5

Gundersen si rimise in piedi, tremando. Risucchiò aria calda nei polmoni e guadagnò un po’ di tempo inginocchiandosi sulla riva del lago per lavarsi la faccia. Trovò i vestiti che si era levato, e ci mise qualche minuto a metterseli. Adesso si sentiva un po’ meglio; ma il problema della carne cruda rimaneva. I sulidoror si godevano il loro festino strappando la carne a brandelli e ripulendo le ossa, e ogni tanto guardavano dalla sua parte per vedere se avrebbe accettato la loro ospitalità. I nildor, che naturalmente non avevano toccato la carne, sembravano anch’essi curiosi circa la sua decisione. Se avesse rifiutato la carne avrebbe offeso i sulidoror? Se l’avesse mangiata, si sarebbe dimostrato altrettanto bestiale agli occhi dei nildor? Concluse che era meglio ingoiare qualche pezzetto di carne come gesto di buona volontà verso i bipedi dall’aria minacciosa. I nildor, dopo tutto, non sembravano disturbati dal fatto che i sulidoror mangiassero carne; perché avrebbe dovuto infastidirli se un terrestre, un noto carnivoro, faceva lo stesso?

Avrebbe mangiato la carne. Ma l’avrebbe mangiata alla maniera terrestre.

Strappò qualche foglia di una pianta acquatica e le distese per formare una stuoia; vi appoggiò la carne. Dalla tunica prese la torcia a fusione, la regolò su larga apertura e bassa intensità, e la passò sulla carne, finché la superficie esterna non fu bruciacchiata e sfrigolante. Con un raggio più stretto tagliò la carne in pezzetti più maneggevoli. Poi si sedette a gambe incrociate, prese un pezzo e lo addentò.

La carne era morbida, simile a formaggio, intramezzata da filamenti duri che formavano una complicata ragnatela. Facendosi forza, ne riuscì a ingoiare tre pezzi. Quando decise di averne avuto abbastanza, si alzò, ringraziò i sulidoror, e si inginocchiò accanto all’acqua e ne raccolse un po’ fra le mani. Aveva bisogno di un digestivo.

Durante tutto questo tempo nessuno gli parlò o gli si avvicinò.

I nildor erano usciti tutti dall’acqua, poiché la notte si avvicinava. Si erano sistemati in parecchi gruppi, a una certa distanza dalla riva. Il festino dei sulidoror continuava rumorosamente, ma si stava avvicinando alla fine; già parecchie piccole bestie-spazzino si erano unite al banchetto, e si erano messe all’opera intorno alla metà inferiore del corpo del malidar, mentre i sulidoror finivano l’altra parte.

Gundersen si guardò intorno alla ricerca di Srin’gahar. C’erano delle cose che desiderava chiedergli.

Lo disturbava ancora il fatto che i nildor avessero accettato con tanta freddezza l’uccisione nel lago. Si rese conto che aveva sempre considerato i nildor più nobili degli altri grossi animali del pianeta perché non uccidevano se non provocati molto gravemente, e qualche volta neppure in questo caso. Ecco una razza intelligente immune dal peccato di Caino. E Gundersen vedeva in questo un corollario: che i nildor, dal momento che non uccidevano, avrebbero considerato l’uccidere come un atto detestabile. Adesso sapeva che il suo ragionamento era erroneo, perfino ingenuo. I nildor non uccidevano per il semplice fatto che non mangiavano carne; ma la superiorità morale che aveva attribuito loro era in effetti un prodotto della sua immaginazione colpevole.

La notte giunse con tropicale rapidità. Una singola luna brillava in cielo. Gundersen vide un nildor che gli sembrava Srin’gahar e andò da lui.

— Ho una domanda da farti, Srin’gahar, amico del mio viaggio — cominciò Gundersen. — Quando i sulidoror sono entrati in acqua…

Il nildor disse gravemente. — Commetti un errore. Io sono Thali’vanoom della terza nascita.

Gundersen farfugliò una scusa e si voltò, maledicendosi. Che tipico sbaglio terrestre, pensò. Ricordava il suo vecchio capo di settore che commetteva lo stesso errore dozzine di volte, confondendo irrimediabilmente un nildor con un altro, e borbottando irritato: “Non riesco a distinguere fra di loro questi bestioni! Perché non si mettono dei cartellini?” L’estremo insulto, l’incapacità di riconoscere gli indigeni come individui. Gundersen si era sempre fatto un punto d’onore nell’evitare simili insulti gratuiti. E adesso, in quel momento delicato, in cui tutto dipendeva dal guadagnarsi il favore dei nildor. …

Si avvicinò a un secondo nildor, e si accorse solo all’ultimo momento che anche questi non era Srin’gahar. Si ritrasse, con quanta più grazia possibile. Al terzo tentativo, finalmente trovò il suo compagno di viaggio. Srin’gahar era tranquillamente seduto contro un piccolo albero, le spesse gambe piegate sotto il corpo. Gundersen gli porse la domanda, e Srin’gahar disse: — Perché la vista della morte violenta dovrebbe sconvolgerci? I malidaror non hanno g’rakh, dopo tutto. Ed è evidente che i sulidoror devono mangiare.

