’erano andati?»

«Eravamo occupatissimi a sistemare la casa, ad aprire scatoloni per cercare questo o quello.» La signora Noble iniziò a tormentarsi un’unghia. «È stato solo verso l’ora di cena… Non ricordo esattamente quando, so solo che era già buio.»

«E…»

«All’inizio non ci siamo preoccupati troppo. I ragazzi uscivano spesso senza dire nulla. Erano molto indipendenti e molto uniti. Mark proteggeva sempre la sorella.»

Thorne gettò un’occhiata a Holland. «E quando avete chiamato la polizia?»

«La mattina dopo, quando abbiamo scoperto che non erano tornati a dormire.»

Thorne si chinò in avanti. Prese uno dei biscotti italiani che venivano offerti con il caffè e lo spezzò in due. «Chi ha chiamato la polizia?» chiese, con tono apparentemente casuale.

La risposta arrivò senza esitazione. «Roger. Invece di telefonare, è andato al commissariato di persona, pensando che così tutto si sarebbe risolto più in fretta. Mi ha riferito che la polizia si era attivata subito. Due agenti sono venuti a casa nostra, mentre io ero fuori a cercare i ragazzi per strada.»

«È stato Roger a dirle che erano venuti?»

Lei annuì. «Hanno dato un’occhiata alle stanze dei ragazzi, hanno fatto un po’ di domande, si sono portati via alcune foto…»

Thorne lanciò un’occhiata a Holland e lui subito si appuntò sul taccuino di trovare foto dei ragazzi da elaborare al computer, invecchiando i volti, come aveva suggerito Brigstocke. Thorne si mise in bocca la seconda metà del biscotto e masticò per alcuni secondi, prima di parlare di nuovo.

«La polizia ha pensato subito a una fuga?»

«No, non subito. La roba dei ragazzi era ancora tutta negli scatoloni e non era facile capire se avessero portato via qualcosa con loro…»

«Ma alla fine,» insisté Thorne «la polizia deve averlo pensato.»

«Sì, dopo un paio di giorni ho scoperto quali vestiti mancavano. Era scomparso anche del denaro, ma ci ho messo più tempo a rendermene conto. Dopo aver saputo la storia dei ragazzi e quello che avevano passato, gli agenti hanno detto a Roger che quasi certamente erano scappati di casa.»

«E cos’hanno fatto?»

«Oh, sono stati molto bravi. Li hanno fatti cercare dappertutto. Appelli, informazioni, controlli. Hanno preso il caso davvero sul serio, almeno per le prime due settimane. Roger mi teneva informata di tutto.»

«Roger…»

«Sì. Andava al commissariato tutti i giorni, talvolta anche due volte al giorno, per sapere a che punto erano le indagini.»

«E dopo le prime due settimane, cosa è successo?»

«Un ispettore capo ha detto a Roger che certamente ai ragazzi non era accaduto nulla di male. Altrimenti, la polizia lo avrebbe senz’altro saputo. Penso che volesse dire che avrebbero trovato i corpi…»

La pelle sotto l’unghia che Irene Noble continuava a tormentarsi aveva iniziato a sanguinare. Lei inumidì un tovagliolo con la lingua e se lo premette sul dito. Quando riprese a parlare, il tono affettato era sparito e l’accento dell’Essex era più forte che mai.

«Non avendo avuto figli miei» disse «non so con sicurezza se mi sarei preoccupata per loro più di quanto feci per Mark e Sarah. Capite cosa voglio dire? Dopo che Roger mi ha assicurato che stavano bene, a poco a poco abbiamo smesso di preoccuparci. Ci mancavano, certo, ma ce ne siamo fatti una ragione…»

«Lei ha mai parlato di persona con un poliziotto?» chiese Thorne. «Durante tutto il tempo in cui sono durate le ricerche dei due ragazzi, intendo dire.»

Thorne si aspettava di vederla tacere per un attimo, o forse impallidire. Invece Irene Noble sorrise. Poi il sorriso si spense e il viso si riempì di malinconia.

«Roger ha voluto evitarmi la sofferenza di dovermi occupare direttamente della cosa. Ha fatto tutto lui, si è assunto ogni responsabilità, solo per non farmi soffrire. Sono sicura che sia stata tutta quella tensione, in aggiunta alla faccenda della scuola, a farlo morire prima del tempo.»

Thorne sbatté le palpebre e respirò a fondo un paio di volte. Un sospetto, una sensazione, cominciò a coagularsi in qualcosa di più definito. «Quale faccenda della scuola?» chiese.

«Roger lavorava alla St Joseph, la scuola dove sarebbero dovuti andare anche Mark e Sarah» spiegò la signora Noble con naturalezza, come se il fatto che poi non ci fossero andati fosse del tutto irrilevante. «Era un lavoro part-time, praticamente era un po’ il factotum della scuola. Ma un giorno un tizio, il padre di uno scolaro, si è presentato a casa nostra e ha cominciato a inveire, dicendo che suo figlio era stato coinvolto in non so quale episodio e che aveva fatto il nome di Roger. Erano tutte menzogne, naturalmente, ma lui non ha voluto sentire ragioni ed è andato a protestare dal preside. La scuola avrebbe voluto mettere la cosa a tacere, com’è ovvio, perché si trattava di una sciocchezza, ma Roger ha preferito andarsene, piuttosto che mettere a disagio i ragazzi. Era tipico del suo modo di essere. Ancora adesso non riesco a immaginare come qualcuno abbia potuto pensare… Abbiamo sempre avuto dei bambini, in casa, dopo la scuola, durante le vacanze…»

«Roger amava i bambini…»

Lei alzò gli occhi, con lo sguardo pieno di gratitudine per la comprensione di Thorne. «Proprio così. Lui non lo avrebbe mai ammesso, ma io credo che circondarsi di altri bambini fosse il suo modo di reagire alla perdita di Mark e Sarah… Poi, però, dopo tutti quei fatti spiacevoli, il carico di dolore è diventato eccessivo e il suo cuore non ha retto.»

«E lei, signora, in che modo ha reagito?»

«Pregando per Mark e Sarah. Ho pregato che stessero bene e che non fosse accaduto loro nulla di male.»

Thorne stava ancora pensando a quest’ultima frase, mentre lui e Holland avanzavano a passo d’uomo nel traffico del West End.

«Molto opportuno per Roger Noble» disse Holland. «I ragazzi scompaiono poco prima di cambiare scuola. Le schede che li riguardano spariscono con loro…»

«Una bella coincidenza» commentò Thorne.

«Ma sono davvero fuggiti? La mia è una congettura ad alta voce…»

Thorne scosse la testa. «Noble è stato sicuramente responsabile della loro fuga e questo è il motivo per cui non ne ha mai denunciato la scomparsa. Ma non credo che si sia spinto oltre. Se li avesse uccisi, allora adesso chi stiamo cercando?»

«Non dovremmo fare rapporto?» chiese Holland. «Quel bastardo potrebbe aver abusato di chissà quanti altri bambini.»

«Ormai è morto. Non può più fare male a nessuno.»

«E la moglie? Secondo lei sapeva?»

Thorne ripensò a quando Irene Noble aveva detto di aver pregato che ai ragazzi non fosse accaduto nulla di male e scosse la testa. No. Se lei avesse saputo, non gli sarebbe sembrata tanto sincera nel pronunciare quelle parole.


Al Grafton Arms, a pochi passi da casa sua, Thorne aveva bevuto diverse birre, giocando a biliardo con Hendricks, e aveva perso cinque partite su sei.

«Non mi diverte molto umiliarti, stavolta» disse Hendricks. «Si vede benissimo che la tua mente è da un’altra parte.»

Appoggiato al bancone del bar, Thorne non ribatté nulla. Hendricks segnò senza difficoltà gli ultimi punti e mise in buca la palla nera. «Che ne dici se cominciamo a scommettere soldi?» chiese. «Forse ti aiuterebbe a concentrarti di più…»

«Sono stanco» fu il commento di Thorne. «Finisco questa pinta e me ne vado a casa.»

Hendricks prese il bicchiere di Guinness che aveva appoggiato sul distributore automatico di sigarette e lo raggiunse al bancone. «Ancora non riesco a crederci» disse. «Come potevano essere totalmente all’oscuro? Qualcosa dovevano pur sapere.»

Thorne scosse la testa, portandosi il bicchiere alle labbra. Avevano parlato di Sheila Franklin e di Irene Noble. Due donne all’incirca della stessa età, entrambe vedove di due uomini che ricordavano con affetto e tenerezza. Due uomini che avevano amato…

Uno violentava le donne, l’altro molestava i bambini.

Thorne inghiottì una sorsata di birra. «Forse è una questione di età» disse. «Appartengono a un’altra generazione…»

«Stronzate» ribatté Hendricks. «Hai presente i miei genitori?» Thorne li aveva visti una volta, nella pensione che gestivano a Salford. «Mio padre non può neppure scoreggiare, senza che mia madre lo sappia.»

Thorne annuì. L’amico aveva ragione. «Per i miei era la stessa cosa.»

Hendricks estrasse dal taschino del giubbotto di jeans un pacchetto di Silk Cut e Thorne, con un’irritazione da ex fumatore, lo osservò tirare fuori una sigaretta.

«Qualcuno dirà a quelle donne la verità sui loro maritini?» chiese Hendricks.

«Adesso non ce n’è motivo. E, se prenderemo il nostro uomo, lo scopriranno da sole.»

Hendricks annuì e si accese la sigaretta. Spirali di fumo azzurrino ondeggiarono verso il biliardo, adesso occupato da un uomo e una donna.

«Forse noi pensiamo soltanto di sapere come stavano le cose tra i nostri genitori» disse Thorne. «Forse sappiamo solo quel tanto, o quel poco, che loro stessi sapevano.»

«Può darsi.»

«C’è una vecchia canzone country che si chiama Behind closed doors, dietro le porte chiuse…»

«Lo sapevo che saremmo arrivati al country.»

«Ma è vero, no? Molto di quello che riguarda la famiglia è mitologia. Cose che si tramandano di bocca in bocca, senza che si possa mai sapere per certo quello che è vero e quello che non lo è. E prima che tu te ne renda conto, la tua storia è diventata solo una diceria.» Thorne bevve un sorso di birra. Sapeva che avrebbe dovuto parlare con suo padre. Avrebbe voluto conoscere più cose sui suoi genitori e sui loro genitori. Ma ormai era tardi.

«Merda» disse Hendricks. «Tutte queste profonde verità in una sola canzone?»

«Sei proprio una testa di cazzo…»

Si spostarono dal bancone per lasciare spazio a un gruppo di ragazzi e finirono le birre in piedi accanto alla porta.

«Comunque sia, che mi dici di Mark Foley?»

«È sempre il sospettato numero uno.»

«Chiunque egli sia…»

«Già. E dovunque sia. Non mi sta rendendo la vita facile.»

«Prima o poi farà un passo falso e lo inchioderemo…»

«Non mi riferisco al fatto di prenderlo.» Thorne faceva fatica a immaginarsi quel serial killer con una faccia da adulto, invece che da ragazzino di quindici anni. Vedeva un adolescente che proteggeva la sorella, portandola via da un posto dove lei, e forse anche lui, subivano violenze. «Sto ancora cercando di capire che tipo è.» Thorne si voltò a guardare Hendricks. «Tutta questa faccenda è un gran casino, sai, Phil? Mark Foley, o Mark Noble, o comunque si faccia chiamare, adesso è un assassino e al tempo stesso una vittima.»

Hendricks scrollò le spalle. «E allora?»

«Allora, c’è una parte di lui che una parte di me non vuole davvero catturare…»

Thorne accompagnò Hendricks alla stazione della metropolitana. L’amico gli chiese di Eve, fece una battuta salace quando seppe del loro appuntamento bollente per il sabato successivo, e si lamentò della propria vita amorosa, movimentata ma triste.

Thorne lo ascoltava solo con un orecchio. Era stanco e si vedeva planare lentamente tra le felci ondeggianti della sua collina. All’improvviso accanto a lui apparve Jane Foley e, benché Thorne non riuscisse a vederla chiaramente in viso, se l’immaginò distrutta dal dolore. Dolore per se stessa e per i suoi figli.

Thorne sapeva che, una volta toccata terra, i loro corpi sarebbero affondati tra le felci, la collina sarebbe franata sotto il loro peso e loro sarebbero sprofondati, attraverso acqua e terra e legno marcio di vecchie bare e ossa ridotte in polvere, fino a un’oscurità priva di suoni, circondati dal terreno umido.

