Una carovana di nildor li avrebbe trasportati dallo spazioporto all’albergo: due terrestri ogni alieno, con Gundersen da solo, e Van Beneker con il bagaglio che faceva da capofila sul suo scarafaggio. I tre nildor che brucavano ai margini del campo si avvicinarono per arruolarsi nella carovana, e altri due emersero dalla macchia. Gundersen fu sorpreso che i nildor fossero ancora disposti a fare da bestie da soma per i terrestri. — Non gli importa — spiegò Van Beneker. — Gli piace farci dei favori. Li fa sentire superiori. Del resto non si accorgono quasi del peso. E non pensano che ci sia qualcosa di vergognoso nel farsi cavalcare.
— Quando ero qui ho avuto l’impressione che li offendesse — disse Gundersen.
— Da quando ce ne siamo andati, prendono cose del genere con più distacco. Comunque, come fai a essere sicuro di quello che pensano? Quello che pensano veramente, voglio dire.
I turisti erano un po’ allarmati all’idea di cavalcare i nildor. Van Beneker cercò di calmarli spiegando che era una parte importante dell’esperienza su Belzagor. E poi, aggiunse, le macchine non fanno una buona riuscita su questo pianeta, e non rimaneva quasi nessuno scarafaggio funzionante. Gundersen mostrò come si faceva a montare, a beneficio degli apprensivi nuovi arrivati. Batté sulla zanna sinistra del nildor, e l’alieno si inginocchiò in maniera elefantina, prima sulle zampe anteriori, poi su quelle posteriori. Il nildor contorse le spalle, dislocandole e creando una cavità in cui un uomo poteva comodamente cavalcare, e Gundersen montò afferrandosi alle corte corna rivolte all’indietro. La cresta di aculei che correva in mezzo al largo cranio dell’alieno cominciò a contrarsi. Gundersen lo riconobbe come un gesto di benvenuto; i nildor possedevano un ricco linguaggio di gesti, per cui utilizzavano non solo gli aculei, ma anche le lunghe proboscidi e le orecchie pieghettate. — Sssukh! - disse Gundersen, e il nildor si alzò. — Sei seduto bene? — chiese nella sua lingua. — Benissimo — disse Gundersen, deliziato nel ritrovare sulle labbra il vocabolario non dimenticato.
Con goffaggine ed esitazione, gli otto turisti fecero come aveva fatto lui, e la carovana si mise in viaggio lungo la strada del fiume, verso l’albergo. Le lucciole spandevano un pallido chiarore sotto la coltre di alberi. Una terza luna era sorta, e le luci si mescolavano sotto le foglie, rivelando il fiume oleoso dalla rapida corrente, appena alla loro sinistra. Gundersen si pose alla coda della processione, nel caso qualche turista avesse delle difficoltà. Ci fu solo un momento di imbarazzo, quando un nildor si fermò e lasciò la fila. Infilò le triple punte delle zanne nella sponda del fiume per mangiarsi qualche bocconcino, poi riprese il suo posto. Ai vecchi tempi, Gundersen lo sapeva, questo non sarebbe mai successo. Allora ai nildor non era permesso avere grilli.
Si godette il viaggio. L’ondeggiare era piacevole, il passo era veloce senza essere fastidioso. Che brave bestie sono questi nildor, pensò Gundersen. Forti, docili, intelligenti. Quasi allungò una mano per accarezzare gli aculei della sua cavalcatura, ma all’ultimo momento decise che sarebbe sembrato un gesto di condiscendenza. I nildor sono qualcosa di più di elefanti dall’aria buffa, si disse. Sono esseri intelligenti, la forma di vita dominante del loro pianeta, gente, e non dimenticartene.
Ben presto Gundersen sentì lo scrosciare della risacca. Erano vicini all’albergo.
Il sentiero si allargò, diventando una radura. Davanti, una delle turiste indicò qualcosa nella giungla; suo marito alzò le spalle e scosse la testa. Quando Gundersen arrivò in quel punto, vide cosa aveva attirato la loro attenzione. Delle forme nere erano accovacciate fra gli alberi, mentre altre si muovevano avanti e indietro. Erano a malapena visibili nell’ombra. Mentre il nildor di Gundersen passava, due delle forme indistinte emersero dalla giungla, fino ai bordi del sentiero. Erano bipedi massicci, alti quasi tre metri, coperti da una spessa pelliccia rosso scuro, con grosse code che si muovevano pigramente nella penombra verdastra. Occhi socchiusi, ridotti a fessure anche in quella debole luce, scrutavano la processione. Nasi gommosi, lunghi come quelli di tapiri, soffiavano rumorosamente.
