19

Maude Hassell non aveva avuto bisogno di spiegazioni elaborate quando il marito aveva detto, piuttosto bruscamente, che sarebbe andato «a far due passi nel parco». Aveva capito perfettamente e si era limitata a esprimere la speranza che nessuno lo riconoscesse e che sarebbe tornato in tempo per il tè. Entrambi i desideri erano destinati a non essere soddisfatti, cosa di cui lei era stata abbastanza sicura.

Victor Hassell viveva a Londra da quasi metà della propria vita, ma le sue prime impressioni della città erano ancora nitidissime, e avevano il primo posto tra i suoi affetti.

Giovane studente di ingegneria, aveva abitato nella zona di Paddington, recandosi tutti i giorni al college attraverso Hyde Park e Kensington Gardens. Quando pensava a Londra non vedeva strade affollate ed edifici famosi nel mondo, ma tranquilli viali alberati e campi aperti, e le distese di sabbia di Rotten Row, lungo le quali la domenica mattina persone a cavallo avrebbero continuato a fare le loro belle passeggiate anche quando le prime navi spaziali dell’umanità si fossero dirette a casa di ritorno dalle stelle. E non aveva bisogno di rammentare a Maude il loro primo incontro vicino al Serpentine, solo due anni prima, ma già un’eternità. Ora doveva accomiatarsi da tutti quei luoghi.

Passò un po’ di tempo in South Kensington, passando davanti a vecchi colleges che tanta parte erano dei suoi ricordi. Non era cambiato nulla lì: gli studenti con le loro cartelle, con il loro regolo e le loro squadre a T erano esattamente gli stessi.

Era curioso pensare che quasi un secolo prima il giovane H.G.

Wells aveva fatto parte di quella folla viva e irrequieta.

Agendo d’impulso, entrò nello Science Museum e raggiunse, come tante volte aveva fatto in passato, la copia del biplano dei Wright. Trent’anni prima l’originale era appeso nella grande galleria, ma da molto tempo era tornato negli Stati Uniti, e pochi ora ricordavano la prolungata battaglia condotta da Orville Wright contro lo Smithsonian Institute, che era stato la causa del suo esilio.

C’erano settantacinque anni, una lunga vita, non di più — tra la fragile intelaiatura di legno che si era levata di pochi metri dal suolo a Kitty Hawk e il grande proiettile che forse di lì a poco lo avrebbe portato sulla Luna. E non dubitava che in un’altra vita la «Prometheus» sarebbe apparsa tanto buffa e primitiva quanto il piccolo biplano sospeso sopra la sua testa.

Hassell uscì e raggiunse Exhibition Road sotto il sole che brillava luminoso. Sarebbe potuto restare un po’ di più al museo, ma si era accorto che diverse persone avevano cominciato a fissarlo troppo intensamente. Si disse che le sue probabilità di non essere riconosciuto erano verosimilmente più basse in quell’edificio che ovunque altrove sulla Terra.

Passeggiò lentamente per il parco, lungo i viali che conosceva così bene, soffermandosi un paio di volte ad ammirare scorci che forse non avrebbe mai più rivisto. In questa consapevolezza non c’era alcuna morbosità. Riusciva a valutare con un certo distacco la maggiore intensità che tale consapevolezza dava alle sue emozioni. Come la maggior parte degli uomini, Hassell aveva paura della morte; ma c’erano occasioni in cui essa costituiva un rischio giustificabile. Questo, quanto meno, era stato vero fino a che aveva potuto prendere in considerazione solo se stesso. Desiderava solo poter dimostrare che era ancora così. Ma finora non c’era riuscito.

Non lontano da Marble Arch c’era una panchina sulla quale Maude e lui si erano spesso seduti prima di sposarsi. Le aveva chiesto di sposarlo molte volte, e lei aveva rifiutato quasi — ma non proprio — altrettante volte. Fu contento di vedere che in quel momento era libera e vi si lasciò cadere con un sospiretto soddisfatto.