CAPITOLO 24

Sulla segreteria di Irene Noble la sua voce affettata risultava ancora più marcata. Holland lasciò un messaggio dopo il segnale acustico. «Sono l’agente Holland, dell’Unità per i Reati Gravi. Ieri, durante il colloquio, l’ispettore Thorne e io ci siamo dimenticati di chiederle alcune foto dei ragazzi. Ci sarebbero molto utili. Naturalmente gliele restituiremo presto. Per favore, mi chiami appena possibile a uno dei numeri riportati sul biglietto da visita che le ho lasciato. Grazie mille…»

Holland riagganciò e alzò gli occhi. Andy Stone lo stava fissando, da dietro la sua scrivania. «Foto dei ragazzi?» chiese.

«L’ispettore capo vuole provare a invecchiare i volti dei ragazzi al computer.»

Stone scosse la testa. «È una perdita di tempo. Non ci sarà alcuna somiglianza con i Foley, se mai salteranno fuori.»

«Se le foto risalgono a poco prima della fuga, si tratta di due ragazzi di quindici e tredici anni. Non possono essere cambiati troppo.»

«Davvero? Non ti è mai capitato di incontrare qualcuno che non vedevi da qualche anno e di non riconoscerlo affatto? E parlo solo di qualche anno…»

Holland pensò un attimo e ammise che il collega aveva ragione. Inoltre, durante le indagini sul caso degli assassini che agivano in coppia, di cui si era occupato con Thorne l’anno prima, aveva scoperto che cambiare aspetto non era poi così difficile. Comunque, se c’era una tecnica per invecchiare le persone nelle foto, tanto valeva usarla.

Stone era scettico. «Si tratta di un software che agisce in base a una serie di ipotesi e congetture. Come fai a sapere con certezza se una persona perderà i capelli, o se ingrasserà di venti chili?»

«Ho visto casi in cui l’invecchiamento sembrava piuttosto realistico» disse Holland.

Stone si strinse nelle spalle. «E, poi, siamo sicuri che la signora Noble abbia delle foto dei ragazzi?» chiese, senza alzare gli occhi.

«No, non lo siamo. Ma sarebbe strano che non ne avesse, visto che li amava tanto.»

«Manderai qualcuno a prenderle, o ci andrai di persona?» chiese Stone.

«Non ci ho ancora pensato. Aspetterò di sentire che cosa mi risponde prima di decidere. Verresti con me, nel caso?»

«No…»

«È single… ma forse è un po’ troppo anziana, perfino per te.»

«Allora meglio lasciar perdere.»

«Come vuoi.» Holland appuntò data e ora della telefonata: mercoledì 7, ore 10.40. Se Irene Noble non si fosse fatta viva entro la fine della giornata, l’avrebbe richiamata. Quando Stone gli rivolse la parola, Holland era appoggiato allo schienale della sedia e fissava nel vuoto con gli occhi socchiusi.

«Tu dici che li amava tanto. A me sembra un po’ esagerato.»

«Io credo che volesse davvero molto bene ai ragazzi» dichiarò Holland. «Ma è una donna ingenua. Anzi, stupida, se vuoi.»

Stone girò di scatto lo sguardo verso Holland. «Se l’amore è cieco, allora sì, forse li amava davvero.»


Chi aveva creduto che i computer avrebbero eliminato la parte cartacea del lavoro d’ufficio si era sbagliato di grosso. La pila di scartoffie sulle scrivanie era la stessa di sempre. Con la differenza che adesso si trattava di documenti stampati dal computer.

Thorne era seduto e stava leggendo le storie di quattro omicidi.

Tutte le informazioni e i particolari che gli intasavano il cervello erano stati riportati su carta. Su fogli A4 usciti da una stampante laser, su carta chimica da fax, su Post-it e su foglietti strappati da un taccuino. L’intero caso era davanti a lui, montagne di fogli spiegazzati legati con un elastico, o tenuti insieme da punti metallici e infilati in raccoglitori di cartone.

Thorne si tuffò in ogni singolo pezzo di carta, come un gabbiano in una discarica di rifiuti, alla ricerca di una risposta che doveva essere lì, nascosta da qualche parte. Un occhio nero e fisso in cerca di un bocconcino appetitoso.

Sentiva ancora la voce di Carol Chamberlain, che diceva, con il suo accento dell’Essex: «Se esiste, si trova nei dettagli».

Seduta alla scrivania di fronte alla sua, dietro a una pila di carte, Yvonne Kitson era intenta a scrivere. Stava ancora lavorando sulla ricerca Foley/Noble, setacciando migliaia di indirizzi, numeri della previdenza sociale e registrazioni di auto. E allo stesso tempo riceveva e catalogava le informazioni sul caso Southern.

Thorne pensò di lanciarle una pallottola di carta, pe’r catturare la sua attenzione. Poi decise che non era il caso.

«A parte tutto il resto,» disse «gli assassini danneggiano anche le foreste.»

Yvonne Kitson alzò gli occhi. «Che cosa?»

Thorne sollevò un grosso pacco di referti di autopsie e lei annuì.

«Come sta andando, Yvonne?»

«Non credo che la ricerca di Mark Noble avrà più successo di quella di Mark Foley. È un nome che deve aver usato per pochissimo tempo.»

«Il nome di un uomo che sicuramente odiava.»

«Già. Al suo posto, io l’avrei cambiato subito dopo aver lasciato quella casa.»

Thorne non poteva che essere d’accordo. Sarebbe andato subito da Brigstocke per consigliargli di concentrare le loro risorse in una direzione più produttiva, se solo avesse avuto la minima idea di quale fosse quella direzione.

«Purtroppo, ci tocca setacciare tutto lo stesso» disse, in tono rassegnato.

La pista dell’adozione, delle molestie e della fuga cominciava a sembrare un altro vicolo cieco. Se era abbastanza difficile cercare di immaginare i movimenti di una ragazzina scappata di casa da sei mesi, cercare di ricostruire la fuga di due adolescenti scomparsi da Romford da quasi venti anni era pressoché impossibile.

Tuttavia non avevano scelta. Mentre Holland, Stone e il resto della squadra si davano da fare come potevano, Thorne riesaminava da capo ciò che avevano già in mano, sicuro che fosse abbastanza.

All’ora di pranzo non aveva ancora trovato nulla e si sentiva come se avesse analizzato tutti gli omicidi del mondo. Aveva visto le mani del patologo frugare in ogni cavità toracica, nelle umide profondità di ogni intestino. Aveva ascoltato le parole inutili di chiunque avesse incontrato le vittime, anche solo alla fermata dell’autobus.

Non ne poteva più.

«Che cosa c’è nei tuoi sandwich, oggi?»

Yvonne scosse la testa senza distogliere gli occhi dal computer. «Oggi non ho avuto tempo. I ragazzi mi davano il tormento e tutto è diventato…»

Non finì la frase e Thorne ne approfittò per intervenire: «Non puoi tenere tutto sotto controllo, Yvonne. Se ogni tanto abbassi un po’ la guardia, non c’è niente di male». Lei gli rivolse un sorriso tirato. «Va tutto bene, Yvonne?»

«Qualcuno ti ha detto qualcosa?» chiese lei.

«No, è solo che ultimamente non sembri più tu.»

Il sorriso di Yvonne Kitson si allargò e per un attimo lei tornò a essere la stessa di sempre. Il tipo di persona a cui Thorne poteva lanciare una pallottola di carta senza problemi. «Sono solo stanca» disse.


Il prossimo omicidio sarebbe stato l’ultimo, almeno per un po’. Sarebbe servito a concludere in bellezza. Poi l’indagine della polizia avrebbe subito un’accelerazione e, statisticamente, il rischio di farsi beccare sarebbe aumentato.

Se lo avessero preso e processato per i suoi crimini, quest’ultimo omicidio lo avrebbe portato dritto alla crocifissione. Finora era stato tutto diverso. Se lo avessero processato per l’assassinio di Remfry, Welch e Southern… chissà, forse avrebbe anche potuto cavarsela con poco.

I giornali scandalistici lo avrebbero senz’altro appoggiato, ne era sicuro. Forse avrebbe anche potuto persuadere uno di quelli più popolari a pagargli un avvocato famoso. Aveva già deciso che, se mai quel momento fosse arrivato, lui avrebbe confessato tutto in pubblico, spiegando esattamente che cosa aveva fatto e perché. Era convinto che solo un giudice davvero coraggioso avrebbe osato mandarlo in galera per molto tempo, dopo la sua confessione.

Certo, non tutti sarebbero stati d’accordo. Alcuni avrebbero sostenuto che lui doveva pagare il suo debito con la società, proprio come avevano fatto le persone che lui aveva assassinato.

Che protestassero pure. Che parlassero pure di “perversione” e “giustizia”, come se avessero la minima idea del significato di quelle parole.

Perversione e giustizia. La degradazione e la speranza frustrata. La sporca commedia che aveva dato inizio a tutto…

Ma quelle erano tutte fantasie, destinate ad avverarsi solo nel caso improbabile che la polizia bussasse alla sua porta nei successivi due giorni. Dopo l’ultimo omicidio, nulla avrebbe potuto salvarlo.

E anche la stampa scandalistica gli avrebbe voltato le spalle, una volta che fosse stata scoperta la sua ultima vittima.

Tutt’altra cosa rispetto a uno stupratore.


Thorne stava inserendo alcune monete nella macchina del caffè, quando Sam Karim gli si avvicinò.

«La signorina Bloom per lei, signore…»

Un po’ confuso, Thorne si tastò le tasche dei pantaloni in cerca del cellulare, scoprendo di averlo dimenticato sulla scrivania. Evidentemente Eve, non avendo ricevuto risposta sul telefonino, aveva pensato di provare a cercarlo al numero d’ufficio.

Thorne si avvicinò a una scrivania e sollevò la cornetta, tenendola contro il petto finché Karim non fu abbastanza lontano.

«Eccomi. Cosa c’è?»

«Niente di importante. Solo una piccola variazione di orari per sabato. Avevo detto che sarei uscita prima e Keith mi aveva assicurato che avrebbe chiuso il negozio al mio posto. Adesso, invece, è saltato fuori che lui dovrà uscire ancora prima di me, quindi sono un po’ incasinata.»

«Non importa, vieni appena puoi.»

«Certo. Era solo che avrei preferito arrivare da te presto e rilassarmi un po’, prima di uscire a cena…»

«Sembra interessante.»

«Ma a questo punto non sarò lì prima delle sette, visto che devo chiudere il negozio e passare da casa.»

«Anch’io non credo che arriverò molto prima di quell’ora.»

«Mi dispiace dover cambiare i nostri accordi, ma non è colpa mia. Keith di solito è affidabile e… Tom?»

La voce di Eve gli arrivava come da lontano. Thorne non l’ascoltava più.

I nostri accordi.

La certezza lo afferrò e gli si strinse addosso come un cappio. In un secondo, Thorne capì esattamente che cosa aveva mancato di notare. Il particolare che era sempre rimasto nell’ombra e che ora emergeva in piena luce.

Qualcosa che aveva letto e qualcosa che non aveva letto.

Avevano trovato tutte le lettere di Jane Foley a Remfry, quelle inviate in carcere e quelle spedite a casa dopo il rilascio. Nulla lasciava pensare che ci fossero lettere mancanti. Eppure mancava qualcosa.

Thorne aveva letto e riletto tutte le lettere almeno una dozzina di volte e in nessuna di esse Jane si era accordata con Remfry per incontrarlo da qualche parte. Non si era mai parlato di un appuntamento, almeno non in termini di ora e data. Non era mai stato fatto il nome di un hotel…

Perciò in quale modo si erano accordati?

Dave Holland aveva scritto qualcosa che Thorne ricordava di aver letto. Era nel primo rapporto redatto da Holland dopo la visita a casa di Remfry. Quel giorno, poco prima che le lettere venissero ritrovate sotto il letto, Mary Remfry aveva voluto ribadire che il figlio aveva successo con le donne. Che c’erano donne che gli ronzavano intorno, dopo il suo rilascio, donne che gli telefonavano…

Remfry, Welch e Southern non erano entrati in quelle stanze d’albergo semplicemente pensando che avrebbero incontrato Jane Foley. Ne erano certi.

Avevano parlato con lei.

CAPITOLO 25

«E non solo per telefono» disse Holland. «Gli altri non so, ma Southern potrebbe perfino averla incontrata.»

Erano nell’ufficio di Brigstocke, prima di un briefing convocato d’urgenza, diciotto ore dopo la scoperta di Thorne che c’era anche una lei.

«Continua, Dave» disse Brigstocke.

«Ho parlato con l’ex ragazza di Southern…»

Thorne ricordava di aver letto la deposizione della donna. «Si erano lasciati poco prima che fosse ucciso, se non sbaglio.»

