Quando si svegliò, era mezzogiorno passato. La vita normale dell’accampamento era ricominciata; molti nildor erano nel lago, alcuni brucavano la vegetazione in cima al pendio, ma la maggior parte riposava all’ombra. L’unico segno della frenesia della notte precedente era visibile sul terreno spugnoso vicino alla riva del lago, che era terribilmente calpestato e schiacciato.
Gundersen si sentiva le membra irrigidite e insensibili. Inoltre era imbarazzato, con la vergogna di uno che si sia gettato con troppo zelo nel divertimento di qualcun altro. Riusciva a stento a credere di aver fatto quello che sapeva di aver fatto. Nella sua vergogna, sentì l’impulso di andarsene subito dall’accampamento, prima che i nildor potessero mostrargli il loro disprezzo per un terrestre che era stato capace di diventare schiavo della loro festa, di lasciarsi incantare dai loro riti. Ma ricacciò il pensiero, ricordando a se stesso che aveva uno scopo nel venire lì.
Raggiunse zoppicando il lago ed entrò nell’acqua fino al petto. Rimase un po’ immerso, pulendosi del sudore della notte precedente. Uscendo, trovò i suoi vestiti e li indossò.
Un nildor venne da lui e disse: — Vol’himyor ti vuole parlare, adesso.
Il molte-volte-nato era a metà del pendio. Giungendo di fronte a lui, Gundersen non riuscì a trovare le parole di nessuna formula di saluto, e si limitò a guardare il vecchio nildor, finché Vol’himyor disse: — Danzi bene, amico nato una sola volta. Danzi con gioia. Danzi con amore. Danzi come un nildor, lo sai?
— Non è facile per me capire cosa mi sia successo ieri notte — disse Gundersen.
— Ci hai dato la prova che il nostro mondo ha catturato il tuo spirito.
— Vi ha offeso che un terrestre abbia danzato con voi?
— Se ci avesse offeso — disse lentamente Vol’himyor — non avresti danzato con noi. — Ci fu un lungo silenzio. Poi il nildor disse: — Faremo un patto, noi due. Ti darò il permesso di andare nel paese delle nebbie. Restaci finché non sarai pronto a tornare. Ma quando torni, porta con te il terrestre di nome Cullen, e consegnalo all’accampamento più settentrionale dei nildor, il primo che incontrerai della mia gente. Siamo d’accordo?
— Cullen? — chiese Gundersen. Nella sua mente apparve l’immagine di un uomo piccolo, dalla faccia larga con bei capelli biondi e occhi verdi. — Cedric Cullen, che era qui ai miei tempi?
— Lui.
— Ha lavorato con me quando ero alla stazione del Mare di Polvere.
— Adesso vive nel paese delle nebbie — disse Vol’himyor — e c’è andato senza permesso. Lo vogliamo.
— Cosa ha fatto?
— È colpevole di un grave crimine. Ha trovato rifugio fra i sulidoror, dove non possiamo raggiungerlo. Sarebbe una violazione del nostro patto con loro se prendessimo noi stessi quell’uomo. Ma possiamo chiederti di farlo per noi.
Gundersen aggrottò la fronte. — Non vuoi dirmi la natura di questo crimine?
— Ha importanza? Lo vogliamo. Le nostre ragioni non sono banali. Ti chiediamo di portarcelo.
— Chiedi a un terrestre di catturarne un altro perché sia punito — disse Gundersen. — Come faccio a sapere dov’è la giustizia in questa faccenda?
— Secondo il trattato di indipendenza, siamo noi gli arbitri della giustizia su questo mondo — disse il nildor.
Gundersen ammise che era così.
— Quindi abbiamo il diritto di trattare Cullen come merita — disse Vol’himyor.
Questo, naturalmente, non rendeva accettabile per Gundersen agire da strumento per consegnare il suo vecchio compagno ai nildor. Ma la minaccia implicita di Vol’himyor era chiara: fai come ti chiediamo, o niente favori.
Gundersen disse: — Che punizione riceverà Cullen se cadrà nelle vostre mani?
— Punizione? Punizione? Chi ha parlato di punizione?
— Se quell’uomo è un criminale…
— Desideriamo purificarlo — disse il molte-volte-nato. — Desideriamo liberare il suo spirito. Non consideriamo questa una punizione.
— Gli farete fisicamente del male, in qualsiasi maniera?