Una donna si voltò cautamente e chiese a Gundersen: — Cosa sono?
— Sulidoror. La seconda specie. Vengono dalla zona delle nebbie. Questi sono esemplari settentrionali.
— Sono pericolosi?
— Non li definirei tali.
— Se sono animali settentrionali, come mai sono qui? — volle sapere suo marito.
— Non so bene — disse Gundersen. Lo chiese alla sua cavalcatura, e ricevette una risposta. — Lavorano all’albergo — spiegò Gundersen. — Fattorini. Sguatteri. — Gli sembrò strano che i nildor usassero i sulidoror come servitori nell’albergo dei terrestri. Neppure prima dell’indipendenza i sulidoror erano stati usati come servi. Ma naturalmente allora c’erano un sacco di robot.
L’albergo apparve davanti a loro. Sorgeva sulla costa, una cupola geodesica luccicante che non mostrava alcun segno esteriore di decadimento. Prima dell’indipendenza era stato una stazione turistica di lusso, creata appositamente per gli amministratori al massimo livello della Compagnia. Gundersen ci aveva trascorso molte ore felici. Smontò, e insieme a Van Beneker aiutò i turisti a fare altrettanto. Tre sulidoror erano in piedi all’ingresso dell’hotel. Van Beneker rivolse loro dei gesti energici, e i tre cominciarono a prelevare i bagagli dal vano di carico dello scarafaggio.
Entrato, Gundersen individuò rapidamente sintomi di declino. Un tappetto di muschio-di-tigre aveva cominciato a trasbordare da una striscia di giardino ornamentale, lungo la parete della hall, e stava per arrivare alle belle lastre nere del pavimento; vide le piccole bocche piene di denti che cercavano speranzose di azzannarlo, mente passava accanto. Senza dubbio i robot di manutenzione erano stati un tempo programmati per tagliare il muschio ornamentale lungo il bordo dell’aiuola, ma il programma doveva essersi sottilmente alterato con il trascorrere degli anni, cosicché adesso al muschio era permesso di introdursi anche all’interno dell’edificio. Forse i robot non c’erano più, e i sulidoror che li avevano sostituiti erano poco scrupolosi nelle loro mansioni di giardinieri. E c’erano altri indizi che il controllo stava sfuggendo di mano.
— I ragazzi vi mostreranno le camere — disse Van Beneker. — Potete scendere per i cocktail quando siete pronti. La cena sarà servita fra un’ora e mezzo circa.
Un gigantesco sulidor condusse Gundersen a una stanza al terzo piano, con vista sul mare. Automaticamente, offrì alla grande creatura una moneta; ma il sulidor si limitò a guardarlo senza comprendere, e non osò prenderla. Parve a Gundersen che ci fosse una tensione repressa nel comportamento del sulidor, un interno ribollire; ma forse era solo la sua immaginazione. Ai vecchi tempi i sulidoror raramente si facevano vedere al di fuori della zona delle nebbie, e Gundersen non si sentiva a suo agio con loro.
In lingua nildor disse: — Da quanto tempo lavori all’hotel? — ma il sulidor non rispose. Gundersen non conosceva la lingua dei sulidoror, ma sapeva che le creature parlavano fluentemente il nildororu, oltre che il sulidororu. Pronunciando le parole più chiaramente, ripeté la domanda. Il sulidor si grattò la pelliccia con artigli luccicanti, e non disse nulla. Passando accanto a Gundersen, deopacizzò la parete-finestra, regolò i filtri atmosferici, e uscì solennemente.
Gundersen aggrottò la fronte. Rapidamente, si spogliò e si infilò sotto il pulitore. Un ronzio veloce di vibrazioni gli tolse di dosso lo sporco del viaggio. Prese dalla valigia un abito da sera e lo indossò: tunica grigia aderente, stivali lucidi, uno specchio per la fronte. Abbassò di qualche tono il colore dei capelli, da gialli a quasi castani.
D’improvviso si sentì molto stanco.
Era nei primi anni della mezza età, solo quarantotto, e normalmente viaggiare non gli faceva alcun effetto. Perché quella stanchezza, dunque? Si rese conto che nelle ultime ore si era irrigidito in maniera inconsueta. Da quando era tornato sul pianeta. Teso, inflessibile… incerto circa i motivi che l’avevano indotto a tornare, senza sapere come sarebbe stato accolto, forse un po’ in preda a sensi di colpa; e ora la tensione si faceva vedere. Toccò un pulsante e trasformò la parete in uno specchio. Sì, aveva la faccia tirata; gli zigomi, sempre prominenti, adesso sporgevano come lame, le labbra serrate, la fronte corrucciata. Il naso, sottile, era dilatato a causa delle narici gonfiate dalla tensione. Gundersen chiuse gli occhi, e cominciò un esercizio di distensione. Trenta secondi dopo aveva un aspetto migliore; ma gli ci voleva qualcosa da bere, decise. Scese nella hall.