— Non hanno g’rakh? — disse Gundersen. — È una parola che non conosco.

— È la qualità che separa gli esseri dotati di anima, da quelli che non ne sono dotati — spiegò Srin’gahar. — Senza g’rakh una creatura non è che una bestia.

— I sulidoror hanno g’rakh?

— Naturalmente.

— E così pure i nildor, ovviamente. Ma i malidaror no. E i terrestri?

— È del tutto chiaro che i terrestri hanno g’rakh.

— E uno può liberamente uccidere una creatura a cui manchi questa qualità?

— Se uno ha la necessità di farlo, sì — disse Srin’gahar. — Sono cose elementari. Non possedete questi concetti sul vostro mondo?

— Sul mio mondo — disse Gundersen — esiste una sola specie cui sia stato riconosciuto il g’rakh, perciò forse dedichiamo a queste faccende troppo poca attenzione. Sappiamo che qualsiasi essere non appartenga alla nostra specie, deve mancare di g’rakh.

— Perciò quando arrivate su un altro mondo, avete difficoltà ad accettare la presenza di g’rakh in altri esseri? — chiese Srin’gahar. — Non hai bisogno di rispondere. Capisco.

— Posso farti un’altra domanda? — disse Gundersen. — Perché questi sulidoror sono qui?

— Gli permettiamo di stare qui.

— In passato, all’epoca in cui la Compagnia regnava su Belzagor, i sulidoror non uscivano mai dalla zona delle nebbie.

— Non permettevamo loro di venire qui, allora.

— Ma adesso sì. Perché?

— Perché adesso è più facile per noi farlo. In passato c’erano delle difficoltà.

— Che genere di difficoltà? — insistette Gundersen.

A bassa voce Srin’gahar disse: — Devi chiedere questo a qualcuno che sia nato più volte di me. Io sono nato una volta sola, e molte cose sono altrettanto strane per me quanto per te. Guarda, un’altra luna sale in cielo! Alla terza luna danzeremo.

Gundersen alzò gli occhi e vide il piccolo disco bianco che si muoveva rapidamente, basso nel cielo, sfiorando le punte degli alberi. Le cinque lune di Belzagor erano un insieme molto assortito: la più vicina appena al di fuori del Limite di Roche, la più lontana appena visibile in una notte serena. In qualsiasi momento, due o tre erano nel cielo notturno, ma la quarta e la quinta avevano orbite così eccentriche che non potevano essere mai viste da vaste regioni del pianeta, e su altre zone passavano non più di tre o quattro volte per anno. Una notte all’anno tutte e cinque le lune apparivano contemporaneamente, lungo una striscia larga dieci chilometri che incrociava l’equatore a un angolo di circa 40 gradi, da nord-est a sud-ovest. Gundersen aveva visto una Notte delle Cinque Lune una volta soltanto.

I nildor avevano cominciato a muoversi verso la riva.

La terza luna apparve, roteando in senso retrogrado da sud.