— Non è da pensarsi.
— Porrete termine alla sua vita?
— Parli sul serio? Naturalmente no.
— Lo imprigionerete?
— Lo terremo sotto custodia — disse Vol’himyor — il tempo necessario per il rito di purificazione. Non credo che ci vorrà molto. Sarà libero in breve tempo, e ci sarà grato.
— Ti chiedo ancora una volta di dirmi la natura del suo crimine.
— Te lo dirà lui stesso — disse il nildor. — Non è necessario che io faccia la sua confessione per lui.
Gundersen considerò tutti gli aspetti della questione. Dopo una breve pausa disse: — Accetto il patto, molte-volte-nato, ma solo se posso aggiungere tre clausole.
— Sentiamo.
— Se Cullen non mi dirà la natura del suo crimine, io sarò libero dal mio obbligo.
— D’accordo.
— Se i sulidoror faranno obiezioni a che io porti Cullen fuori dalla zona delle nebbie, sarò libero anche in questo caso.
— Non faranno obiezioni. Ma d’accordo.
— Se Cullen dovrà essere convinto con la violenza a venire con me, sarò libero.
Il nildor esitò un momento. — D’accordo — disse alla fine.
— Non ho altre condizioni da aggiungere.
— Allora il nostro patto è concluso — disse Vol’himyor. — Puoi cominciare il viaggio oggi stesso. Cinque dei nostri nati-una-volta devono raggiungere la zona delle nebbie, poiché è giunto il tempo della loro rinascita, e se lo desideri ti accompagneranno e ti scorteranno lungo la strada. Fra di loro c’è Srin’gahar, che già conosci.
— Sarò di ostacolo al loro viaggio?
— Srin’gahar, in particolare, ha richiesto il privilegio di farti da guardiano — disse Vol’himyor. — Ma non ti costringiamo ad accettare il suo aiuto, se preferisci viaggiare da solo.
— Sarà per me un onore godere della sua compagnia — disse Gundersen.
— Così sia, dunque.
Un nildor anziano convocò Srin’gahar e gli altri quattro che avrebbero partecipato alla rinascita. Gundersen fu grato di questa conferma dei dati a lui noti: la danza frenetica dei nildor precedeva la partenza di un gruppo per la rinascita.
Gli faceva anche piacere sapere che avrebbe avuto una scorta nildor nel viaggio verso nord. C’era soltanto un aspetto oscuro nel patto: quello che coinvolgeva Cedric Cullen. Avrebbe preferito non barattare la libertà di un altro terrestre con il suo salvacondotto. Ma forse Cullen aveva fatto qualcosa di veramente spregevole, qualcosa che meritava la punizione… o la purificazione, come diceva Vol’himyor. Gundersen non capiva come quell’uomo, normalmente allegro, potesse essere diventato un criminale e un fuggiasco, ma Cullen aveva vissuto su quel mondo molto tempo, e l’alienità dei mondi non-terrestri alla fine corrodeva anche l’anima più solare. In ogni modo, Gundersen riteneva di essersi aperto abbastanza onorevoli vie d’uscita, se voleva sfuggire al suo patto con Vol’himyor.
Srin’gahar e Gundersen si appartarono per fare i piani del viaggio. — Dove desideri andare, nella zona delle nebbie? — chiese il nildor.
— Non ha importanza. Voglio solo entrarci. Suppongo che dovrò andare dove è Cullen.
— Sì. Ma noi non sappiamo esattamente dove si trovi, perciò dovremo aspettare di essere arrivati per scoprirlo. Ci sono dei luoghi particolari che vuoi visitare, lungo il viaggio?
— Vorrei fermarmi alle stazioni terrestri — disse Gundersen. — In particolare alle Cascate di Shangri-la. Perciò la mia idea era di seguire il Fiume di Madden in direzione nord-ovest, e…
— Questi nomi mi sono sconosciuti.