Nessuno dei turisti era ancora arrivato. Le persiane erano aperte; si sentiva il mugghiare del mare, e odore di salsedine. Una linea bianca di sale accumulato si era formata lungo i margini della spiaggia. La marea era alta; soltanto le punte degli scogli frastagliati che circondavano la zona dei bagni erano visibili. Gundersen guardò l’acqua striata dalle luce delle lune, fissando il nero dell’orizzonte orientale. C’erano state tre lune anche l’ultima notte che aveva trascorso lì, quando avevano dato una festa di addio per lui. E alla fine dei festeggiamenti, lui e Seena erano andati a fare una nuotata di mezzanotte, sui bassifondi coperti dalla marea dove riuscivano appena a tenersi in piedi, e quando erano tornati a riva, nudi e incrostati di sale, avevano fatto all’amore dietro gli scogli, e lui l’aveva abbracciata per quella che, ne era certo, doveva essere l’ultima volta. E adesso era tornato.
Sentì un’ondata di nostalgia, così forte che ebbe una smorfia.
Gundersen aveva avuto trenta anni quando era partito per il Mondo di Holman, come assistente di stazione. Ne aveva avuti quaranta, ed era stato amministratore di settore, quando era partito. In un certo senso, i primi trent’anni della sua vita erano stati un pallido preludio a quel decennio, e gli ultimi otto un vuoto epilogo. Aveva vissuto la sua vita su quel continente silenzioso, circondato da nebbia e ghiaccio a nord, nebbia e ghiaccio a sud, l’Oceano di Benjamini a est, il Mare di Polvere a ovest. Per un po’ aveva governato mezzo mondo, almeno durante l’assenza del governatore capo; e quel pianeta si era sbarazzato di lui come se non fosse mai esistito. Gundersen voltò le spalle alle persiane e si sedette.
Van Beneker apparve, con ancora addosso la tuta da lavoro spiegazzata. Strizzò un occhio a Gundersen, e cominciò a frugare in un armadietto. — Faccio anche da barista, signor G. Cosa posso offrirle?
— Alcol — disse Gundersen. — In qualsiasi forma tu mi consigli.
— Spruzzo o bottiglia?
— Bottiglia. Mi piace il sapore.
— Come preferisce. Ma per me spruzzo. È l’effetto che conta, signore, l’effetto. - Appoggiò un bicchiere vuoto di fronte a Gundersen e gli porse una bottiglietta che conteneva tre once di un liquido rosso scuro. Rum delle terre alte, prodotto locale. Da otto anni Gundersen non ne assaggiava. La bottiglietta era fornita di un sistema autonomo di refrigerazione. Gundersen lo azionò con una rapida pressione del pollice, e osservò i cristalli di ghiaccio che si formavano all’interno. Quando si fu adeguatamente raffreddato, lo versò e se lo accostò alle labbra.
— È roba di prima dell’indipendenza — disse Van Beneker. — Non ne è rimasto molto, ma lo sapevo che l’avrebbe apprezzato. — Accostò un tubo a ultrasuoni all’avambraccio sinistro. Zzz! E dal beccuccio un getto di alcool penetrò direttamente nella vena. Van Beneker sogghignò. — Così funziona più in fretta. La sbornia del lavoratore. Eh? Eh? Un altro rum, signor G?
— Adesso no. Farai meglio a occuparti dei tuoi turisti, Van.
Le coppie di turisti cominciavano a entrare nel bar: prima i Watson, poi i Miraflores, gli Stein e infine i Christopher. Evidentemente si aspettavano di trovare il bar pulsante di vita, pieno di altri turisti che si salutavano allegramente da una parte all’altra del locale, e camerieri con la giacca rossa che portavano da bere. Invece c’erano pareti con la vernice scrostata, una scultura sonica che non funzionava più ed era piena di ragnatele, tavoli vuoti, e quell’antipatico signor Gundersen che scrutava cupamente il fondo di un bicchiere. I turisti si scambiarono occhiate deluse. Era per questo che avevano attraversato tanti anni-luce? Van Beneker andò da loro, offrendo drink, erba, qualsiasi cosa potessero fornire le limitate risorse dell’hotel. Si sistemarono in due gruppi accanto alle finestre, e cominciarono a parlare a voce bassa, evidentemente a disagio di fronte a Gundersen. Senza dubbio avvertivano la stupidità del loro ruolo di pacifici benestanti spinti dalla propria noia a visitare gli angoli più remoti della galassia. Stein aveva un salone genetico in California, Miraflores una catena di casinò sulla Luna, Watson era un medico, e Christopher… Gundersen non riusciva a ricordare cosa facesse Christopher. Qualcosa che aveva a che fare con finanza.