«Esatto. E lei ha raccontato che il motivo principale per cui lo ha lasciato è che aveva sentito parlare di un’altra donna. Sembra che Southern si fosse vantato al pub, con gli amici, di aver rimorchiato una tipa fantastica. Anzi…»

«Che cosa?»

«Dovrei rileggere la deposizione, ma se non sbaglio sembra che Southern avesse detto ai suoi amici che era stata lei ad abbordarlo.»

Thorne guardò le fotografie in bianco e nero sparse sulla scrivania di Brigstocke. «Jane Foley» disse.

«Ma chi è, realmente?» disse Kitson.

«Potrebbe essere chiunque» rispose Thorne. «Non possiamo trascurare nessuna possibilità. Una modella ingaggiata per l’occasione, una prostituta. L’assassino potrebbe averla usata per le foto, offrendole un extra perché telefonasse a Remfry e a Welch e abbordasse Southern…»

Brigstocke stava radunando i suoi appunti. Non credeva a una parola di ciò che Thorne stava dicendo, non più di quanto ci credesse lo stesso Thorne. «No, è Sarah, la sorella. Deve essere lei.»

«Con il nome della madre» aggiunse Thorne.

«La madre è il perno di tutta la faccenda» sottolineò Holland. «Tutto gira intorno a Jane.»

«Tutto gira intorno a una famiglia» puntualizzò Thorne.

«Il che significa,» intervenne Brigstocke «che tutto è ancora più complicato e ingarbugliato di quanto riusciamo a immaginare.»

«Io comincio a immaginarmelo» disse Thorne, come se pensasse ad alta voce. «La famiglia può fare molti danni.»

«Abbiamo finito?» chiese Yvonne Kitson e si avviò verso la porta senza attendere la risposta. «Ho ancora un paio di cose da fare prima che inizi il briefing.»

«Direi che possiamo andare. Tutto chiaro?» Brigstocke guardò l’ora, poi il viso di Thorne, molto meno facile da decifrare del quadrante dell’orologio. «Bene, allora cominciamo tra cinque minuti.»


Il messaggio che lo avvisava della telefonata arrivata per lui era scarabocchiato a mano su un foglietto, che Holland appallottolò mentre componeva il numero.

«Signora Noble? Sono l’agente Holland. Grazie per aver chiamato.» Si era ripromesso di richiamarla lui, il giorno prima, ma dopo l’intuizione di Thorne tutti i programmi erano saltati.

«Ho ascoltato il suo messaggio un po’ tardi,» disse lei «e non mi è sembrato il caso di disturbarla a casa.»

«La prossima volta non si faccia scrupoli» la esortò Holland. In ogni caso, la sera prima probabilmente non avrebbe neppure sentito il telefono, assordato com’era dalle urla di Sophie.

«Le foto mi verranno restituite, vero?»

«Certamente, glielo prometto.»

«Ci metterò un po’ di tempo a trovarle. Sono in cantina. O forse in soffitta, non ne sono sicura. Ma le troverò.»

Holland si voltò verso la sala di pronto intervento che si stava riempiendo. Senza dubbio, fuori c’erano ancora una dozzina di fumatori, intenti a dare l’ultimo tiro alla sigaretta prima del briefing, ma la maggior parte delle sedie e delle scrivanie era già occupata.

«Crede di farcela in un paio di giorni?»

«Sì, direi di sì. Ho accumulato tanta di quella roba inutile, nel corso degli anni…»

«Quando le avrà trovate, possiamo passare noi a prenderle?»

«Certo» rispose Irene Noble. «Venite quando volete, io non mi muovo di qui.»


Thorne era solo nell’ufficio di Brigstocke. Mancavano pochi minuti all’inizio del briefing. Brigstocke era già nella sala di pronto intervento. Dopo di lui, avrebbe parlato Thorne.

Era in piedi accanto alla scrivania e fissava le foto della donna. Una serie di immagini attentamente costruite per tentare e sedurre, per offrire, ma senza concedere nulla.

Thorne non aveva modo di sapere con certezza se la donna delle foto fosse Sarah Foley. In realtà, non importava. Era lì, e allo stesso tempo non c’era. Nella maggior parte delle foto era in ginocchio, con la testa china, oppure in ombra. Thorne studiò le immagini una per una, sperando in un’altra illuminazione.

Ma a parte il messaggio seduttivo che mandavano, quegli scatti non gli rivelarono nulla di nuovo. Anche dal punto di vista dei dettagli fisici erano poco significativi, a parte il motivo costante della sottomissione. In alcune foto la donna sembrava avere i capelli scuri, mentre in altre risultavano più chiari. In un paio era addirittura bionda, ma poteva trattarsi di una parrucca. Il corpo, poi, pareva cambiare a seconda della posa e della luce. Era alternativamente flessuoso e muscoloso e la posizione in cui la donna si trovava rendeva impossibile giudicarne l’altezza e perfino la corporatura.

Sarah Foley, se si trattava di lei, restava ancora nascosta.

Thorne guardò l’orologio. Di lì a un minuto sarebbe toccato a lui parlare. Il suo compito era quello di galvanizzare la squadra, di portarla a segnare il gol della vittoria.

Nei giorni successivi avrebbero lavorato tutti come muli, lui per primo. Avrebbero dovuto ripercorrere tutto il corso dell’indagine e rivedere il lavoro già fatto alla luce della nuova pista, ma lo slancio era positivo. Thorne avvertiva come un’accelerazione collettiva delle pulsazioni. L’indagine stava prendendo velocità e da quel momento in poi Thorne avrebbe fatto in modo che nulla più potesse sfuggirgli.

Comunque, a parte l’eventualità di un arresto, il fine settimana prometteva di lasciargli un po’ di tempo libero. Il sabato sera sarebbe stato dedicato a Eve e la domenica a suo padre. Thorne si concesse un sorriso. Se sabato fosse andato tutto come sperava, la mattina successiva non sarebbe partito tanto presto per St Albans.

Karim apparve sulla soglia, lanciandogli uno sguardo significativo.

«Arrivo, Sam» lo rassicurò Thorne.

Avrebbe parlato con autentica passione ai poliziotti che lo stavano aspettando. Voleva prendere quell’assassino, adesso più che mai, e voleva diffondere quel desiderio come un’epidemia. Voleva suscitare quell’inebriante sensazione fatta di disperazione e di fiducia al tempo stesso che a volte riusciva a far accadere le cose da sole.

Non avrebbe parlato, invece, dell’altra sensazione che aveva dentro, quella che gli causava una vertigine…

Era vero, si stavano muovendo velocemente, adesso. Ma Thorne non poteva fare a meno di sentire che qualcosa si stava muovendo con la stessa velocità e determinazione verso di loro. Ci sarebbe stata presto una collisione, ma lui non era in grado di prevedere quando, né in quale direzione.

Sarebbe arrivata all’improvviso.

Thorne raccolse le foto dalla scrivania, le infilò in un raccoglitore e si avviò verso la sala di pronto intervento.

CAPITOLO 26

Le loro voci erano poco più che sussurri.

«Ti ho svegliato?»

«Che ora è?»

«È tardi. Torna a dormire.»

«No, non c’è problema…»

«Mi dispiace.»

«Stavi facendo di nuovo quel sogno?»

«È un periodo in cui lo faccio ogni notte. Cristo…»

«Prima non ti capitava mai, vero? Ero io quello che faceva i brutti sogni.»

«Be’, ora mi capita. Credi che smetteranno, dopo?»

«Cosa?»

«I sogni. Smetteranno, quando sarà tutto finito?»

«Lo sapremo presto.»

«Sono nervosa per il prossimo.»

«Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»

«Non abbiamo lo stesso controllo della situazione che avevamo con gli altri. Con loro sapevamo cosa aspettarci, sapevamo tutto ciò che poteva accadere. E anche gli hotel erano un vantaggio. Luoghi prevedibili…»

«Andrà tutto bene.»

«Hai ragione, lo so. Il fatto è che, quando mi sveglio così, ho la testa ancora piena delle immagini del sogno e mi sento confusa.»

«È l’unico motivo per cui sei nervosa? La paura che qualcosa vada storto?»

«Quale altro motivo dovrebbe esserci?»

«Allora non preoccuparti.»

«Comunque sarà meglio che tu sia puntuale.»

«Non essere sciocca…»

«Cazzo, farai meglio a essere puntuale, capito? Pensa al traffico.»

«Non ho mai avuto problemi con il traffico e sono sempre stato puntuale.»

«Lo so, scusami.»

«E Thorne?»

«Thorne non è un problema.»

«Bene.»

«Sono stanca. Devo cercare di dormire, ora.»

Lui le accarezzò il ventre con una mano. «Vieni qui, ti aiuto a prendere sonno…»

CAPITOLO 27

Non molto tempo prima, in una notte gelida in cui il freddo e la solitudine formavano una coppia perfetta, Thorne aveva composto un numero copiato da una cartolina sulla vetrina di un giornalaio. Si era recato in un seminterrato di Tufnell Park, dove aveva sborsato alcune banconote ed era rimasto a guardare una mano rosea e paffuta che lo masturbava. Aveva ascoltato i gemiti poco convincenti della donna e il tintinnio dei suoi braccialetti mentre la mano andava su e giù. Aveva udito il proprio respiro e il grugnito disperato con cui era venuto.

Poi era tornato a casa e si era infilato a letto, dove aveva ripetuto lo stesso copione, da solo, risparmiando venticinque sterline.

Ora, Thorne camminava avanti e indietro nel suo ufficio ricordando quell’avventura con un piacere perfino inferiore a quello che aveva provato allora. E la confrontava con la piacevole prospettiva di trascorrere la notte con Eve Bloom.

Quella sera avrebbe lasciato Becke House con uno spirito decisamente positivo, come non gli capitava da tanto tempo. Le cose avevano iniziato a prendere velocità. Erano passati pochi giorni da quando la donna che poteva essere Sarah Foley era balzata in prima linea nell’indagine, e i risultati erano già molto incoraggianti.

Avevano interrogato di nuovo l’ex fidanzata di Southern, confermando la sua storia a proposito di un’altra donna, quindi erano riusciti a stanare diverse persone che dichiaravano di aver visto Southern in compagnia di una donna nei giorni immediatamente precedenti la sua morte. Le descrizioni erano vaghe e contraddittorie, ma sembravano concordare sul fatto che lei fosse “snella e bionda”. La cameriera di un bar disse di averla vista trascinare Southern in un angolo buio, dove gli era “saltata addosso, come se lo volesse soltanto per lei”. Un identikit elaborato al computer era risultato più scialbo e anonimo del solito. La donna artificialmente ricostruita non era più presente e vera di quanto lo fosse nelle foto che aveva mandato alle vittime.

Eppure, era pur sempre un progresso…

Un’altra linea di indagine implicava la possibilità che la donna, oltre ad adescare le vittime, assistesse alla loro morte per mano dell’assassino. Ma Thorne aveva parecchi dubbi al riguardo.

Erano tornati negli hotel di Paddington, Slough e Roehampton e avevano fatto altre domande. Nulla di interessante era emerso dal riesame dei nastri della tivù a circuito chiuso, ma questo era prevedibile. Se Mark Foley sapeva dove erano localizzate le telecamere, era logico che lo sapesse anche la sorella. Una donna, che lavorava alla reception del Greenwood Hotel la notte in cui era stato ucciso Ian Welch, ricordava di aver visto una bionda nei paraggi. Aveva pensato che facesse parte del gruppo riunito al bar per una festa, ma non l’aveva vista parlare con nessuno. Riteneva che avesse “un aspetto strano”.

Thorne non sapeva con certezza quale fosse il ruolo della donna e si chiedeva di che cosa l’avrebbero accusata, se mai fossero riusciti ad arrestarla. “Collaborazione in atti delittuosi” era forse il capo d’imputazione più probabile. Sì, forse si era fatta vedere negli hotel, magari aveva anche aperto la porta alle vittime, mentre Mark Foley se ne stava nascosto, con il cappio di corda da bucato in mano…

Ma a parte quello?

Se quella donna era davvero Sarah Foley, Thorne non riusciva a immaginarsela nell’atto di guardare. E non riusciva a immaginarsi neppure il fratello che si lasciava guardare mentre violentava brutalmente un altro uomo.