— Scusa. Immagino che adesso si chiamino con i nomi nildor. E io non li conosco. Ma aspetta… — Prendendo un bastone, Gundersen disegnò sul fango una mappa approssimativa ma sufficiente dell’emisfero occidentale di Belzagor. Attraverso la circonferenza del disco tracciò una spessa striscia per indicare i tropici. Sul lato destro incise un solco ricurvo per indicare l’oceano; a sinistra tratteggiò il Mare di Polvere. Sopra e sotto la striscia dei tropici tracciò le linee più sottili che rappresentavano la zona delle nebbie settentrionale e meridionale, e oltre queste le gigantesche calotte ghiacciate. Segnò lo spazioporto e l’hotel lungo la costa con una X, e incise una linea ondulata che partiva da lì e attraversava i tropici, fino al paese delle nebbie, per indicare il Fiume di Madden. A metà del fiume mise un punto per indicare le Cascate di Shangri-la. — Adesso — disse Gundersen — se segui la punta del bastone…
— Cosa sono questi segni sul fango? — chiese Srin’gahar.
Una mappa del tuo pianeta, avrebbe voluto dire Gundersen. Ma non conosceva alcuna parola nildororu che corrispondesse a “mappa”. Scoprì che gli mancavano anche parole per “immagine” e “dipinto”, e concetti simili. Disse debolmente: — Questo è il vostro mondo. Questo è Belzagor, o almeno metà di esso. Vedi, questo è l’oceano, e il sole si leva da questa parte, e…
— Com’è possibile che questo sia il mio mondo, questi segni, mentre il mio mondo è così grande?
— Questo è come il tuo mondo. Ciascuna di queste linee sta per un luogo del tuo mondo. Vedi, questo è il grande fiume che esce dal paese delle nebbie e scende fino alla costa, dove c’è l’hotel, capito? E questo segno è lo spazioporto. Queste due linee sono i confini superiore e inferiore della zona delle nebbie. Le…
— Un sulidor robusto impiega molti giorni per attraversare il paese delle nebbie — disse Srin’gahar. — Non capisco come tu possa indicarmi un posto tanto piccolo e dire che è il paese delle nebbie. Perdonami, amico del mio viaggio. Sono molto stupido.
Gundersen fece un altro tentativo, cercando di fargli comprendere la natura dei segni sul terreno. Ma Srin’gahar semplicemente non riusciva a comprendere l’idea di una mappa, non riusciva a capire come delle linee segnate sul fango potessero rappresentare un luogo. Gundersen pensò di chiedere a Vol’himyor di aiutarlo, ma scartò l’idea rendendosi conto che anche Vol’himyor probabihnente non avrebbe capito; sarebbe stata una mancanza di tatto svelare l’ignoranza del molte-volte-nato in un campo qualsiasi. Una mappa era la metafora di un luogo, un’astrazione dalla realtà. Evidentemente anche esseri dotati di g’rakh potevano essere incapaci di comprendere simili astrazioni.
Si scusò con Srin’gahar per la propria incapacità di esprimere chiaramente i concetti, e cancellò la mappa con lo stivale. Senza di essa, la preparazione del viaggio risultò un po’ più difficile, ma trovarono dei sistemi per comunicare. Gundersen apprese che il grande fiume alla cui foce era situato l’albergo si chiamava Seran’nee in nildororu, e che il luogo dove il fiume scendeva dalle montagne nella pianura costiera, e che i terrestri chiamavano Cascate di Shangri-la, era Du’jayukh per i nildor. A questo punto, fu facile mettersi d’accordo per seguire il Seran’nee fino alle sorgenti, con una fermata a Du’jayukh e a qualsiasi altro insediamento terrestre che potesse trovarsi lungo il cammino.
Mentre tutto questo veniva deciso, parecchi sulidoror portarono a Gundersen un pranzo consistente in frutta e pesci del lago, proprio come se riconoscessero l’autorità che aveva avuto sotto la Compagnia. Era un gesto curiosamente anacronistico, quasi servile, completamente diverso da quello con cui gli avevano gettato un pezzo di carne di malidar cruda, il giorno prima. L’avevano messo alla prova, perfino schernito; adesso lo servivano. La cosa lo metteva a disagio, ma aveva anche molta fame, e si fece un punto d’onore a chiedere a Srin’gahar l’espressione sulidoror per dire “grazie”. Ma non ci fu segno alcuno che i grossi bipedi fossero compiaciuti, o lusingati o divertiti dal suo uso della loro lingua.