Dunque, li avrebbe visti danzare ancora. Aveva assistito alle loro cerimonie una sola volta, agli inizi della sua carriera, quando era in servizio alle Cascate di Shangri-la, nei tropici settentrionali. Quella notte i nildor si erano ammassati appena a monte delle cascate, su entrambe le rive del Fiume di Madden, e per molte ore, dopo il calar del sole, le loro grida confuse si erano sentite perfino sopra il ruggito dell’acqua. E alla fine Kurtz, che era anch’egli stanziato a Shangri-la, aveva detto: “Vieni, andiamo a goderci lo spettacolo!” e aveva guidato Gundersen nella notte. Era accaduto sei mesi prima dell’episodio alla stazione dei serpenti, e Gundersen allora non sapeva ancora come fosse fatto Kurtz. Ma lo capì subito, dopo che Kurtz si unì ai nildor nella loro danza. I grossi animali erano raggruppati in approssimativi semicerchi, e marciavano avanti e indietro, lanciando acute grida con le proboscidi, facendo tremare il terreno, e d’improvviso ecco Kurtz in mezzo a loro, le braccia alzate, il petto nudo coperto di sudore e luccicante alla luce delle lune, che ballava con lo stesso fervore degli indigeni, lanciando alte grida, battendo i piedi, gettando indietro la testa. E i nildor stavano formando un gruppo attorno a lui, lasciandogli ampio spazio per entrare completamente in uno stato di frenesia, adesso correndo verso di lui, adesso arretrando, una sistole e diastole di feroce potenza. Gundersen guardava stupefatto e intimorito, e non si mosse quando Kurtz lo chiamò perché si unisse alla danza. Guardò per quelle che gli sembrarono ore, ipnotizzato dal bum bum bum bum dei nildor danzanti, finché alla fine riuscì a uscire dalla sua trance, e cercò con gli occhii Kurtz e lo trovò ancora in movimento, una figura scheletrica, ossuta che si muoveva a scatti, come un pupazzo appeso a fili invisibili, fragile all’aspetto malgrado la sua estrema altezza all’interno del cerchio di nildor. Kurtz non poteva sentire le parole di Gundersen né accorgersi della sua presenza, e alla fine Gundersen tornò da solo alla stazione. Il mattino seguente trovò Kurtz spento ed esausto, accasciato sulla panca di fronte alla cascata. Kurtz si limitò a dire: “Avresti dovuto restare. Avresti dovuto restare”.

Gli antropologi avevano studiato quei riti. Gundersen aveva letto gli articoli scritti sull’argomento, imparando quello che c’era da imparare. Evidentemente la danza era preceduta e circondata da un dramma, un episodio parlato simile alle sacre rappresentazioni medievali, che riproduceva qualche mito nildor di suprema importanza, e che serviva insieme come intrattenimento e come esperienza religiosa estatica. Sfortunatamente il linguaggio del dramma era in un’antica lingua liturgica, di cui i terrestri non comprendevano una parola, e i nildor, che non avevano esitato a insegnare ai primi visitatori terrestri la loro lingua moderna, non avevano mai offerto alcun indizio circa la natura di quest’altra. Gli antropologi avevano osservato un particolare che adesso Gundersen trovava incoraggiante: invariabilmente, entro pochi giorni dall’esecuzione di quel particolare rito, gruppi di nildor del branco si mettevano in marcia per il paese delle nebbie, presumibilmente allo scopo i sottoporsi alla rinascita.

Si chiese se potesse trattarsi di una cerimonia di purificazione, un mezzo per entrare in uno stato di grazia prima della rinascita.

I nildor si erano tutti raccolti accanto al lago. Srin’gahar fu uno degli ultimi ad andare. Gundersen sedeva da solo sul pendio, osservando le forme massicce che si riunivano. I movimenti contrari delle lune frammentavano le ombre dei nildor, e la fredda luce trasformava le loro lisce pelli verdi in mantelli neri e corrugati. Guardando alla sua sinistra, Gundersen vide i sulidoror accovacciati davanti alle loro capanne, esclusi dalla cerimonia ma non dalla vista di essa.

Nel silenzio, si udì un flusso di parole basso, chiaro, potente. Si sforzò di cogliere qualche indizio sul loro significato, una porta magica che lo introducesse alla comprensione del linguaggio segreto. Ma non giunse nessuna comprensione. Era Vol’himyor a parlare, il vecchio molte-volte-nato, che recitava parole chiaramente familiari a tutti i partecipanti, una invocazione, un introito. Poi venne un lungo intervallo di silenzio, poi la risposta di un secondo nildor dal lato opposto del gruppo, che ripeté esattamente i ritmi e le sinuosità delle parole di Vol’himyor. Ancora silenzio; poi una replica di Vol’himyor, più vivace. Avanti e indietro si spostò il centro del servizio, e lo scambio fra i due celebranti si trasformò in quello che, per dei nildor, era un dialogo sorprendentemente veloce. Circa ogni dieci battute il branco tutto intero ripeteva quello che il celebrante aveva detto, spandendo oscure vibrazioni nella notte.

Dopo circa dieci minuti, la voce di un terzo nildor si fece udire. Vol’himyor rispose. Un quarto attore entrò nella recita. Ora battute isolate giungevano a raffica da molti membri della congregazione. Nessuno sbagliava il tempo; nessun nildor si sovrapponeva alla battuta di un altro. Ciascuno sembrava sapere intuitivamente quando parlare, quando rimanere in silenzio. Il tempo accelerò. La cerimonia era diventata un mosaico di brevi frasi, che si levavano in rotazione casuale da ogni parte del gruppo. Alcuni nildor alzavano e abbassavano i piedi, senza mutare posizione.