La sua soddisfazione fu di breve durata perché meno di cinque minuti dopo fu raggiunto da un anziano signore che prese posto accanto a lui con una pipa in bocca e il «Manchester Guardian»

in mano. (Il fatto che qualcuno avesse potuto desiderare di far la guardia a Manchester gli era sempre apparso come oltremodo sconcertante.) Di lì a un po’ decise di alzarsi, ma prima che potesse farlo senza apparire maleducato vi fu un’ulteriore complicazione. Due ragazzini che stavano passeggiando lungo il viale virarono all’improvviso a destra e si avvicinarono alla panchina. - Lo guardarono con aria decisa nel modo disinibito di certi ragazzini, poi il maggiore disse in tono d’accusa: Ehi signore, siete Vic Hassell?».

Hassell li osservò con espressione critica. Erano evidentemente fratelli, una coppia di bambini brutti quanto sarebbe stato difficile trovarne nell’arco di un’intera lunga giornata.

Rabbrividì leggermente nel rendersi conto di quanto fosse rischioso essere genitore.

In circostanze normali Hassell avrebbe risposto allegramente all’accusa, dato che non aveva dimenticato i suoi entusiasmi infantili. Lo avrebbe fatto anche ora se lo avessero avvicinato in modo più educato. Ma quei monelli sembravano scappati dalla scuola per giovani delinquenti del Dottor Fagin.

Li guardò fissamente e rispose con la sua voce da Mayfair 1920 circa: «Sono le tre e mezza e io non ho spiccioli».

A quell’abile «non sequitur» il più piccolo si rivolse al fratello ed esclamò accaloratamente:

«Cavoli, George… te lo aveva detto che non era lui!».

L’altro prese a strozzarlo lentamente torcendogli la cravatta e continuò a parlare come se non fosse successo nulla.

«Siete Vic Hassell, il tizio del razzo.»

«Vi sembra che somigli al signor Hassell?» chiese il signor Hassell in tono di sorpresa indignata.

«Sì.»

«E strano… nessuno me l’ha mai detto.»

Quelle parole potevano sembrare fuorvianti, ma erano letteralmente la verità. I due lo guardarono con aria pensosa: al minore ora era stato concesso il lusso di respirare.

Improvvisamente George si rivolse al «Manchester Guardian», anche se ora nella sua voce traspariva una punta di dubbio:

«Ci sta prendendo in giro, signore, vero?».

Un paio di occhiali si sollevarono al di sopra del giornale a fissarli a mo’ di gufo. Poi si posarono su Hassell che cominciò a sentirsi a disagio. Seguì un silenzio lungo e pensoso.

Poi lo sconosciuto picchiettò un dito sulla pagina del giornale e disse in tono severo:

«Qui c’è una foto del signor Hassell. Il naso è del tutto diverso. E adesso, per favore, andatevene».

La barricata del giornale fu eretta di nuovo. Hassell prese a guardare nel vuoto, ignorando i suoi inquisitori, che continuarono a fissarlo increduli ancora per un minuto. Poi, con suo grande sollievo, presero ad allontanarsi, sempre litigando.

Hassell si stava chiedendo se avrebbe dovuto ringraziare lo sconosciuto difensore allorché questi ripiegò il giornale e si tolse gli occhiali.

«Sapete» disse l’uomo dopo qualche colpetto di tosse «la somiglianza è notevolissima.»

Hassell si strinse nelle spalle. Si chiese se avrebbe dovuto confessare, ma decise di non farlo.

«A dir la verità» rispose «già altre volte questo mi ha provocato qualche noia.»

Lo sconosciuto lo guardò con espressione assorta, anche se i suoi occhi ora sembravano persi in qualcosa di vago e lontano.

«Partono per l’Australia domani, vero?» disse retoricamente.