Era proprio il genere di pensieri oscuri e mostruosi che Thorne intendeva bandire dalla sua mente, almeno per quella sera. Attraversò la sala di pronto intervento, salutando tutti. Le porte dell’ascensore si aprirono mentre lui si avvicinava e così ci saltò dentro, affrettandosi a premere il bottone della discesa. Le porte si richiusero, facendo sparire alla vista la stanza, le scrivanie, perfino il caso…

Uscito dall’ascensore, Thorne si diresse verso il parcheggio pensando a cosa avrebbe indossato quella sera. Probabilmente avrebbe avuto una buona mezz’ora per prepararsi, prima dell’arrivo di Eve. Forse anche di più, se avesse trovato poco traffico.


La BMW si avvicinò alla sbarra del parcheggio e quindici secondi dopo era in strada. Thorne scelse una compilation dei Carter Family e alzò il volume dello stereo. Che musica avrebbe scelto per la serata? Sperava che Eve non fuggisse urlando dall’appartamento, alle prime note di musica country.

Era davvero un cretino. Perché aveva rimandato così a lungo quel momento?

Era ancora infantilmente eccitato per la macchina nuova. Gli piaceva guardarla e sentirla. Pigiò il piede sull’acceleratore, godendosi il rumore del motore e sorridendo mentre imboccava la North Circular, diretto a casa.

Tutto cominciava a prendere velocità…


Holland attraversò il Lambeth Bridge. Casa sua era a meno di dieci minuti. Pensò a quando aveva attraversato il fiume un po’ più a est, la settimana prima, sull’auto nuova di Thorne.

E pensò all’espressione di Sophie, quando poco più tardi lo aveva trovato inginocchiato sul pavimento del bagno. Lui aveva appena finito di vomitare e, alzando la testa, aveva scorto un profondo solco di preoccupazione sul volto della moglie. Allora, con la strana chiarezza che solo l’alcol a volte riesce a dare, aveva capito, per la prima volta, che Sophie era preoccupata non per lui, ma per se stessa e per il bambino che portava in grembo. Era preoccupata di aver commesso un grosso errore, scegliendo lui come padre del suo bambino.

Il mal di testa da sbronza gli era passato molto prima del senso di colpa.

Holland decise che avrebbe fatto del suo meglio perché quella fosse una bella serata. Si sarebbe fermato a comprare una bottiglia di vino e lui e Sophie l’avrebbero bevuta a tavola, finendola poi davanti alla tivù. Sophie beveva ancora volentieri, di tanto in tanto. Il dottore diceva che le faceva bene. Ma prima della gravidanza non si sarebbe certo limitata a un solo bicchiere. Era capace di scolarsi senza problemi un’intera bottiglia, lasciando Holland nel dubbio se il vino l’avrebbe resa dolce o provocante. A lui piaceva in entrambi i casi, sia quando era allegra e sexy, sia quando lo abbracciava stretto e cominciava a parlare del futuro. In un modo o nell’altro, finivano sempre a letto.

Prima della gravidanza…

C’era una serie di negozi prima dell’Imperial War Museum: una drogheria turca, una cartoleria e una rivendita di alcolici. Scendendo dall’auto, Holland si sentì invadere dalla tristezza al pensiero che gli riusciva sempre più difficile ricordare com’erano le cose prima che Sophie rimanesse incinta.

Le cose belle, almeno.


Non ci metteva mai molto a prepararsi.

Nessun abbigliamento speciale. Nessun rituale inutile. Nessun periodo di intensa preparazione mentale.

Certo, pensava a ciò che doveva fare e controllava ogni particolare. Ma non ci metteva più tempo che a preparare la borsa.

Non aveva molta roba da portare con sé. Solo uno zainetto. Nei casi precedenti, in quelle stanze d’hotel, si era portato una borsa più grande, in cui poi avrebbe messo lenzuola, federe e copriletto. Stavolta non era necessario.

I guanti, il cappuccio, le armi…

Aveva già affilato il coltello e aveva tagliato un lungo pezzo di corda da bucato, infilandolo nella tasca frontale dello zainetto di pelle nera.

Era strano pensare a ciò che la gente si portava dietro. Chissà quali segreti sarebbero venuti fuori dalle sacche sportive, dagli zainetti e dalle ventiquattrore dei passanti. Certo, sarebbe stato necessario scartare un bel po’ di documenti, cartelline, giornali, sandwich avvolti nella pellicola trasparente, prima di trovare qualcosa di interessante. Una richiesta di riscatto, per esempio, o una lettera anonima. Forse una rivista porno, un paio di manette. Magari, con un po’ di fortuna, una pistola, un martello macchiato di sangue, o un dito amputato…

E, senza dubbio, ci sarebbe stato da sorprendersi ancora di più se tutto ciò fosse saltato fuori dalla borsetta di una donna.

Sorrise, infilando le ultime cose nello zainetto e chiudendo la cerniera. Chiunque vi avesse frugato dentro sarebbe rimasto alquanto imbarazzato.


Thorne si stava guardando nello specchio inserito nell’anta dell’armadio, cercando di decidere se fosse meglio la camicia bianca o quella di jeans, quando suonò il campanello.

Mentre andava ad aprire, abbassò un po’ il volume dello stereo. Dopo qualche incertezza, aveva deciso di cominciare con George Jones. Poi aveva selezionato alcuni classici degli anni Cinquanta e infine, quando fosse giunto il momento giusto, le canzoni di Billy Sheril di vent’anni dopo. Di certo non esisteva una canzone più romantica di He stopped loving her today…

Eve avanzò fino al centro della stanza, lanciò un’occhiata tutt’intorno, poi fissò Thorne. «Hai un aspetto molto estivo» commentò.

Indossava un semplice vestito di cotone abbottonato sul davanti. «Anche tu» disse Thorne, poi, abbassando lo sguardo sulla camicia bianca, aggiunse: «Avevo pensato di mettermi la cravatta…»

Lei gli si avvicinò. «Andiamo forse in un posto elegante?»

«No.»

«Bene. E poi mi piaci con il colletto sbottonato.»

Si baciarono, e le loro mani si fecero sempre più frenetiche a ogni secondo che passava.

Thorne era già al secondo bottone quando Eve si allontanò, ridendo. «È vero che una scopata acrobatica a stomaco pieno non è l’ideale,» disse «ma vorrei comunque mangiare qualcosa, prima, e non disdegnerei un drink…»

Thorne rise. «Dici che fa troppo caldo per una cena indiana?»

«Per il curry è sempre la stagione giusta.»

«C’è un ottimo ristorante indiano proprio qui all’angolo.»

«Perfetto.»

«Oppure possiamo andare a Islington, o a Camden. Non sei ancora salita sulla mia macchina nuova…»

Eve si avvicinò alla finestra, riabbottonandosi il vestito. «No, restiamo in zona. Se devi guidare non puoi bere, e sarebbe sleale che si ubriacasse soltanto uno dei due.»

«Come preferisci. Prendo la giacca…»

«Aspetta, non dobbiamo uscire proprio adesso.»

«No?»

Eve si voltò, sollevando le braccia per aggiustarsi i capelli. I seni tesero la stoffa del vestito e Thorne notò la pelle arrossata sotto le ascelle depilate. «Ho una cosa per te nel furgone» disse lei. «E mi serve una mano per portarla dentro.»


Guardando l’orologio sul cruscotto, Holland si rese conto che era fermo sotto casa da quasi un quarto d’ora.

Erano le sette e qualche minuto.

Un quarto d’ora seduto in macchina, con la bottiglia di vino nel sacchetto di plastica tra le mani. Incapace di scendere.

Passarono altri minuti e Holland si accorse delle macchie scure che si erano formate sui suoi pantaloni. Solo allora capì che stava piangendo. Sollevò la testa e chiuse gli occhi, mentre il respiro gli si bloccava in gola, diventando un singhiozzo.

Holland si piegò in avanti, con la bottiglia tra la faccia e il volante.

Sentiva il fresco del vetro attraverso il sacchetto e le lacrime che lo scaldavano, mentre ogni singhiozzo disperato gli risucchiava la plastica in bocca…

Holland non poté fare altro che buttare fuori tutto. Come il vomito della settimana prima.

Pianse per se stesso, per Sophie, per il figlio che sarebbe nato di lì a cinque settimane. Pianse, sentendosi colpevole, triste, stupido e spaventato. Le lacrime che bruciavano di più, tuttavia, erano di rabbia. Rabbia per l’egoista senza spina dorsale che sapeva di essere diventato.

Quando finì, Holland si asciugò gli occhi con la manica, come un bambino.

Tirò su con il naso, fissando le finestre dell’appartamento. Prima la confusione e una patetica paura senza nome gli avevano impedito di salire in casa. Adesso era la vergogna a trattenerlo.

Non poteva vedere Sophie, non ancora.

Holland fissò la ventiquattrore sul sedile del passeggero. Anche se si fosse portato il lavoro a casa e avesse cercato di isolarsi, il primo sorriso di Sophie avrebbe scatenato di nuovo il pianto.

Forse poteva fare un giro in macchina, prima…

Aprì la borsa e frugò fino a trovare il foglio che cercava. Si schiarì la voce, prese il cellulare e compose il numero. Le prime parole gli uscirono confuse.

«Signora Noble? Sono Dave Holland. So che è un’ora insolita per una visita, ma, se per lei va bene, passerei a ritirare quelle foto…»

CAPITOLO 28

Holland ci mise meno di quaranta minuti per arrivare a Romford. Irene Noble lo aspettava sulla soglia e gli si fece incontro sul vialetto. «Ci ha messo pochissimo. Probabilmente questa è l’ora migliore per spostarsi in macchina…»

Indossava un tailleur color crema e si era truccata con cura. Holland notò che guardava verso le case ai lati, probabilmente sperando che qualche vicina notasse il giovane venuto a trovarla.

«Non c’era affatto traffico» confermò Holland, seguendola in casa.

Fu salutato con entusiasmo da un cagnolino bianco con il pelo non troppo pulito, che la signora Noble spedì subito in cucina. «Candy è molto affettuosa» disse. «In realtà era il cane di Roger, ma quando lui è morto era molto piccola.»

Holland fece un sorriso di circostanza, mentre entravano nel soggiorno. Divano e due poltrone blu, moquette rosa a disegni porpora e un tavolo basso di fronte al caminetto. Tutto pulito, a parte un cuscino di canapa coperto di peli di cane. Holland si avvicinò al mobile di faggio dalle ante a specchio addossato a una parete. Il ripiano superiore era coperto di foto incorniciate di bambini.

Irene Noble prese in mano una foto. «Mark e Sarah non ci sono» disse. «Non sopportavo di vedere la loro immagine senza sapere cosa fosse accaduto loro. Quando ho saputo con certezza che non sarebbero tornati, ho messo via le fotografie, non ricordo più dove.» Scorse il lampo di preoccupazione negli occhi di Holland e gli toccò un braccio. «Non si preoccupi, non è venuto invano. Dopo una lunga ricerca le ho trovate nel nostro album di matrimonio.»

Holland annuì e la donna girò verso di lui la foto che aveva in mano. «Si chiama David, ora fa l’agente di cambio.» La mise giù e indicò le altre. «Susan è infermiera al Royal Free, Gary ha finito il servizio militare e sta seguendo un corso per diventare stampatore, Claire sta per avere il terzo bambino…»

«Sono tanti…» disse Holland.

«Di solito prendevamo affidi a lungo termine. Io preferivo così. Era davvero difficile vederli andar via, proprio quando cominciavano a essere di famiglia. Prima e dopo Mark e Sarah, ne abbiamo avuti più di venti. Della maggior parte di loro ho continuato ad avere notizie anche in seguito…»

La signora Noble sorrise tristemente e Holland cercò di sorridere a sua volta. Pensò a quei bambini e all’uomo che era stato il loro padre affidatario e si chiese…

«Non sapevo se lei avesse già mangiato» disse la signora Noble, interrompendo il suo pensiero. «Perciò, dopo la sua telefonata, ho tirato fuori delle lasagne dal freezer. Ci vorranno solo cinque minuti…»

«Ah, grazie…»

«Può bere qualcosa, o è ancora in servizio?»

Malgrado l’opinione che si era inizialmente fatto di lei, Holland provò una specie di affetto improvviso verso quella donna. Pensò a tutti i bambini che aveva perso, in un modo o nell’altro, e alla sua fede ingenua in un uomo il cui cuore avvolto nella tenebra aveva cessato di battere per sempre.

Si sentì a suo agio…

«Beviamo insieme» disse. «Ho giusto una bottiglia di vino in macchina.»


«Lascia che ti restituisca i soldi del materasso» disse Thorne.

«No, davvero. Puoi offrirmi la cena, se vuoi.»

«Quanto ti è costato?»

«Consideralo un regalo di compleanno in ritardo» disse Eve. «Per rimpiazzare il primo» sorrise. «Non ho visto la pianta da nessuna parte, a casa tua, perciò immagino che tu sia riuscito a ucciderla.»