Un fulmine squarciò il cielo. Malgrado l’atmosfera soffocante, Gundersen sentì un brivido. Si vide come un viaggiatore sulla Terra preistorica, che spiasse un grottesco conclave di mastodonti. Tutte le cose umane sembravano infinitamente lontane in quel momento. Il dramma stava raggiungendo un qualche genere di climax. I nildor mugghiavano, battevano i piedi, si chiamavano a vicenda con sbuffi tremendi. Si stavano disponendo in gruppi, lasciando delle corsie vuote. Ancora si sentivano frasi e risposte, amplificazioni antifonali di parole cariche di arcani significati. L’aria si fece più densa di vapori. Gundersen non riusciva più a sentire parole singole, solo accordi profondi di grugniti, ah ah ah ah, ah ah ah ah, il ritmo che ricordava di aver già udito alle Cascate di Shangri-la. Era un suono ansante adesso, estatico, una serie infinita di esalazioni sbuffanti, ah ah ah ah, ah ah ah ah, ah ah ah ah, con appena un intervallo fra ciascun gruppo di quattro battiti, e l’intera giungla pareva echeggiarne. I nildor non possedevano strumenti musicali di alcun tipo, ma a Gundersen sembrava che immensi tamburi stessero scandendo quel ritmo intenso e ipnotico. Ah ah ah ah. Ah ah ah ah. AH AH AH AH! AH AH ah AH!

E i nildor cominciarono a danzare.

Giù, sulla riva del lago, si muovevano dozzine di grandi forme scure, saltando come gazzelle: due passi avanti di corsa, un colpo più forte al terzo passo, il quarto per riprendere l’equilibrio. L’universo tremava. Boom boom boom boom. La fase precedente della cerimonia, il dialogo drammatico, che avrebbe potuto essere una sottile disquisizione filosofica, aveva lasciato completamente il posto a questa primordiale danza, questo tremendo ondeggiare di giganteschi corpi elefantini. Boom boom boom boom. Gundersen guardò alla sua sinistra e vide i sulidoror in trance, le teste pelose che si muovevano al ritmo della danza; ma nessuno dei bipedi si era alzato dalla posizione a gambe incrociate. Si accontentavano di ondeggiare e scuotere la testa, e di tanto in tanto di battere a terra con i gomiti.

Gundersen era tagliato fuori dal suo passato, perfino dal senso di appartenenza alla sua specie. Ricordi slegati affioravano. Era tornato alla stazione dei serpenti, prigioniero del veleno allucinogeno, trasformato in un nildor che ballava pesantemente nella giungla. Di nuovo si trovò sulla riva del grande fiume, assistendo a un’altra rappresentazione della medesima danza. E ricordava anche notti trascorse nella sicurezza di stazioni della Compagnia, nel folto della foresta, fra quelli della sua razza, mentre ascoltavano il calpestio delle zampe, in lontananza. In tutte queste occasioni Gundersen si era tirato indietro da qualsiasi possibile mistero gli avesse da offrire il pianeta; aveva chiesto il trasferimento dalla stazione dei serpenti piuttosto che assaggiare il veleno una seconda volta, e aveva rifiutato l’invito di Kurtz a unirsi alla danza, era rimasto all’interno delle stazioni quando il calpestio ritmico era iniziato nella foresta. Ma quella notte si sentiva molto lontano dalla sua razza. Sentiva un impulso irresistibile a unirsi a quella nera e incomprensibile frenesia sulla riva del lago. Qualcosa di mostruoso si era liberato dentro di lui, scatenato dalla ripetizione incessante di quel boom boom boom boom. Ma che diritto aveva di danzare alla maniera di Kurtz in una cerimonia aliena? Non osava intromettersi nel loro rituale.

Invece, si accorse di essersi incamminato giù per il pendio spugnoso verso il luogo dove danzavano ammassati i nildor.

Se riusciva a pensare a essi solo come elefanti che saltavano e sbuffavano, sarebbe andato tutto bene. Anche se riusciva a pensare a loro come selvaggi che facevano baccano, sarebbe andato tutto bene. Ma era inevitabile il sospetto che quella cerimonia di parole e danza contenesse un significato complesso per quella gente, e questa era la cosa peggiore. Potevano avere grosse gambe e corti colli e lunghe proboscidi dondolanti, ma questo non bastava a renderli elefanti, perché le triple zanne, le creste di aculei, l’anatomia aliena dicevano il contrario; e potevano essere privi di qualsiasi tecnologia, privi anche di scrittura, ma questo non li rendeva selvaggi, perché la complessità delle loro menti diceva il contrario. Poiché erano creature che possedevano g’rakh. Gundersen ricordava quando aveva innocentemente tentato di istruire i nildor nelle arti e nella cultura terrestre, nel tentativo di “migliorarli”; aveva voluto umanizzarli, innalzare il loro spirito, ma non aveva ottenuto nulla, e adesso scopriva che il suo spirito veniva attirato… in basso?… certamente al loro livello, dovunque fosse. Boom boom boom boom. I suoi piedi, con esitazione, assunsero il ritmo della danza, mentre si avvicinava al lago. Avrebbe osato? L’avrebbero schiacciato come blasfemo?