«Suppongo che abbiano il cinquanta per cento di possibilità di tornare dalla Luna, no?»

«Secondo me molto di più.»

«E’ comunque un rischio e suppongo che in questo stesso momento il giovane Hassell si stia chiedendo se rivedrà mai più Londra.

Sarebbe interessante sapere che cosa sta facendo ora… da questo si potrebbero capire molte cose di lui.»

«Credo di sì» rispose Hassell, agitandosi nervosamente sulla panchina e chiedendosi come fare per allontanarsi. Lo sconosciuto però sembrava aver voglia di parlare.

«C’è un articolo di fondo qui» disse, agitando il giornale stazzonato «che riguarda le implicazioni del volo spaziale e gli effetti che avrà sulla vita quotidiana. Questo genere di cose vanno benissimo, ma quando ci metteremo un po’ «tranquilli», eh?»

«Non vi seguo molto bene» disse Hassell, anche se non era del tutto vero.

«A questo mondo c’è spazio per tutti, e se lo gestiremo bene non ne troveremo uno migliore, anche se ce ne andremo a zonzo per tutto l’universo.»

«Forse» ribatté Hassell in tono blando «quando lo avremo fatto apprezzeremo ancora di più la Terra.»

«Hum… e allora siamo ancora più pazzi. Quando ce ne staremo un po’ in pace?»

Hassell, che già si era sentito dire una cosa del genere, fece un sorrisetto.

«Il sogno dei Lotofagi» disse «è una piacevole fantasia per l’individuo, ma sarebbe la morte per la razza.»

Era stato Sir Robert Derwent a fare questa osservazione una volta ed essa era diventata una delle citazioni preferite di Hassell.

«I Lotofagi? Vediamo, che ha detto di loro Tennyson?… Nessuno più lo legge al giorno d’oggi. «Qui c’è una dolce musica che cade più dolce…», no, non è questo verso. Ah ecco, ci sono!

««C’è mai pace nel continuare a rimontare l’onda che monta?»

«Be’ giovanotto, «c’è» allora?»

«Per certe persone sì» gli rispose l’altro. «E forse, quando si potrà volare nello spazio, tutti si precipiteranno sui pianeti lasciando i Lotofagi ai loro sogni. Questo dovrebbe lasciare tutti soddisfatti»

«E i mansueti erediteranno la terra» commentò il suo compagno, che sembrava avere una forte inclinazione letteraria.

«Si può mettere anche così» disse Hassell sorridendo. Guardò meccanicamente l’orologio, deciso a non lasciarsi coinvolgere in una discussione che poteva avere un unico risultato.

«Santo Cielo, devo andare! Grazie per la chiacchierata.»

Si alzò per andarsene, pensando di essere riuscito a mantenere piuttosto bene l’incognito. L’uomo gli fece uno strano sorrisetto e disse con voce sommessa: «Arrivederci». Attese che Hassell fosse a cinque o sei metri di distanza, poi aggiunse in tono più forte:

«E buona fortuna — Ulisse!».

Hassell si fermò di scatto, poi girò sui tacchi… ma l’altro stava già dirigendosi con passo deciso verso Hyde Park Corner.

Seguì la figura alta e magra finché non si fu persa tra la folla, e soltanto allora si disse in tono violento:

«Be’, che mi venga un colpo!».

Poi si strinse nelle spalle e si incamminò verso Marble Arch con l’intenzione di fermarsi ad ascoltare ancora una volta gli oratori da strada che tanto l’avevano divertito in gioventù.

Dirk non ci mise molto a rendersi conto che dopo tutto la coincidenza non era tanto sorprendente. Ricordò che Hassell abitava nella zona di West London. Che c’era di più naturale che anche lui volesse dare un’ultima occhiata alla città? Poteva benissimo essere l’ultima in un senso più definitivo di quanto non lo sarebbe stata per Dirk.

I loro sguardi si incrociarono al di sopra delle persone.