«Ah, già. Avrei voluto confessartelo…»

Un cameriere portò il vino, mentre il padrone del locale si avvicinava con un cestino di speciale pane indiano. «Offre la casa» disse, appoggiando una mano sulla spalla di Thorne e strizzando l’occhio a Eve. «Lui è uno dei miei migliori clienti» aggiunse. «Ma è la prima volta che viene qui con una giovane donna.»

Quando si fu allontanato, Eve riempì i bicchieri di entrambi. «Non so come prendere ciò che ha detto» disse. «Significa che di solito vieni qui con giovani uomini?»

Thorne annuì, abbassando gli occhi. «Un’altra cosa che avrei voluto confessarti…»

Lei rise. «Insomma, vieni qui spesso da solo, è così?»

«Non così spesso.»

«Ti immagino qui, seduto a un tavolo con la faccia triste, intento a mangiare pollo al curry…»

«Ehi, aspetta un attimo» disse Thorne, assumendo un’espressione ferita. «Anch’io ho uno o due amici.»

Eve spezzò il pane e lo cosparse di chutney e cipolle. «Parlami di loro. Che cosa fanno?»

Thorne si strinse nelle spalle. «Sono tutti collegati al mio lavoro, in un modo o nell’altro.» Diede un morso al pane. «Phil è un patologo…»

Lei annuì, come se quella fosse la conferma di qualcosa.

«Che cosa c’è?» chiese Thorne.

«Non stacchi mai dal lavoro, vero?»

«In realtà, Phil e io parliamo soprattutto di calcio…»

«No, sul serio…»

Thorne bevve un sorso di vino, pensando alle parole di Eve. «Secondo me, nessuno stacca mai del tutto dal lavoro» disse. «Parliamo in continuazione di ciò che facciamo.» Lei lo fissava, passandosi l’orlo del bicchiere sul mento. «Tu, per esempio, se ti trovi a cena in un locale e vedi una bella composizione floreale…»

«I fiori non sono cadaveri.»

Thorne si sorprese di una certa irritazione che cominciava a serpeggiare in lui.

Prese la bottiglia e versò altro vino nei loro bicchieri. «Be’, alcuni direbbero che i fiori recisi sono cadaveri, dopotutto.»

Eve annuì lentamente. «Tutto muore» osservò. «Qual è il senso, alla fine? Potremmo anche chiedere al cameriere di mettere del vetro macinato nel nostro biryani.»

Thorne la guardò e vide che le tremavano le labbra. Scoppiarono a ridere quasi nello stesso momento.

«Non capisco mai quando mi stai prendendo in giro» disse lui.

Eve allungò una mano a toccare la sua. «Puoi lasciar perdere il lavoro, Tom? Solo per stasera…»


«I ragazzi danno un bel da fare» disse Irene Noble. «Ti cambiano la vita in un modo incredibile.» Fissò Holland, al quale ormai dava del tu con naturalezza. «Ma vedrai che sarai molto contento di aver avuto un figlio.»

Holland pensava che parlare di bambini fosse un argomento sicuro, ma non avrebbe mai pensato che sarebbero finiti a parlare del suo.

«Mi sento in colpa» confessò. «Perché ho paura di ciò che potrei fare. Anche il solo pensare alla possibilità di andarmene mi fa sentire in colpa.»

«Oh, proverai emozioni ben più strane e dolorose di questa. Un giorno saresti disposto a morire per loro e il giorno dopo avresti voglia di ucciderli con le tue mani. Ti preoccupi quando non sai dove sono e allo stesso tempo non vedi l’ora di avere un po’ di tempo libero per te. Sono tutte emozioni incondizionate…»

«Lei parla del dopo, di quando i bambini ci sono già. Ma perché io mi sento così ora?»

«È normale. Non sono solo le donne che si trovano ad attraversare una tempesta emotiva. L’unico svantaggio dei maschi è che non possono usare gli ormoni come scusa.»

Holland rise. I due bicchieri di vino che aveva bevuto lo facevano sentire rilassato.

Quando avevano iniziato a mangiare era ancora agitato e, quasi senza volerlo, aveva finito per raccontare a quella donna ogni cosa.

Irene lo aveva aiutato a calmarsi, convincendolo che tutto si sarebbe sistemato per il meglio.

«Adesso sparecchio» disse lei, alzandosi.

Sollevò il vassoio dal divano e Holland le passò il suo piatto vuoto. «Grazie, era tutto perfetto» disse. E non si riferiva solo alle lasagne, che tra l’altro erano un po’ fredde al centro.

Rimase seduto ad ascoltare il rumore di stoviglie che proveniva dalla cucina, mentre Irene rigovernava e parlava dolcemente al cane.

Irene Noble doveva avere la stessa età di sua madre, anno più, anno meno.

Ma Holland non sarebbe mai riuscito a confidarsi in quel modo con la madre. Lei negli ultimi mesi si era preoccupata solo di comprare vestitini per il neonato, rifiutandosi come sempre di ammettere che qualcosa potesse andare storto, nella vita, e restando beatamente inconsapevole del fatto che il rapporto del suo primogenito con la futura madre del bambino non era proprio un idillio.

Irene tornò con due gelati al cioccolato. «Ne tengo sempre una scorta in frigo» disse. «Sono meravigliosi, con questo caldo.»

Per un minuto non dissero nulla. Rimasero seduti sul divano a mangiare il gelato e ad ascoltare il cane che si muoveva in cucina. Quando Irene, piegando le gambe sotto di sé come un’adolescente, cominciò a parlare, Holland vide il suo viso indurirsi, fino a dimostrare tutti gli anni che aveva.

«Quali che siano i vostri problemi,» disse la donna «spero che riusciate a risolverli. Ma di sicuro non saranno gravi come quelli che alcuni bambini si sono portati dietro, venendo in casa mia. Ci sono cose che sembrano quasi ereditarie, proprio come la calvizie, il diabete, il colore degli occhi…»

«Sta parlando di Mark e Sarah, vero?»

«L’altro giorno sono stata molto dura nel mio giudizio sulle coppie che li hanno tenuti prima di noi. Ma la verità è che Roger e io non siamo stati migliori degli altri.»

«Be’, li avete adottati.»

«È stato il nostro ultimo tentativo di farli sentire parte di qualcosa. Due genitori e due figli. Volevamo che interagissero un po’ di più con il resto del mondo.»

«Certo, ma d’altra parte è comprensibile che fossero un po’ chiusi e molto uniti tra loro, dopo quello che avevano passato…» Holland distolse lo sguardo. “Quello che stavano ancora passando…”

«Erano troppo uniti» disse Irene. «Questo era il problema. Quando se ne andarono, Sarah era incinta e il bambino era di Mark.»

CAPITOLO 29

Tornarono lentamente a piedi verso casa di Thorne. Erano passate da poco le nove, non era ancora buio e faceva abbastanza caldo da camminare senza giacca. La strada era trafficata e rumorosa come sempre. Molte delle auto che passavano loro accanto avevano la capote abbassata.

Avevano mangiato troppo, anche se la sensazione che Thorne sentiva nello stomaco non era dovuta al cibo. Prima di uscire di casa, Eve lo aveva aiutato a fare il letto, tendendo le lenzuola pulite sul materasso che aveva portato.

Thorne sapeva che quando sarebbero tornati, lo avrebbe aiutato a disfarlo.

C’erano alcune cose nella sua vita che considerava certezze: c’era sempre un altro cadavere, da qualche parte; non ci si poteva liberare completamente del sangue; chi uccideva senza un vero motivo tendeva a farlo di nuovo.

Ma la certezza di come sarebbe finita una serata come quella era qualcosa che Thorne non aveva più da molto tempo.

Eve gli sollevò un braccio mettendolo a confronto con il proprio. «Staresti molto meglio con una bella abbronzatura» disse.

«È un invito?»

«Quando è stata l’ultima volta che ti sei preso una vera vacanza?»

Thorne non riuscì a trovare una risposta precisa. Ciò che gli mancava non era il tempo, ma la voglia e la persona con cui andare in vacanza. «È stato un bel po’ di tempo fa» disse.

«Sei il tipo che ama oziare in spiaggia o preferisce muoversi e vedere?»

«Entrambe le cose. O nessuna delle due. Starsene stesi al sole dopo un po’ diventa noioso, ma sempre meno che passare da una sala all’altra in un museo…»

«Non sei un tipo facile da accontentare, eh?»

«Mi dispiace.»

«Non c’è problema. E dove ti piacerebbe andare, se potessi?»

«Ho sempre sognato di visitare Nashville.»

Lei annuì. «Ovvio. Il country e tutto il resto.»

«Un altro dei miei oscuri segreti.»

«A me la tua musica è piaciuta.»

«Davvero?»

«Basta che a letto non ti venga in mente di indossare pantaloni di pelle e speroni, o roba del genere.»

Svoltarono su Prince of Wales Road. Dal Pizza Express all’angolo proveniva una musica jazz. Thorne si trovò a pensare che forse una cena a base di pizza sarebbe stata un’idea migliore. La combinazione di cibo al curry e umidità lo faceva sudare.

Sentiva il sudore bagnargli la mano che stringeva quella di Eve, ma non sapeva a chi di loro due appartenesse.

La moto procedeva senza sforzo nel traffico. Di tanto in tanto, quando c’era un ingorgo o una strettoia, gli toccava fermarsi e aspettare, con il motore al minimo, dietro pony express e ragazzi in motorino. Non appena si apriva un varco, lui filava via, zigzagando tra poliziotti assonnati e buche nell’asfalto, con lo zainetto che gli rimbalzava sulla schiena.

A un semaforo controllò l’orologio. Sarebbe arrivato un po’ in anticipo, ma non importava. Avrebbe parcheggiato e fatto due passi, tenendosi fuori dalla vista fino a quando fosse arrivato il momento.

Accanto a lui, una grossa Kawasaki rombava in attesa del verde. Sul sedile posteriore una ragazza con i jeans tagliati si teneva stretta al ragazzo che guidava. La moto scattò via un attimo prima del verde e lui restò a guardarla, prima di ripartire a propria volta.

Non aveva senso affrettarsi. Aveva tutto il tempo e l’ultima cosa che desiderava era di essere fermato da un agente. E non certo per via della multa da pagare, o dei punti ritirati dalla patente. Era così eccitato per ciò che stava per fare che, se un poliziotto lo avesse fermato chiedendogli dove stava andando, magari glielo avrebbe detto.


Holland guardò l’orologio e scoprì con sorpresa che era passata un’ora e mezza.

«Devo andare» disse. «Allora, posso avere le foto?»

Irene Noble si alzò un po’ a fatica dal divano e si infilò le scarpe. «Vado a prenderle.»

La udì scendere le scale, dicendo: «Sembra che siano passati solo cinque minuti da quando le abbiamo scattate». Probabilmente, quella era l’unica spiegazione con cui poteva vivere.

Irene entrò nel soggiorno con un pacchetto di foto. Alcune polaroid e un paio di stampe un po’ più grandi. Holland le prese in mano e lei si sedette sul bracciolo del divano, illustrandogli le immagini a mano a mano che lui le faceva scorrere.

«Queste due erano quelle che tenevo incorniciate sul mobile. Quelle, invece, sono state scattate a scuola, l’anno prima che i ragazzi scomparissero, e le altre sono di una festa di compleanno di Sarah. Compiva undici anni. Roger aveva appena comprato una nuova macchina fotografica…»

Dal momento in cui aveva visto la prima foto, Holland aveva smesso di sentire qualunque cosa, eccetto il proprio respiro. Una ragazza con un vestito blu, i capelli tirati indietro e un sorriso come se avesse visto qualcosa che solo lei trovava divertente. Sollevò la foto di Sarah. Sotto, c’era il ritratto di suo fratello.

«Gesù…»

Irene si alzò in piedi. «Cosa c’è?»

Holland non sentiva più la sua voce. Passando in rassegnale altre foto per essere sicuro di ciò che aveva visto, ne trovò una che lo esaltò e terrorizzò al tempo stesso.

Sarah Foley era seduta al tavolo e teneva il coltello sopra la torta, circondata da ragazzine che sembravano molto più eccitate di lei. Appena visibile, nell’angolo in alto a destra della foto, c’era Mark. Si teneva aggrappato allo stipite della porta e sembrava sul punto di darsi una spinta e lanciarsi contro la persona che teneva la macchina fotografica.

Lei aveva il viso un po’ più magro, allora, e lui forse un po’ più pieno. Gli occhi erano più sgranati e la pelle più liscia, ma Holland aveva già visto quei volti.

