NOTA SULL’AUTORE

Arthur Charles Clarke nasce a Minehead in Inghilterra il 16 dicembre 1917. Dopo essere stato istruttore nei radar della Raf, si laurea in matematica e fisica iniziando subito ad interessarsi di divulgazione scientifica. Il suo primo racconto di fantascienza viene pubblicato nel 1946, ma il suo anno boom è il 1951 in cui riesce a pubblicare ben tre romanzi. La popolarità arriva con la sceneggiatura, realizzata a quattro mani con il regista Stanley Kubrick, del film «2001: Odissea nello spazio», a cui fanno seguito altri due film. La sua carriera procede sui binari paralleli della narrativa, della divulgazione scientifica, della ricerca (aeronautica, astronautica e biologia marina). E’ l’ideatore del concetto dei satelliti per telecomunicazioni (che non ha mai pensato di brevettare). Dal 1956 si è trasferito nell’isola di Sri Lanka, da dove continua a tenersi in contatto via satellite, computer e teleconferenze con editori e amici.

Prefazione al dopo-Apollo.

Il 20 luglio 1969, tutti gli innumerevoli racconti di fantascienza nei quali si era fino a quel giorno narrato del primo sbarco sulla Luna si bloccarono nel tempo, come mosche intrappolate nell’ambra. Adesso noi possiamo riconsiderarli entro una nuova prospettiva, e con interesse veramente rinnovato: perché sappiamo come le cose andarono in realtà, e siamo quindi in grado di valutare l’esattezza di quelle previsioni.

In verità — e contrariamente a quel che credono i più — la previsione non è il fine principale cui mirano gli scrittori di fantascienza. Pochi, e forse nessuno tra loro, ha mai asserito: «le cose andranno così». Essi sono per la maggior parte attenti al gioco delle invenzioni, allo sviluppo di nuove idee nel mondo delle scienze e delle scoperte. «E se…?» è il pensiero implicito in tutti gli scritti del genere. «E se l’uomo diventasse invisibile? E se riuscissimo a viaggiare nel futuro?

E se ci fosse una vita intelligente in qualche punto dell’universo?» Questi sono i granelli iniziali attorno ai quali lo scrittore modella via via la sua modesta perla. Nessuno poi sarà più sorpreso di lui, se risulterà ch’egli aveva sicuramente previsto il disegno degli eventi futuri.

Occorre tuttavia riconoscere che i racconti di viaggi nello spazio costituiscono eccezione a questa regola generale. Anche se le opere più remote, come per esempio «I viaggi sulla Luna e sul Sole» di Cyrano de Bergerac, erano frutto di pura fantasia, la maggior parte dei racconti scritti negli ultimi cent’anni si basavano quanto più possibile sull’esattezza della scienza e sulla prevedibilità dei progressi tecnologici. Chi li scriveva credeva davvero di prevedere il futuro, almeno nei suoi termini generali. E ancor più, i pionieri dell’astronautica usarono a suo tempo la fantasia nel deliberato tentativo di diffondere le loro idee nel grande pubblico. Konstantin Ziolkovskij, Hermann Oberth e Wernher von Braun hanno tutti scritto prima o poi di fantascienza spaziale. E con ciò essi non solo anticipavano il futuro, ma lo creavano.

Debbo confessare di aver avuto anch’io nella mente siffatti concetti durante la fase ideativa di questo libro. Lo scrissi nel luglio del 1947, approfittando delle mie vacanze estive come studente al King’s College di Londra. La stesura concreta richiese venti giorni esatti, un primato di cui in seguito non sono più stato capace. Tanta celerità fu in gran parte dovuta al fatto che per più d’un anno avevo badato a fissare le linee del libro, sicché esso era già organicamente delineato nella mia testa ancor prima che mettessi mano alla penna. (E «penna» è il termine appropriato: infatti il testo originale, manoscritto su un certo numero di quaderni per esercitazioni che m’eran rimasti dal tempo in cui militavo nella Royal Air Force, si trova ora presso la Boston University Library.)

Nei ventidue anni intercorsi tra la definitiva stesura di questo libro e lo sbarco effettivo sulla Luna, il nostro mondo è mutato fino a diventare quasi irriconoscibile. Le pagine che seguono possono forse servire come utile memento a segnalare il processo attraverso il quale anche l’opinione pubblica sui viaggi spaziali s’è man mano trasformata, in particolare negli Stati Uniti. Nel 1947 sembrava più che ragionevole fare di Londra la base per un Progetto Interplanetario; come dice uno dei miei personaggi inglesi: «Voi americani siete stati sempre alquanto tiepidi riguardo ai voli spaziali, e li avete presi in seria considerazione solo molti anni dopo di noi». Tale giudizio era valido ancora dieci anni dopo che avevo terminato questo libro: cioè, nell’ottobre del 1957, dopo il lancio dello «Sputnik».

Oggi è molto difficile immaginare che ancora verso la fine degli anni Cinquanta molti tecnici americani addetti proprio al «settore della missilistica» si facevan beffe di ogni idea riferita al volo spaziale. Pur con alcune importanti eccezioni, il vessillo dell’astronautica fu retto da mani europee: o ex-europee, come Willy Ley, morto, ahimè, solo pochi giorni prima che «Apollo 11» confermasse nei fatti la validità delle idee da lui sognate per oltre un quarantennio.