Hassell ebbe un lieve sussulto nel riconoscerlo. Dirk però non pensava che si ricordasse il suo nome. Si fece strada tra la folla e si avvicinò al giovane pilota, presentandosi con un certo imbarazzo. Era probabile che Hassell desiderasse essere lasciato in pace, ma non gli riusciva di andarsene senza parlargli. Aveva sempre desiderato conoscere quell’inglese e questa gli sembrava un’occasione troppo bella per perderla.

«Avete sentito l’ultima orazione?» chiese Dirk, tanto per avviare la conversazione.

«Sì rispose Hassell. «Passavo di qui e ho sentito quello che diceva il vecchio. L’ho visto spesso, è uno degli esemplari più normali. C’è di tutto qui, vero?» e rise indicando la folla.

«Davvero» rispose Dirk. «Ma sono contento di aver visto questo posto, è stata un’esperienza interessante.» Mentre parlava osservava attentamente Hassell. Non era facile capire quanti anni avesse. Potevano essere venticinque, ma anche trentacinque.

Era di corporatura snella, aveva lineamenti ben definiti e una massa ribelle di capelli castani. La guancia sinistra era solcata in diagonale da una cicatrice che si era formata in seguito a un precedente incidente a bordo di un razzo, ma adesso era appena visibile e questo solo quando la pelle si tendeva.

«Dopo aver sentito quel discorso» dichiarò Dirk «devo dire che l’universo non sembra un posto molto attraente. Non mi stupisce che ci sia molta gente che preferirebbe restarsene a casa.»

Hassell rise.

«E’ buffo che lei dica questo: ho appena finito di parlare con un vecchio signore che mi diceva la stessa cosa. Lui sapeva chi ero io ma ha finto di non saperlo. Io sostenevo che ci sono due tipi di persone: quelle avventurose e curiose e i pantofolai ben contenti di starsene nel giardinetto di casa. Io ritengo siano entrambe necessarie, ed è sciocco pretendere che qualcuno abbia ragione.»

«Io devo essere un ibrido» ribatté sorridendo Dirk. «Mi piace stare nel mio giardinetto… ma mi piacciono anche i viaggiatori che ogni tanto vengono a trovarmi e mi dicono quello che hanno visto.»

Si interruppe bruscamente, quindi aggiunse:

«Che ne direste di sederci da qualche parte a bere qualcosa?».

Si sentiva stanco e aveva sete. E così pure Hassell.

«Ma solo per un momento» disse quest’ultimo «vorrei rientrare prima delle cinque.»

Questo, Dirk poteva capirlo, anche se non sapeva nulla delle preoccupazioni domestiche dell’altro. Si lasciò guidare da Hassell fino al bar del Cumberland, dove sedettero con piacere dietro un paio di grosse birre.

«Non so» disse Dirk, dando qualche colpetto di tosse come a scusarsi, «se sapete in cosa consiste il mio lavoro.»

«Si dà il caso di sì» rispose Hassell con un sorriso accattivante. «Ci chiedevamo quando sareste arrivato a noi. Voi siete l’esperto di motivazioni e influssi, vero?»

Dirk fu stupito, nonché un po’ imbarazzato di scoprire fino a che punto si era sparsa la sua fama.

«Ehm… sì» ammise. «Naturalmente» si affrettò ad aggiungere «non sono interessato a casi individuali, ma mi è molto utile appurare quale è stata la motivazione iniziale che ha indotto una persona a occuparsi di astronautica.»

Si chiese se Hassell avrebbe abboccato all’amo, e di lì a un minuto quello cominciò a mordicchiarlo e Dirk si sentì come un pescatore che osservi il suo galleggiante che finalmente comincia a sobbalzare sulla superficie di un placido lago.

«Di questo abbiamo discusso a lungo alla nursery» disse Hassell.

«Non è una risposta facile.»