Avevano lasciato danzare Kurtz. Avevano lasciato danzare Kurtz.

Era successo a una diversa latitudine, molto tempo prima, ed erano stati altri nildor, ma avevano lasciato danzare Kurtz.

— Sì — lo chiamò un nildor. — Vieni a danzare con noi!

Era Vol’himyor? Era Srin’gahar? Era Thali’vanoom della terza nascita? Gundersen non sapeva quale di loro avesse parlato. Nel buio, nella foschia umida, non riusciva a vedere con chiarezza, e tutte quelle forme gigantesche sembravano identiche. Arrivò in fondo al pendio. I nildor lo circondavano completamente, iscrivendo passaggi nei loro privati tragitti da un punto all’altro della riva. I loro corpi emettevano odori acri che, mescolandosi ai fumi del lago, gli toglievano il fiato e lo intontivano. Udì molti di loro dirgli: — Sì, sì, danza con noi!

E Gundersen danzò.

Trovò uno spazio libero di terreno paludoso e ne prese possesso, muovendosi avanti e indietro, percorrendo e ripercorrendo nel suo fervore il piccolo tratto di terra. Nessun nildor lo intralciò. La testa gettata all’indietro, gli occhi rotati, le braccia penzoloni, si dondolava e ondeggiava; i piedi lo trasportavano senza stancarsi. Aspirava avidamente l’aria spessa. Gridava parole strane. Aveva la pelle in fiamme; si strappò i vestiti, ma non fece alcuna differenza. Boom boom boom boom. Ancora gli rimaneva un brandello della sua vecchia obiettività, quel tanto sufficiente per meravigliarsi dello spettacolo di se stesso che danzava nudo in mezzo a un branco di alieni animali giganti. In un parossismo di passione avrebbero invaso il suo tratto di terra, schiacciandolo in mezzo al fango? Senza dubbio era pericoloso starsene lì in mezzo alla mandria. Ma rimase. Boom boom boom boom, e ancora, e ancora, e ancora. Mentre si girava, guardò in direzione del lago, e alla luce riflessa delle lune vide i malidaror che brucavano placidamente le alghe, incuranti della danza frenetica. Sono privi di g’rakh, pensò. Sono animali, e quando muoiono i loro spiriti pesanti cadono nella terra. Boom. Boom. BOOM. Boom.

Si rese conto che delle forme lucide si muovevano sul terreno, scivolando cauti fra le file di nildor danzanti. I serpenti! La musica dei piedi scalpitanti li aveva richiamati dalla densa macchia dove vivevano.

I nildor sembravano del tutto indifferenti a quei vermi mortali che si muovevano fra di loro. Un solo colpo dei due aculei avrebbe abbattuto anche un possente nildor; ma nessuno se ne preoccupava. I serpenti sembravano benvenuti. Scivolarono verso Gundersen, che sapeva di non correre alcun pericolo per il loro veleno, ma che non desiderava provarlo un’altra volta. Non interruppe la sua danza, mentre cinque delle creature rosa gli strisciavano a fianco. Non lo toccarono.

I serpenti passarono, sparirono. E il frastuono continuava. E il terreno ancora tremava. Il cuore di Gundersen batteva all’impazzata, ma non si fermò. Si abbandonò completamente, confondendosi con i nildor intorno a lui, condividendo con tutta l’intensità di cui era capace l’esperienza.

Le lune tramontarono. Le prime luci dell’alba striarono il cielo.

Gundersen si accorse che non sentiva più il rumore delle zampe che calpestavano il terreno. Stava danzando da solo. Intorno a lui, i nildor si erano accovacciati, e si sentivano di nuovo le loro voci intonare la strana, incomprensibile litania. Parlavano a voce bassa, ma con grande passione. Non riusciva più a seguire lo schema delle parole; tutto si mescolava in un rombo echeggiante di toni, senza definizione e senza forma. Incapace di fermarsi, saltava e roteava nella sua ossessiva danza, fino al momento in cui sentì i primi raggi caldi del sole.

Allora cadde a terra esausto, e giacque immobile, e scivolò subito nel sonno.

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