Le modeste cifre di denaro che io allora avevo considerate sufficienti allo sviluppo della ricerca spaziale potranno apparire oggi risibilmente patetiche. Nessuno avrebbe potuto immaginare a quel tempo che non solo milioni, bensì «miliardi»

di dollari sarebbero stati stanziati annualmente per i voli spaziali, e che lo sbarco sulla Luna avrebbe rappresentato l’obiettivo primario perseguito da entrambe le Superpotenze mondiali. Ancora negli anni Quaranta appariva decisamente improbabile che i governi interessati fossero disposti a finanziare la ricerca spaziale prima che l’iniziativa privata avesse dimostrato l’attuabilità pratica di quegli inizi sperimentali.

Personalmente, posso rivendicare al mio attivo la conferma di qualche modesta profezia da me a suo tempo avanzata: avevo previsto il primo impatto sul suolo lunare entro il 1959, e «Luna secondo» colpì un punto del Mare Imbrium alle ore 21,01 G.M.T. del 13 settembre 1959. Ero a Colombo e attraverso il mio telescopio Questar osservavo con animo pieno di speranza la Luna che tramontava nelle acque dell’Oceano Indiano: ma non riuscii a scorgere alcunché.

«Prelude to Space» fu scritto appena due anni dopo il mio testo del 1945 sui satelliti per comunicazione sincroni, e fu quindi il primo lavoro di fantasia in cui veniva considerata l’idea dei «comsats», o «communications satellites». Ho ragione di credere che essa possa in una certa misura aver influito sugli uomini che avrebbero poi trasferito nella realtà un tale sogno.

Una previsione di cui molto mi compiaccio è quella contenuta nella frase: «Oberth — ora vecchio di ottantaquattro anni — aveva avviato quella reazione a catena che, lui vivente, avrebbe dato effetto alle prime traversate spaziali». Su un’autorevole rivista degli anni Trenta, il relatore, sottoponendo a disamina le proposte di Oberth, beffardamente concludeva concedendo che sì, quelle proposte potevano forse divenir realtà «prima che l’intero genere umano si fosse estinto sulla faccia della Terra». Ebbene, io sono lieto di attestare che Hermann Oberth, quell’anno non più che settantacinquenne, assistette di presenza al lancio di «Apollo 11», avvenuto a Cape Kennedy, il 16 luglio del 1969.

Durante la stesura di questo romanzo, ebbi la grande fortuna di poter accedere ai calcoli che i miei colleghi A.V. Cleaver e L.R. Shepherd (oggi direttore, il primo, del Settore Razzi della Rolls-Royce, chief-executive, il secondo, del Progetto per il reattore nucleare ad alta temperatura, denominato «Dragon») stavano effettuando sul problema della propulsione nucleare dei razzi. Tali dati furono successivamente resi pubblici nel loro classico studio «Il razzo atomico» che apparve sul «Journal of the British Interplanetary Society» per il periodo settembre 1948 — marzo 1949 e fu antesignano in tale ordine di ricerche.

Pur se il razzo a propulsione atomica ha richiesto più tempo del previsto prima di diventare una realtà effettiva, prove a piena potenza su prototipi al suolo sono già state effettuate fin dal 1964. I modelli in grado di muoversi nello spazio saranno pronti al momento in cui saranno necessari per affrontare il volo su Marte.

In questo mio racconto io ho anticipato nella finzione il ricorso alle tecniche degli appuntamenti orbitali e in particolare, il reimpiego dei «boosters», cioè dei razzi vettori da lanciarsi e rilanciarsi più volte. La mia fantasia non è riuscita a immaginare veicoli del costo di milioni di dollari, come il modulo lunare e il razzo vettore «Saturno 5», destinati l’uno e l’altro a essere eliminati dopo una singola missione. E tuttavia il futuro del volo spaziale poggia su concetti simili a quelli qui descritti: la politica, e non l’economia, hanno dato forma ai sistemi attuali, e la storia non tarderà molto a lasciarseli dietro le spalle.

Le blande canzonature che avevo indirizzate al defunto dottor Clive Staples Lewis portarono in un secondo tempo a un’amichevole corrispondenza epistolare e a un incontro diretto che avvenne nel famoso Eastgate pub di Oxford, nel corso del quale Val Cleaver e io tentammo di dimostrare al dottor Lewis (e al suo collega, professor J.R.R. Tolkien) quanto inverosimile fosse il convincimento che attribuiva a ogni aspirante astronauta disposizioni malevole simili a quelle del Weston di «Out of the Silent Planet» (traduzione italiana «Lontano dal pianeta silenzioso»). Lewis finì con l’indursi a un volonteroso compromesso considerando che, se pur pessimi soggetti, quali probabilmente eravamo, il mondo tuttavia sarebbe stato un luogo d’insopportabile uggia se ogni essere umano fosse stato buono.

Per quanto sia ben consapevole che ogni propaganda è nemica dell’arte, sono tuttavia orgoglioso del fatto che il tema principale di questa narrazione è il proposito di mostrare quanto assurda sia la volontà di trasferire oltre i limiti della nostra atmosfera le rivalità nazionali. Nel 1947 riassunsi questo concetto nella frase: «Non porteremo frontiere nello spazio». Esattamente venti anni dopo, il Trattato sullo Spazio dell’ONU vietava qualunque forma di rivendicazione nazionale sui corpi celesti.

Il trattato fu firmato molto tempestivamente. Solo due anni dopo, Neil Armstrong ed Edwin Aldrin avrebbero scoperto la targa su cui era dichiarato:

Qui uomini provenienti dal pianeta Terra

misero piede per la prima volta sulla

Luna, nel luglio 1969.

Siamo venuti con sentimenti di pace a

nome dell’umanità tutta.

Il preludio è ormai finito. L’atto principale sta per cominciare. E dunque, strizzando amichevolmente l’occhio a Marte, mettiamo in prospettiva Giove…


New York 4 agosto 1969.

Arthur C. Clarke.

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