Iniziarono il loro viaggio nel tardo pomeriggio. I cinque nildor si muovevano in fila indiana, Srin’gahar per ultimo con Gundersen in groppa; il terrestre non sembrava costituire un peso per lui. Il sentiero conduceva esattamente verso nord, lungo il bordo della grande fenditura, con le montagne, che facevano da guardia all’altopiano centrale, che si innalzavano alla loro sinistra. Alla luce del sole calante, Gundersen guardò l’altopiano. Nella valle, l’ambiente conservava una certa familiarità; fatte le necessarie concessioni per le piante e gli animali indigeni, avrebbe quasi potuto essere una qualche giungla del Sud America. Ma l’altopiano appariva completamente alieno. Gundersen osservò i fitti ammassi di rosso muschio spinoso che ricoprivano e quasi soffocavano gli alberi lungo la cima della fenditura. La maniera in cui la flora parassitaria annegava gli alberi-ospiti gli sembrava sinistra. La parete stessa, di una roccia grigioverde, simile a sapone, punteggiata da macchie di licheni cremisi e striato ogni poche centinaia di metri da lunghe strisce di gonfi funghi blu, gridava la sua alienità: la morbida roccia non aveva mai sentito l’impatto della pioggia, ma era stata dolcemente plasmata dalla sola umidità, acquisendo nel corso dei millenni bizzarre sporgenze e incavi. In nessun luogo della Terra si poteva vedere una parete di roccia come quella, serpentina, intricata, untuosa.
La foresta al di là della parete sembrava impenetrabile e vagamente sinistra. Il silenzio, l’aria pesante e stagnante, il senso di una oscura alienità, i rami flessibili degli alberi piegati fin quasi a terra dal peso del muschio, l’occasionale grugnito lontano di qualche gigantesco animale, facevano apparire l’altopiano centrale minaccioso e inaccessibile. Pochi terrestri vi erano mai entrati, e non era mai stato esplorato nei dettagli. La Compagnia un tempo aveva fatto dei piani per eliminare larghi tratti di giungla e impiantare insediamenti agricoli, ma poi a causa della cessione non si era fatto più nulla. Gundersen era stato una volta sola sull’altopiano, per caso, quando il suo pilota aveva dovuto fare un atterraggio di fortuna durante un volo dal quartier generale al Mare di Polvere. Seena era stata con lui. Avevano trascorso un giorno e una notte nella foresta: Seena terrorizzata dal momento dell’atterraggio, Gundersen che la confortava in maniera mascolina, ma scoprendo che il suo terrore era contagioso. La ragazza tremava, mentre un incontro alieno dopo l’altro si presentava, e ben presto Gundersen fu anch’egli sul punto di tremare. Guardarono affascinati e disgustati un’armata di insetti innumerevoli, con iridescenti corpi esagonali e lunghe zampe pelose, marciare con maniacale determinazione dentro una macchia di muschio-tigre; per ore le feroci bocche delle piante carnivore fecero a pezzi gli insetti scintillanti, divorandoli, ma l’orda non smise di avanzare verso la distruzione. Alla fine il muschio fu così gonfio di cibo che entrò in sporulazione, lanciando in aria nubi lattee di particelle riproduttive. Il mattino dopo, l’intero campo di muschio era sgonfio e impotente, e piccoli rettili verdi con larghe lingue ruvide si misero all’opera, divorandone ogni stelo, denudando il terreno per una nuova generazione di piante. Poi c’erano le cose simili a piume gelatinose, a strisce blu e rosse, che pendevano in festoni rigonfi dagli alberi più alti, intrappolando incaute creature volanti. E massicce bestie dalla pelle ruvida, simili a rinoceronti, con corna blu labirintiche e intersecate, che scavavano la terra in cerca di radici a una dozzina di metri dal loro campo, e scrutavano cupamente gli intrusi della Terra. Ed erbivori dai lunghi colli con occhi come fari che si nutrivano delle foglie più alte, schizzando litri di urina color porpora da un’apertura alla base della gola. Ed esseri scuri, grassi, simili a lontre, che correvano squittendo accanto ai terrestri, rubando qualsiasi cosa con movimenti velocissimi. Altri animali fecero loro visita. Quel pianeta, che non aveva mai conosciuto la mano dei cacciatori, abbondava di grossi mammiferi. Lui, Seena e il pilota videro più spettacoli grotteschi in un giorno e una notte di quanto avessero mai immaginato quando avevano firmato per un impiego extraterrestre.
— Sei mai stato qui? — chiese Gundersen a Srin’gahar, mentre la notte cominciava a cancellare la parete di roccia.
— Mai. La mia gente raramente entra in questa terra.