Stava guardando le foto di persone che conosceva.

CAPITOLO 30

Thorne era a letto e cercava di immaginare, in base ai rumori che sentiva, che cosa stesse succedendo in bagno.

A corto di cose più originali da dire, aveva offerto a Eve un caffè ed era stato felice che lei lo avesse rifiutato. Eve era andata in bagno e lui aveva cominciato a girare per l’appartamento, aprendo le finestre e sorridendo alla sua immagine nello specchio davanti al caminetto.

Aveva messo Good year for the roses e, quando si era voltato, lei era dietro di lui…

L’avvicinamento alla camera da letto era stato un po’ un danzare e un po’ un barcollare incerto, finché erano caduti sul materasso nuovo. Le risate avevano lasciato il posto a suoni più appassionati e a movimenti di bocche e mani, resi più frenetici e spasmodici dal vino e dalla lunga attesa.

A un tratto Eve si era fermata, era scesa dal letto ridendo e aveva annunciato che aveva bisogno di tornare in bagno. Dopo che lei si era chiusa la porta alle spalle, Thorne si era spogliato rapidamente ed era scivolato sotto le lenzuola, contento di avere evitato di esporre la ciccia, ma anche un po’ dispiaciuto perché una certa spontaneità si era persa.

Ora non udiva più nulla dietro la parete che divideva il bagno dalla camera da letto. Anche l’eccitazione era un po’ scemata, ma non più di quanto sarebbe successo al momento di infilarsi goffamente il preservativo. Ne aveva comprato un pacchetto al distributore automatico nel bagno del Roval Oak e lo teneva nel cassetto del comodino, accanto alla crema per il piede d’atleta e alle pastiglie digestive.

Decise di risparmiare tempo, tirandone fuori uno e tenendolo pronto. Mentre allungava la mano per aprire il cassetto, gli venne in mente che forse in bagno lei stava cercando goffamente di infilarsi il diaframma.

Udì scorrere l’acqua e appoggiò l’orecchio al muro. Forse si stava lavando i denti…

Thorne si chiese se non fosse il caso di raggiungerla. Come sarebbe stato appoggiare la bocca in cui ancora indugiava il sapore del curry contro i denti puliti di Eve? Sarebbe sembrato strano sputare insieme l’acqua nel lavandino, prima di aver fatto l’amore?

La porta si aprì ed Eve tornò nella stanza. Si fermò accanto al letto e lo guardò. Era vestita e in ordine, come se fosse già il mattino dopo e lei si stesse preparando ad andarsene. Era più sexy che mai, eppure per un attimo Thorne si domandò se non fosse davvero sul punto di lasciarlo lì e andare via. Poi, prima che potesse parlare, lei appoggiò la borsa a un lato del letto, fece un passo indietro e cominciò a spogliarsi.


Il numero di casa era occupato e così Holland provò a chiamare sul cellulare. Il telefono di Irene Noble era su un tavolino in una nicchia del sottoscala, in cui Holland aveva dovuto incunearsi facendosi largo tra ombrelli, soprabiti e borse di plastica piene di scarpe.

La donna era dietro di lui. «Chi stai chiamando? O è un segreto d’ufficio?»

«Sto chiamando l’ispettore Thorne. Lo ha conosciuto l’altro giorno.»

«Ah, sì. E non ha un cellulare?»

«È il numero che sto provando a chiamare adesso.» Holland si voltò, sentendo un improvviso disagio per la vicinanza della donna. Nella fretta di comunicare la sua scoperta, non aveva pensato alla privacy. Solo cinque minuti prima era rilassato e tranquillo. Adesso era di nuovo in servizio e c’erano cose che doveva dire a Thorne e che Irene Noble non doveva sentire. «Mi dispiace, ma devo chiederle di…»

Holland ascoltò la voce registrata di Thorne che si diceva spiacente di non poter rispondere e suggeriva di lasciare un messaggio. Holland interruppe la comunicazione. Il suo era un messaggio che preferiva riferire di persona.

Pochi minuti dopo era già fuori dalla porta, con le foto di Mark e Sarah Foley strette in mano.

Dopo aver ringraziato Irene, si diresse a passo svelto verso l’auto, chiedendosi se ci fosse una strada più rapida per tornare e allo stesso tempo sforzandosi di rimanere calmo. I due non potevano sapere che erano stati identificati e non sarebbero andati da nessuna parte.

L’ultima cosa che Holland gridò a Irene Noble, dal finestrino dell’auto, fu la promessa che avrebbe tenuto con cura le foto. In realtà non aveva idea di quando la donna avrebbe potuto riaverle. Holland le avrebbe mostrate a Thorne e a Brigstocke. E loro le avrebbero usate per spiccare un mandato di arresto.

Holland non sapeva con certezza che cosa sarebbe successo dopo. Quale sarebbe stato l’ordine delle operazioni, che cosa sarebbe stato comunicato ai mass media. Ogni caso finiva in modo diverso. Ma se avessero voluto arginare la pubblicità negativa effettuando l’arresto durante il fine settimana, c’era la possibilità che Irene Noble rivedesse quelle foto sulle prime pagine dei giornali, il lunedì mattina.


«Sei splendida» disse Thorne. «Non riesco a credere che ci sia voluto tanto.»

«Di chi è la colpa?»

«Mia, lo so.»

«E sei contento di essere qui, ora?»

«Oh, sì.» Thorne sorrise. «Mi chiedo cosa sarebbe successo se non avessi risposto al telefono, in quella stanza dove abbiamo trovato il primo cadavere. Se tu avessi chiamato anche solo un’ora dopo, ti avrebbe risposto qualcun altro…»

Lei si strinse nelle spalle. «Semplicemente, adesso ci sarebbe qualcun altro al tuo posto.»

Il corpo di Eve era caldo e liscio. Thorne, nonostante la sua incapacità di interpretare certi segnali, era sicuro di aver letto il desiderio negli occhi di Eve. Eppure un attimo prima, quando le aveva appoggiato una mano sul seno, l’aveva sentita irrigidirsi. C’era stata una tensione, una riserva, che gli era sembrata strana. Era stata lei a condurre il gioco fino a quel momento e a fare tutte quelle battute allusive sul materasso e quant’altro. E, al momento decisivo, si rivelava meno ardita di quanto fingeva di essere.

Thorne sentiva quella barriera. Fragile, pronta a crollare e maledettamente sexy.

Eve voleva che fosse lui a fare tutto. Era come se desiderasse sottomettersi, lasciarsi andare, ma avesse bisogno di aiuto. Thorne era eccitatissimo. Sentiva ciò che sarebbe potuto succedere, se solo lei si fosse spinta oltre la soglia. E lui desiderava più di ogni altra cosa indurla a compiere quel passo.

«Sei bellissima» disse e premette le labbra sulla sua bocca.

Udì diffondersi nell’altra stanza le note della canzone perfetta per quel momento. La storia di un uomo che aveva smesso di amare una donna solo il giorno in cui lo avevano portato via chiuso in una bara. Thorne si lasciò sommergere dalla voce ricca di George Jones, mentre faceva scorrere le mani sul corpo di Eve.

Udì vagamente anche un altro rumore. Quello della porta socchiusa che si apriva, mentre una specie di sibilo si avvicinava. Era un rumore che conosceva e di cui quella notte avrebbe fatto volentieri a meno.

Smise di muovere le mani e sorrise a Eve, in attesa di sentire il gatto piombare sul letto.


Holland seguì Romford Road fino a Forest Gate, quindi tagliò verso Wanstead Flats. Quella era una zona di Londra che non conosceva bene e stava costruendo il percorso un po’ alla volta, con una mano sul volante e l’altra che teneva aperto lo stradario.

Aveva chiamato Sophie non appena aveva lasciato la casa di Irene Noble, per spiegarle il motivo del suo ritardo. Le aveva detto che era accaduta una cosa importante ed era stato contento che non si trattasse più di una menzogna. Lei gli aveva risposto che era stanca e che sarebbe andata a letto presto, ma Holland aveva capito dalla sua voce che non era affatto felice. Almeno era riuscito a dirle che l’amava, prima di chiudere la comunicazione.

Riprovò a chiamare Thorne, ma il numero di casa era ancora occupato e al cellulare gli rispose di nuovo la segreteria.

Andava a ottanta all’ora, sulla strada lunga e dritta attraverso Hackney Marshes, una zona che sullo stradario risultava tutta verde, ma che a quell’ora aveva un aspetto triste e inquietante. Holland si sarebbe sentito meglio una volta che si fosse immesso sulla A107. Vedeva lo svincolo in fondo alla pagina, a meno di un’unghia dal posto in cui era adesso. Da lì in poi, conosceva la strada. Stamford Hill, Seven Sisters Road, Finsbury Park e, dopo aver attraversato Holloway Road, sarebbe arrivato a casa di Thorne.

Ancora una volta si trovò a riflettere sulla possibilità di fare la cosa più semplice: chiamare Brigstocke. Era anche la cosa più corretta, ma la sua lealtà era tutta per Thorne. Ricordava un serial televisivo americano che lui e Sophie avevano visto insieme una sera: NYPD Blue, forse, o Homicide. Un agente aveva voluto dare al suo partner “un’occasione”, anche se sarebbe stato suo dovere portare il caso davanti ai superiori. Thorne non era il suo partner, naturalmente, ma era così che Holland si sentiva.

Thorne gli sarebbe stato grato.

Alla fine Holland lasciò lo stradario e con la mano libera riprovò a fare il numero di Thorne, chiedendosi come mai non sentisse il segnale di avviso di chiamata.

Era abbastanza sicuro di sapere con chi stava parlando Thorne in quel momento. Ricordava una sera al Royal Oak, quando lui gli aveva raccontato di aver passato tre quarti d’ora al telefono con il padre, parlando di nulla. Quella sera, a parte la telefonata, c’era anche la possibilità che gli Spur vincessero la partita di apertura della stagione. Holland immaginava Thorne al telefono con una lattina di birra nell’altra mano, impaziente di salutare il padre per potersi godere la partita alla tivù.

A Stamford Bridge, gli Spur conducevano già per due a uno contro il Chelsea. Thorne sarebbe stato di buonumore.

Holland allungò la mano e prese le foto da sotto lo stradario. Chissà come sarebbe cambiato l’umore di Thorne, quando, di lì a una ventina di minuti, le avrebbe viste…


Thorne rimase paralizzato, più che altro per la confusione, quando, voltandosi, vide l’uomo che si toglieva il casco.

«E tu come cazzo sei entrato?» chiese. Per alcuni strani secondi, riusci a pensare solo a una storia di gelosia in cui lui si era involontariamente trovato in mezzo. Pensò che forse lo aspettava un’imbarazzante scazzottata. Ma l’espressione sul volto dell’uomo e il coltello che estrasse dallo zainetto gli fecero capire che si trattava di qualcosa di molto diverso.

Thorne si voltò verso Eve con uno scatto e sentì contro il viso la lama del coltello che lei gli puntava contro. La lama gli produsse un taglio sul mento e la punta affondò nella carne morbida sotto la mascella.

Thorne urlò e si gettò di lato, lasciando una striscia di sangue sul cuscino.

L’uomo fece un passo verso il letto.

Una parte del cervello di Thorne era ancora abbastanza razionale da formulare un pensiero: “Il coltello era nella borsetta”. Ma il resto della sua mente era troppo occupato a dare forma a qualcosa di oscuro, a una paura che prima aveva avvertito solo di passaggio, ma che adesso gli pesava sul petto. Se la immaginò, viva e cosciente, che gli stringeva le costole con dita magre e forti e lo atterrava.

Thorne sollevò la testa e si premette una mano sul taglio. Cercò di non lasciar trapelare il terrore nella voce, quando disse: «Mark e Sarah…».

Udendo il suo vero nome, l’uomo si oscurò in viso. «Allontanati da mia sorella. Subito!»

Thorne si fece da parte, a disagio per la propria nudità. La donna scese dal letto, nuda e sorridente, e cominciò a raccogliere i propri vestiti.

«Eve, questo è assurdo.»

Lo sguardo di Ben Jameson si spostò dalla sorella a Thorne. «Mettiti giù, sul pavimento.»

CAPITOLO 31

Mentre lo preparavano, Thorne si sforzava di trattenere paura, sangue e dolore ben nascosti dentro di sé, per poterli poi trasformare in una furia cieca di cui servirsi al momento giusto.

Il resto del suo cervello ora stava cercando e trovando risposte, mettendo insieme i pezzi a tutta velocità, sotto l’azione dell’adrenalina.