La signora Stein disse: — Ci sono alcuni di quegli animali sulla spiaggia. Gli elefanti verdi.
Tutti guardarono. Gundersen fece segno che voleva un altro liquore, che gli fu portato. Van Beneker, rosso in faccia e sudato, gli strizzò nuovamente l’occhio e si somministrò un secondo spruzzo nell’avambraccio. I turisti cominciarono a ridacchiare. La signora Christopher disse: — Non hanno nessuna vergogna?
— Forse stanno solo giocando, Ethel — disse Watson.
— Giocando? Be’, se tu lo chiami giocare…
Gundersen si sporse, sbirciando fuori dalla finestra senza alzarsi. Sulla spiaggia un paio di nildor si stavano accoppiando, la femmina inginocchiata dove il sale era più spesso, il maschio che la montava, afferrandole le spalle e premendole la zanna centrale contro la cresta di aculei sul cranio, manovrando i quarti posteriori in preparazione della spinta finale. I turisti, ridacchiando, facevano pesanti commenti di apprezzamento: sembravano insieme sconvolti ed eccitati. Con sua considerevole sorpresa, anche Gundersen si accorse di essere sconvolto, benché vedere dei nildor che si accoppiavano non era nulla di nuovo per lui e, quando un feroce urlo di orgasmo si levò dal basso, distolse lo sguardo, imbarazzato senza sapere il perché.
— Mi sembra sconvolto — disse Van Beneker.
— Non era necessario che lo facessero qui.
— Perché no? Lo fanno dappertutto. Sa com’è.
— Sono andati là deliberatamente — mormorò Gundersen. — Per dare spettacolo ai turisti? O per infastidire i turisti? Non dovrebbero reagire ai turisti in alcun modo. Cosa vorrebbero dimostrare? Che sono solo animali, immagino.
— Lei non capisce i nildor, Gundy.
Gundersen alzò gli occhi, altrettanto sorpreso dalle parole di Van Beneker quanto dall’improvvisa discesa da “Signor Gundersen” a “Gundy”. Anche Van Beneker parve sorpreso, sbatté rapidamente le palpebre e si tirò una ciocca sparsa di capelli grigi.
— No? — disse Gundersen. — Dopo aver passato qui dieci anni?
— Col suo permesso, non ho mai pensato che lei li capisse, anche quando era qui. La seguivo nei suoi giri, fra i villaggi, quando le facevo da segretario. La osservavo.
— In che senso credi che non riuscissi a capirli, Van?
— Li disprezzava. Pensava a loro come ad animali.
— Non è vero!
— Certo che lo è, Gundy. Non ha mai ammesso una sola volta che avessero un’intelligenza.
— Questo è completamente falso — disse Gundersen. Si alzò e prese un’altra bottiglietta di rum dall’armadietto, e tornò al tavolo.
— Gliel’avrei portata — disse Van Beneker. — Doveva solo chiedere.
— Non importa. — Gundersen fece gelare il liquore e lo bevve rapidamente. — Stai dicendo un sacco di sciocchezze, Van. Ho fatto tutto il possibile per questa gente. Per migliorare le loro condizioni, per elevarli alla civiltà. Ho requisito nastri per loro, gusci sonori, cultura a tonnellate. Ho imposto nuove regole sugli orari di lavoro massimi. Ho insistito che i miei uomini rispettassero i loro diritti di cultura indigena dominante. Ho…
— Li trattava come animali molto intelligenti. Non come alieni intelligenti. Forse lei non se ne rendeva neppure conto, Gundy, ma io sì, e per Dio anche loro. Lei gli parlava dall’alto al basso. Era gentile con loro nella maniera sbagliata. Tutto il suo interesse per elevarli, per migliorare le loro condizioni… stronzate, Gundy, ce l’hanno già la loro cultura. Non vogliono la sua!
— Era mio dovere guidarli — disse Gundersen rigidamente. — Per quanto fosse futile pensare che un branco di animali privi di scrittura, privi di… — Si interruppe, inorridito.
— Animali — disse Van Beneker.
— Sono stanco. Forse ho bevuto troppo. È stato un lapsus.
— Animali.