— Qualche volta, volando basso sull’altopiano, ho visto degli accampamenti nildor. Non spesso, ma qualche volta. Vuoi dire che la tua gente non ci va più?
— No — disse Srin’gahar. — Alcuni di noi hanno la necessità di andare sull’altopiano, ma la maggior parte no. Qualche volta l’anima diventa stantia, e uno deve cambiare ambiente. Se uno non è pronto per la rinascita, va sull’altopiano. È più facile affrontare la propria anima laggiù, ed esaminarla per trovare i difetti. Capisci quello che dico?
— Credo di sì — disse Gundersen. — È come un luogo di pellegrinaggio… un luogo di purificazione.
— In un certo senso.
— Ma perché i nildor non si sono mai stanziati permanentemente lassù? C’è un sacco di cibo… il clima è caldo…
— Non è un luogo dove regni il g’rakh - rispose il nildor.
— È pericoloso per i nildor? Animali selvaggi, piante velenose, cose del genere?
— No, non direi questo. Non abbiamo paura dell’altopiano, e non c’è alcun luogo su questo mondo che sia pericoloso per noi. Ma l’altopiano non ci interessa, a parte quelli che hanno quel bisogno speciale che ti ho detto. Come ho detto, il g’rakh vi è estraneo. Perché dovremmo andare là? C’è posto abbastanza per noi nelle terre basse.
L’altopiano è troppo alieno perfino per loro, pensò Gundersen. Preferiscono una piccola giungla tranquilla. Curioso!
Quella notte si accamparono accanto a un torrente di acque calde. Evidentemente l’acqua usciva da uno dei calderoni sotterranei che erano comuni in quella zona del continente. Srin’gahar disse che la sorgente si trovava non molto a nord. Nuvole di vapore si innalzavano dalla rapida corrente; l’acqua, rosa a causa dei microorganismi d’alta temperatura, ribolliva. Gundersen si chiese se Srin’gahar aveva scelto quel posto appositamente per lui, dal momento che i nildor non usavano acqua calda, mentre i terrestri notoriamente sì.
Si lavò la faccia, con straordinario piacere, e fece seguire una cena a base di capsule di cibo, frutta fresca e stufato di radici di moraverde… deliziose bollite, velenose altrimenti. Come rifugio per la notte, Gundersen usò una coperta da giungla monomolecolare, che si era portato con sé nello zaino, l’unico bagaglio che avesse in quel viaggio. Sistemò la coperta su tre rami incrociati, per tenere lontane le mosche notturne e altri insetti fastidiosi, e strisciò sotto di essa. Il terreno, coperto da uno spesso tappeto di erba, era un materasso eccellente per lui.
I nildor non sembravano in vena di conversazione. Lo lasciarono solo. Tutti tranne Srin’gahar si spostarono di parecchi metri a monte, per trascorrere la notte. Srin’gahar si sistemò a poca distanza da Gundersen, come per proteggerlo, e gli augurò buona notte.
Gundersen disse: — Ti va di parlare un po’? Vorrei conoscere qualcosa circa il processo della rinascita. Come fate a sapere, per esempio, che il vostro momento è arrivato? È qualcosa che sentite dentro di voi, o è solo questione di raggiungere una certa età? Siete… — Si rese conto che Srin’gahar non gli stava prestando attenzione. Il nildor era caduto in una specie di profonda trance, e giaceva perfettamente immobile.
Con un’alzata di spalle, Gundersen si voltò e attese il sonno, ma il sonno ci mise parecchio ad arrivare.
Pensò a lungo ai termini del patto sotto cui gli era stato permesso di compiere il suo viaggio. Forse un altro molte-volte-nato gli avrebbe permesso di recarsi nella zona delle nebbie senza dover riportare indietro Cedric Cullen; o forse non gli sarebbe stato concesso alcun salvacondotto. Gundersen aveva il sospetto che il risultato sarebbe stato il medesimo, in qualsiasi accampamento nildor fosse capitato a chiedere il permesso. Anche se i nildor non possedevano alcun sistema di comunicazione a distanza, nessuna struttura governativa in senso terrestre, nessuna unità razziale superiore a quella di una popolazione di animali della giungla, tuttavia erano straordinariamente capaci di mantenersi in contatto fra di loro e di agire di comune accordo.
Cosa aveva fatto Cullen, si chiese Gundersen, perché lo volessero tanto?