Ben ed Eve lavoravano con rapidità ed efficienza. Prima che Thorne potesse anche solo immaginare un modo per difendersi, era già stato immobilizzato. Eve gli legò i polsi con una cintura, stringendoglieli in una morsa dolorosa. Ben gli premette la testa contro il pavimento e lo obbligò a piegare le ginocchia e ad allargare le gambe. Thorne non si trovava mai a meno di dieci centimetri da una lama. Qualunque mossa, a parte quelle che gli ordinavano di compiere, era fuori discussione.

Adesso il suo corpo era nella stessa posizione di quelli che aveva visto in tristi stanze d’hotel e nei suoi incubi… Era nudo, faccia a terra e sedere in aria. La testa e le mani erano rivolte verso la porta della camera. Il sangue della ferita sul mento gocciolava sul tappeto.

«Ecco perché dovevate liberarvi di lenzuola, federe e copriletto» disse Thorne. «Nel resto della stanza le impronte si sarebbero confuse con quelle degli altri ospiti dell’hotel. Ma nel letto, dove le lenzuola erano intonse, sarebbero rimaste solo le tracce tue e della vittima, vero, Eve?»

Eve rispose, da un punto in cui lui non riusciva a vederla: «Una volta a letto, erano completamente indifesi. Proprio come te».

«Io non ho mai violentato nessuno, Eve…»

«Non è un po’ tardi per cercare di completare il tuo piccolo puzzle?» disse Jameson. «Stai per morire.»

«Non voglio morire ignorante.»

«Non puoi farci niente.»

«È questo il tuo “progetto”, quello che volevi far decollare? Si trattava dei tuoi omicidi?»

Jameson rise. «Senz’altro è più interessante che realizzare video per aziende e istituzioni, questo te lo garantisco. Ecco, ora puoi aggiungere un’altra tessera al tuo puzzle e morire meno ignorante.»

«È così che sei riuscito a entrare nel Registro, vero?» chiese Thorne. «Attraverso i servizi sociali, probabilmente.»

La risposta venne da Eve. «Attraverso l’Ente Nazionale per la Libertà Vigilata. Più in particolare l’Unità per i Reati Sessuali.»

«Il mio video Verso una strategia nazionale di informazione non è certo Quarto Potere» disse Ben. «Ma loro sono stati felici di lasciarmi fare tutte le ricerche che volevo, in un sistema la cui sicurezza è quanto meno trascurata. Computer incustoditi, accesso incontrollato ai database e via dicendo. In realtà, questo era proprio il motivo per cui mi hanno commissionato il video.»

A Thorne venne in mente che, con tutta probabilità, Ben figurava nell’elenco dei contatti telefonici di Charlie Dodd. Una società di produzione video non sarebbe certo suonata sospetta, data l’attività che Dodd svolgeva. E, in ogni caso, Thorne, non sapendone il nome, non l’avrebbe mai riconosciuta come la società di Jameson. Comunque, la cosa aveva poca importanza, adesso…

«Hai avuto un colpo di fortuna, quindi» disse.

«Tutti abbiamo bisogno di un po’ di fortuna, prima o poi» sentenziò Eve. «Alcuni più di altri.»

Thorne sollevò il viso dalla moquette, sentendo fibre e pezzetti di sporco attaccati al sangue rappreso sul mento. Facendo perno sulla fronte, sbirciò in una fessura sotto il braccio e vide Jameson frugare nello zainetto, che aveva appoggiato in fondo al letto. Gli occhi di Eve rimanevano puntati su Thorne.

«Muoviamoci» disse lei a un tratto.

Thorne scorse un lampo blu quando Jameson estrasse la corda e un lampo nero che probabilmente era il cappuccio.

Sentì la furia nel suo petto farsi più pesante. Chiuse gli occhi e la sentì risalire lungo le costole, arrivando sempre più in alto.


Come succedeva spesso, l’ultima parte del viaggio era la più frustrante. Ci aveva messo una vita per arrivare a Tufnell Park con tutto quel traffico. E ora l’assurda quantità di semafori e attraversamenti pedonali su Kentish Town Road si stava rivelando un ostacolo irritante.

Holland si domandò se non fosse il caso di chiamare di nuovo, ma poi decise che, anche se avesse trovato il telefono libero, ormai era quasi arrivato, perciò tanto valeva…

Si spostò nella carreggiata in contromano, rientrando, poi, in quella del suo senso di marcia non appena un autobus gli si parò davanti. Tagliò la strada a un taxi e, al semaforo successivo, il taxi gli si accostò e il conducente gli urlò un sacco di insulti dal finestrino. Holland esibì il distintivo, disse al tassista di andare affanculo e rimase a guardarlo con un sorriso mentre si allontanava.

Al verde svoltò in Prince of Wales Road. La via di Thorne era la terza a destra. Mise la freccia, ma un ultimo ingorgo lo costrinse a fermarsi. Guardò di nuovo le foto.

Quando riuscì a rimettersi in moto e a proseguire, si domandò se avrebbero permesso a Thorne di essere presente al momento dell’arresto.


«È una storia fantastica, nonostante tutto» disse Jameson. «Forse dovrei scriverla, cambiando i nomi, ovviamente, per proteggere gli innocenti.»

«Sempre che ce ne siano» osservò Thorne.

«Sarebbe una storia in tre parti. O meglio in tre atti, come una classica sceneggiatura.»

«Chi vivrà vedrà.»

«Non è il tuo caso.»

La furia nel petto di Thorne salì di un’altra costola.

«Per il primo atto bisogna tornare indietro nel tempo. Un pezzo di merda con i capelli unti e i pantaloni a zampa d’elefante trascina una donna in un magazzino e la violenta.»

«Vostra madre…»

Thorne sentì il pavimento vibrare sotto i piedi di Eve, quando lei gli si avvicinò per premergli un tacco sulla guancia. «Non interromperlo» disse.

«Lo stupratore, grazie perlopiù alla collaborazione della polizia, viene assolto. La donna si chiude in sé, in preda a un esaurimento nervoso, e porta anche il marito alla pazzia.» Jameson parlava come se si stesse liberando la bocca dal sudiciume. «L’uomo uccide la moglie e poi se stesso e i cadaveri di entrambi sono scoperti dai loro due bambini, che successivamente vengono dati in affido. Un inizio drammatico, no?»

«È questo il motivo per cui mi trovo qui, vero?» disse Thorne. Il tacco gli premette di nuovo la guancia, ma Jameson disse qualcosa ed Eve sollevò il piede, allontanandosi da Thorne. «“Grazie perlopiù alla collaborazione della polizia” hai detto. Quindi io devo morire perché, quasi trent’anni fa, un collega bastardo ha gestito nel modo peggiore un caso di violenza carnale. È così, vero?»

«È inutile che attacchi la solfa delle ingiustizie della vita e quant’altro» disse Eve. «Da noi non riceverai comprensione.»

«Capisco le ragioni del vostro comportamento. Voglio solo sapere perché avete scelto me.»

«Perché quel giorno hai risposto al telefono.»

Thorne si rese conto che era davvero così semplice. Non aveva mai capito bene perché l’assassino avesse lasciato un messaggio sulla segreteria di Eve. Ora il motivo era lampante. Serviva a dare a Eve una scusa per chiamare l’hotel. A un telefono che squilla sulla scena di un omicidio poteva rispondere solo un poliziotto. Le corone di fiori dopo gli altri omicidi erano state ordinate soltanto per dare l’idea che quello fosse il modus operandi dell’assassino.

Avevano selezionato gli stupratori con estrema cura. Ma la vittima finale — lui stesso — era stata scelta a caso. Thorne ripensò al suo dialogo con Eve, solo venti minuti prima.

Mi chiedo cosa sarebbe successo, se non avessi risposto al telefono, in quella stanza…

Semplicemente, adesso ci sarebbe qualcun altro, al tuo posto.

Vedeva ancora l’espressione del viso di Eve, mentre lo diceva.

Immaginò quella di suo padre, quando avrebbe ricevuto la notizia della sua morte.

«Ho anche un bel titolo per questa sordida storia» disse Jameson. «Dalla padella alla brace. Che cosa ne pensi?»

«So di Roger Noble…»

«Ah, davvero?» Per la prima volta Jameson non alzò la voce, ma Thorne udì vibrare un’emozione letale nelle sue parole. «Potrai sapere quello che ha fatto, forse, ma non certo come ci siamo sentiti noi.»

«Abbastanza male da essere costretti a fuggire.»

«Bravo, ben detto.»

«Volevi proteggere tua sorella…»

«Noble voleva fare del male non a me,» intervenne Eve «ma al mio bambino.»

«Era stato lui a metterti incinta?»

Jameson rise. «Risposta sbagliata. Forse dovremmo darti un pulsante da schiacciare. A Noble piacevano i maschietti. Il bambino era mio.»

«Nostro» precisò Eve. «E quando cercarono di togliermelo, ce ne andammo.»

Thorne si rese conto in quel momento che era vergogna quella che aveva colto nella voce di Irene Noble, quando aveva parlato di problemi “comportamentali”. Probabilmente l’idea del trasloco era stata sua. Cambiare zona, far abortire Eve in un posto dove nessuno li conosceva, evitare lo scandalo…

«E cosa accadde al bambino?» chiese Thorne.

«Aborto spontaneo» rispose Ben in tono privo di emozione. «Chissà, forse potremmo anche riprovarci, quando tutto questo sarà finito.»

Per una trentina di secondi nessuno parlò. Thorne avvertiva una corrente d’aria sulla pelle. Ormai non sentiva più le mani e il cuore gli batteva così forte da sollevargli il petto dal pavimento.

Quando tutto questo sarà finito…

Immaginò lo sguardo che doveva essere passato tra quei due quando avevano deciso di ucciderlo. Lo sguardo tenero e amorevole tra un uomo e una donna che volevano concepire un bambino, dopo aver violentato e strangolato.

Lo sforzo di girare la testa strappò a Thorne un gemito di dolore. «Suppongo che la parte finale della storia riguardi gli omicidi» disse. «Remfry, Welch e Southern. E, alla fine, io. Ma è la parte centrale quella ancora avvolta nel mistero, per me. Che cosa è successo dopo la vostra fuga? Che cosa è accaduto tra l’omicidio di Franklin e quello degli stupratori? Perché avete ricominciato a uccidere?»

«Il fulmine ha colpito due volte» disse Eve.

In quel momento si udì il campanello suonare.

Thorne sollevò la testa, ma Eve e Ben furono pronti a bloccarlo.

In men che non si dica gli furono addosso, armati di coltello e pronti a stroncare sul nascere ogni suo eventuale tentativo di urlare…


Hendricks rispose al primo squillo.

«Sono davanti alla porta dell’appartamento dell’ispettore Thorne» disse Holland. «Non risponde al campanello, ma il telefono è occupato…»

«Probabilmente lo ha staccato, per non essere disturbato mentre fa una bella visita a Eliza Doolittle.»

Holland si sentì gelare alla base del collo. «Come?»

«Aveva un appuntamento con la sua fioraia. Non mi sorprende affatto che non voglia venire ad aprire la porta.»

«Oh, Cristo.»

«Qual è il problema?»

Holland gli raccontò di Mark e Sarah Foley e delle foto ed Hendricks assicurò che sarebbe arrivato subito. Il panico nella voce del patologo riecheggiava quello che Holland sentiva salire dentro di sé.

Poi, guardando dalla parte opposta della strada, Holland vide la moto.

«Dave…?»

Holland sentì il motore nella sua testa andare su di giri. «Prima di uscire, Phil, chiama Brigstocke e spiegagli tutto. E fai arrivare qui i rinforzi, immediatamente. E un’ambulanza.»

«Cosa pensi di fare?»

Holland si stava allontanando lungo il marciapiede. Pensava al vicolo che correva lungo una casa, a poca distanza da lì. «Non lo so ancora.»

Vedeva un viso attraverso un casco da moto. Il viso di un assassino, che sorrideva dicendo una verità che nascondeva una menzogna.

Anch’io ho una BMW…

Sorrideva, sì, perché la BMW produce motociclette, oltre che auto…

CAPITOLO 32

«Perché non fate marcia indietro adesso, finché potete?» disse Thorne. «Passerete il resto della vita in galera. Non potrete vedervi mai più.»

Jameson non sembrava preoccupato. «Non agitarti troppo. Chiunque fosse la persona che ha suonato il campanello, ora se n’è andata.»

Thorne voltò la testa, rivolgendosi a Eve. «Un sacco di gente sa che tu dovevi venire da me, stasera. Ci saranno fibre, cellule cutanee dappertutto. Nel letto…»

«Ma certo» disse Eve. «Io sono la tua ragazza, no? Infatti sarò io a chiamare la polizia.»

