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Durante i giorni precedenti l’Esodo, Dirk trascorse poco tempo a Southbank. Era impossibile lavorare lì: quelli che stavano per partire per l’Australia erano troppo affaccendati a fare i bagagli e a riordinare i loro affari, mentre quelli che non sarebbero andati erano di un umore poco incline alla collaborazione. L’irrefrenabile Matthews era stato uno dei sacrificati: McAndrews lo avrebbe lasciato al comando. Una soluzione molto ragionevole, però i due uomini non si parlavano più. Dirk era molto contento di tenersi fuori dalla loro strada, soprattutto perché si erano un po’ irritati per la sua diserzione a favore degli scienziati.

Vedeva ugualmente poco Maxton e Collins, dato e il Dipartimento Tecnico era in uno stato di trambusto organizzato. Evidentemente era stato deciso che in Australia si sarebbe potuto aver bisogno di «tutto». Solo Sir Robert Derwent sembrava perfettamente soddisfatto in mezzo al disordine e Dirk rimase stupefatto quando un mattino fu convocato nel suo ufficio. Questo accadde in uno dei pochi giorni in cui si recava al Quartier Generale.

Era il suo primo vero incontro con il Direttore Generale, dalla breve presenzione avvenuta il giorno del suo arrivo.

Entrò un po’ timidamente, pensando a tutte le voci che aveva sentito su Sir Robert. Il D.G. probabilmente notò e capì la sua diffidenza, perché i suoi occhi rivelarono un luccichio divertito mentre gli stringeva la mano e gli indicava la poltrona su cui sedersi.

La stanza non era più grande dei molti altri uffici che Dirk aveva visto a Southbank, ma, essendo collocata su uno spigolo dell’edificio, offriva una vista impareggiabile. Si poteva vedere tutto il lungofiume da Charing Cross al London Bridge.

Sir Robert non perse tempo e andò subito al dunque.

«Il professor Maxton mi ha detto del vostro incarico» iniziò.

«Suppongo che ci abbiate messi tutti nella vostra boccia di vetro a dibatterci in attesa di essere infilzati affinché i posteri possano esaminarci, vero?»

«Spero, Sir Robert» rispose Dirk sorridendo «che il risultato finale non sia altrettanto statico. Non sono qui per registrare primariamente i fatti, bensì le influenze e i motivi.»

Il Direttore Generale picchiettò pensosamente le dita sulla scrivania, poi, con voce pacata, osservò:

«E quali motivi, secondo voi, sottenderebbero il nostro lavoro?»

La domanda, posta in modo così diretto, lo colse alla sprovvista.

«Sono molto complessi» cominciò in tono difensivo.

«Momentaneamente direi che rientrano in due classi: una materiale e una spirituale.»

«Mi riesce piuttosto difficile» ribatté il D.G. con voce mite «immaginare una terza categoria.»

Dirk fece un sorriso un po imbarazzato.

«Forse sono un po’ troppo generico. Quello che intendo dire è questo: i primi uomini che portarono seriamente avanti l’idea del viaggio interplanetario erano visionari innamorati di un sogno. ll fatto che fossero anche dei tecnici non conta: erano essenzialmente artisti che usavano la loro scienza per creare qualcosa di nuovo. Se il volo spaziale non avesse avuto nessun concepibile uso pratico, essi avrebbero continuato a desiderarlo egualmente.

«La loro era una motivazione spirituale, come l’ho definita io.

Forse «intellettuale» è un termine più confacente. Non si può analizzarlo in modo più approfondito, perché rappresenta un basilare impulso umano: quello della curiosità. Dal punto di vista materiale, voi ora vedete grandi nuove industrie e processi ingegneristici, e il desiderio che hanno le miliardarie società di comunicazione di sostituire le miriadi di trasmettitori terrestri con due o tre stazioni nello spazio.

Questo è l’aspetto Wall Street del quadro, che, naturalmente, è sopravvenuto molto tempo dopo.»

«E, secondo voi» lo incalzò inesorabile Sir Robert «quale predomina?»

Ora Dirk cominciava a sentirsi del tutto a proprio agio.

«Prima che arrivassi a Southbank» disse «pensavo all’Interplanetary — quando ci pensavo — come a un gruppo di tecnici a caccia di dividendi scientifici. Questo è ciò che fingevate di essere, e avete ingannato moltissima gente. La descrizione può adattarsi a qualcuno dei membri dei gradi intermedi della vostra organizzazione, ma non è vera per i vertici.»

Dirk tirò indietro la corda del suo arco e mirò a un invisibile bersaglio fuori nell’oscurità.

««Penso che l’Interplanetary sia gestita — e lo sia sempre stata — da visionari, poeti, se preferite, che per caso sono anche scienziati. A volte il camuffamento non riesce molto bene.»«Seguì un silenzio. Di lì a un po’ Sir Robert, con voce piuttosto sommessa, sebbene con l’accenno di una risatina, disse:

«E’ un’accusa che ci è già stata fatta. Noi non lo abbiamo mai negato, questo. Qualcuno una volta ha detto che tutta l’attività umana è una forma di gioco. Non ci vergogniamo di voler giocare con le navi spaziali.»

«E mentre giocate» disse Dirk «cambierete il mondo e magari anche l’Universo.»

Ora vedeva Sir Robert in un altro modo. Non vedeva più quella testa decisa da mastino, con l’ampia fronte, perché all’improvviso si era ricordato della descrizione che Newton aveva dato di sé, come di un bambinetto che raccoglieva sassolini dai vivaci colori sulla spiaggia dell’oceano della conoscenza.

Sir Robert Derwent, come tutti i grandi scienziati, era quel bambino. Dirk pensava che, in ultima analisi, lui avrebbe attraversato lo spazio per nessun’altra ragione se non per quella di guardare dai luccicanti picchi lunari la Terra passare dalla notte al giorno, o per vedere gli anelli di Saturno in tutta la loro inimmaginabile gloria, colmare il cielo della sua luna più vicina.

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