Ai vecchi tempi, Cullen gli era sembrato del tutto normale: un uomo allegro e rubicondo che collezionava insetti, non diceva mai parole aspre e reggeva bene l’alcool. Quando Gundersen era agente capo alla Punta di Fuoco, nel Mare di Polvere, Cullen era stato suo assistente. Per mesi di fila, c’erano solo loro due alla stazione, e Gundersen era arrivato a conoscerlo piuttosto bene, immaginava. Cullen non aveva alcun piano per fare carriera nella Compagnia; diceva di aver firmato un contratto di sei anni, e di non avere alcuna intenzione di rinnovarlo; avrebbe preso un incarico universitario, una volta finito il lavoro sul Mondo di Holman. Era lì solo per stagionare, e per il prestigio che viene da un servizio su un mondo extraterrestre. Poi la situazione politica sulla Terra si era complicata, e la Compagnia era stata costretta ad abbandonare moltissimi pianeti che aveva colonizzato. Gundersen, come la maggior parte dei quindicimila dipendenti della Compagnia, aveva accettato il trasferimento a un altro incarico. Cullen, con grande stupore di Gundersen, era stato fra i pochi che avevano scelto di rimanere, anche se questo aveva significato tagliare i legami con il loro mondo natale. Gundersen non gli aveva chiesto il perché; non si discuteva di certe cose. Ma gli era sembrato singolare.
Vedeva chiaramente Cullen nella sua mente: a caccia di insetti nel Mare di Polvere, la bottiglia che gli penzolava dalla cintura mentre correva da un affioramento roccioso all’altro… un ragazzo troppo cresciuto, in realtà. La bellezza del Mare di Polvere gli era del tutto estranea. Nessun settore del pianeta era più alieno di quello, né più spettacolare: un letto oceanico prosciugato, più grande dell’Atlantico, ricoperto da uno spesso strato di finissimi cristalli minerali, brillanti come specchi quando il sole li colpiva. Dalla stazione di Punta di Fuoco si poteva vedere la luce del mattino avanzare come un fiume di fuoco che straripasse, finché l’intero deserto era in fiamme. I cristalli assorbivano energia tutto il giorno e la rilasciavano la notte, cosicché già al tramonto una bizzarra luminescenza si alzava dal letto oceanico, e dopo il tramonto del sole un bagliore rossastro, pulsante, perdurava per ore. In questo deserto quasi senza vita, ma di meravigliosa bellezza, la Compagnia aveva trovato una dozzina di metalli rari e una trentina di pietre preziose e semipreziose. Le macchine estrattive partivano dalla stazione e giravano in lungo e in largo, macinando bellezza e tornando con tesori; non c’era molto da fare lì per un agente, tranne che tenere l’inventario della crescente ricchezza e fare da anfitrione ai turisti che venivano a vedere la bellezza del luogo. Gundersen si era annoiato terribilmente, e anche lo splendore del paesaggio alla fine lo aveva stancato, ma Cullen, per cui il deserto incandescente era soltanto un appariscente fastidio, si divertiva con il suo hobby, e riempiva bottiglia dopo bottiglia di insetti. Chissà se le macchine estrattive erano ancora nel Mare di Polvere, si chiese Gundersen, in attesa di un comando per riprendere le operazioni? Se la Compagnia non le aveva portate via dopo l’indipendenza, sarebbero senza dubbio rimaste lì per tutta l’eternità, senza arrugginire, inutili, fra i tremendi solchi che avevano scavato. Le macchine avevano spazzato via il manto cristallino fino a scoprire il basalto sottostante, poi avevano sputato fuori grandi cumuli di residui e detriti, mentre trituravano sabbia alla ricerca di ricchezza. Probabilmente la Compagnia le aveva lasciate, come monumento al commercio. Le macchine costavano poco, i trasporti interstellari molto; perché portarsele via? “Fra mille anni,” aveva detto una volta Gundersen “il Mare di Polvere sarà interamente distrutto, e non ci saranno altro che detriti al suo posto, se le macchine continuano a macinare roccia a questa velocità.” Cullen aveva alzato le spalle, sorridendo. “Be’, così non ci sarà più bisogno di questi occhiali scuri, senza quella luce infernale” aveva detto. “Eh?” E adesso la rapina del deserto era finita e le macchine erano ferme; e adesso Cullen era un fuggiasco nel paese delle nebbie, ricercato per un crimine così terribile che i nildor non volevano neppure dargli un nome.