Thorne rimase senza parole, rendendosi conto che la donna aveva ragione. Jameson se ne sarebbe andato, dopo aver scassinato la porta che la sorella aveva lasciato aperta per lui in modo da simulare l’intrusione di un estraneo.

Poi lei avrebbe composto il 999.

Thorne sapeva che Eve avrebbe interpretato perfettamente la parte della testimone traumatizzata e della fidanzata in lacrime.

Sapeva per esperienza quanto fosse in gamba.

Vedeva già con gli occhi della mente i suoi colleghi poliziotti innamorarsi di lei, mentre raccoglievano la sua deposizione.

L’idea che quei due non avrebbero pagato per la sua morte causò a Thorne un moto di rabbia. Gli fece nascere dentro una feroce determinazione a non sprecare neppure un secondo di tempo.

«Dimmi del fulmine, Eve.»

Lei non disse nulla, ma Jameson abboccò. «Franklin doveva pagare. Era una cosa decisa da molto tempo. Solo che ci ho messo un po’ prima di sistemarlo.»

Si era spostato tra Thorne e la porta, mentre Eve era di nuovo accanto al letto. Probabilmente il ragazzo aveva ancora in mano il cappuccio e la corda. Thorne pensò che Roger Noble era stato fortunato. Se non fosse già morto, quasi certamente Jameson avrebbe sistemato anche lui.

«E perché non vi siete fermati lì?» chiese Thorne.

«È stato quello che abbiamo fatto» rispose Eve. «Abbiamo continuato a vivere la vita che ci eravamo ricostruiti, finché, una sera in cui avevo ballato troppo a una festa, un pezzo di merda ha capito che “no” significava “sì” e mi ha seguita a casa.»

A faccia in giù sulla moquette, Thorne immaginò l’espressione sul viso di Eve. L’aveva già vista la sera in cui avevano attraversato i London Fields insieme, quando lui le aveva parlato del caso e lei aveva detto: «Questo tizio lavora per abbassare il tasso di recidività».

«Sarebbe stupido chiederti se hai denunciato l’aggressore alla polizia.»

Gli stivali neri di Jameson entrarono nel suo campo visivo. «Sarebbe proprio stupido. Ce ne siamo occupati personalmente.»

Thorne ricordò l’altro caso che Holland e Stone avevano trovato negli schedari del CRIMINT. Un uomo violentato e strangolato, rinvenuto nel bagagliaio di un’auto. Il cappio era stato tolto, ma ora Thorne non aveva dubbi che si trattasse di una corda da bucato.

Aveva risolto un altro omicidio, nei pochi minuti che lo separavano dal proprio.

«Il che ci riporta tutti quanti al presente» disse Jameson.

“Cioè a me” pensò Thorne. Lui era l’ultimo di una serie di uomini uccisi, collegati tra loro dal laccio più resistente e strano di tutti: quello della famiglia.

«Uccidi l’uomo che secondo te era colpevole della morte dei tuoi genitori. Uccidi l’uomo che cerca di violentare tua sorella. E cominci a prenderci gusto…»

«Non provo gusto a uccidere.»

«Mi correggo: cominci a prendere gusto a un’idea perversa di giustizia riparatrice.»

«Ma senti un po’…»

«Allora dimmi che farlo non ti piace.»

La voce di Eve, appena più forte di un sussurro, li interruppe. «Facciamola finita. Subito.»

Thorne la sentì, avvicinarsi. In quel momento, Jameson sollevò uno stivale e gli montò a cavalcioni sulla schiena. Thorne sapeva cosa sarebbe successo, ma non intendeva subirlo. Reagì d’istinto, distendendo le ginocchia e allungando le gambe così da finire con il ventre a terra. Due paia di mani lo afferrarono, cercando di rimetterlo in una posizione accessibile…

La parte superiore del corpo di Thorne era talmente indolenzita da essere poco più che un peso morto. La parte inferiore, però, riusciva ancora a scalciare selvaggiamente.

«Piantala!» esclamò Jameson.

Thorne urlò. Ormai la paura era molto superiore alla rabbia. La sua voce suonò stridula e debole e fu subito messa a tacere da un rumore assordante e da un gemito, mentre il pugno guantato di Jameson gli si abbatteva più volte contro un lato della testa. Alla fine, Thorne non poté fare altro che lasciarsi andare e aspettare che tutto cessasse.

Passarono diversi secondi, in cui Thorne, pur avendo perso la cognizione di dove si trovavano i suoi aguzzini, avvertì un movimento di mani e piedi e una pressione… Quando il rumore assordante nella sua testa si fu un po’ placato, sentì la voce di Eve che diceva: «Tienilo fermo».

Si rese conto di aver iniziato a piangere e ringraziò il cielo di non aver perso il controllo della vescica o degli sfinteri. Sollevò di un paio di centimetri la testa dal pavimento. Le lacrime gli scivolarono pungenti sulla ferita. «Un’ultima cosa» disse, rivolto a Jameson. «Mi violenterai prima o dopo avermi ucciso? È una cosa che non siamo riusciti a stabilire per gli altri omicidi.»

Jameson era seduto a cavalcioni sulla sua schiena. Si chinò per parlargli all’orecchio. «Din don. Risposta sbagliata, ispettore Thorne. Io non ho mai violentato nessuno.»

Thorne sentì una mano che gli sollevava la testa, tirandolo per i capelli, ma dimenticò immediatamente il dolore al collo e alle spalle, appena vide quello che Eve teneva in mano. La riproduzione di un organo maschile, grosso e nero. Uno strumento creato solo per il piacere di chi gode nel fare del male.

Un’arma, pura e semplice.

«Non dobbiamo preoccuparci del preservativo, stavolta» disse Eve.

Thorne pensò alle tracce trovate durante la prima autopsia. La naturale deduzione che la vittima fosse stata penetrata da un organo di carne e sangue, che lo stupratore fosse stato un uomo e che indossasse un preservativo…

In circostanze diverse, Thorne forse avrebbe riso. Ma sapeva bene che cosa gli avrebbe fatto l’oggetto che Eve teneva in mano, una volta che lei gliel’avesse spinto dentro.

«Per rispondere alla tua domanda, comunque,» disse Jameson «abbiamo scoperto che fare entrambe le cose nello stesso tempo dà ottimi risultati.»


Holland pensò di aver udito un grido, mentre si lasciava cadere sul pavimento della cucina. Rimase in ascolto.

Nel soggiorno lo stereo era acceso. La solita merda country. Holland udì una serie di tonfi sordi, poi di nuovo il silenzio.

Attraversò rapidamente la cucina ed entrò nel soggiorno, furtivo come il ladro che era passato da quella stessa finestra alcune settimane prima. Sul tavolo in fondo alla stanza vide la spia rossa del telefono staccato e non ebbe bisogno di avvicinarsi al cellulare, posato lì accanto, per sapere che era spento.

La canzone finì e, nella breve pausa prima dell’inizio della successiva, Holland udì un mormorio provenire dalla camera da letto. Non riusciva a distinguere le parole, ma oltre alla voce dell’uomo e della donna riconobbe quella di Thorne e si sentì improvvisamente sollevato.

Non c’era tempo da perdere, comunque. Holland sapeva di dover agire in fretta e non aveva idea di cosa lo aspettasse al di là della porta. Mentre si guardava intorno alla ricerca di un oggetto da usare come arma, il suo pensiero andò a Sophie.


Thorne sentì una fitta di dolore al collo e alle spalle, mentre Jameson spostava il peso su di lui. Vide una mano passargli davanti al viso, una mano con una corda da bucato avvolta intorno alle dita.

«È strano come funziona la mente di un uomo» commentò il ragazzo. «Anche alla fine, ormai vicini alla morte, avevano tutti più paura di ciò che accadeva dietro di loro che del cappio.»

Thorne sentì la mano di Eve premergli sulla parte finale della schiena e si irrigidì avvertendo il tocco freddo della plastica.

«Su quella scala da uno a dieci…» disse lei «quanto ne hai voglia?»

Thorne strinse i denti, cercando di spingere in basso il bacino e appiattirlo contro il pavimento, ma il movimento era ostacolato dai cuscini che i due gli avevano piazzato sotto la pancia.

Jameson afferrò i capelli di Thorne, sollevandogli la testa. «Ti do un consiglio, poi tu fai pure come credi» disse, mentre Thorne scuoteva la testa. «Sarà meglio che non lotti contro il cappio, quando ce l’avrai intorno al collo.»

Thorne fece appello a ogni sua forza residua per riabbassare la testa e premere il collo contro il pavimento.

Sentì uno strattone ai capelli che per poco non lo scotennò e, contemporaneamente, la punta del vibratore che premeva tra le sue natiche. Continuò a tenere la testa abbassata, sapendo che se Jameson fosse riuscito a infilargli il cappio e il cappuccio tutto sarebbe finito molto presto.

«Fa’ come ti pare» disse Jameson. «Voglio solo dirti che, se mi lasci fare, perderai conoscenza molto prima che lei abbia finito…»

Thorne urlò e Jameson smise di tirare e gli sbatté la testa contro il pavimento. Thorne rimase immobile per alcuni secondi, stordito, e Jameson gli fece scivolare il cappuccio sopra la testa.

Thorne riprese a lottare, ma ormai sentiva dentro di sé una strana calma, che aumentò mentre il cappio cominciava a stringere. Sentì la paura nel petto sciogliersi in nulla. Vide volti passare come lampi di luce. E si trovò a galleggiare in uno spazio nero, buio come la morte.

Il rumore della porta sfondata e le grida furono effetti sonori lontani, come un’eco. Ma si fecero assordanti non appena la pressione intorno al collo si allentò…

Thorne inspirò e si impennò con forza, grugnendo e sbattendo la testa all’indietro contro qualcosa che cedette. Il peso che aveva addosso cadde o fu sbalzato via e lui si gettò in avanti, rotolando sulla schiena. Sollevò le mani legate e cominciò a lottare per togliersi il cappuccio con le dita intorpidite e insensibili.

Ci fu un grido, un rumore secco e il cigolio penetrante delle rotelle quando il letto si spostò…

Thorne alzò lo sguardo verso il soffitto, circondato da grugniti di sforzo e dolore e dal tonfo di corpi che sbattevano contro qualcosa di solido. Voltandosi di lato, vide Jameson e Holland avvinghiati contro l’armadio. L’anta si aprì lentamente e nello specchio interno Thorne vide il riflesso di Eve che veniva verso di lui.

Poi il riflesso divenne una realtà in carne e ossa…

Brandendo il coltello, Eve gli si avventò contro, o inciampò, o cadde. Thorne cercò di schivarla e contemporaneamente le assestò un calcio. Quando lei aprì la bocca in una smorfia di dolore, o di odio, il piede di Thorne fu pronto a colpirla con violenza sotto la mascella. Uno schizzo di sangue li raggiunse entrambi ed Eve si accasciò sul pavimento, come un pezzo di carne flaccida.

Thorne si alzò in piedi, traballando, e si diresse verso l’armadio. Holland si stava risollevando, pallido e ansimante. Jameson era a terra e gemeva, con un braccio piegato in modo innaturale dietro la schiena e l’altro teso verso un coltello che non avrebbe mai raggiunto. Sollevò gli occhi con un’espressione impossibile da decifrare, nello scempio che la testata di Thorne aveva prodotto sul suo viso.

Da sotto l’armadio sporgeva il collo di una bottiglia di vino. Thorne l’avvicinò con il piede, mentre Holland cominciava a liberargli i polsi dalla cintura.

«È stato l’unico oggetto contundente che sono riuscito a trovare» disse Holland, ansimando. «Credo che la botta che gli ho dato gli abbia fratturato il braccio…»

Con le mani libere, Thorne si voltò e si diresse verso Eve. Lei stringeva ancora il coltello, ma sembrò notare appena la mano di Thorne che glielo tolse. Era occupata a cercare la metà mancante della sua lingua sulla moquette insanguinata. Se l’era mozzata proprio come suo padre, quando si era impiccato a quella ringhiera, tanti anni prima…

Thorne si accasciò sul pavimento, appoggiando la schiena contro il letto. Il dolore cominciava a farsi pulsante. Nella testa, nelle braccia, dappertutto.

Nell’altra stanza, George Jones continuava a cantare, come se nulla fosse successo.

Thorne fissò la sua immagine nello specchio dell’armadio. Nudo e insanguinato sembrava un selvaggio.

«Ho telefonato a Hendricks» riferì Holland. «Stanno arrivando i rinforzi.»

«Bene» disse Thorne. «Ottimo lavoro, Dave. Ma ora passami le mie mutande, per favore.»

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