— Smettila di stuzzicarmi, Van. Ho fatto tutto quello che potevo, e se quello che ho fatto era sbagliato, mi dispiace. Ho cercato di fare il giusto. — Gundersen spinse avanti il bicchiere vuoto. — Portamene un altro, ti spiace?
Van Beneker portò da bere, e un altro spruzzo per sé. Gundersen accolse con sollievo quella pausa nella conversazione, e apparentemente anche Van Beneker, perché entrambi rimasero in silenzio a lungo, evitando di guardarsi negli occhi. Un sulidor entrò nel bar, e cominciò a raccogliere i vuoti, tenendosi chino per non toccare il soffitto a scala di terrestre. Il chiacchierio dei turisti si spense, mentre la creatura dall’aria feroce si muoveva nella stanza. Gundersen guardò verso la spiaggia. I nildor se n’erano andati. Una delle lune stava calando verso est, lasciando una traccia infuocata sull’acqua mossa. Si rese conto di aver dimenticato i nomi delle lune. Poco importava: i nomi dati dall’uomo erano storia morta, ormai. Alla fine disse a Van Beneker: — Come mai hai deciso di fermarti qui, dopo l’indipendenza?
— Mi sentivo a casa. Ero qui da venticinque anni. Perché avrei dovuto andare da un’altra parte?
— Nessun legame familiare?
— No. E poi qui si sta bene. Ho la pensione della Compagnia. Le mance dei turisti. Il salario dell’albergo. Abbastanza per procurarmi quello che mi serve. E quello che mi serve di più, sono gli spruzzi. Perché dovrei andarmene?
— Chi è il proprietario dell’hotel? — chiese Gundersen.
— La confederazione nildor del continente occidentale. La Compagnia l’ha passato a loro.
— E i nildor ti pagano un salario? Credevo che fossero al di fuori dell’economia monetaria galattica.
— Infatti. Hanno fatto degli accordi con la Compagnia.
— Vuoi dire che la Compagnia gestisce ancora l’hotel?
— Se si può dire che qualcuno lo gestisca, è la Compagnia, sì — concesse Van Beneker. — Ma non è una violazione delle leggi di indipendenza. C’è un solo dipendente. Io. Mi guadagno il salario con quello che pagano i turisti. Il resto che spendo viene importato dalla sfera monetaria. È tutto uno scherzo, Gundy, non vede? Un sistema studiato per permettermi di importare liquore, ecco tutto. L’hotel non è un’impresa commerciale. La Compagnia è davvero fuori da questo pianeta. Completamente.
— Va bene, va bene. Ti credo.
Van Beneker disse: — Che cosa cerca nella zona delle nebbie?
— Vuoi davvero saperlo?
— Mi aiuta a passare il tempo chiedere le cose.
— Voglio osservare la cerimonia di rinascita. Non l’ho mai vista, in tutto il tempo che sono stato qui.
Gli occhi sporgenti parvero sporgersi ancora di più. — Perché non vuole parlare seriamente, Gundy?
— Sono serissimo.
— È pericoloso immischiarsi nella faccenda della rinascita.
— Sono preparato a correre il rischio.
— Dovrebbe prima parlarne con qualcuno qui. Non è una cosa in cui dovremmo immischiarci.
Gundersen sospirò. — Tu l’hai vista?
— No. Mai. Né mi ha mai interessato vederla. Qualsiasi cosa facciano i sulidoror sulle montagne, che la facciano senza di me. Le dirò con chi parlarne, però. Seena.
— Ha visto la rinascita?
— Suo marito l’ha vista.
Gundersen provò una fitta di sgomento. — Chi è suo marito?
— Jeff Kurtz. Non lo sapeva?
— Che mi venga un accidente — mormorò Gundersen.
— Si chiede cosa abbia trovato in lui, eh?
— Mi chiedo come abbia trovato il coraggio di vivere con un uomo come quello. E poi parli del mio atteggiamento verso gli indigeni! Quello li trattava come se fossero sua proprietà, e…
— Vada a parlare a Seena, alle Cascate di Shangri-la. A proposito della rinascita. — Van Beneker rise. — Mi sta prendendo in giro, vero? Sa che sono ubriaco, e si diverte.
— No. Niente affatto. — Gundersen si alzò, a disagio. — Ho bisogno di dormire un po’.
Van Beneker lo seguì fino alla porta. Proprio mentre Gundersen usciva, l’ometto gli si avvicinò e disse: — Sa cosa stavano facendo i nildor sulla spiaggia, prima? Non lo facevano per i turisti. Lo facevano per lei. È il loro senso dell’umorismo. Buona notte, Gundy.