Dirk mantenne un silenzio incoraggiante.

«Prendete Taine, per esempio. Lui è uno scienziato puro alla ricerca della conoscenza e non molto interessato alle conseguenze. Ecco perché, nonostante il suo cervellone, sarà sempre un uomo più piccolo del D.G. Badate… la mia non è una critica. Un solo Sir Robert probabilmente basta e avanza per un’unica generazione! "

«Clinton e Richards sono ingegneri e amano le macchine per se stesse, pur essendo molto più umani di Taine. Penso abbiate sentito come Jimmy tratta i giornalisti che non gli piacciono…

lo immaginavo! Clinton è un tipo strano e non si sa mai esattamente quello che gli passa per la testa. Comunque loro sono stati scelti per questo compito, non l’hanno cercato.

«Pierre invece è diversissimo da tutti gli altri. E’ il tipo che ama l’avventura in sé, per questo è diventato pilota di razzi.

E’ stato il suo grosso errore, anche se allora non lo capì. Non c’è nulla di avventuroso nel volo missilistico: o va secondo i piani… oppure bang!»

Abbassò il pugno sul tavolo, fermandosi a una frazione di centimetro prima di abbatterlo, cosicché i bicchieri non tintinnarono violentemente. La precisione inconscia di quel gesto riempì Dirk di ammirazione. Non poteva però non controbattere la sua ultima affermazione.

«Mi pare di ricordare» disse «un piccolo contrattempo che vi è capitato e che deve avervi fornito una certa dose di… ehm…

eccitazione.»

Hassell fece un sorriso, per minimizzare l’episodio.

«Questo genere di cose capitano una volta su mille. Le restanti novecentonovantanove occasioni il pilota si limita a essere lì perché pesa meno del macchinario automatico che potrebbe fare il suo stesso lavoro.»

Si interruppe guardando al di sopra della spalla di Dirk e un lento sorriso gli si dischiuse sul volto.

«La celebrità ha le sue compensazioni» mormorò. «Una delle quali si sta avvicinando a noi in questo momento.»

Un dignitario dell’albergo stava spingendo un carrello verso di loro con l’aria di un alto sacerdote che porti l’oggetto sacrificale all’altare. Si fermò accanto al tavolo e sollevò una bottiglia che, se Dirk doveva giudicare dalle ragnatele che la avvolgevano, doveva essere molto più vecchia di lui.

«Con i complimenti della direzione, signore» disse l’impiegato, facendo un inchino a Hassell, che mormorò qualche esclamazione di apprezzamento, ma notò un po’ allarmato che ora sul loro tavolo si era concentrata tutta l’attenzione.

Dirk non era affatto un intenditore di vini, ma non pensava che una maggiore esperienza in quella complicata arte avrebbe potuto fargli scendere più voluttuosamente per la gola quel liquido vellutato. Era un vino così discreto e così di qualità che non esitarono a brindare a se stessi, poi all’Interplanetary e infine alla «Prometheus». Il loro apprezzamento estasiò a tal punto la direzione che fu subito proposta loro un’altra bottiglia, che però Hassell rifiutò garbatamente, spiegando di essere già molto in ritardo, il che era assolutamente vero.

I due si salutarono di ottimo umore sugli scalini della metropolitana, consapevoli che il pomeriggio aveva raggiunto un finale brillante. Solo quando Hassell se ne fu andato, Dirk si rese conto che non gli aveva detto nulla, assolutamente nulla di sé. Modestia… o semplicemente mancanza di tempo? Era stato sorprendentemente disposto a discutere dei suoi colleghi, sembrava fosse stato quasi ansioso di allontanare da sé l’attenzione.

Dirk si soffermò un momento a pensare a questo, poi, fischiettando una canzoncina, prese a dirigersi lentamente verso l’albergo, lungo Oxford Street. Dietro di lui il sole stava calando sulla sua ultima serata in Inghilterra.

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